Il nomignolo «e` Gnaf» (letteralmente «il Camuso», «Quello dal naso
Transcript
Il nomignolo «e` Gnaf» (letteralmente «il Camuso», «Quello dal naso
Il nomignolo «e’ Gnaf» (letteralmente «il Camuso», «Quello dal naso rincagnato») è ancora popolare tra i riminesi, quantunque il ristorante «San Michele», meglio noto come «d’e’ Gnaf», abbia chiuso i battenti una quindicina d’anni fa e sia stato rimpiazzato, dopo alterne vicende, da un ristorante cinese. Il locale, aperto a metà degli anni Venti, fu per oltre mezzo secolo, se non un tempio della gastronomia, certamente un buon ristorante di tradizione, dove si potevano mangiare fiduciosamente, oltre agli ottimi primi (in particolare i risotti), sia la carne che il pesce. Era anche il solo ristorante riminese che si fornisse, in stagione, di porcini e tartufi, dei quali usava scialare allegramente, pur senza praticare prezzi da rapina. Ma chi era «e’ Gnaf»? Era, al secolo, Salvatore Ghinelli. Nato a Rimini nel 1873, fece il suo apprendistato nel rinomato albergo-ristorante «Leon d’Oro», in piazza Cavour. Dopo essersi perfezionato in diversi altri alberghi e sulle navi-passeggeri, entrò al servizio della principessa di Venosa, intima di Gabriele d’Annunzio. Si dice che il poeta - per altro non eccelso gourmet, ad onta della sua fama di gaudente - stravedesse per alcuni piatti cucinati dal Nostro. Tornato a Rimini, Ghinelli aprì dapprima una modesta ma frequentata trattoria nel vicolo Valloni, poi, finalmente, il ristorante «San Michele», nella viuzza omonima dietro piazza Tre Martiri, allora Giulio Cesare. 7 Il nome del locale, così come quello della via, discende dalla chiesa di San Michele in Foro. Costruita, a parere del d’Agincourt, nel V secolo, aveva la pianta a croce latina. Jano Planco sostenne con la consueta vigoria l’opinione che sorgesse sulle rovine di un tempio pagano dedicato a tutti gli dèi. Come che sia, il primo documento in cui se ne fa menzione è una bolla pontificia del 1144. Nel 1290 era la «magione» riminese dei Cavalieri Templari. Dopo il 1307, quando l’ordine venne sciolto e i suoi beni furono confiscati, divenne «commenda» dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme, chiamati poi Cavalieri di Rodi e infine Cavalieri di Malta. L’edificio fu chiuso al culto, con vari altri, nel 1809 e trasformato in magazzino. Dalle successive distruzioni si salvò solo una parte dell’abside. Sfoggiata un po’ di cultura antiquaria, torniamo al nostro Gnaf. Salvatore Ghinelli morì nel 1939, all’età di sessantasei anni. Il ristorante «San Michele» fu ereditato, insieme al soprannome, dal nipote e aiuto Adamo (1905-1974), che calcò fedelmente le orme dello zio paterno. L’attività fu proseguita per qualche tempo dalla vedova di Adamo, Bruna Pesaresi, e dai figli Giorgio e Giancarlo. Nel 1928, presso l’editore Bietti di Milano, Salvatore Ghinelli pubblicò L’apprendista cuciniere, un ampio manuale di cucina «per famiglie, ristoranti, alberghi, pensioni» (come recita il sottotitolo), in cui riversò la sua solida esperienza e la sua non disprezzabile creatività. Il titolo riecheggia, credo per puro caso (anche se Ghinelli era tanto francofilo quanto musicofilo), L’apprenti sorcier, lo scherzo sinfonico di Paul Dukas. Ma è un caso felice, perché illumina, di scorcio, la componente alchimistica e stregonesca della cucina. Nella prefazione, con lodevole modestia, Ghinelli dichiara che non ha la pretesa «di insegnare alla perfezione l’Arte della Cucina, che è assai difficile», ma si accontenta di «dare una mano» al lettore, dilettante o professionista che sia. Il ricetta8 rio non vuol essere «un capolavoro», bensì «una guida pratica». Segue l’assennata esortazione a non perdersi di coraggio al primo tentativo mal riuscito e a perseverare «con pazienza e attenzione». Parole sante. Da declamare ai tanti ristoratori strafalcioni. Il libro, nell’edizione originale, contiene 630 ricette (qui ridotte a 300), che ci permettono di farci un’idea sufficientemente chiara e completa dello «stile gastronomico» d’e’ Gnaf. Si tratta, per dirla in fretta e furia, di una cucina che tenta un matrimonio non del tutto tranquillo fra le tradizioni romagnole e la cosiddetta «cucina internazionale» codificata da George Auguste Escoffier. Intonata ai gusti e ai pregiudizi di una clientela frigida e supponente che identificava il buono con il caro e basata su un ristretto numero di ingredienti costosi, la «cucina internazionale» si impose negli hôtels e nei restaurants, dove Ghinelli si formò (a Rimini lavorò, oltre che al «Leon d’Oro», al «Commercio», all’«Ostenda» e al «Palace»). L’influenza francese è evidente, nel ricettario, anche sotto il profilo linguistico. Il gergo francesizzante delle cucine è esibito da Ghinelli senza titubanze e quasi con civetteria. Succede, sciaguratamente, che la modesta cultura scolastica gli procuri più d’un infortunio ortografico. Come là dove scrive «etanime» (o «etàmine») invece che «étamine», ossia stamigna (stoffa leggera per filtrare le salse); o là dove scrive indifferentemente «sautè» o «santè» per indicare una casseruola o una teglia di forma rotonda. Con la stessa disinvoltura, il flan diventa «flam», la paprika «Patrica» (con la maiuscola), e perfino la quieta mozzarella si trasforma in una pimpante «Mossarella», emula delle sciantose (la «Mossarella al giambone» non è però un colpo d’anca, ma, caso strano, una «mousse di prosciutto», dacché quest’ultimo è chiamato abitualmente «giambone»). Diversi piatti sono «alla bourgeoise», ma si poteva tranquillamente tradurre «alla borghese», mentre era meglio lasciare 9 «à la bonne femme» (cioè «alla donna di casa», «alla casalinga») il «Nasello alla buona donna», che tradotto maccheronicamente suona equivoco. Per non parlare del «Budino di cedro al gabinetto», che tutto stimola fuorché l’appetito. (A onor del vero, un «Budino gabinetto» sta anche nell’Artusi, che precisa doverosamente, a scanso di fraintendimenti, che il nome allude alla diplomazia). Da Escoffier discende anche il vezzo - che negli epigoni finirà per assumere tratti grotteschi - di battezzare i piatti con nomi di fantasia e innanzitutto di dedicarli a personaggi di riguardo. Ghinelli segue entusiasticamente la moda. La passione per la musica lo induce a qualche forzatura: il «Filetto alla Rossini» ha pieno diritto di cittadinanza, perché intonato ai gusti di un compositore che era anche un raffinato gastronomo; ma i filetti «alla Puccini», «alla Mascagni» e «alla Toscanini» (fiero inappetente, costui) lasciano un po’ perplessi. Altri piatti portano il nome di famosi cantanti d’opera: Caruso, Tamagno, il forlivese Angelo Masini. Non sono i soli piatti «dedicati»: troviamo, altrove, un’accoppiata di «Tournedos alla d’Annunzio» e «alla Duse». Non manca neppure la dedica al futuro Uomo della Provvidenza: il «Filetto di manzo alla Mussolini» è comunque un piatto signorile (troppo, forse, dati i gusti convenzionali del Capo del governo); e raffinati sono anche i «Filetti di sogliole alla Rex Dux». L’atto d’omaggio non andrà sprecato: e’ Gnaf verrà convocato di tanto in tanto alla Rocca delle Camminate per cucinare per Mussolini e i suoi ospiti. Nel manuale compaiono anche le ricette di alcuni popolari piatti romagnoli: i passatelli, le tagliatelle, le lasagne verdi; sono invece assenti, stranamente, i cappelletti, sostituiti dai tortellini bolognesi. Ma è nel pesce che Ghinelli eccelle. Troviamo, fra le altre, le ricette del risotto con il pesce sampietro, con le telline, con la seppia, nonché quelle dei cefali ai ferri e del «Brodetto alla marinara». 10 Ghinelli insegna anche come distinguere il pesce fresco: «Si deve guardare nell’occhio, che dev’essere vivo, chiaro, brillante; se è pesce grosso da taglio, lo si guarda nella spina, che dev’essere bianca e non rossa. Chi ha buon odorato distingue la freschezza del pesce anche dall’odore». Elementare e ineccepibile. Su una copia dell’Apprendista cuciniere che mi è stata mostrata da un amico bibliofilo, leggo l’annotazione di un avventore entusiasta: «Il signor Ghinelli è il padrone della Trattoria San Michele nei pressi del Tempio Malatestiano di Rimini, e prepara i migliori risotti con pesce di Romagna e forse d’Italia, di una bontà e delicatezza supreme». Chissà che cosa direbbe, oggi, del riso alla Cantonese e degli involtini primavera. Piero Meldini 11