“UN AMLETO DI MENO” di CARMELO BENE

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“UN AMLETO DI MENO” di CARMELO BENE
“UN AMLETO DI MENO” di CARMELO BENE
di Gianfranco Bartalotta
Intervento di Gianfranco Bartalotta al III Convegno Nazionale “Parole di confine”
Citerna, 26 giugno 2004
Come il valzer lehariano della Vedova allegra suggerisce, nell’Amleto teatrale di Bergman, «l’allegra prostituzione»
della regina che viene oscenamente sodomizzata dall’usurpatone tra il plauso della corte scarlatta e gli occhi indiscreti
delle gelide luci di scena; così l’ossessiva richiesta dì vendetta, nell’Amleto cinematografico di Carmelo Bene (“Un
Amleto di meno”, 1973), rileva in rapida sequenza l’amplesso regale (tra la nuda Gertrude e il re Amleto con elmo da
vichingo e corazza irta di punte), il turpe fratricidio e l’autoincoronazione di Claudio sotto lo sguardo dapprima
perplesso e poi quasi compiaciuto di Amleto:
Io sono l’anima di tuo padre (nove volte)
Se mai mi amasti (sette volle)
Vendica il mìo assassinio (otto volte)
Addio (nove volte)
Ricordati di me (tre volte)
Nonostante la ripetizione raddoppi «l’effetto di presenza», questo Amleto di Bene con un urlo altissimo si sottrae al
dovere della vendetta tra le oblianti e monotone sequenze del flusso della marea;
AMLETO: (voce fuori campo)
Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi
l’orrido orrido orrido evento
per esaltare in me la pietà filiale
per far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre
per riscaldarmi il piatto della vendetta
Ed ecco invece ho preso gusto all’opera
Poco a poco mi scordai che si trattava
di mio padre assassinato
di mia madre prostituita
del mio trono
Andavo avanti a braccetto con le finzioni
di un bell’argomento
E l’argomento è bello!
Così quando scorrono i titoli di testa, Amleto si è già sbarazzato della pietà filiale; s’innamora di Kate, prima attrice dei
guitti a corte, e con lei decide di partire da Elsinore in cerca di successo. Tutto è pronto in una scena colma di bauli sui
quali Amleto, con un corpetto gonfio e variopinto come quello dei comici, attacca l’etichetta “Paris Express”
coadiuvato, nella ricerca del trovarobato, da William, baffuto capocomico, e da un Polonio con berretta, occhiali e barba
da sciamano, tra le giravolte della macchina da presa che esalta particolari spesso casuali e privi di significato:
AMLETO: Kate che c’è?
KATE: Non sono che una disgraziata ma ho l’animo elevato io… Sa Dio quante sublimi eroine ho logorato in
palcoscenico. Ma quando ho letto la mia parte scritta così da te in quella specie di commedia… È proprio così il
nostro misero destino pietoso e impietoso. Come devi essere unico e incompreso tu e non matto come dice la gente
(porge un teschio ad Amleto)
AMLETO: (sorriso tra il compiaciuto e il beffardo)
E questo non è niente ti leggerò tutto… Andremo a vivere a Parigi.
La frammentazione è sistematica, i modi espressivi dell’artista «si rinnovano nella pratica di una regia che utilizza la
macchina da presa con la stessa abilità [...] delle sue sequenze teatrali più celebri». Un Amleto caratterizzato dall’uso
pirotecnico della camera, dalla rapidità del montaggio, dalla rigorosità della frammentazione. E’ un flusso continuo di
immagini e colori che, a tratti, si sfaldano nell’accecante luminosità del bianco per ricomporsi nelle tonalità dei volti,
dei costumi, degli accessori scenici. «I personaggi, le figure, i piani – scrive Maurizio Grande – si scontrano
frontalmente con staffilate di luce che fanno vacillare colori e rapporti cromatici, che rendono impossibile l’iscrizione
delle relazioni definite, delle differenze istituite. La ricerca formale, sul piano strettamente filmico, diviene in questo
“Un Amleto di meno” ricerca dell’indifferenza delle relazioni, dei rapporti prestabiliti nei contenuti e nelle forme.
Diviene cancellazione dei rilievi e dei sensi continuamente messi in crisi dalla dissoluzione del rapporto equilibrato del
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colore, dei toni e della configurazione scenica attraverso un nuovo tentativo di iscrizioni: quello della smagliatura del
fondo che riverbera un bianco accecante sulle differenze cromatiche, sul gioco dei rapporti spaziali e delle gerarchle
relazionanti delle situazioni-personaggio». Non si tratta soltanto di una «teatralizzazione più profonda del teatro stesso»,
ma di una rottura degli schemi linguistici tradizionali dello spettacolo cinematografico con le stesse modalità realizzate
in teatro. Come l’Amleto teatrale è un saggio critico sul personaggio shakespeariano attraverso gli stumenti in
“demolizione” del teatro, così l’Amleto cinematografico lo è attraverso gli strumenti in “dissoluzione” del cinema.
Un’operazione che si avvale delle stesse citazioni testuali (con lievi variazioni) delle versioni teatrali e di una traduzione
allora in voga come quella di Lodovici che accentua il formalismo retorico della recitazione “assente” del re (Alfiero
Vincenti) in una scena affollata e surreale dominata da policromatiche palle e calotte di stoffa che coprono le nudità
femminili, scovate in modo nevrotico e impietoso dalla macchina da presa, e dalla effigie del vecchio re, sfocato ed
espressionista, a flebile ricordo del dovere di vendetta.
Così mentre Amleto si giustifica dinanzi allo spettro con la usuale ironia:
AMLETO: Perdonami Perdonami Tu mi perdoni padre mio non è vero? In fondo mi conosci
il Re frantuma, con variazioni continue del registro tonale, il duplice ruolo di attore e personaggio
shakespeariano:
RE: (con una palla di vetro nella mano) Benché ...
AMLETO: (fuori campo) Schifo schifo
RE: abbia ancora il suo color del verde la memoria…
AMLETO: (fuoricampo) Morto appena ...
RE: del nostro caro fratello Amleto re possiamo ora pensare a lui senza pure scordarci di noi stessi . Ond’è ... che
questa nostra un dì sorella oggi regina abbiamo...
AMLETO: Fragilità il tuo nome è donna
RE: quasi diremmo con trasfigurata gioia e cioè con un occhio lieto e l’altro in pianto
AMLETO: (con voci sovrapposte) tale e quale il re morto!
RE: con allegrezza il funerale e tristezza alle nozze su equa lance pesando e gioia e duolo l’abbiamo... noi dicevo...
tolta in moglie e non senza il conforto del miglior senno vostro che in tutto questo ci avete assistito con spontanea
larghezza... laonde... GRAZIE A TUTTI! [...]
La recitazione assente del Re, «tutta giocata su registri tonali distanzianti il peso e il senso stabilito dalle parole», è sulla
stessa linea delle edizioni teatrali così come il testo che si differenzia soltanto nelle tonalità finali del Re e in alcuni
interventi fuori campo di Amleto. Una scena di un ritmo visivo e sonoro sorprendente che attraverso l’uso di uno
“specifico” diverso riesce non soltanto a riprodurre in modo quasi integrale quella delle edizioni teatrali citate ma anche
a rendere l’essenza dell’analoga scena shakespeariana.
Ad Orazio il compito di leggere le battute del dramma sui piccoli pezzi di carta passatigli dal principe, compitando, e
vuotandole con la sua stessa reticente titubanza d’ogni significato. E Polonio, in una oscura cripta (luogo dell’inconscio)
rischiarata da fioche candele, bisbiglia brani freudiani in direzione della regina aiutandola nel suo snervante rituale di
vestimento e svestimento. Una scena barocca costruita con un rapido montaggio interrotto soltanto dalla sequenza dei
sovrani che “confessano”, con delle prugne, Rosencrantz e Guildenstern pronunciando, a turno, i loro scambievoli
nomi. E se questa sequenza è caratterizzata da calde e cupe tonalità attraversate dai tenui chiarori rosso-cerulei dei
sottili damaschi, la successiva è segnata dal freddo biancore di enormi merletti dietro le cui trame s’intravede un’Ofelia
eternamente nuda, a mani giunte, contro la quale un Amleto-Mr Hyde scaglia una colomba appena strozzata. Scena
suggestiva in cui il principe chiede perdono ad Ofelia, ora impaurita ora estasiata, prima di allontanarsi con Kate:
AMLETO: Perdono! Perdono! Non l’ho fatto apposta!
Ho un cuore d’oro e non ce n’è più come il mio…
Tu mi capisci non è vero?
(cambia tono) Tuo padre è ammalato per caso?
Mmm Peccato! (con indifferenza)
Ma il principe non è interessato alla corte di Elsinore, accarezza il suo sogno d’artista già venato dalla coscienza della
propria solitudine e in questo sentimento cosmico di solitudine, in questo divario insanabile tra Io e Eternità, l’Amleto
di Bene rinuncia all’eroicità, aspirando alla dimensione di poeta farmacista di gozzaniana memoria.
AMLETO: Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido il sofista
Ma vivere nel suo borgo natio
Ma vivere alla piccola conquista
Mercanteggiando placido in oblio
Come tuo padre come il farmacista…
Ed io non voglio più essere io
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Persiste frattanto l’ossessivo bisbiglio freudiano di Polonio in direzione della Regina:
POLONIO: Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il primo impulso sessuale alla madre, il primo odio contro il
padre. I nostri sogni ce ne danno la convinzione. II re Edipo che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua madre
Giocasta è soltanto l’appagamento di un desiderio della nostra infanzia.
Edipo, Amleto, Carmelo, osserva Grande, «vivono la scena come spazio dell’inconscio ridisegnato, della
contraddizione del linguaggio e dell’esistenza». La frammentazione delle immagini e delle sequenze non è che il
tentativo del Soggetto di sottrarsi all’identificazione con l’Io e con la realtà. Il Soggetto stesso non è soltanto un fram­
mento di sé ma anche «frammento assoluto nel momento in cui si fa esso stesso evento, [...] estensione illimitata [...]
che tutto riconduce a sé, ogni evento mondano in quanto porzione di soggettività fatta apparizione fenomenica».
Come la frammentazione delle immagini tende a contaminare i canoni linguistici cinematografici, così la
«contaminazione di generi, stili, materiali, teatrali ed extrateatrali e la citazione di materiali drammaturgici eterogenei
tendono a scompaginare la compattezza del testo, distruggerne l’identità socio-culturale; nella direzione di una partitura
lirica, del melodramma d’attore che si annuncia come tragedia sospesa del personaggio e come parodia della
megalomania isterica dell’Ego, sostenuta, consolidata e amplificata nella esaltazione dell’attore che diventa soggettoeroe di una vicenda artistica e esistenziale»
E se nel Novecento il vero protagonista della letteratura è proprio l'artista, il solo che può tentare, come scrive Agostino
Lombardo, «d’imporre l’ordine della forma al magma, al caos di un universo che ha smarrito le sue coordinate»;
nell’esperienza artistica (sia teatrale che cinematografica) di Bene neppure l’artista riesce a dare un ordine formale al
mondo riproponendone, anzi, l’indecifrabilità. Non restano che “frasi, chincaglierie, ricordi in grumi”, pretesti scenici
per sviare l’idea, a volte emergente, della vendetta, ma anche elementi di inafferabilità del senso e del linguaggio che
dovrebbe produrlo. Un linguaggio con un surplus di segni e di significati, negati per amplificazione, correlativi alla
«emorragia del mondo [...] alla crisi della rappresentazione [...] e alla destituzione della storia ridotta a cronologia
inessenziale e a routine delle trasformazioni».
L’edizione cinematografica, come quelle teatrali, è un passaggio continuo dallo sberleffo alla malinconia, una «fabbrica
dell’assurdo» e si sviluppa, come le riduzioni teatrali, con questo «sparpagliamento di azioni che si interrompono al
momento buono, con l’esplosione trionfale e puntuale di musiche da melodramma, con i falsetti e le accelerate di
Carmelo», con i bisbigli di Polonio, il falso pentimento del re che tutto pareggia con borse di denaro che Amleto (sotto
lo sguardo allibito di Orazio) riceve a guisa di preventivo di uno spettacolo che pone continuamente in discussione il
gioco delle parti, intriso del sangue di Polonio che viene trafitto, quasi, per liberare la regina da un’orrida persecuzione.
Ma Amleto rifiuta di portare alle estreme conseguenze l’azione di vendetta «per l’ipotesi poetica di sé», la realizzazione
del suo sogno d’artista; una consapevolezza della grandezza dell’arte e dell’ineluttabile brevità della vita:
AMLETO: (mentre Kate piange) ... dovrei soltanto agire firmare agire uccidere ammazzarlo fargli vomitare la vita
ammazzare mi son fatto la mano con Polonio mi stava spiando da dietro l’arazzo della strage degli innocenti ah tutti
tutti contro di me! E domani sarà Laerte magari e dopodomani Fortebraccio quel dirimpettaio. Agire bisogna
uccidere… Kate... o evadere da qui o evadere evadere evadere LIBERTA’ LIBERTA’ AMARE VIVERE SOGNARE
ESSER CELEBRI LONTANO DA QUI CARA AUREA MEDIOCRITAS Ma l’arte è tanto grande e la vita è tanto
breve!
«Una tensione verso l’assoluto - osserva Grande - […] una coscienza della inestricabile contraddizione dell’arte e del
potere, camuffamento e oppressione, brevità della vita e irresistibile grandezza dell’arte». Concetto in cui Amleto cerca
un pretesto per rinviare l’idea della vendetta, mentre l’usurpatore annoiato o estremamente ilare per le battute di Amleto
si accinge a spedirlo in Inghilterra più per esigenze di copione che per timore di vendetta:
RE: […] Amleto... dopo quanto è accaduto per l’incolumità della persona tua che mi sta a cuore quanto mi sta sul
cuore l’azione che hai compiuto devo farti sparire da qui con la rapidità del fulmine... (sussurra nell’orecchio di
Amleto) In Inghilterra
AMLETO: In Inghilterra?
RE: Si! Si!
AMLETO: Addio, madre cara.
RE: Padre… Amleto… padre
AMLETO: Madre… madre
RE: Padre… padre
AMLETO: Madre, madre… Padre e madre sono marito e moglie una sola carne, allora addio madre… Andiamo! IN
INGHILTERRA! (risate e musiche suggellate da boato) E’ BELLO AL MINATORE SALTARE IN ARIA DELLA
SUA STESSA MINA (esplosione)
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Una scena conclusa da una fragorosa esplosione a cui assiste Amleto, artefice del proprio destino, beffeggiatore di tutto
e di se stesso, attore di straordinario istrionismo che, nella sequenza successiva, si ritrova, solo, in un teatro vuoto
risonante di fischi e delle amplificazioni di un dire senza rappresentare, dove il soggetto ferito soppianta l’Ego ri-ferito.
La riflessione shakespeariana sul teatro (e sull’attore) diviene qui amplificazione parodistica della finzione, negazione
pleonastica dell’immedesimazione attraverso gli strumenti linguistici del cinema usati in modo meno parossistico e
volontariamente accademico. E’ il fallimento del sogno artistico di Amleto che all’interno di una carrozza condotta da
due superbi cavalli rassicura Kate in lacrime con l’immagine di un successo cui egli stesso sembra voler
autoconvincersi.
AMLETO: ... Su su su… non t’abbattere Kate
andrà meglio a Parigi vedrai […] questo dramma non è nulla,
l’ho concepito e vi ho lavorato tra repellenti preoccupazioni domestiche,
ma di sopra ne ho altri… ma Sì noi ci ameremo Sì… partiremo stanotte stessa
ti leggerò tutto andremo a vivere a Parigi (la bacia)
E quando i due personaggi sono avvolti dal buio della notte, si assiste a una delle sequenze più liriche (e grottesche) del
film, l’annegamento di Ofelia: una fotografia lambita dalle onde del mare e dai petali delle rose che Amleto offre a Kate
in un cimitero di croci bianche. L’estrema liricità delle immagini è corrosa, sia da un punto di vista formale che
semantico, dalla variazione dei registri tonali, dall’inflazione delle croci, dagli sberleffi testuali:
AMLETO: Eppure non era poi tanto pesante ebbé sì
dev’essere gonfia d’acqua come un’otre...
Sporcaccionella ripescata alla fogna non poteva finire che così
dopo aver frugato senza metodo alcuno nella mia biblioteca…
E mentre Ofelia è esposta come un martire nella bianca trasparenza di un’urna barocca ornata di angeli in miniatura,
Laerte, a capo di un gruppo di rivoltosi che lo acclama re, invade la reggia. E se Polonio, come scrive giustamente
Dotto, «è la liquidazione dell’interpretazione psicoanalitica, Laerte con la sua coazione bloccata al gesto rivoluzionario
da capopopolo è la liquidazione della interpretazione storico-politica».
Suggestivo e parodistico il monologo con il teschio di Yorick tra le innumerevoli croci bianche del cimitero marino, un
monologo mirabile concluso all’interno di una carrozza ottocentesca che lo raccoglie sulla spiaggia nella malinconica
atmosfera del crepuscolo:
AMLETO: Alas poor Yorick
Era un ragazzo d’un umorismo infinito mio fratello stessa madre per nove mesi...
Fu qualcuno... aveva un ego minuzioso e scaltro si prendeva per qualcuno... (sospiro)
e adesso niente nemmeno il suo sonnambulismo...
C’era una lingua che qui biascicava good night lady good night sweet lady... good night... good night...
Cantava… prevedeva… ricordava... ha parlalo... ha arrossito... ha sbadigliato...
ORRIDO! ORRIDO! ORRIDO!
Ho forse ancora vent’anni trent’anni da campare e poi verrà il mio turno com’è venuto per gli altri...
La scrittura cinematografica dell’Amleto di Bene (come quella scenica) non mira dunque alla riproduzione lineare del
testo, allo sviluppo armonico della azione o alla sua risoluzione drammatica. Al contrario, sottrae allo spettacolo i suoi
elementi costitutivi; il testo, appunto, o gran parte di esso; la lingua e la parola (in variazione continua e per lo più
doppiata); la musica (distorta o bruscamente interrotta); la gestualità (inibita da accidenti di scena o snaturata
dall’angolatura di ripresa); l’identificazione dell’attore con l’artificiosa realtà del personaggio, la consequenzialità delle
riprese, la disciplina del montaggio trasformata in una «indisciplina chirurgica del montaggio». Ed è proprio questa
rigorosa indisciplina a rendere frenetico il ritmo, sfuggente il senso, spregiudicato e innovativo l’uso del mezzo
cinematografico che Bene adatta in ogni momento alle sue esigenze espressive con sequenze di assoluta originalità.
Lo spettacolo volge al termine, Amleto sta per coronare il suo sogno artistico con Kate quando un irresistibile richiamo
lo conduce alla tomba di suo padre dove, con i suoi sarcasmi, costringe «il buon Laerte a pugnalarlo per porre fine al
senso di colpa che lo soffocava». Come il Nerone di fonte svetoniana, in punto di morte esclama con orgoglio: «Qualis
artifex pereo»:
AMLETO: Kate aspettami qui un minuto è per la tomba di mio padre che è stato assassinato sai pover'uomo... poi ti
racconto... Un attimo il tempo di cogliere un fiore chissà ci servirà da segnalibro quando rileggeremo il mio dramma
e saremo costretti a interromperlo per baciarci
LAERTE: (con furore) Ah sei tu Amleto del diavolo che ci vieni a fare qui?
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AMLETO: (per nulla intimorito) Ah siete voi caro Laerte qual buon vento?
LAERTE: Via fuori di qui pazzo o perdo il controllo fuori!
Quando si finisce con la pazzia è segno che s’è cominciato col gigionismo!
AMLETO: E tua sorella! (Laerte uccide Amleto)
Qualis… artifex... pereo...
(Laerte lo bacia sulla bocca)
Dopo simile morte, giocata sulla negazione dell’illusione scenica, l’azione si sposta all’interno della reggia dove Kate
viene rinchiusa in un baule-sepolcro dal capocomico William mentre un inquietante Fortebraccio senza volto, segno di
un potere anonimo e «senza possibili mediazioni», s’incorona sul trono esaltato da solenni note wagneriane.
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