La testimonianza della carità: virtù o ministero?

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La testimonianza della carità: virtù o ministero?
La testimonianza della carità: virtù o ministero?
Cosa devo fare? Come devo fare?
7° Corso Animatori Pastorali Caritas - Relazione di don Matteo Pasinato – 8 febbraio 2016
Testimoniare la carità, non è semplicemente fare la carità. Che differenza c’è tra la carità fatta e
la carità testimoniata? Credo che due parole del titolo ci aiutano a capire una differenza interessante. Per
fare la carità, non ci vogliono “etichette” di sorta (nemmeno religiose), non bisogna essere della Caritas, di
solito la carità fatta è un gesto virtuoso. Un di più, qualcosa di speciale, frutto di un lavoro di una persona
che “costruisce” questo atteggiamento. Ci educhiamo a fare qualcosa: ecco la virtù.
Essere una persona virtuosa è certamente una buona cosa, ma rischia di porre in evidenza che
mi sento “speciale” rispetto agli altri (che non sono virtuosi). La persona virtuosa rischia – secondo le parole di Paolo – di vantarsi (in buona fede) di quello che riesce a compiere, in vista della propria perfezione.
L’apostolo Paolo nell’inno alla carità dice: «se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio
corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Io posso fare la carità
senza avere la carità, che possiamo tradurre così: la tua perfezione non serve a nulla … e non serve nessuno. Serve te e serve a te!
La carità quando la definiamo una “virtù” rischiamo di comunicare questa idea: la carità viene messa in atto solo da qualcuno, e lo
fa per la sua “perfezione personale”, e infatti vi sono molti cristiani che pensano di «lasciare agli altri» la virtù della carità, nelle
nostre parrocchie molto spesso abbiamo un “gruppo speciale” che si dedica alla carità, e tutto il resto della comunità “delega” a
questo gruppo tale opera. Noi siamo dentro a questa tradizione che, parlando per secoli della carità come di una “virtù”, rischia di
presentarla come un’opera facoltativa (non è necessaria per tutti), come un’opera per i “migliori”. La carità sarebbe dunque una
opera: sceglibile (opzionale ma non necessaria), aggiunta (una specie di perfezione “in più”), eccezionale (è solo per alcuni cristiani speciali, per alcuni)
Se invece parliamo di testimonianza della carità, intendiamo un ministero nella comunità, non
più qualcosa che è una perfezione personale costruita, ma uno stile che edifica la comunità stessa. Anche
qui un testo di Paolo è illuminante:
Cristo ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri
di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo … nella carità (Ef 4,11-13)
Se leggiamo questo testo in greco la parola ministero è diakonia. Compiere un ministero è compiere una diakonia, dunque non è vero che la diakonia è solo degli operatori della Caritas. Ogni ministero
è diakonia, ed è necessario per edificare la comunità, la Chiesa. Sono diakonia anche l’annuncio, la liturgia, i sacramenti …. Senza il “ministero” le pietre da costruzione della comunità sono sparse: chi annuncia, chi celebra, chi mette in atto stili e opere di accoglienza, di soccorso al fratello, chi educa alla carità …
non può farlo in proprio, come una “specializzazione” ma «allo scopo di edificare il corpo di Cristo».
Chi annuncia può farlo bene, ma non basta! Chi celebra e cura la preghiera mette qualcosa di
importante nella comunità, ma non basta! Anche il “ministero” della carità dovrebbe servire insieme alla
liturgia e all’annuncio, carità-annuncio-liturgia insieme sono capaci di edificare, costruire. In particolare la
Caritas dovrebbe servire a mettere insieme la carità che ognuno compie “virtuosamente” e perché non la
compia solo virtuosamente (come una azione sparpagliata …). Infatti la Caritas dovrebbe preparare i fratelli a compiere la carità come un aspetto che ci “costruisce”, che è necessario a vivere la fede cristiana
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come la vuole il vangelo. In questo senso la Caritas non è gelosa della carità che ciascuno compie, anzi
dovrebbe promuoverla e mai sostituirla. Un monaco di Bose ha recentemente ricordato che 1700 anni fa:
I vescovi ottennero, sotto Costantino (313), la stessa posizione che avevano i magistrati nell’amministrazione
imperiale, ma poterono anche creare delle organizzazioni, delle associazioni. E le prime associazioni da essi
create furono quelle samaritane. Essi affidarono a una casa particolare, controllata dal vescovo e finanziata dalla
comunità, il compito di ospitare le persone senza casa. Ospitarle non era più una libera scelta di un padrone di
casa, era un compito dell’istituzione. Non desta meraviglia il fatto che quello stesso anno - o fu un anno più tardi? -, in pratica nello stesso periodo di tempo in cui Costantino attribuiva ai vescovi il titolo di magistrato, o un
suo equivalente, un altro grande padre della chiesa, Giovanni Crisostomo (“bocca d’oro” lo chiamavano, a causa
della sua splendida eloquenza) esclamasse violentemente in una sua predica: “Non create questi xenodocheia
(case per stranieri)! Assegnando il dovere di comportarsi in questo modo a un’istituzione, i cristiani perderanno
l’abitudine di riservare un letto e avere un pezzo di pane pronto in ogni casa e le case cesseranno di essere delle case cristiane” (L. Manicardi).
Perché la testimonianza della carità non si confonda con una virtù e anche perché la virtù della
carità nella comunità non sia intesa come quella di un corpo “speciale” ma come “intrinseca” (necessaria e
intrinseca) all’essere cristiano, propongo un piccolo cammino di discernimento che sembra andare lontano
dai discorsi organizzativi di un ministero, eppure è un discernimento necessario perché il ministero (anche
quello della Caritas, ma non solo) non si riduca ad una organizzazione.
1. Anche i demoni credono (troppo spirituali!)
Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium dice una cosa molto importante, riprendendola
dal concilio Vaticano II: nella evangelizzazione esiste una gerarchia delle verità, cioè non tutto è sullo
stesso piano. Ci sono delle verità che stanno in alto e altre che stanno più in basso. Poi il papa concretizza così:
… nell’annuncio del Vangelo è necessario che vi sia una adeguata proporzione [tra le verità]. Questa si riconosce nella frequenza con la quale si menzionano alcuni temi e negli accenti che si pongono nella predicazione.
Per esempio, se un parroco durante un anno liturgico parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte
sulla carità o sulla giustizia, si produce una sproporzione, per cui quelle che vengono oscurate sono precisamente quelle virtù che dovrebbero essere più presenti nella predicazione e nella catechesi. Lo stesso succede quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di
Dio (EG, 38).
Parlare molto della temperanza e poco della carità e della giustizia nella predicazione, dice il papa,
significa trascurare qualcosa che dovrebbe essere più presente … quando si parla più della legge che della grazia è lo stesso, quando si parla più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del papa che della Parola di
Dio, noi non rispettiamo la gerarchia delle verità. Dobbiamo dire grazie a papa Francesco per aver rispolverato questo aspetto importante, non solo per chi fa il teologo (e pensa la fede) ma anche per il cristiano
(che deve sapere e sentire che c’è questa proporzione).
Ci poniamo su questa linea: tra l’amore di Dio e l’amore del fratello possiamo dire che c’è una gerarchia? San Giovanni sembra dire di sì: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un
mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Leggiamola bene questa affermazione: l’amore del fratello sta sopra l’amore di Dio. Nel senso che mentre
chi ama Dio a volte non arriva fino al fratello, chi ama il fratello arriva sicuramente a Dio. La fede può essere una menzogna se mette insieme l’amore di Dio e l’odio del fratello, ma questo è diabolico perché divide (dia-ballo = dividere) ciò che è individisibile. I “demoni” credono e temono Dio ma non amano l’uomo,
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anzi lo devastano!
Possiamo raccogliere questa provocazione forte sul fatto che anche la fede può essere seminata
con la zizzania. E la zizzania seminata nel nostro campo può essere il fatto di amare Dio senza amare il
prossimo, il fatto di una liturgia che riduce a nulla la carità fraterna, mentre per ogni cristiano “il visibile”
(l’umanità concreta che ti sta davanti e attorno) è l’unico cammino verso il Dio “invisibile”. La fede senza le
opere è morta (Gc 2,26), nel senso che sono le opere a dare vita alla fede, ma non è detto che sia vero il
contrario, cioè che la fede dia vita alle opere. La prima precauzione contro una fede demoniaca è la concretezza. Ci sono tanti cristiani che “sentono” di credere in Dio ma non fanno “sentire” a nessun fratello
che credono in Dio.
Ecco dove sta una “gerarchia” non sempre chiara della nostra fede: l’amore al fratello sta sopra
l’amore di Dio. Questo lo diciamo a partire dalla fede rivelata, non da un umanesimo a buon mercato. Lo
diciamo a partire dalla fede rivelata perché Paolo ad un certo punto dice «Vorrei infatti essere io stesso
anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rom 9,3).
Questo ricorda Mosè stesso che dopo il vitello d’oro dichiara a Dio (che vuole distruggere il popolo):
«Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il
loro peccato... Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32 → non voglio salvare me
stesso senza l’altro). Gesù stesso gridando l’abbandono di Dio sulla croce (Dio mio perché mi hai abbandonato …) dichiara nello stesso tempo che lui non ha abbandonato l’uomo (io sono qui conficcato per
amore degli uomini che mi hanno abbandonato anche loro … io non li abbandono, e la croce sarà il segno
perenne di un amore giunto “fino alla fine”, fino alla “consumazione di tutto”).
Se leggiamo i vangeli ci stupiamo di trovare che anche i demoni «sanno chi è Gesù» (Mc 1,24), e
l’apostolo Giacomo nella sua lettera non ammette dubbi su questo:
2,14 A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? 15
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16 e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? 17 Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. 18 Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede
e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». 19 Tu credi
che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano!
Che cosa i demoni non accolgono di Dio? Non accolgono la materia: credono in un Dio puramente
spirituale e “rifiutano” che abbia creato un fratello/sorella, che abbia messo a disposizione il cibo. Il demonio conosce e approva la spiritualità di Dio, ma non la sua materialità. La fede dei demoni è ristretta alla
spiritualità di Dio, e non sopporta proprio la materialità di Dio. Dio ama materialmente, perché ha creato e
si è incarnato, e il rischio della fede è pensare Dio solo come “spirito”.
Il demonio sa ciò che fa, molto meglio di noi. Da un punto di vista meramente speculativo, è miglior teologo. In
lui non vi è debolezza della carne: non conosce stanchezza, non è portato a bere, non si compiace di oscenità
carnali, non ha un affetto smodato per i beni materiali. È casto e povero senza aver fatto voto, cioè lo è per sua
natura. In lui non vi è ignoranza nemmeno dal punto di vista della sua intelligenza naturale: non ha bisogno di
apprendere a parlare, non va a scuola … è erudito senza sforzo, maestro senza rabbi … Qual è il suo male, allora? Esclusivamente spirituale (Hadjadj).
Se vogliamo misurare la nostra carità a partire dalla fede rischiamo di cadere nel tranello del demonio che sa chi è Dio ma non accetta come è Dio. Infatti sul monte delle tentazioni Satana vuole che
Gesù “si serva” spiritualmente della realtà: le pietre trasformale in pane; i regni del mondo conquistali sen3
za la loro adesione; buttati giù materialmente che poi spiritualmente Dio verrà a rimediare … Invece Gesù
reagisce, non si procura nessun pane ma accoglie il pane che qualcuno gli dà (quanti pani avete?); non
vuole conquistare nulla se non attraverso la libertà (se vuoi … seguimi); non si butta dal pinnacolo (non va
volentieri alla morte …) ma risparmia la “morte anticipata” che colpisce i poveri, i malati, i peccatori. Quando vedono Gesù sulla croce la gente lo insulta, ma dice la verità della sua vita: ha salvato gli altri … non
se stesso! Le tentazioni di Gesù ci ricordano che “spiritualizzare” Dio è opera demoniaca. Spiritualizzare la
fede è pensare che Dio è così forte che posso risparmiarmi la fatica della vita materiale (quanti miracoli
chiediamo!), la tentazione di pensare che posso convertire in un solo colpo il mondo intero (mentre ci vuole tempo e rispetto per la libertà!), posso sorprendere con il dono spettacolare di me stesso (ma questo
mette al centro te stesso … non mette al centro né Dio né gli altri).
La Caritas punta sulla materialità buona e necessaria, punta sulla libertà che non vuole conquistare
nessuno, punta sul mettere al centro gli altri e non se stessi … Allora sì diventa un “ministero” che costruisce, altrimenti resta la virtù di un gruppo di “specializzati” che si appropriano della carità …
2. Anche i credenti si agitano e si confondono
Due icone evangeliche ci aiutano a fare un secondo passaggio sul cosa fare (Marta e Maria) e
sul come fare (il giudizio finale). Il “cosa” fare può diventare così importante da prendersi il tutto della carità (sindrome di Marta di Betania in Lc 10). Il “come” è così trascurato da non accorgerci che “non abbiamo
servito” (sindrome dei “maledetti” in Mt 25).
(A) La carità può “strapparci”?
L’unica volta che in greco nei vangeli compare la parola diakonia (“servizio”) è in una casa, quella
di Betania. Esso indica il “servizio a tavola” della sorella maggiore, Marta, ospitante nientemeno che il Signore.
10, 38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39 Ella aveva una
sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40 Marta invece era distolta
per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata
sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per
molte cose, 42 ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Nell’accoglienza di Gesù stesso, Marta e Maria sono in tensione fin dall’inizio: la sorella grande –
dice il vangelo – “ospita” mentre l’altra è seduta ai piedi di Gesù (due “virtù” in tensione?). Torno a ricordare che l’unica volta che troviamo la parola diakonia nei vangeli è proprio qui: «Marta invece era distolta per
i molti servizi» (v. 40). La traduzione greca è più vivace e concreta: «Marta era “strappata” dalle molte
diakonie». E poco dopo Gesù dice: «ti agiti per molte cose». La diakonia diventa «le molte cose». Una
diakonia moltiplicata, al punto che “strappa” Marta, la quale continua ad andare e venire: va un poco dal
Signore e poi va un poco a quello che sta preparando per Gesù. Poi torna a Gesù (che è con Maria) e di
nuovo torna alle cose che sta facendo. Ad un certo momento Marta è del tutto “strappata”, al punto che
perfino spadroneggia sul Signore. Riprendiamo le parole del vangelo: «pertanto fattasi avanti, disse “Signore, non ti importa di me che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille che mi aiuti”» (v. 40).
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Marta è in piedi e Gesù è seduto (ai suoi piedi ancora più in basso c’è Maria). Chi è il vero Maestro in questa scena? Marta vuole servire il Signore, in realtà si serve del Signore, e mette al centro se
stessa (4 volte: me/mia sorella/ha lasciato sola me/mi aiuti). Marta in realtà non chiede di diminuire il lavoro, ma di aumentarlo. Se Maria viene con me ti potremo offrire il doppio. E Gesù invece parla di una cosa
sola, che è necessaria e non sarà tolta. La testimonianza della carità quando è compiuta come ministero
ecclesiale, nel nome del Signore, non può essere compiuta come si compiono tutte le altre attività. Quante
volte vorremmo raddoppiare le iniziative, quante volte ci lamentiamo che gli altri non aiutano noi. Rischiamo lo “strappo” di Marta! E usiamo la fraternità solo per fare il doppio (Marta e Maria sono sorelle), e ci
lamentiamo della fraternità assente perché ci costringe a fare anche la loro parte. Il “pieno” di occupazione
diventa il “vuoto” di relazione.
Nella comunità un servizio, una diakonia, un’opera caritativa può essere “strappata”, al punto che
potremmo dire che qui c’è la virtù di Marta ma non il ministero. Quel darsi da fare non edifica la casa (la
comunità), al contrario c’è una superiorità di Marta (perfino sul Signore!) e una distanza da Maria (che
rappresenta la ricchezza di altre qualità nella comunità).
Prendendo lo spunto dalla famosa affermazione che troviamo nella lettera di Pietro, «la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8), possiamo dire anche che «la carità [intesa come “cose” da fare
moltiplicate] svela una montagna di protagonismo e scopre una moltitudine di fragilità».
(B) La carità può “sorprenderci”?
Le cose fatte/o da fare rischiano di innalzare … ma non edificare. E allora dove sta la “proposta”
che fa il vangelo? Qui andiamo ad un’altra pagina del vangelo, che tentiamo di leggere in modo diverso da
come ha fatto la tradizione. È il famoso “giudizio universale” che troviamo in Mt 25, testo che è stato letto
come lo sponsor delle “opere di misericordia”, come se il credente dovesse imparare da questo testo un
elenco di diakonie da compiere (che poi lo agitano come Marta?). Questo tipo di lettura non è tutto. “VEDIAMO” il testo:
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i
popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
{1}Allora il re dirà a quelli che
saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio,
ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla
creazione del mondo, perché
ho avuto fame e mi avete
dato da mangiare, ho avuto
sete e mi avete dato da bere,
ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete
venuti a trovarmi”.
{2}Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti
abbiamo visto affamato e ti
abbiamo dato da mangiare,
o assetato e ti abbiamo dato
da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti
abbiamo vestito? Quando
mai ti abbiamo visto malato o
in carcere e siamo venuti a
visitarti?”.
{3}Poi dirà anche a quelli che
saranno alla sinistra: “Via,
lontano da me, maledetti, nel
fuoco eterno, preparato per il
diavolo e per i suoi angeli,
perché ho avuto fame e non
mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e non mi avete
dato da bere, ero straniero e
non mi avete accolto, nudo e
non mi avete vestito, malato
e in carcere e non mi avete
visitato”.
E il re risponderà loro: “In verità
io vi dico: tutto quello che avete
fatto a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a
me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.
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{4}Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti
abbiamo visto affamato o
assetato o straniero o nudo o
malato o in carcere, e non ti
abbiamo servito?”.
Allora egli risponderà loro: “In
verità io vi dico: tutto quello che
non avete fatto a uno solo di
questi più piccoli, non l’avete
fatto a me”.
In questo giudizio, non c’è solo il fare o il non fare, altrimenti Matteo avrebbe chiaramente messo
nella risposta di quelli alla sinistra {4} il medesimo schema delle opere, e la dichiarazione che non le hanno fatte. Invece c’è un silenzio sul non fatto (dunque potrebbero anche aver fatto quello che materialmente
c’era da fare), e c’è invece un’unica parola che riassume il loro tragico rifiuto: «non abbiamo servito te».
Dunque Matteo ci lascia pensare che anche i “maledetti” forse hanno fatto delle opere, ma non servendo.
E che cosa fa la differenza tra il fare delle opere e il servire? La differenza tra nella posizione tra chi fa il
beneficio e chi lo riceve. Servire significa collocarsi nella posizione inferiore (si serve un “signore”), e chi è
servito è nella posizione superiore (un “signore” che è servito). Dunque quello che è decisivo nel servizio
del povero è il servire lui. E servire vuol dire che il povero viene messo nella posizione «signorile». Lo servi mettendolo sopra di te. Allora chi serve non sta in alto, chi viene servito sta in alto!
In questa interpretazione si capisce anche un altro elemento di questo testo del vangelo. Nessuno (né i giusti né i maledetti) sanno che Gesù è fratello del prossimo che ha bisogno. Se avessimo saputo
che eri tu a nasconderti nel povero ti avremmo servito mettendoci in basso (avremmo servito il Signore
come un povero), ma questo non lo sapevamo! Né gli uni né gli altri lo sanno, pertanto lo stile del servire
non deriva dal vedere il Signore nel povero. Nel povero vediamo il povero! E averlo servito come “signore”
è la vera sorpresa del giudizio finale: non sapevamo che tu, Cristo, eri nel povero … e lo abbiamo trattato
ugualmente come “signore”. Anche quando abbiamo dovuto dirgli con chiarezza che non potevamo fare
nulla per lui, anche quando abbiamo dovuto dirgli che non era giusto che facessimo quello che lui ci chiedeva.
“Servire” non lo si vede dalla “materialità” di ciò compio, ma dal rapporto che metto in atto tra me (benefattore) e
colui al quale faccio la carità (il beneficato). Servire significa collocarmi “al di sotto” dell’altro, è l’atteggiamento in
cui mi “sotto-pongo”, e dunque metto l’altro come superiore … Dalla scena di Mt 25 viene questa conclusione:
servire “il re” significa servire “il povero” come Signore, anche quando devo negargli qualche servizio. Possiamo
pensare che dalla bocca dei maledetti non esca l’elenco delle opere di misericordia non perché non le hanno fatte, ma perché le hanno fatte dominando, cioè mantenendo una dipendenza ed una sottomissione dell’indigente
(loro erano in alto e il povero in basso … facevano dei servizi dalla posizione signorile). Oppure non hanno fatto
quello opere, ma sempre da una posizione signorile.
Se fosse Gesù in persona davanti a me è chiaro che io assumerei la posizione del servitore (lui è
effettivamente il Signore), ma di fronte alla persona bisognosa (facendo qualcosa per lei oppure non facendo qualcosa per lei … questo non è determinante!) io rischio di assumere una posizione di signoria.
Davanti al Signore io mi faccio facilmente servo, perché lui è il Signore. Ma davanti al povero io non mi
faccio facilmente servo, è difficile che lui (il povero) diventi “signore”. In poche parole quello che è decisivo
per il lettore di Matteo è in bocca ai maledetti, che ci lasciano la domanda: chi è il povero per me? È mai
stato «signore» della mia vita? Sta “sopra di me”? Oppure io sto “sopra di lui”?
Leggere l’evangelo significa qualcosa di più che individuare che cosa fare e la necessità di farlo.
Il “come” lo facciamo è altrettanto decisivo. E proprio il “come” richiede un discernimento sul presente, un
“giudizio” quotidiano che riconosce in chi è al massimo di insignificanza (i più piccoli) la richiesta più urgente da ascoltare per la salvezza. Oggi, proprio oggi, si tratta di servire senza sottomettere, sia quando
faccio sia quando non faccio. È dall’alto (non hai servito!) che perfino le opere di carità non contano nulla,
sono solo una beneficienza di chi si sente superiore (come i “maledetti”).
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A noi hanno insegnato: «fai delle opere di misericordia perché ti serviranno». Serviranno a me, serviranno me? Proprio qui il vangelo porta un rovesciamento drammatico: servire l’altro, il più piccolo, questo è decisivo! E servire significa mettere l’altro in posizione “signorile” (il povero come “signore”), sia che tu faccia qualcosa sia che tu non faccia qualcosa per lui. Questa posizione del
servire noi la dobbiamo verificare (personalmente) nella nostra vita. Mentre l’opportunità di fare e di non fare un servizio la dobbiamo decidere insieme: di fronte alla realtà, di fronte alle risorse che abbiamo, nella coraggiosa decisione di preferire qualcosa
rispetto ad un’altra.
Qui si ferma il discernimento … e dovrebbe iniziare qualche applicazione. Ma ciascuno la deve
raccogliere dal proprio terreno e con la propria fatica. E necessariamente le applicazioni vanno fatte insieme.
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