Una guerra mondiale appare come la conseguenza di una

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Una guerra mondiale appare come la conseguenza di una
AGE OF EXTREMES LABORATORIO-MOSTRA PER LA STORIA DEL ‘900
I CONFLITTI CIVILI
Una guerra mondiale appare come la conseguenza di una rivoluzione, una specie di
guerra civile scatenata su tutta la superficie della terra: così infatti una buona parte dell’opinione pubblica – e
non senza giustificati motivi – ha considerato la seconda guerra mondiale (H. Arendt, "Sulla rivoluzione").
Un fascista passa sparando col mitra lungo il marciapiede. Poi torna indietro, entra [nella
fiaschetteria dove si è rifugiato Calamandrei], è giovane, stravolto, con una giacca di pelle nera: e alle donne
che lo guardano con terrore e con sdegno dice: "Se sapeste anch’io come sto! Non ne posso più! Che si debba
far questo fra italiani!" E scoppia a piangere, butta via l’arma, si accascia a sedere semi svenuto. Le donne
commosse gli si fanno d’attorno, lo scuotono, piangono anche loro (P. Calamandrei, "La vita indivisibile").
Tutte le guerre, comprese quelle tra nazioni, sono in qualche misura “civili”, tuttavia
durante il Novecento abbiamo assistito ad una trasformazione del concetto stesso di guerra. La prima guerra
mondiale per i russi è diventata “guerra di classe”, ma anche guerra civile, dove la frattura non è solo tra classi
sociali contrapposte, ma è anche all’interno delle classi stesse: nei gulag di Stalin non muoiono solamente i
“nemici di classe”, ma spesso i contadini non proprietari e i comunisti russi e di altre nazioni accorsi ad aiutare il
paese del socialismo realizzato; così come bande del generale bianco Wrangel non lesinano massacri
indiscriminati di popolazione inerme. Per i francesi, gli jugoslavi, gli italiani, la seconda guerra mondiale si
trasforma, anche nella memoria, in guerra civile: francesi di Petain contro francesi di De Gaulle, italiani fascisti
contro italiani del Corpo italiano di Liberazione e/o partigiani. E che questa caratterizzazione “civile”, ad
esempio nell’Italia della guerra partigiana e delle forze armate che passarono dopo l’otto settembre agli
“Alleati”, sia stato un elemento caratterizzante è dimostrato dal persistere ancora oggi, in toni polemici, del
dibattito sul fascismo. Ancor più interessante da questo punto di vista il “caso jugoslavo”, con le divisioni che
sono giunte sino a noi nelle varie tappe dello smembramento della Jugoslavia titina. Scrive Manlio Brigaglia: Al
di là di quelle divisioni politiche che attraversarono ogni resistenza europea – arrivando a lacerazioni profonde
e spesso anche feroci, di cui adesso si comincia a scrivere più compiutamente la storia – quella jugoslava portò
in sé i germi di quella “incomunicabilità” fra regione e regione, etnia ed etnia, religione e religione, di cui la
divisione politica fu soltanto una delle espressioni (e sia pure, nel momento della guerra, la più evidente e
caratterizzata) (prefazione a Giovanni Cuccu, "Le stelle ci guidano. Storia documentata di un partigiano sardo").
Guerra civile, nella prima metà del secolo, significa, prima ancora che guerra politica, divisione netta tra ideali
contrapposti: libertà e democrazia (non importa se socialista o liberale) da una parte, “dittatura etica” (l’idea al
di sopra di tutto) e sopraffazione dall’altra. Valori assoluti che in Italia, ad esempio, portano giovani e meno
giovani ad aderire alla “causa persa” (così ad ogni persona “sensata” doveva apparire la sorte della guerra sul
finire del 1943) della Repubblica Sociale Italiana in nome del rifiuto del “tradimento” per il cambio di alleanze, in
nome dell’onore, prima della Patria e poi dell’onore tout court. Claudio Pavone ("Una guerra civile") ricorda le
parole del giornalista fascista Enrico Cacciari: Questi uomini [docenti dell’Università di Modena che il 17 agosto
si dichiararono antifascisti] sono moralmente indegni di insegnare non perché dopo il 25 luglio 1943 abbiano
fatto professione di antifascismo, ma perché, accettando come pecore la disciplina di un partito che in cuor loro
deprecavano, sono indegni oggi di insegnare ai giovani quella dignità che a loro è mancata. In tali coppie
diadiche, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, tutto è diventato possibile: campi di sterminio,
eliminazione integrale di villaggi, rappresaglie, eserciti di nazioni trasformati in eserciti di volontari di ventura. E
questa fortissima tensione ideale che scuoteva entrambi gli schieramenti (tensione, ben si intende, di
diversissimo e non paragonabile segno) faceva sì che l’idea stessa di morte assumesse un significato
palingenetico. Scrive un’ausiliaria fascista: Potrò guardare in faccia la morte, sfuggirla, divertirmi con essa;
giocare a rimpiattino deve essere bello. Come vedi le volontarie in camicia nera non temono la morte e
prendono tutto con filosofia. Così viviamo… guardando in faccia alla morte col sorriso sulle labbra.
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