La pagina de L`espresso con il testo integrale degli articoli
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La pagina de L`espresso con il testo integrale degli articoli
CULTURA Abitiamo l'impossibile di Alessandra MammÌ Basta star ed edifici iconici. È tempo di osare e progettare le utopie. Le idee della Biennale dell'architettura Gli edifici sono la tomba dell'architettura. Anzi, forse l'architettura è morta, soffocata da monumenti di vetro e titanio, da troppe norme e regole, dal successo mediatico di torri iconiche, dai budget miliardari dei sopramobili per metropoli e dalla desolazione delle suburbie dilaganti. L'architettura è in agonia e Dubai è la sua cripta: un incrocio fra Albert Speer e Disney. Da domani, se si vuole sopravvivere, si deve voltare pagina. Perché la vera architettura è fatta di utopia e immaginazione. Cominciano a dirlo in molti, ma il portavoce si chiama Aaron Betsky. Lui, forte del suo curriculum di curatore, manager, storico e critico, sostiene che l'architettura non è il costruire, che la Biennale di Venezia non deve mettere in scena progetti e modellini e che, ora chiamato a dirigere questa 11ma edizione dal programmatico titolo 'Out There: Architecture Beyond Building', ci mostrerà dell'altro. Dal 14 settembre al 23 novembre, ci spiegherà con la forza delle immagini che architettura è un modo di pensare e parlare degli edifici, non metterli in piedi. È desiderio di costruire un altro mondo. È sognare spazi colmi di senso e sensualità. Con parole sue: "C'è bisogno di icone e di enigmi. Di esperimenti, di qualche schizzo, di qualche mappa che ci indichi come muoverci al di là della costruzione e costrizione degli edifici. Ci serve un'architettura che interroghi la realtà". Betsky non è un affabulatore fantastico, uomo di belle idee, grandi visioni e nulla concretezza. Ma soprattutto non è solo. Anche Ole Bouman, stimatissimo storico olandese, si muove sugli stessi avveniristici terreni. Anche lui disprezza la frenetica costruzione di edifici sempre più spettacolari, dalle forme improbabili, affermando con puritana severità che "negli ultimi decenni la scelta professionale si è ridotta a due alternative. Erogare passivamente agevolazioni o diventare il buffone di corte che di tanto in tanto ha il permesso di fare qualche stranezza. Forse è arrivato il momento di smetterla di progettare su richiesta del cliente e in funzione del suo budget. Forse è arrivato il momento di progettare architetture non richieste. Perché ai fini di una carriera importante e di una vita interessante non bisogna basarsi sulle motivazioni degli altri, ma sulle proprie". Insomma colleghi, smettetela di costruire. Tornate a progettare l'impossibile. Riprendetevi la vostra vocazione utopica. Perché, senza accorgervene, l'avete lasciata ad altri: ai film, all'arte, ai videoclip, persino ai giochi della Playstation. È ora di ripartire da qui. E da chi in questi incerti territori si sta già muovendo, sposando immaginazione e costruzione, utopia e concretezza. Prendiamo i Bow Wow, ospiti eccellenti dell 'Out of There'. Nati e cresciuti a Tokyo a forza di manga e tecnologia, nel 1992, usciti dal Tokyo Institute of Technology, Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima decidono di lavorare insieme. Fondano uno studio con un nome da Pokemon e un movimento che ha il suono di un cartone animato, la Pet Architecture. All'inizio è tutto un catalogare. Schedano i più piccoli negozi, gli improvvisati laboratori, ogni spazio di risulta della città. Per esempio: una bottega di biciclette lunga dieci metri e larga 40 centimetri, un'agenzia immobiliare cresciuta in uno spartitraffico, minimi baretti nati sotto una grondaia, fiorai triangolari, tavole calde di dieci metri quadri. E tutti gli interstizi, gli orli, i frammenti abbandonati nella convulsa crescita della loro metropoli. Progettano case dove altri non riescono a pensare neanche una stanza: costruendo ponti dove regna il vuoto, ricucendo le smagliature, risuscitando le dead zone. "Gli animali da compagnia sono piccoli, divertenti e affascinanti. La Pet Architecture ha le stesse caratteristiche di riuscire a vivere gli spazi marginali in modo informale, simpatico e attraente", predicano. Sono cose che scaldano il cuore di Betsky. Lui che ripete che la sua Biennale non è solo progetto utopico, ma "un modo di raccogliere e incoraggiare la sperimentazione, di offrire forme concrete per sentirci di nuovo a casa nel mondo". Quante ore, nella nostra vita nomade e compulsiva, passiamo nelle nostre case? Cosa veramente abitiamo? Quanta esperienza viviamo ogni giorno dello spazio reale e quanta di quello virtuale? Insomma, che cosa vuol dire oggi 'essere a casa nel mondo'? Il mondo per esempio di Penezic&Rogina, nato nella cultura modernista e post pop della Zagabria anni'70, cambia radicalmente quando i due architetti si rendono conto che "la digitalizzazione era possibile, e che lì c'era un deposito creativo di idee a cui poter attingere". Con enfasi moderna e linguaggio da avanguardia sovietica dichiarano nata la Quarta Età della Macchina, caratterizzata dalla "interconnettività, dall'interrelazione e dall'interfaccia". Si appropriano di nuovi materiali come la 'schiuma d'acciaio disarmabile e il vetro liquido sensibile'. Dicono che la civiltà dell'immagine sta lasciando il posto "a una cultura più sensibile audio-tattile e che l'architettura deve diventare un medium di trasmissione della realtà fenomenologica". Dicono e fanno: un'installazione per non vedenti alla Biennale del 2000, un Dry Garden a Zagabria. Soprattutto il loro edificio-manifesto che è il Generatore Multisensoriale a Saint Étienne: una struttura interattiva che offre al pubblico stimoli sonori, olfattivi e tattili, che loro definiscono "un ambiente elettronico con bit al posto dei mattoni, informazione al posto della malta e le interfacce al posto dei muri". Sarà un linguaggio enfatico da vecchia avanguardia, ma 'Out of there' non lo disdegna affatto. Piuttosto lo 1 di 2 ripropone offrendo a sperimentatori e archistar di redigere in un'apposita sezione 'Manifestos' d'intento dell''oltre il costruire' come si faceva al tempo dei futuristi. Qui però si accettano proclami anche in forma di video. E li stanno scrivendo (o girando) più o meno tutti, compresa Zaha Hadid o Massimiliano Fuksas (vedi scheda) che non dimenticano gli anni di giovinezza spesi in un'ideazione che non si trasformava in cantiere. I manifesti arrivano firmati dai più giovani in forma di video, anzi di art video. Il francese Philippe Rahm lo ha già pronto e messo in onda (vedi il sito di 'Abitare'). Fedele alla sua poetica fa omaggio fantastico alla forza della natura, qui tradotta in immagini termiche della corrente del Golfo come grande opera architettonica a cui si alternano disegni animati, leggeri e acquerellati di un paradiso terrestre, metafora di un mondo che è gioia dei sensi dove trionfano il clima, la gastronomia e i profumi. Lui del resto, con il suo faccino ispirato e spettinato, immagina edifici trasparenti e teorizza un''Architettura dell'Invisibile' che si compenetra nell'aria e la ripulisce dai disastri dell'inquinamento e dell'effetto serra. "Il futuro è curvo, non c'è futuro senza lo spazio curvo", gridano dalla Cina i M.A.D, gruppo che sposa la flessibilità come parola chiave del progetto e tutte le arti come componenti essenziali di un lavoro di gruppo fatto di ingegneri e giardinieri, artisti e informatici, strutturisti e consulenti accolti da ogni parte del mondo: Germania, Italia, Giappone e Stati Uniti. Ma il futuro può anche essere spaventoso rispondono i 'distopici', capitanati dall'architetto-artista R&SIE(N)+DS ovvero François Roche che disegna, in collaborazione con Toni Negri, poco rassicuranti paesaggi sociali a venire. E si preparano al peggio gli italiani di Avatar, se sentono il bisogno di inventare un edificio commestibile per sopravvivere in un ambiente naturale in declino. O l'inglese Lebbeus Woods, che cerca in un ultimo sforzo di ottimismo di disegnare case pronte a interagire con la forza devastante dei terremoti. Insomma, l'immaginazione torna al potere in questa Biennale d'inizio Millennio dove il guru Betsky predica che tutto è permesso, "il collage e l'assemblaggio, il riuso e la ricostruzione, l'effimero della forma e la proposizione del brutto, dell'informe di ciò che non è deciso né definito". Tutto è permesso, purché finalmente siano rotti o forzati i codici e i linguaggi. Come successe nel primo decennio dello scorso secolo, con le avanguardie, quando si cominciò così: con rabbia ed entusiasmo, illusione e ingenuità, mescolanza delle arti, gruppi un po' esaltati, dichiarazioni di morte ai chiari di luna e ai trionfi del passatismo. E infine: la stesura di un manifesto. n 2 di 2 l’Espresso 22 agosto 2008 Quella fantastica torre di Herouville di Massimiliano Fuksas Anch'io ho cominciato la mia carriera partendo dall'utopia, dal pensare l'impensabile. Si era all'inizio degli anni '60, e la mia generazione era ai primi anni dell'università. Alla cattedra di storia dell'architettura a Roma era stato chiamato Bruno Zevi. Zevi era riuscito a importare la letteratura architettonica anglosassone in un Paese allora estremamente conservatore. Così andai in pellegrinaggio in Gran Bretagna: mi sono invaghito di Archigram e dell'utopia ironica di Cedric Price. E poi sono arrivati i grandi sogni della città lineare: di collegare Roma a Firenze, Napoli a Bari, oppure di costruire la città dal nulla, come avveniva per Brasilia, Chandigarh e Dakka, dove Niemeyer, Le Corbusier e Kahn invadevano lo spazio dell'avanguardia. Il rapporto tra spazio e tempo incominciava a essere più chiaro: era l'accelerazione dei processi descritta da Paul Virilio. Pensare, progettare e costruire quasi in tempo reale, era il passaggio decisivo dall'utopia non realizzabile all'utopia realizzata. Non era solo il sogno normale di costruire il proprio immaginario, ma era qualcosa di diverso. La palestra di Paliano (uno dei miei progetti che cito per spiegare come l'architettura nasca dai sogni e dalle idee) raccontava un crollo potenziale in cui i piani slittavano uno sull'altro. L'edificio aveva la parete di fondo, interna, contrapposta a una specie di merletto che le pareti inclinate mostravano a sua volta alla valle. Era la stessa roccia, protetta da un vetro, che rifletteva il panorama alle sue spalle e dietro un altro piano: la natura. Poi ripresi a dipingere, su grandi superfici di plastica, raccontavo di città e immagini con masse di colore e tratti rapidissimi in cui sognavo l'impossibile. Venti minuti è il tempo massimo per un lavoro del genere. In quel periodo è nata l'opera a otto mani, con i miei amici Otto Steidle, oggi scomparso, William Alsop e Jean Nouvel, che fu la torre di Herouville. Un progetto che pensavamo potesse avvenire come un'esperienza dadaista dalla sovrapposizione di quattro differenti 'pezzi' di architettura, senza che nessuno conoscesse il lavoro dell'altro. Pensavamo si potesse fare davvero. Oggi rimane il modello nella collezione del centro Pompidou e qualche stralunato va in questa cittadina della Normandia, alla ricerca della tour d'Herouville. Fu una piccola isola della Grecia, quella in cui ho lavorato di più sull'utopia. Prendevo giornali vecchi, li preparavo con vernice, e poi li usavo come supporto per ogni idea. Oggetti che atterravano o progetti che non avevano la forza di gravità. Questi progetti onirici sono alla base della mia architettura. I nostri sogni stanno diventando realtà perché oggi, per la prima volta, tutto è divenuto possibile: il bello e l'orrido. Si costruisce un bruttissimo grattacielo di 800 metri a Dubai, ma si realizza anche, in pochi mesi, un'opera di 2 milioni di metri quadri di qualità. Ecco come l'utopia rimane punto di riferimento di noi ex giovani architetti artisti che si sono trovati a vivere, per caso, negli anni del grande cambiamento.