La solidarietà economica scelta o necessità

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La solidarietà economica scelta o necessità
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LA SOLIDARIETA’ ECONOMICA: SCELTA O NECESSITA’ ?
Luigi Campiglio
1. Il mercato crea solidarietà ?
Gli obblighi di solidarietà, e la loro importanza fondamentale per il paese, sono a
fondamento della Costituzione italiana, che all’articolo 2 afferma: “La Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali [famiglia (art. 29), sindacati (art. 39), associazioni (art. 49)],
ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri di
solidarietà politica, economia e sociale” (sottolineatura nostra). Tuttavia la
solidarietà economica non sempre si associa al normale funzionamento del
mercato. Il meccanismo di mercato fondato su imprese che massimizzano i loro
profitti normalmente non considera le ragioni della solidarietà sociale: il motivo
è che il mercato ricompensa il merito, l’efficienza, oltre che le posizioni di
monopolio, ma non considera le ragioni dei bisogni, che di regola rientrano
invece nelle decisioni di una famiglia. Famiglie e imprese sono perciò i due
soggetti centrali dell’economia, con ruoli complementari e coordinati. Il
coordinamento dipende dal fatto che l’efficiente funzionamento del mercato
dipende dall’esistenza di un equilibrio simultaneo nel mercato dei beni e del
lavoro. Se le famiglie dispongono di un potere di acquisto che consente loro di
domandare tutta la capacità produttiva di beni e servizi che le imprese offrono, e,
simultaneamente, le imprese domandano tutto il lavoro che le famiglie decidono
di offrire, allora l’economia opera al meglio: esiste piena occupazione nel
mercato del lavoro e le imprese producono tutto ciò che sono in grado di
produrre. Le gravi conseguenze sociali di un costante aumento del tasso di
disoccupazione e della continua diminuzione della produzione, com’è avvenuto
nel corso della lunga crisi economica iniziata nel 2008, dimostrano l’importanza
fondamentale del garantire un constante equilibrio fra la domanda e l’offerta di
mercato delle famiglie e delle imprese. Il meccanismo di mercato è tuttavia
incompleto e instabile. E’ incompleto perché non esistono tutti i possibili
mercati, ad esempio mercati assicurativi per il rischio di disoccupazione, o di
malattia oltre una certa età, ed è instabile perché il sistema di regole esistenti è
frequentemente in ritardo rispetto al cambiamento sociale. Una causa centrale
della crisi economica in corso è stata dovuta al fatto che “innovazioni”
finanziarie prive di un’adeguata regolazione hanno spinto molti manager di
grandi imprese a prendere rischi troppo elevati, contando sul fatto di essere a
capo di imprese troppo grandi per essere lasciate fallire. In questo modo è
venuto a mancare il principio della responsabilità, o meglio è stato capovolto,
perché il costo degli errori è stato pagato dai lavoratori, con la disoccupazione,
dai contribuenti, con maggiori imposte, dai risparmiatori, con perdite sui loro
risparmi, anziché dal top management che quegli errori aveva commesso. E’
quindi fondamentale che il meccanismo di mercato venga dotato di norme e
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regole che stabiliscano con chiarezza i confini delle responsabilità individuali e
la più completa trasparenza. Poiché il mercato funziona sulla base della
concorrenza, cioè di una costante gara e competizione per aumentare i profitti,
l’intervento pubblico ha la responsabilità di individuare le regole che
consentano un corretto svolgimento della gara: quando ciò avviene possiamo
ottenere l’efficienza ma non la solidarietà economica. E’ possibile mitigare
questa conclusione se si cambiano le regole della gara, introducendo condizioni
per massimizzare i profitti, oppure mantenendo il principio della gara, ma non
per il profitto. La spinta dell’opinione pubblica, con scelte d’acquisto e
investimento più etiche e solidali, ha dimostrato di poter modificare le scelte di
molte imprese, le quali hanno potuto verificare come scelte socialmente
responsabili comportino un ritorno economico maggiore del loro costo: ad
esempio numerosi fondi istituzionali d’investimento preferiscono investire in
imprese che dimostrino di essere socialmente responsabili, perché così richiede
la platea dei loro finanziatori. I risparmiatori possono preferire che, anche al
prezzo di un minor rendimento del capitale, i fondi non investano in alcune
imprese che inquinano l’ambiente o producano armi, basandosi su indicatori
oggettivi esterni come il Dow Jones Sustainability Index o lo Standar&Poor
Global Clean Energy. Il sistema delle imprese viene così incentivato a
considerare l’importanza di comportamenti responsabili o comunque a
comportarsi “come se” ci credesse. In questo modo la solidarietà, nella forma di
responsabilità sociale dell’impresa, diventa una condizione per il successo sul
mercato e la realizzazione di maggiori profitti. Un’alternativa è, come sopra
accennato, quella di mantenere il criterio dell’efficienza, più propriamente
identificato come assenza di spreco, ma avendo come motivo, non il profitto, ma
la realizzazione di obiettivi sociali specificatamente formulati da grandi e piccoli
donatori: ad esempio investimenti in educazione in aree arretrate. E’ questo ciò
che avviene nel mondo delle imprese sociali e delle organizzazioni non
governative (ONG).
2. “Meglio essere in due che uno solo”1: la “solidarietà naturale”
La solidarietà come valore, in grado di riempire il vuoto che il meccanismo di
mercato non può riempire, è ben riassunto da questa biblica massima
sapienziale. Sul piano economico possiamo generalizzare questa massima e
affermare che, se una crisi economica viene affrontata stando collettivamente
insieme, riconoscendo in essa non un evento naturale ma la rottura delle maglie
che conservano forte e solidale la rete di relazioni economiche e sociali, questa è
anche l’indicazione sul come uscirne, cioè riparando e ricostruendo le relazioni
mancanti. La famiglia, nella sua evoluzione storica, è la forma fondamentale di
Secondo il Qoèlet (4; 9-10) “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior
compenso nella fatica. Infatti se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo:
se cade non ha nessuno che lo rialzi.”
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unione, la cui stabilità nel tempo si fonda sulla condivisione di comuni standard
di valori e per questo esprime la più elementare forma di scelta sociale:2 la
condivisione di valori comuni da un lato preserva le identità individuali e
dall’altra fonda la possibilità di scelte razionali a livello sociale, oltre che
individuale. Infine, la condivisione di valori comuni congiunta a un solido legame
di affetti è la base di una “solidarietà naturale” nella coppia, che si estende in
modo altrettanto naturale ai figli. Quando esistano queste condizioni appare del
tutto legittimo parlare di libertà della famiglia come libertà degli individui che la
formano, e quindi anche di decisioni della famiglia che sono l’esito di un accordo
naturale e deliberativo della coppia. La “democrazia” all’interno della famiglia e
della coppia si fonda perciò su un’effettiva uguaglianza dei coniugi e, così come
accade per le democrazie moderne, anche nella famiglia i problemi sorgono
quando questo principio di uguaglianza nelle decisioni si deteriora, e la crisi di
una famiglia diventa la conseguenza di una sopravvenuta impossibilità e
incapacità di decidere insieme. Per questi motivi la crisi della famiglia è un
problema privato e sociale, più che un’evoluzione naturale. Sul piano economico
una famiglia di “eguali” sceglie perciò in modo congiunto l’offerta di lavoro della
famiglia da parte di entrambi, in vista di un reddito atteso a cui corrispondono
altrettanti bisogni comuni di consumo e risparmio. Se consideriamo una coppia
familiare contemporanea che viva in una grande area urbana, due redditi da
lavoro sono ormai indispensabili per condurre una vita normale, specialmente
se vi sono dei figli. Se uno dei due redditi viene a mancare, perché uno dei due ha
perduto il lavoro a causa della crisi, gli effetti sulla vita familiare possono essere
molteplici. Chi ha perso il lavoro si attiverà per integrare comunque una parte
del reddito mancante e così forse si comporterà anche l’altro coniuge, con una
riorganizzazione della vita familiare. Se lo sforzo ha successo, attingendo a
risparmi o riducendo i consumi eliminabili con un ridotto sacrificio, la famiglia
può forse attraversare la crisi senza grossi danni. La situazione si complica se in
famiglia entra un solo reddito da lavoro, perché ad esempio l’altro coniuge è
impegnato nella cura dei figli e/o di genitori non autosufficienti. In questo caso
ciò che avviene è che l’altro coniuge si attiverà per compensare la diminuzione
di reddito, entrando sul mercato del lavoro in cerca di un’occupazione regolare o
anche irregolare, nell’ambito dell’economia sommersa. E’ tuttavia possibile che
lo sforzo raggiunga solo parzialmente il risultato, come gli elevati tassi di
disoccupazione fra i giovani e al Sud confermano. La conseguenza è che in Italia
la mancanza di opportunità di occupazione, a tempo pieno o parziale, per
entrambi i componenti della famiglia è una delle principali cause di
disuguaglianza economica, tanto più grave in quanto il reddito familiare medio è
più basso laddove la disuguaglianza dei redditi è più alta. Al tempo della Grande
Recessione nemmeno la massima biblica è abbastanza, nel senso che il
Kenneth Arrow (1951,1963) “Social Choice and Individual Values”, Cowles Foundation for
Research in Economics at Yale University, p. 9
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tradizionale ruolo di ammortizzare sociale assegnato alla famiglia, altresì
considerato come esempio primario di sussidiarietà, non può più essere dato
per scontato, con il rischio che maggiori difficoltà economiche deteriorino i
rapporti affettivi, con conseguenze spesso negative sui figli nel caso di
separazione o divorzi.3 La famiglia in Italia, come istituzione sociale rilevante sul
piano economico, è ora in difficoltà: il motivo principale è che il tasso medio di
risparmio delle famiglie italiane nel giro di vent’anni è precipitato da un quarto
del reddito disponibile all’inizio degli anni ’90 a meno del dieci percento negli
anni recenti, riducendo la possibilità di mantenere nel tempo il tenore di vita
grazie alla disponibilità di un cuscinetto di risparmi. A ciò si deve aggiungere che
per una significativa quota di famiglie il reddito non è nemmeno sufficiente a
coprire i consumi non durevoli, come i beni alimentari, e il risparmio è di
conseguenza negativo, il che significa indebitamento o qualche forma di
trasferimento di reddito fra famiglie. Al tempo della Grande Recessione la
massima biblica dovrebbe essere perciò aggiornata con una meno profonda ed
evocativa del tipo “è meglio essere in tre piuttosto che in due, se uno o entrambi
sono disoccupati”. In realtà la massima originaria rimane intatta, se appena si
considera che il terzo non può che essere un soggetto della sfera pubblica, dallo
Stato agli enti locali, con il compito di realizzare nel concreto, attraverso un’
efficiente redistribuzione del reddito, la solidarietà economica all’interno della
comunità nazionale. La redistribuzione di reddito deve tuttavia essere
subordinata a una politica di riduzione della disoccupazione e di aumento
dell’occupazione, perché – come abbiamo argomentato sopra – da ciò dipende
una minore disuguaglianza ed un aumento del reddito medio familiare. Per
riprendere pienamente la massima biblica “chi è economicamente più forte aiuta
chi cade a rialzarsi e riprendere il suo cammino”.
3. I bisogni degli “altri”: è possibile la “solidarietà della ragione” ?
Il nodo centrale di ciò che chiamiamo “solidarietà della ragione” è più
agevolmente comprensibile se si riconosce che le scelte umane sono fallibili, il
singolo individuo può razionalmente commettere un errore, ma anche le
comunità possono sbagliare. Le scelte razionali sono fallibili, perché
interpretiamo la realtà sulla base delle nostre convinzioni, i nostri pre-giudizi.
Per un giudice l’errore da evitare è quello di condannare un innocente, e
analogamente uno Stato, e i suoi livelli intermedi, si devono costantemente
domandare quale sia l’errore da evitare o minimizzare quando si valutano i
bisogni degli “altri”, se cioè sia più grave negare risorse a un bisognoso vero,
oppure concedere risorse a un bisognoso falso. La “solidarietà della ragione”
riconosce la fallibilità dei criteri di valutazione sui bisogni degli “altri” lontani,
Su questi temi esiste una ampia letteratura: ad esempio G. V. Caprara e D. Cervone
“Personality, Determinants, Dynamics, and Potentials”, Cambridge University Press (2000), tr.
it. “Personalità, determinanti, dinamiche, potenzialità”, Raffaello Cortina Editore (2003), p.265
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ma si pone altresì l’obiettivo di minimizzare lo spreco di risorse che un errore
comporta. Una “solidarietà della ragione”, in cui lo Stato sia il soggetto di una
intermediazione sussidiaria attraverso il sistema fiscale, è tuttavia problematica,
anche nel caso di trasferimenti che abbiano come obiettivo quello di favorire
l’uscita dalla crisi, nell’interesse di tutti. Infatti l’obiezione che emerge più di
frequente è che l’integrazione di reddito legata alla mancanza di occupazione sia
un errore perché in realtà disincentiva il disoccupato dal cercare un lavoro o
accettarne uno diverso, ma con un salario più basso, ritardando la ripresa,
anziché favorirla. Questa obiezione, che ha comunque il limite di trascurare il
ruolo del lavoro in sé nel definire l’identità delle persone, è ancora più forte
quando si considerino trasferimenti monetari che sono esclusivamente legati
alla sfera dei bisogni, come nel caso dei minori o di invalidità. E’ maggiore il
rischio che qualcuno si avvantaggi di trasferimenti monetari, senza avere in
realtà un bisogno, con ciò privando indirettamente di risorse qualcun altro che
invece il bisogno lo ha realmente. In molti paesi questo problema è stato
affrontato in modo duplice: da un lato aumentando i controlli sui criteri
reddituali e personali richiesti per accedere ai trasferimenti (come in Italia
avviene con l’ISEE), dall’altro trasformando le erogazioni monetarie in
trasferimenti in natura, come accade per i programmi di assistenza alimentare
negli Stati Uniti. Anche in questo caso, tuttavia, in Italia si richiede una
compartecipazione del beneficiario, in forma esplicita – come nel caso del ticket
per la sanità – o implicita, come avviene nel mondo dell’istruzione. In forme
diverse, in modo implicito o esplicito, in tutti paesi è ben presente la
consapevolezza che il meccanismo di mercato è silente di fronte alle ragioni dei
bisogni, e che quindi la solidarietà è una necessità, ancora prima che una scelta:
ma al tempo stesso appare chiaro che esiste una differenza di prossimità fisica e
affettiva fra i bisogni all’interno della propria famiglia e i bisogni degli “altri”.
Anche nel caso dei bambini, che pure suscitano più facilmente sentimenti di
altruismo e solidarietà, si tratta di pur sempre di figli degli “altri”, creature
innocenti che tuttavia vivono l’atmosfera familiare dei loro genitori:
l’importanza di bambini e ragazzi non può essere però trascurata, perché essi
rappresentano il futuro prossimo, già fisicamente presente, di ogni società. Il 27
percento della popolazione mondiale nel 2010 aveva un’età inferiore ai 15 anni
(14 percento in Italia), cioè bambini e ragazzi che non lavorano, o non
dovrebbero lavorare, e quindi consumano risorse di mercato senza alcun
“merito”, godendo se mai della “fortuna” di essere nati nel posto “giusto”. La
quantità e qualità delle risorse di cui dispongono dipende dalle decisioni dei
genitori, ma anche dalla dimensione familiare, perché avere figli comporta un
rischio crescente di difficoltà economica: nei paesi europei il rischio di difficoltà
economica delle famiglie con figli aumenta all’aumentare del numero di figli e
l’Italia è il paese nel quale è maggiore la progressione delle difficoltà economiche
in presenza di figli. Nel caso di “single” con figli la percentuale di nuclei in
difficoltà economica sale ai livelli più elevati. La tipologia familiare
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economicamente meno rischiosa è – in Italia - quella di due adulti senza figli, in
cui entrambi lavorano a tempo pieno o uno a tempo pieno e l’altro a tempo
parziale: l’elevata e crescente rischiosità relativa delle famiglie con figli è perciò
coerente con la forte diminuzione della natalità in Italia. Fino al 1995 la gestione
dei trattamenti INPS per famiglia e maternità registrava un rilevante avanzo,
pari a 9,3 miliardi di euro all’anno (a prezzi 2013), il che avrebbe oggi consentito
un’integrazione universale di reddito a tutte le famiglie con minori di età
inferiore ai 10 anni pari a 1.700 euro l’anno. Dal 1996 in poi queste risorse sono
state invece utilizzate per una sostanziale diminuzione delle aliquote INPS per
famiglia e maternità (legge n. 335 dell’8 agosto 1995): è stata un’occasione
mancata di “solidarietà della ragione” che ha accentuato le negative conseguenze
economiche della caduta della natalità, che a sua volta è influenzata, sul piano
economico, dall’aumento del tasso di disoccupazione giovanile e quindi delle
opportunità di creare una famiglia.4 E’ evidente che la penalizzazione dei redditi
delle famiglie con figli non sarebbe avvenuta se i bisogni dei minori non fossero
stati considerati bisogni di “altri”, ma piuttosto, con più lungimiranza, quelli di
una generazione che, se aveva 5 anni nel 1995, ha nel frattempo compiuto 24
anni nel 2014, rientrando per una parte nella nuova schiera di giovani senza
lavoro, e per una quota rilevante anche in quella dei giovani senza un’adeguata
qualificazione. Come molti studi psicologici hanno ormai dimostrato le risorse
destinate a soddisfare i bisogni dei bambini nella loro iniziale fase formativa –
dalla nascita fino a 10 anni - hanno la fondamentale caratteristica di essere una
forma di investimento umano irreversibile, perché l’apprendimento da bambini
e ragazzi influisce in modo permanente sulla vita adulta, in particolare per
quanto riguarda i valori di riferimento - come l’onestà e la solidarietà – e i tratti
centrali del carattere e della personalità, come la creatività, la tenacia, la
coscienziosità, la fiducia di sé, la socievolezza, l’altruismo. La famiglia ha quindi
un ruolo fondamentale e primario nel processo di formazione dei giovani, a cui
si affianca quello degli insegnanti delle scuole materne e della scuola
elementare. Se quelle risorse fossero state investite nelle generazioni nate dal
1990 in poi, oggi avremmo una generazione di giovani più qualificati e
probabilmente più numerosa, un paese più vitale, creativo e dinamico.
4. Solidarietà fra generazioni ed eredità
Se la ricchezza di un individuo fosse esclusivamente la somma dei risparmi
accumulati, senza alcuna forma di altruismo sul futuro dei figli, egli
terminerebbe il suo ciclo di vita con una ricchezza attesa nulla: in realtà, la
ricchezza ricevuta dalle precedenti generazioni, attraverso l’istituzione
dell’eredità, ha un peso rilevante sulla ricchezza delle famiglie, in particolare per
le generazioni più recenti. Appare altresì evidente che il lavoro dipendente,
“Il cambiamento demografico” (2011), a cura del Comitato per il progetto culturale della
Conferenza Episcopale Italiana, p. 135-160
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remunerato ai valori medi correnti, non consente di accumulare grandi
ricchezze ma, al più, piccoli patrimoni costituiti dall’abitazione e un limitato
valore di attività finanziarie. I grandi patrimoni sono di regola il risultato di un
processo di accumulazione del capitale che affonda le sue radici nel passato o in
posizioni di monopolio, mentre le grandi ricchezze accumulate nell’arco di una
vita sono spesso legate all’innovazione che produce benefici sociali diffusi. Per
questi motivi – i grandi patrimoni non sono numerosi ma incidono molto sulla
ricchezza totale - la misurazione statistica della trasmissione ereditaria della
ricchezza fra generazioni non è semplice, ma numerose evidenze empiriche –
oltre che l’osservazione casuale – suggeriscono che l’eredità abbia invece un
ruolo determinante nel determinare il grado di mobilità sociale, la distribuzione
della ricchezza e del potere in ogni società. L’eredità, cioè la trasmissione di
ricchezza da genitori a figli, è un’istituzione con profonde implicazioni familiari,
sociali ed economiche; l’eredità patrimoniale si intreccia in modo indissolubile
con l’eredità dei valori e degli affetti e rappresenta da secoli una prova rivelata
della solidarietà familiare,5 tanto più solida quanto gli affetti vicini e l’empatia
umana per gli “altri” sono divisi dagli interessi economici. Nella vicenda umana
di Papà Goriot, il celebre romanzo di Balzac, le due sfere invece si intrecciano,
come a volte tuttora accade, lasciando ferite difficili da rimarginare fra fratelli,
sorelle, genitori e parenti: quando poi entrano in gioco grandi patrimoni e
imprese, può accadere che l’eredità materiale sia contesa dai parenti, con
ricadute negative sulla proprietà delle imprese e l’occupazione di chi ci lavora.
All’opposto, tuttavia, il caso in cui il proprietario di un grande patrimonio ne
decida, in tutto o in parte, la donazione, nominando così “erede” della propria
fortuna la collettività, o una particolare istituzione, non è una situazione
puramente teorica. L’iniziativa “La promessa di donare” (The Giving Pledge),
promossa da Warren Buffett e Bill Gates nel 2010 si propone esattamente
questo, rivolgendosi ai miliardari americani ed esteri con la proposta di
destinare agli “altri” almeno metà del proprio patrimonio e dichiarando
pubblicamente tale promessa. Alla fine di luglio del 2014 l’iniziativa ha raccolto
l’adesione di 127 miliardari americani ed esteri, i quali hanno altresì dichiarato
pubblicamente, sul sito givingpledge.org, i motivi che li hanno spinti a
sottoscrivere questa promessa pubblica e in quale direzione socialmente utile
intendono impiegare la quota del loro patrimonio. Ad esempio, Warren Buffett,
scrive come la decisione di distribuire il 99% della sua ricchezza sia stata presa
Nel romanzo “Papà Goriot” di Balzac, pubblicato fra la fine del 1834 e il marzo del 1835 i
dilemmi dei rapporti familiari e del rapporto con la ricchezza sono tratteggiati in modo
esplicito e attuale, come lo sono le vicende umane senza età. Da un lato la madre di Eugène
Rastignac scrive al figlio: “Ho capito che cosa significa essere povera, quando ho desiderato la
ricchezza per darla a mio figlio”. Dall’altro Papà Goriot, ormai morente e abbandonato dalle
figlie si dibatte fra amore e amarezza: “Morire, mio buon Eugène, vuole dire non vederle più
…Ah! Ah! Se fossi ricco, se avessi conservato il mio patrimonio, se non glielo avessi dato,
sarebbero qui a riempirmi le guance di baci! … Il denaro procura tutto, perfino delle figlie.”
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d’accordo con sua moglie e i tre figli mentre Bill e Melinda Gates ricordano, nella
lettera di adesione, l’influenza dei valori trasmessi a entrambi dai rispettivi
genitori. Due temi sono ricorrenti nelle lettere di adesione: il primo è la
consapevolezza di essere stati fortunati e per questo motivo riconoscenti alla
collettività, oltre che ai genitori (Gates), o – con qualche umorismo - al tasso
d’interesse composto (Buffett). Il secondo tema ricorrente è il desiderio di
restituire una parte della propria fortuna a chi invece è stato sfortunato, alla
propria comunità o a cause sociali considerate meritevoli di essere sostenute
finanziariamente. In definitiva questo gruppo di miliardari avverte, più di altri, il
bisogno di dare un significato alla ricchezza accumulata, tenuto conto altresì che,
trattandosi di alcune delle famiglie più ricche al mondo, anche la metà o una
briciola di quella ricchezza lasciata in eredità è sufficiente per mantenere il
tenore di vita di figli e nipoti per generazioni a venire. Apparentemente il
bisogno di solidarietà percorre quindi strade inattese, non risolutive ma
comunque indicative di quanto migliore potrebbe essere la società se i vincitori
della gara economica alzassero lo sguardo sugli “altri”. Questa iniziativa ricorda,
se mai ve ne fosse bisogno, come una parte della borghesia italiana abbia
anch’essa promosso in passato progetti analoghi, ispirati dall’idea che senza
solidarietà sociale e partecipazione non v’è progresso. Si pensi all’iniziativa di
riqualificazione edilizia promossa dall’ingegner Eduardo Talamo a Roma, da cui
nacque la “Casa dei Bambini” affidata a Maria Montessori, oppure all’esperienza
imprenditoriale di Adriano Olivetti e la sua capacità di anticipare il futuro, nelle
relazioni sociali oltre che nei prodotti. Se introduciamo nel discorso economico
la trasmissione di ricchezza da una generazione all’altra, attraverso l’istituto
dell’eredità, la comunità di riferimento non è più la famiglia mononucleare: il
soggetto sociale di riferimento è più sfumato perché si tratta una famiglia di
famiglie, una catena generazionale legata da vincoli di parentela, che sul piano
legale è riconosciuta fino al 6° grado. Il legame più forte è naturalmente quello
fra genitori e figli, al punto che il codice civile regola non soltanto gli obblighi dei
genitori verso i figli, ma anche quelli dei figli adulti verso i genitori in condizioni
di bisogno (art. 433 e 441). L’effetto combinato dell’aumento della speranza di
vita e della diminuzione del numero medio di figli per famiglia verso l’idealtipo
di due genitori e un figlio, comporta conseguenze molto profonde nella società e
nell’economia, di non semplice individuazione (ad esempio nel caso di figli unici
la probabilità di estinzione del cognome tende a 1).6 E’ possibile che nel
processo di trasmissione di ricchezza fra generazioni la disuguaglianza
economica aumenti, perché i figli unici potrebbero ricevere in eredità il doppio
di quanto avrebbero ricevuto con un altro fratello o sorella presenti. E se poi un
figlio unico crea una famiglia con una donna i cui genitori detengono un’analoga
ricchezza, il potenziale aumento di disuguaglianza si accresce ulteriormente.
P. Rossi “Origine e distribuzione dei cognomi” (2008), Dipartimento di Fisica “E. Fermi”, Pisa,
mimeo, ottobre.
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All’opposto i figli unici che appartengono a famiglie senza ricchezza
riceverebbero molto poco o nulla, a meno che si sposino con una moglie o un
marito di ricchezza molto più elevata. L’aumento della speranza di vita, a sua
volta, diminuirà la ricchezza, perché una parte sarà venduta per fare fronte ai
costi dell’assistenza e delle cure per le malattie degenerative che accompagnano
l’aumento della speranza di vita, in particolare per le donne. Per la grande parte
delle famiglie, tuttavia, il finanziamento di queste cure, come il costo di una
badante o di una casa di riposo, può provenire quasi esclusivamente dal reddito
corrente e dai risparmi accumulati, creando con ciò difficili dilemmi di scelta. Il
costo di una badante, infatti, può essere stabilmente assorbito dal bilancio
familiare di un reddito medio solo rinunciando ad altre spese, costringendo in
un angolo senza uscita le implicite rinunce della famiglia e dei figli minori. Dalle
statistiche europee emerge che per le famiglie italiane la capacità di far fronte a
spese impreviste è fra la più basse, che tale capacità diminuisce ulteriormente
all’aumentare del numero di figli e ha registrato un’ulteriore sensibile
diminuzione nel corso della crisi economica. In conclusione, la solidarietà fra le
generazioni che vivono la stessa epoca rappresenta un nodo centrale ma
complesso nel processo di sviluppo di un paese, come appare evidente nel caso
del “problema” del debito pubblico. La questione del debito pubblico può essere
correttamente compresa ricordando anzitutto come a ogni debito corrisponde
un credito e quindi al debito pubblico corrispondono altrettante attività
finanziarie: appare quindi più completo e chiaro ragionare in termini di un
rapporto fra la ricchezza di creditori noti, che detengono oggi i titoli del debito
pubblico, e il debito pubblico di cui l’intera collettività è responsabile, ma del
quale è comunque ignoto chi, nel passato, abbia assunto obblighi per le
successive generazioni che formano l’attuale collettività,. La conseguenza è che
ignari debitori di oggi sono chiamati a rispondere di contratti stipulati nel
passato da contraenti ignoti o comunque non più responsabili: i debitori sono
rappresentati dalla collettività nazionale, che include i debitori e una parte dei
creditori, mentre i creditori sono chiaramente identificabili in persone fisiche o
giuridiche. Anche in questo caso l’istituto dell’eredità ha un ruolo rilevante: solo
le attività possono essere trasmesse alla generazione successiva attraverso un
formale atto ereditario, perché identificabili in persone fisiche o giuridiche. Non
altrettanto può avvenire per il debito pubblico. Chi ha ricevuto oggi in eredità un
credito nei confronti dello Stato, contratto nel passato, richiede quindi il suo
pagamento a una collettività che ha inconsapevolmente ricevuto l’eredità di un
debito da ignoti, senza possibilità legale di rifiutarlo. La regolazione di questa
rete di debiti e crediti nel tempo è quindi complessa, perché non esiste la
possibilità di compensare debiti con crediti e quindi non si conosce chi sono i
creditori netti e i debitori netti. La rete di debiti e crediti è teoricamente
governabile quando la regolazione dei rapporti avviene all’interno di una stessa
comunità, come in Giappone, perché la medesima comunità rappresenta una
teorica stanza di compensazione sotto il controllo del potere politico, ma diventa
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molto più complessa quando si tratti di debitori ignoti e creditori noti che
appartengono a paesi diversi ed epoche diverse. In questo caso una solidarietà
nazionale è necessaria ma non più sufficiente e diventa indispensabile una
forma di solidarietà internazionale, fondata su una forma di condivisa giustizia
sociale, nazionale e globale.