Aggiornamenti sull`alcolismo

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Aggiornamenti sull`alcolismo
BOLLETTINO PER LE FARMACODIPENDENZE E L’ALCOLISMO
XXVI - N. 1/2003
Aggiornamenti sull’alcolismo
di Carlo Vetere
Direttore Responsabile
Parole chiave: Alcol come fattore protettivo, Epidemiologia dell’abuso di alcol, Linfoma non Hogdkin, Cardiopatie,
Comportamenti violenti, Alcol ed homeless, Deterioramento delle capacita’ cognitive, Diagnosi di pronto soccorso, Alcol e giovani, Alcol e carceri, Disfunzioni tiroidee, Interazioni farmacologiche, Acamprosato, Naltrexone,
Fattori di rischio di ricaduta, Alcol e anziani
Alcol come fattore protettivo. “Bere o non bere” è questo il dilemma dell’editoriale del New England Journal
of Medicine (1) che commenta il risultato di uno studio prospettico su 38.077 operatori sanitari di sesso maschile
accertati ab initio come non affetti da patologie cardiocircolatorie e seguiti per 12 anni (2). Ogni quattro anni sono
stati valutati i consumi di bevande alcoliche (distinguendo per il vino fra bianco e rosso). I casi di infarto miocardico non fatale e di coronaropatie sono stati documentati e revisionati. Rispetto ai coetanei consumatori di alcolici
meno di una volta alla settimana, coloro che consumavano alcolici da tre a cinque volte alla settimana hanno avuto un rischio relativo di infarto di 0,68. Il rischio è stato eguale sia per coloro che consumavano meno di 10 g di
etanolo al giorno sia per quelli con 30 e più g; non è apparsa maggiormente protettiva alcun tipo di bevanda.
Quando i consumi nel periodo di osservazione sono aumentati in media a 12,5 g al giorno il rischio relativo è salito a 0,78 dopo un periodo di quattro anni.
L’editoriale osserva come siano necessarie conferme derivanti da ricerche randomizzate e controllate come è
avvenuto per altri consumi correlati con le coronaropatie (es: fumo, colesterolo). Dal punto di vista biologico è noto come diverse sostanze presenti negli alcolici possano ridurre il grado di infiammazione nonché quello di ossidazione, mentre è pacifico il ruolo degli alcolici per aumentare le percentuali delle HDL cioè delle lipoproteine protettive. L’alcol agisce contro l’aggregazione piastrinica attraverso sostanze presenti particolarmente nel vino rosso.
Non esiste tuttavia una evidenza scientifica che consente di raccomandare ai cardiopatici a rischio non bevitori di
rinunciare a mettere sul tavolo una bottiglia di vino rosso nel quadro della prevenzione degli eventi cardiaci acuti
(uso medico del vino). Si ricordi a tal proposito il paradosso francese (bassa mortalità per cardiopatie).
Una seconda associazione che inizialmente deriva da dati epidemiologici è quella fra consumi di etanolo e riduzione del rischio di essere colpiti dal linfoma non Hodgkin - NHL - (3), cioè da una patologia che comprende
vari tipi e sottotipi di proliferazione del tessuto linfatico che recentemente è emersa fra i tumori legati alla progressione dell’AIDS. Pertanto sono stati studiati a ritroso 960 uomini diagnosticati con NHL nel periodo 1984-1988
(nel Selected Cancer Study) e segnalati nei Registri Locali dei Tumori (8 registri). I controlli sono stati rappresentati
da 1.717 coetanei non malati di NHL selezionati a random dagli iscritti agli stessi Registri. Per tutti i casi era presente l’anamnesi dei consumi alimentari, ivi comprese le abitudini tabagiche. Il rischio relativo di avere un NHL
per chi consumava almeno un bicchiere di vino rosso al giorno è stato di 0,8 che si abbassava a 0,4 per chi aveva
consumato vino rosso in giovane età (anche prima di 16 anni). Nessun rapporto con i consumi di birra e di superalcolici. Va premesso che in nessuno dei casi di NHL esaminati vi era una sieropositività HIV.
Altra azione protettiva è stata quella nei riguardi del tumore del polmone e per quelli della parte superiore dell’apparato digerente e più estesamente per l’insieme dei tumori. Ma trattasi sempre di vino rosso e non di altre bevande alcoliche come birra e superalcolici. Il fatto che si delinei una maggiore protezione allorquando i consumi
di vino rosso sono iniziati in giovane età viene a confermare la tesi della presenza di un fattore protettivo ovvero il
resveratrolo, un componente che in vitro possiede una azione di blocco del processo di induzione e promozione
dei tumori del tessuto linfatico. L’ipotesi ha portato alla produzione di bevande analcoliche con alto contenuto di
resveratrolo.
Dal punto di vista biochimico la proteina di protezione è la BCL-2 che ha una azione anti-apoptosi linfomagenica: le due forme più diffuse di NHL sono quella “follicolare” e quella “diffusa” ed entrambe sono associate a
translocazioni cromosomiche che inducono ad una iperespressione del proto-oncogeno BCL-2. Si ipotizza una
azione di blocco della progressione dalla forma “follicolare” di NHL in una “diffusa” e mortale, oltre che in altre
forme ancora più aggressive quali il linfoma “a piccole cellule non claveate”. In parole povere il ruolo del resveratrolo è quello di inibire la progressione dei linfomi. Comunque anche se una proposta di propaganda del consumo
di vino rosso o di bevande tipo succo di uva contenenti notevoli quantità di resveratrolo fra i soggetti HIV+ in progressione verso l’AIDS non avrebbe senso, queste evidenze possono costituire un argomento a favore del bere sano
una volta che si confermi l’azione protettiva nei confronti di tutte le forme di cancerogenesi.
Russia ed alcol. Si è studiata la stima delle perdite di vite umane dovuta al bere eccessivo negli anni ‘90 rispetto
alla situazione degli anni ‘80. Agli inizi degli anni ‘80 almeno 500.000 decessi potevano essere attribuiti all’alcol
(4), e 500.000 decessi erano il 32% dell’intera mortalità; in metà dei casi si trattava di morte violenta, di intossica-
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zioni acute e di incidenti. Nel 1985 è stata lanciata la campagna anti-alcol e nel 1992 sono state introdotte misure
fiscali che hanno portato ad una rapida diminuzione dei consumi alcolici dai 14,1 litri di etanolo pro capite nel
1984 ai 10,5 dell’86 con una parallela riduzione della mortalità da 1161,6 a 1054,0 decessi su 100.000 abitanti.
Questa riduzione ha permesso di salvare 1,22 milioni di vite umane che rappresentano l’11,4% dei morti attese a
consumi alcolici inalterati. La riduzione è stata a carico di tutti i raggruppamenti delle cause di morte con l’eccezione delle malattie infettive e parassitarie.
Ma ecco trionfare la legge del mercato con brusco aumento dei consumi di alcol e della mortalità che nel 1994
raggiunse i 751.000 casi con un 33% del totale delle morti dovute all’azione diretta od indiretta dell’alcol. L’andamento piuttosto fluttuante è andato verso l’alto con un notevole aumento delle psicosi alcoliche, specie nel periodo 1999-2000.
Nel 1992 è stato eliminato il monopolio sull’alcol; il prezzo di quello distillato clandestinamente dagli zuccheri
è salito; ma ecco emergere un’altra fonte: quella dell’alcol per uso industriale più o meno denaturato e ricostituito
con vari artifici chimici che ha occupato il 20% dei consumi.
Rispetto ai dati ufficiali vi è una differenza abissale con quelli presumibili ricavati dall’incrocio di varie fonti.
Soprattutto è da criticarsi l’indagine condotta su di un campione di popolazione nel quale un terzo dei selezionati
non hanno risposto; il risultato del sondaggio è stata la negazione che l’alcol abbia influito pesantemente sull’aumento della mortalità russa essendo prevalente l’insieme delle conseguenze psicologiche e sociali della fine dell’URSS. Le statistiche ufficiali non conteggiano fra i morti legati all’alcol l’insieme delle patologie cardio-vascolari
che, invece hanno segnato una netta diminuzione in rapporto con l’abbassamento del consumo di alcolici che si è
verificato nel periodo 1985-86.
La vodka ha agito massicciamente sui parametri demografici russi anche se non si possono escludere fattori di
carattere sociale. Uno studio relativo al complesso urbano siberiano Novosibirsk (5) ha confermato il rischio dei
bevitori che hanno consumi concentrati nel tempo (le sbronze o in inglese “binge) ovvero consumi superiori a cinque bicchierini o, ancor meglio, a 120 g di etanolo per occasione (il che corrisponde a 500 ml di vodka) almeno
una volta al mese. I 6.502 uomini in età 25-64 facevano parte di un braccio siberiano dell’indagine internazionale
MONICA sulle malattie cardiovascolari (monitoring trends and determinants in cadiovascular diseases) ed erano
stati arruolati nel periodo 1985-86 e rivisti nel 1994-5. Il follow-up medio è stato di 9,5 anni. Fra gli 836 decessi
395 erano attribuiti a malattie cardiovascolari. Ora la prevalenza di binge ab initio era del 16%. Il rischio relativo
di morte per tutte le cause fra i forti bevitori è stato minimo (1,05) ma è diventato 1,27 per le morti da cause cardiovascolari e 2,08 per i decessi da cause esterne. Il massimo rischio cardiovascolare si è verificato per il gruppo
con molteplici episodi di binge al mese (RR=2,05). Appare pertanto legittima l’ipotesi che l’aumento impressionante della mortalità russa sia legata principalmente a consumi alcolici eccessivi concentrati nel tempo piuttosto che
al consumo capitario di alcol. Dal punto di vista epidemiologico il gruppo dei forti bevitori con episodi multipli di
binge costituiva il 4% della popolazione maschile all’inizio ed è aumentato all’8% nel picco.
Ma sul banco degli imputati non vi sono solo le bottiglie di vodka in quanto l’incremento della mortalità ha
avuto luogo anche per la popolazione femminile nella quale la frequenza delle bevitrici con episodi di binge è trascurabile. A questo punto riemergono i fattori drammatici legati alla decadenza del sistema. Dal punto di vista statistico è attendibile l’aumento dei consumi fra gli uomini non essendo uno stigma in quel Paese il bere eccessivo
(lo è invece per le donne ma non fino al punto da mascherare del tutto le stime). Diventa anche difficile trovare
gruppi consistenti di non bevitori come popolazione di confronto.
Vodka e violenza: in ciascuna delle 89 regioni russe si delinea una co-variazione significativa fra frequenza di
omicidi e consumi alcolici (periodo 1965-1999); le notevoli variazioni regionali riducono il peso dei dati rapportati all’intera Nazione (6). Chiaramente il crollo dell’autorità costituita ha determinato l’invasione da parte della mafia e di bande organizzate; tuttavia spesso gli omicidi hanno come primum movens un alterco di strada. Il bere
“forte” avviene di regola a casa o da amici più che in locali pubblici; ad un aumento dell’1% dei consumi alcolici
corrisponde un incremento della frequenza di omicidi dello 0,5%: almeno questo è il rapporto tipico del cosiddetto periodo di transizione politica ed economica degli anni ‘90.
Dalla vodka alla birra: le statistiche tedesche sul rapporto alcol/mortalità si basano sul combinato disposto fra i
risultati del follow-up fra alcolisti in trattamento, quelli di indagini sui consumi alcolici e sui dati demografici (7).
Nel gruppo 35-84 anni il 25% della mortalità generale maschile è attribuibile a patologie alcol-correlate; nel sesso
femminile questa percentuale scende al 13%. È un fenomeno preoccupante in quanto viene colpita la quota produttiva della popolazione in età prematura (il 75% delle morti per cause alcol-correlate sono in età inferiore ai 65
anni soprattutto tra i nei maschi). Tuttavia nel sesso femminile la progressione delle patologie alcol-correlate appare più rapida per cui l’influenza negativa dell’alcol sulla speranza di vita è maggiore nelle coorti di bevitrici seguite
in follow-up ed appaiono più rilevanti le patologie psicotiche.
I senza casa (homeless) di frequente bevono troppo ed in modo caotico in un contesto di disordine alimentare
e di precarietà ambientale. Non fanno eccezione i senza fissa dimora di Mannheim (Germania) (8). In una indagi-
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ne condotta fra 102 homeless vaganti nella parte centrale della città che si ritiene costituisca il 15-16% della popolazione senza dimora dell’intero centro urbano sono state effettuate periodiche visite mediche ed accertate le caratteristiche della vita nel periodo 1997-99. Gli accertamenti clinici e le risposte ai questionari hanno evidenziato
la frequenza di dipendenza alcolica secondo il DSM-IV, di abuso di sostanze e di disturbi mentali. Abuso e dipendenza da alcol erano presenti nel 63,7% dei casi mentre i problemi somatici presenti nel 61,3% erano costituiti da
degenerazione cerebrale, epatopatie e polineuropatie alcoliche. Questo insieme di patologie somatiche era quattro
volte superiore ai numeri attesi anche rispetto a quelli di strati sociali a basse condizioni di vita; la causa sembra
essere l’alcolismo; il tutto è aggravato dalla mancanza di supporto sociale. Appare comunque opportuno procedere a forme di recupero residenziale di questi alcolisti.
Abuso continuo di alcolici e deterioramento delle capacità cognitive è il risultato di una indagine condotta a
Baltimora su 1.488 soggetti nel periodo 1981-1996. La coorte, seguita per una media di 11,5 anni, è stata sottoposta all’inizio e periodicamente al test MMSE ed è stata suddivisa in cinque gruppi a seconda della quantità di alcol
consumata (9). Contrariamente alle previsioni non è emerso un rapporto diretto fra consumi alcolici e deterioramento delle capacità cognitive ed è meno rilevante rispetto ai trends generici legati all’età. Trattavasi, tuttavia, di
consumi “familiari” e tradizionali. Inoltre il valore assoluto dell’MMSE è discutibile e la meta-analisi della letteratura dimostra una varietà di risultati anche quando si è tenuto conto nelle serie prolungate nel tempo dei fenomeni di
eliminazione dei più deboli. Si deve anche riflettere sulle definizioni: il “social drinker” secondo il modello classico è colui che per motivi occupazionali è costretto a moltiplicare i bicchierini di primo contatto e di commiato
con clienti. Invece nella definizione della John Hopkins si tratta di “un bere radicato nel contesto culturale delle famiglie” per cui la quantità e la durata non possono avere caratteristiche patogene analoghe a quelle degli abusatori
e dei dipendenti.
Il pronto soccorso può costituire un punto di individuazione dei forti bevitori. In alcuni Dipartimenti di Emergenza chirurgica svedesi è stata fatta una indagine raccogliendo l’anamnesi del potus, una modificazione del test
MAST fatta a Malmo, il famoso test CAGE, il Trauma Scale e due parametri biologici, vale a dire la CDT (cioè il
Deficit di Carboidrati della Transferrina) e la GGT (cioè la Gamma-Glutamin-Transferasi). Un abuso di alcol con
episodi di binge è stato riferito dal 42% di pazienti di sesso maschile in età 16-29 e dal 66% delle donne in età 1629, con percentuali inferiori nei gruppi di età superiore. I parametri biochimici hanno dimostrato una bassa sensibilità mentre invece, specie per gli uomini in età 30-73 anni, elevato è il valore predittivo dall’associazione fra
MAST, CAGE e CDT (10) che giunge ad un indice di correlazione di 0,83 fra gli uomini e non ha significato nel
sesso femminile. Il Dipartimento di Emergenza deve attrezzarsi per depistare gli alcolisti con episodi di binge inquadrandoli in un programma di terapia-riabilitazione.
Il test AUDIT (Alcohol Abuse Disorder Identification) che è stato sviluppato dall’OMS definisce il consumo alcolico del binge come il bere più di sei bicchierini; questo vale per entrambi i sessi. Sempre partendo dalla definizione di binge come consumo >5 bicchierini per occasione, 102.263 adulti >18 anni scelti a random sono stati intervistati telefonicamente nel quadro della Indagine Nazionale di Sorveglianza sui Fattori di Rischio Comportamentale; nel 1993 la percentuale di coloro che rientravano nella definizione di binge è stata del 6,3% aumentando di
anno in anno fino al 7,4% con un incremento annuo del 17% che nel periodo 1995-2001 è salito al 35%; il sesso
maschile costituisce la stragrande maggioranza del gruppo (81%). La massima concentrazione si è avuta nel gruppo di età 18-25 e va segnalato che non è emerso un rapporto significativo fra consumi ordinari elevati e frequenza
di binge (11). Ma il messaggio più allarmante è quello di una mancanza di auto-controllo nel corso di episodi di
binge. Infatti, i bevitori con binge erano 14 volte più disposti a mettersi al volante anche dopo aver alzato troppo il
gomito. Un particolare che almeno negli USA va tenuto presente nelle raccomandazioni da dare a coloro che dichiarano episodi di binge. Secondo i CDC di Atlanta che organizzano l’indagine randomica nazionale diventa imperativo applicare le linee guida per l’organizzazione di screening di bevitori con binge a diversi livelli.
Alcol e giovani. Sul WEB www.alcoholfreechildren.org viene richiamata l’attenzione su quelli che si indicano
come costi nascosti del bere fra i 9 ed i 15 anni (12): tutte le fonti ufficiali (sanità pubblica, scuola, polizia, servizi
preventivi) informano circa l’aumento del bere fra i giovanissimi. In un recente sondaggio il 78% di coloro che
hanno risposto ha dichiarato che i consumi alcolici fra gli adolescenti costituiscono un problema serio per gli USA
e che rispetto a 10 anni or sono l’iniziazione al bere comincia in età sempre più minore.
Malgrado le restrizioni legali alla somministrazione di alcolici ai minorenni è molto facile, o talvolta piuttosto facile, avere accesso a bevande alcoliche. Il costo di questi consumi adolescenziali è di almeno 58 bilioni di dollari.
Si è costituito un movimento di Leadership to Keep Children Alcohol Free. Uno studio sui riflessi econometrici dei
consumi alcolici fra i giovani è stata condotta dal Centro Svedese di Economia Sanitaria (13) su 833 giovani in età
12-18 anni. Si è partiti dalla analisi di alcuni fattori che possono influire sulle abitudini potatorie precoci vale a dire:
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a) genitori disposti a concedere e a fornire alcolici;
b) vivere con un solo genitore che rimane sempre a casa;
c) vivere con genitori entrambi disoccupati;
d) aver ricevuto informazioni ed educazione nei confronti dell’alcol, dei narcotici e del tabacco.
Si sono analizzati separatamente i consumi di birra, vino e superalcolici applicando accurate tecniche econometriche. Ora l’avere i “genitori permissivi” favorisce il consumo sia di vino, sia di birra che di superalcolici, anche consumi intensi. Lo stesso dicasi per il fattore “disoccupazione del padre” come sintomo di un legame familiare fragile (13).
Il confronto fra i consumi alcolici di studenti di college canadesi ed americani è stato condotto sulla base dei
dati che annualmente si ricavano rispettivamente dalla Canadian Campus Survey e dal College Alcohol Study
(12.344 USA e 6.729 canadesi). Gli studenti canadesi detengono il primato per quanto si riferisca al consumo capitario; ma i freshmen ed i seniors dei Colleges USA li sorpassano per la frequenza dei binge (sempre indicati come>5 bicchierini in un’occasione. In entrambi i Paesi gli studenti più giovani e coloro che vivono a casa con i genitori hanno minori consumi e bassa frequenza di binge. Invece una prima sbronza al disotto dei 16 anni è predittiva di una carriera di forte bevitore nel college. Ne consegue che va rivolta particolare attenzione alle matricole
con una minore intensità allorquando i genitori non si dichiarano favorevoli ad un’iniziazione precoce verso gli alcolici. Il confronto USA/Canada dimostra ancora una volta come i consumi capitari non configurino il rischio effettivo specie in raggruppamenti poco numerosi,,essendo, invece, sempre più importante la frequenza delle bevute
eccessive (grandi occasioni, fine settimana, etc.) (14).
Alcol e carceri. Sono frequenti le comunicazioni sull’associazione fra comportamenti antisociali e consumi alcolici problematici specie nel sesso maschile, ma vengono a mancare approfondimenti relativi all’etiopatogenesi
comune, vale a dire le relazioni fra due distinte facce della psicopatia quali il distacco emotivo ed il comportamento anti-sociale ed il bere problematico oppure il ruolo dei motivi specifici che spingono al bere nel nesso alcol
problematico/comportamento anti-sociale. Già in campioni di soggetti incarcerati è stata dimostrata l’associazione
fra disordine anti-sociale della personalità (ASPD) e presenza di consumi alcolici problematici. Attraverso la collaborazione di diverse istituzioni psichiatriche USA è stata condotta una indagine con questionario strutturato fra
329 incarcerati nelle prigioni federali onde stabilire i contorni delle personalità psicopatiche avendo anche cura di
esplorare l’alcolismo paterno. Emergono relazioni complesse che hanno in comune le abitudini alcoliche del genitore e le capacità di far fronte alle situazioni stressanti (15).
Il distiroidismo nell’alcolismo. Alterazioni nel funzionamento della tiroide sono frequenti nell’alcolismo e condizionano la gravità della sintomatologia astinenziale. Dal punto di vista clinico una risposta accentuata del TSH
alla stimolazione con TRH è predittiva di alcolismo ad insorgenza precoce nonché di ricadute a breve termine. La
riduzione dei parametri periferici è tipica dell’ipotiroidismo subclinico che si accompagna a disturbi cognitivi:
questi disturbi vengono controllati attraverso la somministrazione di T4. Questa situazione ormonale spiega anche
la depressione e si ricollega ad una patologia dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. La letteratura indica come nel corso dell’astinenza da alcol si ha una riduzione della tiroxina totale e delle concentrazioni totali e libere della triiodotironina, specie all’inizio della fase di astinenza. In un terzo di alcolisti si ha una risposta brusca del TSH a seguito di stimolazione con TRH; sono fenomeni che si verificano nella fase di detossificazione alcolica acuta ma
anche in fase astinenziale avanzata. È probabile che si tratti di un effetto diretto dell’alcol sulla tiroide con susseguente attivazione compensatoria dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide (16); il brusco rilascio di TRH va a stimolare i
recettori ipofisari di TRH, il che oltre alla depressione può portare alla ricaduta dell’abuso.
Ci si domanda fino a che punto il trattamento ormonale sostitutivo in atto negli anni ‘60 e poi abbandonato non
potrebbe essere riconsiderato una volta che siano state condotte ricerche controllate e randomizzate.
Uso dell’alcol e farmacoterapia dell’HIV. L’abuso di alcol in un soggetto HIV+ sotto trattamento HAART può
da una parte ridurre la compliance con la complessa terapia e dall’altra danneggiare ulteriormente il fegato alterando il metabolismo dei farmaci e favorendo, insieme alla irregolarità della posologia, la comparsa di ceppi resistenti, specie nelle co-infezioni HIV/HCV. In queste ultime un uso di alcol >5 drinks al giorno (cioè >50 g di etanolo) costituisce un fattore di rischio per la progressione dell’epatopatia cronica verso la cirrosi, cioè verso una
condizione che a sua volta altera ulteriormente il metabolismo dei farmaci anti-retrovirali. Gli esperti del NIDA
insistono affinché si determino con esattezza i limiti dei consumi alcolici che possono influire sul ciclo di attività
mettendo anche a punto interventi psicosociali per aumentare l’adesione ai programmi di terapia intensiva e per
ridurre l’abuso alcolico (17). Esiste anche il problema del polimorfismo genetico che determina alterazioni nel
metabolismo dei farmaci, mentre il trattamento dell’infezione da HCV è tra i numerosi problemi nel quadro di
una patologia epatica.
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Il programma europeo Neat: acamprosato + supporto psico-sociale per la prevenzione delle ricadute negli alcol-dipendenti; la rete comprende alcologi di cinque nazioni europee (nessun italiano) ed ha sottoposto ad analisi
costi/efficacia il trattamento dell’alcolismo con acamprosato associato ad interventi psico-sociali. I 1.289 pazienti,
tutti rispondenti ai criteri del DSM-IIIR, sono stati trattati per 24 settimane ma solo il 42% ha completato il ciclo di
cura.
Va premesso che in una ricerca “aperta”, che si svolge cioè in ambienti non protetti ma nei setting usuali degli
alcolisti, l’obiettivo dell’astinenza è di difficile raggiungimento ma intanto la differenza fra gli astinenti da acamprosato e quelli del gruppo con placebo è rilevante anche quando si passa dall’ambiente ristretto dei trials istituzionali a quello aperto delle ricerche a livello di comunità. Le variazioni fra i cinque Paesi in parte dipendono da
differenze fra i parametri dei gruppi iniziali (18). I punteggi dell’indice alcolico nonché le frequenze di precedenti
detossificazioni con esito negativo costituiscono fattori predittivi in senso negativo, mentre l’età ed un’occupazione
stabile sono elementi a favore del successo. Il fatto che il Portogallo risulti un Paese nel quale l’acamprosato ha ottenuto i migliori risultati dipende dal suo basso indice alcolico insieme ad una minima percentuale di comorbosità
psichiatrica.
Sul fronte opposto si ha il Regno Unito dove questi fattori predittivi sono elevati. La scarsa influenza di fattori
psico-sociali fa pensare che anche nella ricerche in comunità l’acamprosato abbia una efficacia diretta per sostenere l’astinenza e ridurre il craving. Va rilevato come i pazienti europei esaminati siano stati più di 4.000 presso 400
Centri. L’impiego dell’acamprosato è partito dall’osservazione che livelli elevati di consumi alcolici portano ad
uno squilibrio fra il sistema eccitatorio e quello di iniezione a livello del SNC con particolare riguardo per la neurotrasmissione glutminergica mediata dal NMDA (N-Metil-D-Aspartato). L’acamprosato agisce a livello del SNC
per ristabilire l’equilibrio del NMDA alterato dall’alcol. La sperimentazione animale è stata positiva mentre i numerosi trials su umani hanno dimostrato un effetto diretto sui comportamenti di abuso alcolico senza interferire con
altri fenomeni nervosi centrali. Il dosaggio di acamprosato impiegato è stato di 1.997 mg/giorno divisi in 2 tavolette tre volte al giorno, una posologia che richiede la massima collaborazione del paziente. Netta è anche l’azione
anti-craving.
Naltrexone. L’impiego di un antagonista degli oppioidi parte dall’osservazione delle disfunzioni dei recettori
degli oppioidi nell’alcolismo. Negli animali fenomeni che aumentano il ricorso all’alcol vengono ad essere arrestati dall’impiego degli antagonisti degli oppioidi. Coloro che sono a rischio elevato per alcolismo presentano una
sensibilità aumentata per le ß-endorfine ipofisarie nei confronti dell’alcol. Diversi studi hanno confermato la riduzione delle ricadute una diminuzione del craving e del numero do giorni nei quali si beve (giorni bagnati e giorni
asciutti). Anche il nalmefene, un altro antagonista degli oppiacei, riduce il craving.
È stata effettuata una ricerca randomizzata su 202 alcolisti distribuiti in 12 settimane con naltrexone a 50
mg/giorno o placebo e contemporaneamente venivano praticate terapie psico-sociali di gruppo. Il naltrexone ha ridotto la frequenza di ricadute verso consumi elevati (>5 bicchierini al giorno) o bere in eccesso per più di 5 giorni
alla settimana. Praticamente la percentuale di queste ricadute è stata del 7,9% contro il 18,8% del gruppo placebo.
Vi è stata comunque una importante riduzione anche dei consumi oltre che del craving (19); certo non sono mancati gli effetti collaterali contrassegnati (8,6% di dolori addominali, 7,5% di cefalea) ma non viene evidenziata
un’azione di interferenza con i markers biochimici tipici dell’alcolismo.
In Australia i Servizi sanitari primari hanno sperimentato da più di dieci anni forme di brevi interventi di durata
da 5 a 60 minuti nei confronti di bevitori a rischio (ma non dipendenti da alcol), in tutto 554 facenti parte del braccio australiano della Fase IIa del Progetto Collaborativo dell’OMS sulla identificazione e trattamento dei pazienti
con consumi dannosi. Dopo 9 mesi e 10 anni si è proceduto ad interviste. Il confronto è stato fatto con i bevitori
che non avevano ricevuto alcun intervento. Sono stati anche effettuati esami biochimici di controllo; mentre dopo
9 mesi si sono registrati miglioramenti nei comportamenti del potus di coloro che avevano ricevuto brevi interventi
indipendentemente dalla durata dei medesimi a distanza di 10 anni non si è individuato alcun elemento a favore
del metodo “breve e precoce”. È chiaro che senza un follow-up intercalato da richiami e interventi di gruppo l’efficacia si disperde. Il follow up deve essere intensivo e personalizzato e nulla vieta che si formino gruppi “telefonici” (o via Internet) di bevitori che hanno risposto al primo intervento.
Negli alcolisti detossificati l’ansietà è fattore predittivo di ricaduta: è una esperienza europea su 521 pazienti
detossificati e diagnosticati secondo i criteri del DSM-IIIR che non presentavano forme di depressione maggiore in
5 Paesi (Regno Unito, Irlanda, Svizzera, Austria) (21) presso 11 Centri. I sintomi di ansia sono stati parametrati con
il test STAI-X che è un test auto-amministrato (State Trait) mentre il grado di depressione è stato misurato con l’Hamilton Depression Rating Scale e la personalità inquadrata con un questionario tridimensionale. Sono risultate predittive di ricadute:
- ansietà come tratto stabile del comportamento;
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- grado elevato di ricerca delle novità;
- basso grado di evitamento delle situazioni dannose;
- impulsività;
- disordine;
- stravaganza;
- ottimismo senza freni.
Sono tutti tratti della personalità che dovrebbero indurre a far seguire la detossificazione da psicoterapie e supporti sociali specifici. La ricerca fa parte dello Studio Europeo Multicentrico (21).
È solo svedese invece la ricerca dei fattori che influiscono sul rischio di ricaduta (22) condotta su 52 alcolisti di
sesso maschile detossificati in ricovero ospedaliero e seguiti per 4 anni allo scopo di mettere in luce i fattori che
hanno potuto influire sulle ricadute, cioè su successive riammissioni in ospedale. I fattori più importanti sono stati:
- bere eccessivo prima della ammissione in ospedale;
- elevato livello di gamma-glutamil-transferasi;
- livello basso dell’attività piastrinica MAO;
- anamnesi positiva per affezioni somatiche.
Il secondo anno dopo la dimissione dall’ospedale appare il più pericoloso; ricordiamo tuttavia che una bassa
attività pistrinica MAO potrebbe essere dovuta al fumo ed in questa ricerca non sono state incluse le abitudini tabagiche.
L’influenza del fumo sui valori della MAO-B viene ridimensionata da una indagine dei tossicologi/alcologi dell’Istituto Salvatore Maugeri di Pavia (23) su 98 alcolisti in fase iniziale di astinenza: quando erano ancora sotto l’effetto dell’etanolo i valori della monoaminoossidasi B nelle piastrine erano bassi (media di 6,4 nmol/mg/proteine/h);
dopo 8 giorni di astinenza è salita a 9,9 e tale è rimasta dopo 15 e 30 gg. Del resto il valore di 9,9 è quello medio
di non bevitori sani e fornisce informazioni più attendibili rispetto, ad esempio, alla transferrina con deficit di carboidrati (CDT). Pertanto i livelli della MAO possono considerarsi come markers dei consumi alcolici. Del resto
l’introduzione del test MAO-B è dovuta alle variazioni nei livelli di altri enzimi classici come la GGT, l’AST, l’ALT,
il MCV ed il CDT. Si è puntato verso i tests che testimoniano le modifiche nella neurotrasmissione centrale e si è rivelata sensibile e specifica la misurazione dell’attività di questa flavoproteina mitocondrica che ha funzioni di catalisi delle catecolamine e delle indolamine a livello dei terminali nervosi pre-sinaptici.
Consumi alcolici negli anziani. In genere nei raggruppamenti di bevitori gli anziani non sono molto rappresentati; questo in parte dipende dalla minore visibilità delle sintomatologie da abuso, ma è anche importante il fatto
che difficilmente un anziano bevitore problematico si rivolge ai Centri di trattamento Almeno un terzo degli anziani con bere problematico presentano i primi sintomi dopo i 60 anni. Con l’invecchiamento della popolazione appare importante incentivare i procedimenti diagnostici. Comunque le ricadute sono all’ordine del giorno e conseguono a situazioni ansiogene, a conflitti interpersonali, a depressione, a solitudine e ad isolamento sociale. Ed è il
monitoraggio di queste condizioni e la ripresa di strategie che nel passato dell’anziano si sono rivelate efficaci per
la prevenzione delle ricadute che possono costituire fattori di stabilità. Dal punto di vista terapeutico le terapie cognitive comportamentali le terapie familiari e di gruppo hanno successo negli anziani nella misura in cui enfatizzano il supporto sociale. La farmacoterapia trova difficoltà applicative in quanto l’armadietto farmaceutico dell’anziano è già stracolmo per inserire nuovi farmaci e controllarne la compliance (24).
Gli alcolisti presentano disturbi dell’apprendimento della memoria e delle capacità di astrazione e la risoluzione
dei problemi: effetto diretto dell’alcol sul cervello oppure si tratta di ripercussioni delle disfunzioni di organi nel quadro dell’alcolismo cronico? Misurando il cortisolo durante tests cognitivi e dopo esposizione ad un fattore pressorio
su 48 alcolisti di sesso maschile astinenti da almeno 32 giorni si è potuto stabilire un nesso fra la riduzione delle capacità cognitive e l’intensità della sintomatologia astinenziale (punteggio della Carta del Wisconsin), i consumi alcolici elevati nonché ad attenuazioni nelle risposte da stress dovute ad alterazioni nella regolazione degli stress da parte del sistema ipotalamo-ipofisi-surreni (25). Il risultato conferma la ipotesi che l’iposecrezione di cortisolo sia la
causa delle ridotte performances fra gli alcolisti in fase astinenziale. La disregolazione dell’asse ormonale può dipendere dal bere eccessivo o può precedere un iperconsumo. Le ricerche vanno estese al sesso femminile.
Le statistiche USA rappresentano una documentazione di primo ordine sull’estensione delle patologie alcol
correlate; l’ultima elaborazione del NIDAA (National Institute of Drug Abuse and Alcoholism) comprende i dati
1975-99 derivanti dalle diagnosi contenute nelle schede di dimissione ospedaliera dei pazienti >15 anni. Come
causa primaria l’alcolismo viene citato nel 19,0 per 10.000 interventi e come concausa nel 64,4 (sempre su
10.000). Nel 43% dei casi si tratta di dipendenza alcolica, mentre le psicosi alcoliche rappresentano il 27%, la cirrosi il 22% e l’abuso non ancora dipendenza il 19%. I dati generali possono essere così riassunti (26). Vi è stata
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BOLLETTINO PER LE FARMACODIPENDENZE E L’ALCOLISMO
XXVI - N. 1/2003
una riduzione della frequenza di diagnosi di alcolismo come prima causa dal 61% del 1979 al 30% del 1999. Nel
1999 le diagnosi alcol-correlate erano in ordine di priorità discendente: dipendenza alcolica, psicosi alcolica, cirrosi con o senza menzione di alcolismo ed abuso di alcol, sempre con una forte prevalenza maschile. Per quanto
riguarda i gruppi di età 15-24 vi è stata una stabilità per gran parte dello studio e solo di recente è iniziato un declino che ha caratterizzato tutti i gruppi.
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