New Era Opened Medical Oncology Progress

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New Era Opened Medical Oncology Progress
New Era Opened
Medical Oncology Progress & Perspectives
NEO
M PP
Pubblicazione di informazione scientifica oncologica
a cura di
N° 7
Marzo 2015
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Direttore Responsabile: Giancarlo Martignoni
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Antonio Ghidini
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Stampato in Italia da Tecnograf s.r.l.
Edizione speciale fuori commercio riservata ai Sigg. Medici
In copertina GIOVANNI SEGANTINI - Mezzogiorno sulle Alpi, 1891 - St. Moritz, Museo Segantini
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
SOMMARIO
EDITORIALE: gli auguri per un anno “nuovo”.
Giancarlo Martignoni
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INTERVISTA a Francesco Perrone
La sperimentazione clinica dei medicinali in Italia –
13° Rapporto Nazionale 2014
a cura di Luciano Frontini
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TRATTAMENTO DEL TUMORE DEL PANCREAS ESOCRINO:
DALLA MEMORIA ALLE SPERANZE…
Trattamento chirurgico: cosa è cambiato
Claudio Bassi, Salvatore Paiella, Giuseppe Malleo, Giovanni Marchegiani,
Laura Maggino, Marco Ramera, Roberto Salvia
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Terapia adiuvante: dopo il 5-FU e la Gemcitabina
Caterina Vivaldi, Chiara Caparello, Lorenzo Fornaro, Gianna Musettini,
Giulia Pasquini, Monica Lencioni, Alfredo Falcone, Enrico Vasile
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Malattia localmente avanzata: i limiti della chemioterapia
e l’utilizzo della radioterapia
Marta Scorsetti, Tiziana Comiti, Nicola Personeni,
Lorenza Rimassa, Armando Santoro
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Malattia metastatica: 17 anni di progressi
Alessandro Bittoni, Kalliopi Andrikou, Chiara Pellei, Ilaria Fiordoliva,
Matteo Santoni, Andrea Lanese, Rossana Berardi, Stefano Cascinu
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Tumore del pancreas: nel labirinto del Minotauro
avendo perso il gomitolo di Arianna. Promesse e delusioni
delle terapie a bersaglio molecolare
Paola Bertocchi, Francesca Aroldi, Alberto Zaniboni
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Sintesi dei risultati e prospettive per il futuro
Cristina Tasca, Roberto Labianca
65
GISCAD NEWS
N° 7 MARZO 2015
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EDITORIALE:
gli auguri per un anno “nuovo”.
C‘è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: vi siete certamente
ricordati questi indimenticabili primi versi di una nota poesia….. colpiti
dall’immagine della copertina.
Ci sembra possano validamente rappresentare il contenuto di questo
numero.
Innanzitutto gli auguri per il nuovo anno: proseguire in quel
rinfrescamento di età, caro al nostro Presidente. Non solo un processo
di cosmesi, ma soprattutto una novità di idee e contenuti, che possa
contribuire a migliorare ulteriormente la già eccellente qualità delle
proposte degli studi clinici italiani, come rilevato da Francesco Perrone
nella sua disamina sul report di AIFA. Quindi non rottamazione, ma
rinnovamento di contenuti.
Di qui l’argomento scelto per questo numero: Trattamento del tumore
del pancreas esocrino: dalla memoria alle speranze, in cui sono stati
descritti gli studi di un passato più o meno recente, che hanno condotto
ad un presente con invero scarsi trionfalismi, ma con una base
sostanziosa per idee nuove e per coltivare nuove speranze.
Infine una ricorrenza importante: 25 anni di GISCAD “passo dopo
passo”.
Un lungo cammino da proseguire, condotto insieme con voi,
costruttivo per entrambi, che ha portato frutti, risultati e soprattutto
miglioramenti nel prendersi cura dei nostri pazienti.
Grazie della Vostra attenzione, della Vostra collaborazione e della Vostra
fiducia.
Giancarlo Martignoni
(per il Comitato di redazione)
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
2013 - 2014 NEO - MOPP
ringrazia
Francesca Adami, Enrico Aitini, Kalliopi Andrikou, Licia Baldi, Sandro
Barni, Francesca Battaglin, Rossana Berardi, Giordano Domenico Beretta,
Francesca Bergamo, Alessandro Bittoni, Corrado Boni, Maria Bonomi,
Renato Cannizzaro, Fiorella Carbonardi, Stefano Cascinu, Andrea Coinu,
Lorena Cozzi, Romano Danesi, Filippo de Braud, Paolo Delrio, Alfredo
Falcone, Roberto Fiocca, Luciano Frontini, Antonio Ghidini, Roberto
Labianca, Chiara Maria La Spina, Sara Lonardi, Evaristo Maiello,
Giancarlo Martignoni, Gianluca Masi, Francesca Morgese, Stefania
Mosconi, Azzurra Onofri, Gianfranco Pancera, Elena Panizza, Rodolfo
Passalacqua, Francesco Perrone, Fausto Petrelli, Silvia Rinaldi, Cristina
Ripa, Silvia Rota, Maria Grazia Sauta, Agnese Savini, Mario Scartozzi,
Alberto Sobrero, Michela Squadroni, Sergio Stinco, Cristina Tasca, Alberto
Zaniboni, Matteo Zimatore.
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LA SPERIMENTAZIONE CLINICA DEI
MEDICINALI IN ITALIA
13° Rapporto Nazionale 2014
Intervista a
Francesco
Perrone
Intervista raccolta da Luciano Frontini
Direttore
Unità
Sperimentazioni
Cliniche
I dati attinenti l’andamento della ricerca clinica in generale e di quella in oncologia in
particolare nel 2013, pubblicati da AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco)*, sembrano
meritevoli di alcune considerazioni e commenti.
Abbiamo chiesto all’amico Francesco Perrone, esperto di ricerca clinica e di conduzione di
studi clinici, il suo parere su alcune questioni, a nostro parere, rilevanti.
• Il numero delle sperimentazioni cliniche effettuate in Italia nel 2013 sono diminuite
e sono complessivamente in calo rispetto all’anno precedente (583 vs 697). Quali
potrebbero essere le ragioni?
Caro Luciano, credo che prima di tutto si debba condividere con i lettori di
MOPP una nota di cautela nella lettura di questo rapporto, piuttosto scarno
rispetto a quelli cui ci eravamo abituati. Come lo stesso Direttore dell’Agenzia
segnala nel testo di presentazione, il rapporto è stato redatto perdurando la
sospensione prima totale, poi parziale, delle attività dell’osservatorio nazionale
sulla Sperimentazione Clinica e questo comporta che alcune stime potrebbero
essere distorte dalle difficoltà operative che i promotori di sperimentazione hanno
incontrato e continuano a incontrare in questo periodo.
Detto questo, le 583 sperimentazioni registrate nel 2013 ci riportano indietro di
dieci anni, verso le 568 registrate nel 2003. In questo decennio c’è stato un
progressivo incremento, con il suo apice nel 2008 con 880 sperimentazioni, e poi
un progressivo decremento.
Il calo riguarda principalmente studi di fase 2 e fase 4, studi monocentrici (che
in proporzione sono praticamente dimezzati rispetto al quadriennio precedente
e rappresentano solo il 10% del totale) e studi indipendenti, di cui parliamo più
avanti. In realtà, se ci si riflette, si tratta di tipologie che sono tra di loro
ragionevolmente associate.
*www.agenziafarmaco.gov.it
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Il calo può avere molte spiegazioni e, come sai, da tempo penso che il problema non sia il numero
ma la qualità delle sperimentazioni che si fanno. Alcuni studi di fase 2 non particolarmente
innovativi e molti studi di fase 4 rappresentano a mio modo di vedere un po’ l’anello debole
della sperimentazione e se questi diminuiscono non sarà un gran male per la scienza e la
conoscenza.
Anzi mi domando se non ci fosse una inflazione negli anni precedenti, con un numero forse
troppo elevato.
Mi incuriosisce un dato a cui non avevo prestato attenzione in passato (in verità non ricordo se
fosse chiaramente riportato). Le 583 sperimentazioni approvate rappresentano il 93.6% di
quelle proposte. Infatti 40 studi sono stati “bocciati” o ritirati o interrotti. Mi sembra un
numero abbastanza piccolo e non so dire se sia il segnale di una eccellente qualità delle proposte
o di una scarsa criticità nel sistema valutativo.
• Le sperimentazioni cliniche in oncologia sono al primo posto e rappresentano il 35.0% del totale
delle sperimentazioni.
Per quali motivi?
Potrei risponderti come due anni fa: niente di nuovo sotto il cielo. Ed è vero, per la congiunzione
tra reale bisogno di progresso terapeutico e l’opportunità di sviluppo economico e business per
chi i farmaci antineoplastici li produce e li vende. Ma credo che valga la pena, quest’anno,
segnalare che gli ultimi tempi sono molto fertili in termini di novità terapeutiche per la cura
del cancro (pensa per esempio ai nuovi farmaci che “risvegliano” il sistema immunitario
attualmente oggetto di innumerevoli sperimentazioni) e questo mi fa pensare che la prima
posizione dell’oncologia resterà tale a lungo.
• Più in dettaglio si evidenzia un incremento, prevalentemente in campo onco-ematologico, della
sperimentazione di fase I, che si attesta per la prima volta al di sopra del 10% sul totale delle
sperimentazioni, con un netto aumento in termini di valore assoluto.
Che ne pensi?
Questo mi sembra un dato molto positivo, perché (come lo stesso Pani segnala) le sperimentazioni
in fase molto iniziale possono fungere da traino per la possibilità di partecipare agli studi di
fase 2 e fase 3 a fini regolatori. Mi piacerebbe sapere quali sono i centri coinvolti in questi studi,
perché temo che ci sia una notevole sproporzione tra il nord e il sud del Paese. Ma il rapporto
non ci fornisce lumi su questo tema, che, come sai, mi sta molto a cuore.
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• La ricerca cosiddetta no profit, ma che preferiamo chiamare indipendente, è invece in
controtendenza, in quanto evidenzia una flessione rispetto all’anno precedente, sia in termini assoluti
(139 vs 225) che in termini relativi rispetto a quella profit (23.8 % vs 32.3%)
Dove vanno ricercate le ragioni?
Questa è una vera debacle. Se confronti con il 2009 il crollo è verticale: 139 vs 318 studi no
profit ovvero 23.8% vs 41.8% sul totale dei due anni, rispettivamente. Pani ritiene che “questo
dato possa essere sottostimato anche per carenze/ritardi nell’inserimento di questa tipologia di
SC nelle Banche Dati.” Io posso sicuramente testimoniare che la chiusura dell’OsSC ha prodotto
enormi disagi per la mia struttura. Siamo stati costretti ad aumentare il numero di contrattisti
dedicati alle pratiche regolatorie che si erano notevolmente semplificate con l’osservatorio a
pieno regime. Ma la spiegazione, pur ragionevole, non risolve il problema né modifica il mio
pessimismo. Ho purtroppo la netta sensazione che la ricerca indipendente non stia più a cuore
a chi gestisce la politica sanitaria e del farmaco. Vorrei fosse chiaro che non ho in mente la
responsabilità di uno o di pochi, mi riferisco piuttosto a un sistema nel suo complesso. Da un
lato la rivoluzione iniziata da Nello Martini dieci anni fa è rimasta incompiuta (penso ad
esempio alla non utilizzabilità per fini registrativi o al fatto che ormai sono saltati i bandi AIFA
per la ricerca indipendente) e conseguentemente si è depotenziata. Dall’altro, almeno per la
quota di studi indipendenti che comunque hanno bisogno di una partnership con le industrie
(non fosse altro che per fornire il farmaco fuori indicazione), prevale da parte di queste ultime
una posizione di protezionismo. Trovi disponibilità, ma a patto che il disegno dello studio sia
così inoffensivo da non far correre il rischio di rimettere in discussione i risultati positivi trovati
nello studio regolatorio saldamente gestito dall’azienda. Se vuoi fare qualcosa di più devi
cercarti le cosiddette nicchie, dove casomai accettano una proposta perché questo è in un setting
che non fa parte dei piani aziendali di sviluppo. E nessuno dei due lati è bello.
• Quali altre considerazioni e commenti ritieni utile riportare?
Dieci anni fa molti di noi si sono spesi in prima persona, mettendoci la faccia, per ottenere in
Italia il riconoscimento del valore di quello in cui credevamo e che ci faceva piacere fare alla
luce del sole. Oggi ho la sensazione che molti di noi siano stanchi (a partire da me) e che non si
riesca ad avere interlocutori interessati, all’interno di un sistema che tutto giustifica con la crisi
economica globale. Eppure, proprio i problemi di sostenibilità in tempi di crisi richiederebbero
un grande sforzo di ricerca indipendente. Ma non vedo alcunché di glorioso all’orizzonte.
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Committed to improving
the lives of patients worldwide
www.celgene.com
Oncology
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Trattamento chirurgico: cosa é cambiato
Claudio Bassi, Salvatore Paiella, Giuseppe Malleo, Giovanni Marchegiani, Laura Maggino, Marco Ramera, Roberto Salvia
Dipartimento di Chirurgia e Oncologia – Istituto del Pancreas
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Introduzione
Se dovessimo essere telegrafici nel rispondere alla domanda postaci dal titolo del presente
lavoro dovremmo dire che nulla è cambiato rispetto alla “memoria” delle prime descrizioni
di resezioni chirurgiche condotte per carcinoma del pancreas!
I concetti di oncologia chirurgica, infatti, non sono molto diversi, oggi, da quelli che
animavano negli anni 30 pionieri quali il Dr. Allen Whipple [1]. Da allora la storia della
chirurgia del cancro del pancreas a intento radicale si è infatti fatta carico di estendere la
rimozione di tessuto sia retroperitoneale che delle stazioni linfonodali a distanza, fino a
proporre resezioni vascolari (anche routinarie) estese all’asse mesenterico-portale sia venoso
che arterioso; tutto questo però senza essere mai stata in grado di dimostrare un reale
beneficio per i pazienti, sia in termini di quantità che di qualità di vita [2-5].
Sempre per fare i conti con “la memoria storica”, elemento questo necessario per capire
come progettare il futuro, si deve prendere atto di come l’unico vero importante passo
avanti nella cura del cancro del pancreas chirurgicamente resecabile sia arrivato, nel recente
passato, grazie a trials clinici dove è stato possibile dimostrare come l’associazione tra
chirurgia radicale e chemioterapia adiuvante rappresenti la via maestra, oggi, per aumentare
significativamente la sopravvivenza a distanza rispetto alla chirurgia da sola [6-8].
Quanto si può desumere dai risultati di questi trials è innanzitutto il concetto, a nostro
avviso fondamentale, che il cancro del pancreas sia da considerare come una malattia
sistemica sin dal suo esordio e che, se ciò fosse vero, la terapia sistemica rappresenti l’unico
attendibile trattamento di base per la cura. L’esperienza oggi ci insegna che solo se la
malattia, indipendentemente dal suo stadio, è chemiosensibile può ragionevolmente
attendersi una dignitosa sopravvivenza. E’ altrettanto evidente, come la storia recente
insegna anche alle menti più “chirurgiche” che, se l’oncologia chirurgica è ferma, come
dicevamo, ai suoi albori, quella medica ha invece registrato indubbi passi avanti. L’era della
Gemcitabina, insieme agli antimetaboliti come il Fluorouracile [6] ha conosciuto un lungo
periodo di popolarità quale base di trattamento mai chiaramente rafforzato dalla
combinazione con altri farmaci (se non solo in parte con la Capecitabina) [9, 10] per poi
dovere lasciare il campo alla polichemioterapia a base di Folfirinox (Leucovorina,
Fluorouracile, Irinotecano, Oxaliplatino) [11] e al Nab-Paclitaxel [12] che hanno
significativamente aumentato quantità e qualità di vita dei pazienti con malattia avanzata
e metastatica, riservando inoltre una percentuale sempre più crescente di “downstaging” e
“downsizing” [13]. E’ sorprendente e confortante verificare come attualmente circa il 20%
delle resezioni pancreatiche effettuate nel nostro Istituto del Pancreas sono rappresentate
da pazienti che hanno percorso una via neo adiuvante a volte pianificata, ma spesso anche
sorprendentemente ottenuta sulla base di un trattamento inizialmente espletato a scopi
puramente palliativi.
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Al di là di queste luci di speranza accese nel presente e puntate al futuro, tutte le considerazioni preliminari
qui delineate disegnano una filosofia comportamentale che oggi non può che basarsi sulla convinzione
che solo la combinazione di diversi trattamenti e quindi la multidisciplinarietà ci possono far spostare
“dalla memoria alla speranza”: nessun singolo specialista può oggi essere così presuntuoso da credere di
poter curare, da solo, il cancro del pancreas!
In questo scenario allora quale deve essere il ruolo del chirurgo moderno?
Neoplasia Resecabile
A tutt’oggi il percorso di cura di fronte alla malattia resecabile considera quale best treatment la chirurgia
upfront. Per considerare, nel preoperatorio, come ragionevolmente resecabile una neoplasia di pertinenza
pancreatica (a parte i casi in IV stadio e quindi metastatici) bisogna innanzitutto definirne il concetto.
Potrà risultare strano ma, nonostante gli indubbi progressi tecnologici della diagnostica radiologica e della
sua capacità di risoluzione delle immagini, non esiste ad oggi una definizione internazionalmente accettata
di neoplasia localmente avanzata sino alla “non resecabilità” [14].
Nella nostra Istituzione definiamo "resecabile" una neoplasia che non coinvolga strutture arteriose
mesenteriche, epatiche e celiache; consideriamo invece come “borderline” quei tumori che coinvolgano
l’asse venoso mesenterico portale per 2 cm di estensione al massimo e fino a 180° rispetto alla circonferenza
vasale. Queste informazioni sono richieste alla diagnostica radiologica che nella stadiazione preoperatoria
dovrà quindi tentare di chiarire la presenza di:
- Segni d’invasione extrapancreatica nel tessuto adiposo peripancreatico
- Invasione degli organi adiacenti
- Occlusione, stenosi, encasement semicircolare dei vasi maggiori (tripode celiaco, arteria epatica, arteria
mesenterica superiore, vena porta e vena mesenterica superiore)
- Metastasi epatiche
- Carcinosi peritoneale
- Metastasi a distanza
La stadiazione preoperatoria si avvale sia dell’ecografia (in particolare di quella con contrasto) sia della TCaddome con mezzo di contrasto [15]. Quest’ultima ha un potere di risoluzione superiore anche alla RMN
e la sua panoramicità consente una valutazione più completa di tutti i parametri prima elencati. Per quanto
i risultati oggi ottenibili con le moderne apparecchiature siano validi, va precisato che l’accuratezza è
superiore nella definizione di non resecabilità (variabili dall'89% al 100%) che di resecabilità (variabili dal
45% al 79%).
La Ecoendoscopia (EUS) è complementare alla TAC nella stadiazione loco-regionale dei tumori pancreatici
ed in particolare nel definire la resecabilità chirurgica della malattia. L'accuratezza dell'EUS nei confronti
del parametro T è dell’80-95%, per il parametro N è del 65-80%.
In caso di sospetta lesione pancreatica non definibile alla TC, di imaging dubbio e/o di dati radiologicoclinici contrastanti, l’EUS appare indispensabile per individuare la lesione, tipizzarla morfologicamente,
stadiarla e allo stesso tempo, ove necessario, tipizzarla citologicamente mediante agoaspirato (Fine Needle
Aspiration - FNA); per converso, l'agoaspirato può essere utile per documentare l’assenza di malignità nei
casi in cui la probabilità pre-test di malignità sia bassa.
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I pazienti con neoplasie solide giudicate resecabili, dopo valutazione del rischio operatorio (secondo i
criteri ASA), sono candidati ad intervento chirurgico demolitivo ad intento radicale. Le eccezioni a questa
regola sono rappresentate dai pazienti arruolati in studi randomizzati controllati sul ruolo della
chemioradioterapia ad intento neoadiuvante e/o in caso di importanti comorbidità con esclusione del
parametro età anagrafica a favore dell’età biologica [16].
La laparoscopia diagnostica è indicata quando nonostante l’assenza di evidenti metastasi o invasioni
vascolari, vi siano valori elevati di Ca 19-9 in assenza di ittero o colestasi oppure per tumori corpo-coda
con dimensioni superiori a 4 cm [17].
Il problema vascolare
Abbiamo già prima rilevato come le resezioni vascolari dell’asse mesenterico sia venoso che arterioso non
migliorano, di per sé, la prognosi dei pazienti, se non in casi altamente selezionati.
Questa considerazione generale non esclude che, qualora durante l’esplorazione chirurgica si evidenziasse
un inatteso coinvolgimento dell’asse mesenterico portale in assenza di metastasi a distanza (confermata
dall’ecografia intra-operatoria), si debba realizzare la demolizione del tumore con la resezione vascolare
qualora tale procedura venga ritenuta in grado di raggiungere presumibilmente la radicalità oncologica
macroscopica. E’ bene ricordare che il “contatto" o l’"infiltrazione” vascolare non sono sempre l’espressione
di una aggressività biologica insita nella malattia, ma la logica conseguenza della sede anatomica della
neoplasia: tumori anche piccoli possono facilmente coinvolgere l’asse mesenterico portale per una mera
ragione anatomica quando prendono, ad esempio, origine dalla porzione più distale del processo uncinato.
Si deve inoltre tener conto del fatto che in una buona percentuale dei casi l’"invasione” non è su base
neoplastica ma desmoplastica, stante la nota abbondante componente fibrotica dell'adenocarcinoma duttale
del pancreas [18].
L’invasione dell’arteria mesenterica superiore rappresenta invece, a nostro avviso, un criterio di esclusione
dall’intento demolitivo anche qualora vi siano le competenze tecniche per una resezione arteriosa con
eventuale sostituzione protesica. La stessa infiltrazione del tripode celiaco, di per sé, non rappresenta una
controindicazione assoluta all’intervento demolitivo essendo possibile la demolizione in blocco del tripode
celiaco e del corpo-coda del pancreas, interventi questi ultimi che vanno comunque riservati a pazienti
accuratamente selezionati.
Anche la diffusione del tumore agli organi vicini non rappresenta una controindicazione assoluta all’atto
demolitivo qualora sia possibile raggiungere una radicalità oncologica macroscopica. Le resezioni
multiviscerali tuttavia espongono il paziente ad un maggior rischio di complicanze post-operatorie [19] e,
ribadiamo, vanno pertanto riservate a casi selezionati quali, ad esempio, pazienti sottoposti a terapia
neoadiuvante con evidente importante regressione di malattia.
Oltre all’aspetto “vascolare” un discorso a parte meritano due ulteriori elementi: il primo è relativo a “quali
e quanti linfonodi asportare”?; il secondo è relativo all’obbiettivo “margini di resezione puliti” o, in termini
più scientifici “R0”.
Il problema linfatico
Come tutte le neoplasie solide, anche il tumore esocrino del pancreas segue dei modelli Halstediani di
diffusione linfatica alle stazioni linfonodali regionali ed extra-regionali, per lo più in senso centrifugo,
coinvolgendo dapprima i linfonodi delle stazioni linfatiche peri-pancreatiche e dell’arteria mesenterica
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superiore e poi, a distanza, gli altri snodi linfonodali [20-22]. Tuttavia, a differenza che per altre neoplasie,
la radicalità oncologica in chirurgia del pancreas non prevede l’asportazione di tutte le stazioni linfatiche
potenzialmente coinvolte. Il concetto di linfadenectomia estesa è stato, infatti, abbandonato da tempo in
quanto non in grado di migliorare la prognosi, ma solo di peggiorare la qualità di vita dei pazienti [3, 23].
Oggi il concetto corrente è quello di linfadenectomia adeguata, con riferimento alla necessità di asportare
almeno 15-16 linfonodi per garantire una sensibilità > 95% della attendibilità dell’esame istologico sul
fattore N [24, 25]. Considerando la classificazione delle stazioni linfonodali della Japanese Pancreas Society,
durante l’intervento di duodenocefalopancreasectomia (DCP) nel nostro Istituto del Pancreas viene eseguita
di routine l’exeresi delle stazioni linfonodali 5 (pilorici superiori), 6 (pilorici inferiori), 8 (dell’arteria
epatica), 12 (del legamento epatoduodenale), 14 (del margine di destra dell’arteria mesenterica superiore)
e, recentemente, 16 (interaortocavali), in aggiunta alle stazioni 13 e 17 (pancreaticoduodenali posteriori
e anteriori) che vengono necessariamente asportate con il pezzo chirurgico. La positività dei linfonodi
interaortocavali è associata a una prognosi infausta, sovrapponibile a quella dei pazienti metastatici in IV
stadio e ciò dovrebbe, in caso di sospetto intraoperatorio, spingere alla valutazione istologica estemporanea
degli stessi [26].
Per i tumori del corpo-coda del pancreas sono asportate le stazioni 8, 18 (del margine inferiore del
pancreas), 11 (del margine superiore del pancreas) e 16, in aggiunta alla stazione 10 (dell’ilo splenico)
ovviamente inclusa nel pezzo chirurgico di una splenopancreasectomia distale.
In epoca di chirurgia mini-invasiva, va rilevato che anche gli interventi di resezione del pancreas per via
laparoscopica (sia DCP sia splenopancreasectomie distali) hanno riportato, sebbene con casistiche ridotte,
numeri accettabili di linfonodi asportati (tra 14 e 18) a dimostrazione che anche questo tipo di chirurgia
consente una buona stadiazione della malattia [27, 28].
Nell’ultimo decennio il concetto di Lymph-Node Ratio (LNR), inteso come il rapporto tra il numero di
linfonodi metastatici sul totale dei linfonodi asportati, ha assunto un ruolo centrale quale fattore
prognostico poiché capace di riflettere il reale atteggiamento biologico della malattia [25, 29, 30]. In
particolare, una positività del 20-30% dei linfonodi asportati (LNR > 0.2-0.3) corrisponderebbe ad una
maggiore aggressività della malattia. Ovvio, tuttavia, che questo parametro risente tanto del numero totale
di linfonodi asportati, quanto dell’accuratezza dell’esame istologico.
Il problema dei “margini di resezione”
Se, da un lato, l’exeresi delle stazioni linfonodali ha consentito al chirurgo di soddisfare l’atavica esigenza
di rimuovere ogni possibile sede di malattia tumorale nel contesto della classificazione delle neoplasie solide
secondo il TNM, dall’altro egli ha spesso provato un senso di frustrazione derivante dall’aver realizzato un
intervento “esteso”, ma alla fine “non oncologicamente radicale” in quanto non-R0.
Il parametro “R”, che possiamo identificare con la locuzione “residuo di malattia” a livello dei margini di
sezione chirurgica, è oggi raramente R2 (residuo macroscopico) in quando nella stragrande maggioranza
dei casi si ha il ragionevole sospetto preoperatorio della impossibilità di raggiungere la radicalità oncologica
dando quindi il via a percorsi di cura che escludano la chirurgia come “upfront treatment”.
Posto che, esclusi dalla chirurgia i casi destinati all’R2, l’ottenimento di un R0 resta l’obiettivo da
raggiungere, l’ombra di un intervento R1 aleggia inevitabilmente in ogni sala operatoria dedita alla
chirurgia oncologica del pancreas. Il problema interessa non tanto i margini intestinali, biliari e pancreatici,
ma in particolare il margine della lamina retroperitoneale, ossia di quel tessuto che partendo dal processo
uncinato (così definito perché “uncina” l’asse vascolare mesenterico) arriva a “perdersi” nel tessuto
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retroperitoneale che circonda l’Arteria Mesenterica Superiore. Ecco perché “pulire” quest’area è per il
chirurgo una doppia garanzia: fare tutto il possibile per ottenere un R0 asportando, contemporaneamente,
più linfonodi.
Ma quanto “pesa” veramente l’R1 in termini di prognosi? Non è facile rispondere a questa domanda e
questo perché secondo l’Unione Internazionale Contro il Cancro (UICC) si parla di R1 quando sono
presenti cellule neoplastiche in corrispondenza del margine di resezione mentre, secondo il British Royal
College of Pathologists, bisogna invece aver cura di analizzare la presenza di cellule neoplastiche tra 0 e 1
mm di distanza rispetto al margine di resezione del pancreas. La prima definizione è quella seguita
maggiormente dai patologi statunitensi, mentre quelli europei adottano principalmente la seconda. Questa
discordanza rende così eterogenei i risultati riportati in letteratura da rendere appunto impossibile una
risposta attendibile alla domanda di cui sopra. Alcuni studi, infatti, non riportano significative differenze
prognostiche tra R0 e R1 [31, 32] , mentre altri considerano il parametro R1 come uno dei fattori
prognostici più importanti in assoluto [33, 34]. E' importante notare che il tasso di resezioni R1 riportato
in letteratura varia dallo 0 all’80% e molte delle serie riportate avrebbero avuto presumibilmente tassi di
resezioni R1 ben maggiori se si fosse considerato il criterio britannico e non quello della UICC [35-37].
La sottostima del margine di resezione è poi con grande probabilità responsabile dell’elevato tasso (6086%) di recidive locali dopo interventi considerati R0 [38, 39].
I meticolosi metodi di analisi dei margini di resezione richiedono grande esperienza e notevoli sforzi da
parte dei patologi: anche quest’aspetto rileva la necessità che la chirurgia del pancreas sia effettuata in centri
ad alto volume con grande expertise multidisciplinare.
In conclusione il chirurgo pancreatico “moderno” non deve temere resezioni vascolari venose se condotte
con il ragionevole risultato atteso di una resezione R0 e deve estendere la sua linfoadenectomia al fine di
fornire al collega patologo quanto più materiale possibile per una corretta stadiazione patologica, in
particolare del ratio linfonodale.
Alcune stazioni linfonodali hanno un particolare significato prognostico sino a farci considerare i pazienti
coinvolti non più solamente N+ ma M+: riconoscere preoperatoriamente questo sottogruppo avrebbe una
grande importanza in termini di scelta strategica di cura. Questi infermi sono, infatti, destinati alla
comparsa di una recidiva in tempi brevi e meglio sarebbe per loro, probabilmente, intraprendere una via
neo-adiuvante.
La “pulizia” vascolare sull’asse mesenterico portale deve essere accurata e ampia sino ad estendersi alla zona
mediale dell’arteria mesenterica superiore e ciò sia per una attendibile stadiazione linfatica che per una
altrettanto attendibile e probabile resezione R0.
Offrire al collega Oncologo Medico un paziente quanto meglio “pulito” nel senso di “cancer-free as more
as possible” è oggi la meta del chirurgo. E' altrettanto ovvio come sia importante che il Collega medico
abbia tra le mani un paziente che è praticamente e rapidamente tornato ad una vita quanto più simile al
normale in termini di performance in generale e status nutrizionale.
A tal fine sono indirizzate le politiche chirurgiche di “early recovery after surgery” (ERAS) che il chirurgo
pancreatico deve perseguire anche rimuovendo dal suo vissuto non pochi “sacri dogmi chirurgici” basati
più sulla scaramanzia che sull’”evidence-based”! [40].
Terapia Adiuvante
Come già stressato, la terapia adiuvante è oggi mandatoria in un piano di cura dell’adenocarcinoma
pancreatico radicalmente operato. Recenti meta-analisi indicano che tale approccio riduce
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complessivamente il rischio di morte di circa il 25%, rispetto alla sola chirurgia. Più controversi, nonché
gravati da maggiori incertezze metodologiche derivanti dalla rapida evoluzione delle tecniche radioterapiche
nel corso degli ultimi 20 anni, sono i dati riguardanti il beneficio della radiochemioterapia adiuvante. Al
di fuori degli studi clinici, l’utilizzo di una chemioterapia adiuvante con 5-fluorouracile o gemcitabina in
monoterapia dovrebbe esser istituito anche oltre le “classiche” 6-8 settimane dall’intervento. L’ultimo dato
proveniente dall’ESPAC mostra, infatti, che l’efficacia dell’adiuvante è dimostrata anche quando iniziata
a tre mesi dall’atto chirurgico a condizione però che il ciclo sia completato per 6 mesi [41].
Approccio neoadiuvante al tumore resecabile o "borderline"
Al momento attuale, scarse evidenze cliniche supportano l’utilizzo di approcci chemioterapici e/o
chemioradioterapici neoadiuvanti nell’adenocarcinoma pancreatico resecabile o ‘borderline’ nella pratica
clinica corrente ed al di fuori di studi clinici controllati. I sostenitori di tale approccio ritengono che sia
utile sotto molteplici punti di vista. Attraverso la chemioterapia preoperatoria anche nei tumori resecabili
o nei "borderline", si potrebbe, infatti, tra gli altri aspetti, ridurre il tasso di positività del margine di
resezione del pancreas; ridurre il tasso di laparotomie esplorative "smascherando" grossolane lesioni
metastatiche epatiche; ridurre il rischio di fistola pancreatica post-operatoria; aumentare la sensibilità della
radioterapia post-operatoria [42]. Da un lato, tale approccio chemioterapico neoadiuvante avrebbe l'utile
funzione di "selezionare" i pazienti che trarrebbero beneficio da un intervento chirurgico demolitivo: una
progressione di malattia in corso di chemioterapia avrebbe inevitabilmente reso vano, e per certi aspetti
anche deleterio, vista la notevole depressione immunitaria indotta, un qualunque approccio chirurgico
demolitivo [43]. D'altro canto però, una neoplasia biologicamente aggressiva, come testimoniato dalla
progressione in corso di chemioterapia, talvolta beneficerebbe di un approccio chirurgico demolitivo
upfront, per modificare drasticamente la storia naturale della stessa. Di sicuro, i pochi dati disponibili in
letteratura non consentono di trarre conclusioni definitive. Dati provenienti da studi monoistituzionali di
fase I/II indicano la fattibilità di associazioni chemioradioterapiche includenti prevalentemente 5-FU o
Gemcitabina e suggeriscono che, in pazienti selezionati, tale approccio possa portare a una resecabilità
radicale alcuni pazienti inizialmente ritenuti ‘borderline’ [42, 44]. Tuttavia la mancanza di studi prospettici
randomizzati e la conseguente assenza di consenso sugli schemi ottimali di terapia da utilizzare, sempre in
evoluzione grazie alla ricerca farmacologico-clinica, spingono a considerare questo tipo di approccio ancora
sperimentale e suggeriscono che tali pazienti andrebbero trattati solo nell’ambito di studi clinici condotti
in centri di eccellenza. Ancora una volta questo controverso aspetto del trattamento del tumore del pancreas
rimanda al concetto importante di approccio multimodale alla malattia: un'eventuale terapia neoadiuvante
in una neoplasia resecabile, infatti, avrebbe ragione di essere somministrata in maniera personalizzata,
integrando le informazioni derivanti dai diversi genotipi di tumore del pancreas e la più o meno prevedibile
sensibilità della neoplasia ai vari regimi chemioterapici.
Neoplasia Non Resecabile
Quando alla stadiazione pre-operatoria non sono rispettati i criteri di resecabilità prima citati, la malattia
viene considerata localmente avanzata e non resecabile benché l’intervento possa, talvolta, essere
tecnicamente possibile, ma a nostro avviso eccessivamente esposto al rischio di ottenere un intervento
R1/R2, e quindi, clinicamente una ripresa precoce della malattia.
Tenendo anche conto del progressivo aumento di pazienti che oggi sperimentano un downstaging della
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malattia grazie alla polichemioterapia e al nab-paclitaxel noi ci sentiamo sempre più indotti ad un
atteggiamento prudente di fronte alle “grandi demolizioni”. Ci sembra più opportuno proporre al paziente
un trattamento oncologico medico preoperatorio che ha anche, indirettamente, la possibilità di selezionare
i pazienti con malattia non in rapida progressione che non beneficerebbero dell'intervento chirurgico.
Compito del clinico è risolvere gli eventuali sintomi ostruttivi presenti alla diagnosi. L’ittero va affrontato
in prima battuta per via endoscopica con il posizionamento di uno stent biliare in corso di
Colangiopancreatografia Retrograda Perendoscopica (ERCP) e, solo in caso di fallimento di questa
metodica, mediante approccio percutaneo transepatico (Percutaneous Transhepatic Biliary Drainage PTBD). L’eventuale occlusione digestiva alta può essere affrontata anche endoscopicamente, tuttavia più
spesso essendo concomitante all’ittero è indispensabile l’esecuzione di un duplice by-pass chirurgico, per
poi iniziare quanto prima la terapia medica oncologica specialistica. Qualora, dopo i cicli concordati, la
nuova rivalutazione radiologica e laboratoristica deponga per una risposta parziale o completa il chirurgo
deciderà assieme ai colleghi oncologi e radiologi un'eventuale laparotomia esplorativa.
In questi casi, il nostro prima citato atteggiamento di prudenza nei confronti delle “grandi demolizioni”
(con resezioni e sostituzioni vascolari, se necessarie) viene meno di fronte alla consapevolezza che stiamo
trattando una neoplasia che si è dimostrata chemiosensibile e che potrebbe associarsi ad una lunga
sopravvivenza grazie all'utilizzo dell’approccio di cura multimodale.
Tecniche Ablative
Negli ultimi anni le tecniche ablative del tumore del pancreas hanno suscitato interesse nella comunità
scientifica. La possibilità di trattare il tumore, anche in maniera percutanea, inducendo morte cellulare
per necrosi, inizia a diventare un'alternativa all'intervento chirurgico in quei pazienti con malattia
localmente avanzata che dimostrano una insufficiente risposta alle terapie mediche oncologiche, ma nei
quali la malattia presenta un profilo di crescita locale piuttosto che sistemico. Le tecniche maggiormente
impiegate sono la Radiofrequenza (RFA) e l'Elettroporazione Irreversibile (IRE), la prima prevede l'utilizzo
del calore, la seconda dell'applicazione di impulsi elettrici. In entrambi i casi il danno cellulare indotto è
irreversibile ed in grado di alterare il microambiente tumorale.
Nel 2007 il nostro gruppo ha iniziato ad eseguire la RFA e dal 2011 abbiamo anche sperimentato
l'applicazione dell'IRE [45, 46]. Diversi studi hanno dimostrato che sono entrambe tecnicamente
eseguibili e i tassi di complicanze post-procedura sono accettabili [47, 48]. Il principale razionale
dell'impiego di queste tecniche ablative è rappresentato, oltre che dalla citoriduzione indotta, dalla capacità
(maggiore per la RFA che per l'IRE) di indurre una stimolazione immunitaria anti-tumorale [49, 50].
Modelli per lo più animali, o clinici in ambito epatico hanno, infatti, dimostrato che la massiva morte
cellulare in seno al tumore ha come conseguenza sia il rilascio nel torrente ematico di antigeni tumorali
potentemente immunogenici che la produzione di chemochine, cellule presentanti l'antigene e altre
molecole coinvolte nell'immunità acquisita [51-54].
Va sottolineato, tuttavia, che la stragrande maggioranza delle pubblicazioni a disposizione su queste tecniche
ablative è rappresentata da studi retrospettivi o prospettici di fase I e per tale motivo i risultati oncologici
riportati sono da considerare con cautela [55-57]. Resta, per esempio, ancora da stabilire qual è il timing
più opportuno per l'impiego di queste metodiche, se upfront al momento della diagnosi o se dopo
opportuna terapia medica.
Qualora i risultati diretti sull'induzione di un'immunità adattativa anti-tumorale fossero dimostrati anche
in ambito pancreatico, allora l'impiego di tali tecniche potrebbe diffondersi ulteriormente, aprendo le
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porte a opportuni trials randomizzati controllati.
Dall'analisi dei dati derivanti dalla nostra esperienza possiamo affermare che sia la RFA sia l'IRE sono una
valida alternativa terapeutica nei pazienti affetti da adenocarcinoma del pancreas localmente avanzato nel
contesto di un approccio multimodale a questo stadio di malattia.
Nonostante i progressi dell'oncologia medica i risultati ottenuti con chemio e radioterapia restano
purtroppo frustranti.
Immunoterapia
Un cenno a parte merita l'immunoterapia. Nonostante i progressi dell'oncologia medica i risultati ottenuti
dalla chemio e dalla radioterapia restano piuttosto insoddisfacenti. Gli sforzi dei ricercatori si sono pertanto
riversati anche verso l'immunoterapia, che ha meccanismi d'azione letale diversi nei confronti delle cellule
tumorali. Anche per il tumore del pancreas è stato introdotto il concetto di "vaccino", intendendo con
questo termine la possibilità di somministrare un antigene tumorale specifico in grado di stimolare una
risposta immunitaria adattativa protettiva [58, 59]. L'immunoterapia prevede la somministrazione di
questi vaccini secondo diverse modalità [59]. Tra le numerose molecole al momento studiate in differenti
trials clinici, una menzione merita l'Algenpatucel-L, attualmente oggetto di studio di un trial di fase III.
Si tratta della combinazione di due linee cellulari di carcinoma del pancreas geneticamente modificate per
esprimere alcuni carboidrati di superficie che stimolano una risposta immunitaria anti-tumorale iperacuta.
Hardacre et al. hanno riportato tassi di Disease Free Survival ad un anno del 62% e di sopravvivenza ad
un anno dell'86%, impiegando tale molecola in modalità adiuvante insieme a 5-fluorouracile e gemcitabina
dopo interventi di resezione pancreatica R0/R1[60].
Futuro
Molto recentemente, come riportato nell’ultimo numero di Nature [61] il nostro gruppo ha contribuito
all'analisi dell’intero genoma di 100 adenocarcinomi duttali del pancreas. Si è così dimostrato come quello
che ritenevamo essere un unico tumore, sia invece costituito da almeno quattro tumori diversi con
differente distribuzione e frequenza dei ri-arrangiamenti strutturali cromosomali, rispettivamente “stabili”,
“sparsi”, “instabili” e “locali”.
Alcuni geni coinvolti erano già noti come fondamentali responsabili della carcinogenesi pancreatica (TP53,
SMAD4, CDKN2A, ARIDIA e ROBO2), questi, assieme a nuovi geni quali il KDM6A e il PREX2,
hanno disegnato quadri di comportamento biologico a diversa aggressività che rendono suggestivamente
ragione delle note evidenze cliniche di neoplasie, anche voluminose, che tendono però a svilupparsi
prevalentemente a livello locale e, d’altro canto, di neoplasie piccole che però metastatizzano tanto
massivamente quanto rapidamente, … È forse questo il futuro, allora?
Dovremo forse in un domani non così remoto biopsiare tutte le lesioni solide sospette, anche quelle
potenzialmente ben resecabili? Il profilo genetico “aggressivo” di un piccolo tumore non potrebbe suggerirci
una strategia neoadiuvante invece di un immediato, ma presumibilmente meno razionale ed efficace,
“assalto con la baionetta”? D’altro canto, l'atteggiamento meno aggressivo di una grossa lesione localmente
non resecabile non potrebbe stimolare ad una terapia ablativa come step upfront?
Noi pensiamo di sì, consapevoli della memoria storica e della razionalità scientifica di tali speranze!
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Terapia adiuvante: dopo il 5-FU e la Gemcitabina
Caterina Vivaldi, Chiara Caparello, Lorenzo Fornaro, Gianna Musettini, Giulia Pasquini, Monica Lencioni, Alfredo Falcone, Enrico Vasile
Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana - Pisa
Razionale e fattori prognostici
La chirurgia rappresenta l’unico trattamento potenzialmente curativo per il tumore del
pancreas esocrino. Solo il 15-20% dei pazienti sono candidati a resezione chirurgica con
intento curativo (1) e, anche dopo una chirurgia radicale, la maggior parte dei pazienti
ricade entro due anni (2), con una sopravvivenza stimata a 5 anni del 10-30% (Figura 1)
Figura 1: sopravvivenza a 5 anni di pazienti con adenocarcinoma del pancreas operati
(modificato da Sener SF et al. J Am Coll Surg 2015)
La sopravvivenza post-resezione è influenzata da alcuni fattori anatomo-patologici. In
particolare l’interessamento linfonodale è il fattore prognostico più noto, ma anche lo stadio
tumorale e il grado, l’invasione linfovascolare e perineurale e le dimensioni del T sono stati
associati ad un outcome infausto. L’interessamento microscopico del margine di resezione
è associato con un aumentato rischio di recidiva locoregionale mentre l’impatto sulla
sopravvivenza globale non è del tutto chiarito (3,4).
In considerazione dell’alto tasso di recidive dopo l’intervento chirurgico a scopo curativo,
molti studi hanno indagato il ruolo di un trattamento adiuvante a base di chemioterapia
in aggiunta o meno a radioterapia. Nella Tabella 1 sono riassunti i principali studi di fase
III di terapia adiuvante.
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Studio
Anno
n
Bracci di trattamento
OS (mesi)
p
GITSG
1985
1999
ESPAC-1
2004
CONKO-001
2007
RTOG 9704
2008
JSAP-02
2009
ESPAC 3
2010
CRT/5FU poi mantenimento con 5FU per 2 anni
Osservazione
CRT/5FU
Osservazione
CRT/5FU +/- 5FU/FA bolo per 6 cicli
No CRT
Gemcitabina per 6 cicli
Osservazione
Gem per 3 settimane, CRT/5FU, Gem per 3 mesi
5FU per 3 settimane, CRT/5FU, 5FU per 3 mesi
Gem per 3 cicli
Osservazione
5FU/FA per 6 cicli
Gem per 6 cicli
S-1 per 4 cicli
Gem per 6 cicli
Gemcitabina per 6 mesi + Sorafenib per 1 anno
Gemcitabina per 6 mesi
20.0
10.9
17.1
12.6
15.9
17.9
22.8
20.2
18.9
16.9
22.3
18.4
23.0
23.6
Non raggiunta
25.9
17.6
15.6
0.035
EORTC 40891
21
22
60
54
145
144
179
175
221
230
58
60
551
537
180
180
57
65
JASPAC 01
CONKO-006
(R1)
2013
(ASCO)
2014
(ESMO)
0.09
0.05
0.005
0.34
0.19
0.53
<0.0001
0.90
OS a 5
anni (%)
19
5
20
10
10
20
20.7
10.4
21
19
24
11
NR
NR
NR
NR
NR
NR
Tabella 1: principali studi di fase III di terapia adiuvante. OS= sopravvivenza mediana; NR= non riportato.
5-Fluorouracile
Alcuni studi randomizzati hanno valutato un trattamento chemio-radioterapico a base di 5-Fluorouracile (5FU)
nella malattia sottoposta a resezione con intento curativo.
Lo studio GITSG (Gastrointestinal Tumor Study Group) ha randomizzato 43 pazienti sottoposti a chirurgia
R0 a sola osservazione verso chemioradioterapia post-operatoria con trattamento split course con dose di 40 Gy
concomitante a 5FU bolo seguita da 5FU bolo per due anni (5). Lo studio, interrotto prematuramente, ha
dimostrato un vantaggio in sopravvivenza mediana che è stata di 10.9 mesi nel braccio di controllo e 20 mesi
nel braccio sperimentale (p=0.03). Sebbene sulla base del GITSG il trattamento radiochemioterapico adiuvante
sia diventato lo standard negli Stati Uniti, lo studio ha alcuni limiti oggettivi, tra cui la dimensione campionaria
ridotta per un protocollo di fase III e la tecnica radioterapica, con un trattamento split course (con una
interruzione di 2 settimane a metà trattamento), una dose totale di 40 Gy e il 5FU in bolo anziché in infusione
continua, che attualmente non sono considerati appropriati.
Successivamente l’EORTC ha condotto uno studio randomizzato di fase III di osservazione vs
chemioradioterapia adiuvante in 218 pazienti sottoposti a resezione chirurgica di adenocarcinoma ampollare e
pancreatico (114 pazienti per ciascun gruppo). Il trattamento sperimentale era costituito da radioterapia split
course (dose totale 40 Gy) in associazione a 5FU in infusione continua (6). Lo studio, anche ad un successivo
update rispetto alla prima pubblicazione, non ha dimostrato un vantaggio significativo in sopravvivenza globale
del trattamento chemioradioterapico rispetto alla sola osservazione (p=0.088) (7).
Nello studio ESPAC-1 289 pazienti sono stati randomizzati con un disegno fattoriale 2 x 2 a uno dei seguenti
trattamenti: chemioterapia adiuvante con 5-FU e acido folinico, chemioradioterapia secondo schema GITSG,
sequenza di chemioterapia e chemioradioterapia e sola osservazione (8). Lo studio ha dimostrato un vantaggio
in termini di sopravvivenza per i pazienti trattati con chemioterapia (sopravvivenza mediana di 20.1 mesi rispetto
a 15.5 mesi del controllo, p=0.009) (Figura 2B), mentre la chemioradioterapia secondo lo schema GITSG non
solo non ha aggiunto beneficio ma ha peggiorato l’outcome dei pazienti rispetto alla chemioterapia esclusiva
(sopravvivenza mediana di 15.9 mesi per chemioradioterapia e di 17.9 mesi nei pazienti non sottoposti a
chemioradioterapia, p=0.05) (Figura 2A). Dal punto di vista metodologico lo studio ha alcuni punti deboli:
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
23
oltre alle già citate criticità proprie dello schema di chemioradioterapia secondo lo studio GITSG, solo il 70%
dei pazienti candidati ha terminato il trattamento chemioradioterapico.
Figura 2: stima della sopravvivenza secondo Kaplan–Meier nei pazienti che hanno ricevuto o meno il trattamento
chemioradioterapico (A) o chemioterapico (B). (Modificato da Neoptolemos JP et al. NEJM 2004)
Gemcitabina
Dopo il 5FU, anche la gemcitabina è stata studiata in pazienti con tumore del pancreas operati.
Lo studio di fase III CONKO-001 ha valutato in 368 pazienti con adenocarcinoma duttale del pancreas
sottoposto a resezione il ruolo di un trattamento adiuvante con gemcitabina per 6 mesi rispetto alla sola
osservazione (9). Il trattamento adiuvante ha dimostrato un vantaggio statisticamente significativo per
quanto riguarda la sopravvivenza libera da malattia, endpoint primario dello studio, nei pazienti trattati
con chemioterapia adiuvante (sopravvivenza libera da malattia mediana di 13.4 vs 6.9 mesi dei pazienti
sottoposti a sola osservazione, p<0.001). Un recente update (10) ha confermato il vantaggio in termini di
sopravvivenza libera da malattia per la chemioterapia rispetto alla sola osservazione (hazard ratio [HR],
0.55 [95% CI, 0.44-0.69]; p < .001) ed ha evidenziato anche un vantaggio nella sopravvivenza globale
(HR, 0.76 [95% CI, 0.61-0.95]; p = 0.01) (Figura 3).
Figura 3: sopravvivenza libera da malattia (A) e globale (B) in pazienti sottoposti a chemioterapia adiuvante con gemcitabina o a
osservazione (Modificato da Oettle H et al. JAMA 2013)
N° 7 MARZO 2015
24
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Anche uno studio asiatico ha confrontato il trattamento adiuvante con gemcitabina per 3 mesi rispetto alla sola
osservazione in 119 pazienti sottoposti a resezione macroscopicamente curativa di adenocarcinoma duttale del
pancreas (11). I pazienti trattati con gemcitabina hanno mostrato una sopravvivenza libera da malattia
significativamente maggiore rispetto ai pazienti del braccio di controllo (sopravvivenza libera da malattia mediana
di 11.4 mesi con gemcitabina vs 5.0 mesi con sola chirurgia, HR, 0.60 [95% CI: 0.40–0.89]; p=0.01). Sebbene
ci fosse un vantaggio in sopravvivenza globale nei pazienti sottoposti a chemioterapia adiuvante, questo non
raggiungeva la significatività statistica (sopravvivenza globale mediana di 22.3 mesi con gemcitabina vs 18.4
mesi con sola chirurgia, HR, 0.77 [95% CI: 0.51–1.14]; p=0.19).
Gli studi ESPAC-1, CONKO-001 e JSAP-02 hanno pertanto dimostrato il vantaggio di un trattamento
chemioterapico adiuvante a base di 5-FU o gemcitabina rispetto alla sola osservazione.
I due regimi chemioterapici sono stati messi a confronto nello studio di fase III ESPAC-3, che ha randomizzato
1088 pazienti con tumore operato a ricevere un trattamento chemioterapico sistemico con 6 mesi di 5FU e
acido folinico versus gemcitabina (12). Il disegno iniziale dello studio prevedeva un terzo braccio di sola
osservazione, che è stato chiuso per i risultati positivi dei precedenti trials di chemioterapia adiuvante. All’analisi
definitiva non sono state evidenziate differenze in sopravvivenza globale tra i due bracci di trattamento (23 mesi
di sopravvivenza mediana nei pazienti trattati con 5FU e 23.6 mesi con gemcitabina, p=0.39) (Figura 4). Non
sono state evidenziate, inoltre, differenze significative in termini di sopravvivenza libera da malattia e qualità di
vita tra i due gruppi.
Figura 4: sopravvivenza globale e libera da progressione in pazienti sottoposti a chemioterapia adiuvante con 5FU o gemcitabina
(Modificato da Neoptolemos JP et al. JAMA 2010)
Un’analisi dello studio ESPAC-3 pubblicata recentemente (13) ha mostrato come non tanto l’inizio precoce,
quanto il completamento dei sei mesi di trattamento adiuvante rappresenti un fattore prognostico indipendente
in pazienti operati per adenocarcinoma del pancreas (HR, 0.516 [95% CI, 0.443-0.601]; p < 0.001). Nello
studio ESPAC-3, infatti, i pazienti con outcome migliore sono quelli che portano a termine i 6 cicli di
trattamento rispetto a coloro che non vi riescono (HR, 0.516 [95% CI, 0.443-0.601]; p< 0.001). Il tempo tra
l’inizio della chemioterapia e la chirurgia non ha influenzato la sopravvivenza globale (HR, 0.985 [95% CI,
0.956-1.015]; p=0.32); sembra che non ci siano differenze se il trattamento è iniziato entro 12 settimane,
consentendo così un tempo adeguato per il recupero post-operatorio.
Il confronto tra 5FU e gemcitabina è stato condotto anche nel trattamento adiuvante comprendente radioterapia.
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
25
Lo studio RTOG 9704 (14) ha valutato, dopo resezione chirurgica, un trattamento adiuvante con gemcitabina
o 5FU in infusione continua pre e post chemioradioterapia (in entrambi i bracci veniva utilizzato il 5FU come
radiosensibilizzante). Nello studio sono stati randomizzati 451 pazienti e, sebbene nel sottogruppo di pazienti
con carcinoma della testa del pancreas trattati con gemcitabina la sopravvivenza mediana fosse di 20.5 mesi
rispetto a 16.9 mesi del gruppo trattato con 5FU, non si è osservata nessuna differenza statisticamente significativa
in sopravvivenza globale tra i due gruppi di trattamento (p=0.09). I risultati sono stati confermati in un
aggiornamento dello studio a 5 anni (15).
All’ASCO 2013 sono stati presentati i risultati dello studio JASPAC-01, che aveva l’obiettivo di dimostrare la
non inferiorità della fluoropirimidina S-1 rispetto alla gemcitabina come trattamento adiuvante per pazienti
adenocarcinoma del pancreas resecato (16) . S-1 aveva già dimostrato nello studio GEST la non-inferiorità
rispetto alla gemcitabina nella malattia avanzata (17). Lo studio JASPAC-01 ha arruolato 385 pazienti e all’analisi
ad interim presentata all’ASCO 2013 la sopravvivenza globale a due anni è stata del 53% per il gruppo trattato
con gemcitabina e 70% per i pazienti trattati con S-1 (HR per S-1 rispetto a gemcitabina di 0.56 [95% CI,
0.42-0.74]; p<0.0001 per non-inferiorità, p<0.0001 per superiorità). In considerazione di questi risultati, associati
a un miglioramento del tasso di recidive e a una migliore tolleranza, gli autori concludono che la chemioterapia
adiuvante a base di S-1 è non inferiore e addirittura, superiore, rispetto alla gemcitabina e può rappresentare un
nuovo standard di trattamento nella popolazione asiatica ma successive analisi saranno necessarie prima di poter
traslare questi risultati anche per la popolazione caucasica.
Radiochemioterapia
Seppure il ruolo della radioterapia adiuvante dopo i risultati dello studio ESPAC-1 sia stato ridimensionato, lo
studio intergruppo di fase II EORTC-40013-22012/FFCD-9203/GERCOR (18) ha esplorato la fattibilità e
la tollerabilità di una chemioradioterapia moderna a base di gemcitabina dopo resezione R0 di tumori della
testa del pancreas. Novanta pazienti sono stati randomizzati a ricevere un trattamento con 4 cicli di gemcitabina
verso due cicli di gemcitabina seguiti da chemioterapia con gemcitabina con trattamento radioterapico
concomitante (dose totale 50.4 Gy). Il lavoro ha dimostrato che il trattamento chemioradioterapico con
gemcitabina è fattibile (il 73.3% dei pazienti ha completato il trattamento), e discretamente tollerato (4.7% di
tossicità di grado 4). La sopravvivenza libera da malattia è stata di 12 mesi nel braccio sperimentale e di 11 mesi
nel braccio di chemioterapia standard, la sopravvivenza globale mediana 24 mesi in entrambi i bracci e la % di
prima recidiva di malattia a livello locale minore nel braccio di chemioradioterapia (11% vs 24%).
Sebbene il trattamento sia risultato meritevole di ulteriore valutazione, attualmente l’utilizzo della
chemioradioterapia adiuvante in Europa rimane una questione aperta. Una recente metanalisi di 9 studi
randomizzati ha confrontato i vari trattamenti in termini di sopravvivenza e tossicità (19). Secondo la metanalisi
la chemioterapia con 5FU (HR 0.65) o gemcitabina (HR 0.59) migliora la sopravvivenza globale rispetto a sola
osservazione, mentre la chemioradioterapia è associata con una sopravvivenza peggiore rispetto alla chemioterapia,
sia per quanto riguarda 5FU (HR 1.69) che gemcitabina (HR 1.86). La chemioradioterapia concomitante con
la gemcitabina come farmaco radiosensibilizzante è risultata il trattamento peggiore in termini di tossicità,
soprattutto a livello ematologico (anche rispetto alla chemioradioterapia con 5FU).
Polichemioterapia
Alcuni studi hanno valutato la possibilità di utilizzare un regime polichemioterapico in fase adiuvante. Sulla
base di alcuni promettenti risultati in trials di fase II (20 , 21), è stata valutata l’efficacia di un trattamento di
chemio-radio-immunoterapia in uno studio di fase III (22). I pazienti sono stati randomizzati a un trattamento
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
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adiuvante con 5FU o con una associazione di 5FU, cisplatino e interferone alfa-2b con radioterapia concomitante
seguito da 2 cicli di chemioterapia con 5FU. Il regime di combinazione non ha mostrato vantaggi per quanto
riguarda la sopravvivenza globale rispetto alla monoterapia (sopravvivenza globale mediana di 32.1 mesi per
5FU vs 28.5 mesi per il braccio sperimentale, p=0.49). La terapia di combinazione è stata associata a una tossicità
molto maggiore rispetto alla monoterapia (85% vs 16% di tossicità di grado 3-4).
Uno studio di fase 2 ha randomizzato 100 pazienti operati in stadio I-III a ricevere un trattamento con
gemcitabina o PEFG (cisplatino, epirubicina, gemcitabina e 5FU) per 3 mesi seguiti da chemioradioterapia con
5FU concomitante. In termini di sopravvivenza libera da malattia (11.7 mesi con gemcitabina e 15.2 mesi con
PEFG) e sopravvivenza globale (24.8 mesi con gemcitabina e 28.9 mesi con PEFG) il trattamento
polichemioterapico è risultato fattibile e promettente anche se ha comportato maggiore tossicità
ematologica rispetto al trattamento standard. Per quanto riguarda le tossicità non ematologiche non si
sono rilevate differenze (23).
Al congresso ESMO 2014 sono stati presentati i risultati dello studio CONKO-006, che valutava nei pazienti
sottoposti a resezione R1 l’aggiunta di sorafenib (200 mg/die) per 1 anno alla chemioterapia adiuvante con
gemcitabina per 6 mesi (24). Lo studio, che ha arruolato 127 pazienti, ha avuto esito negativo in quanto
l’associazione di sorafenib e gemcitabina non ha migliorato rispetto alla monoterapia l’outcome né in termini
di sopravvivenza libera da malattia (mediana di 9.6 mesi vs 10.7 mesi rispettivamente, p=0.89) che di
sopravvivenza globale (mediana di 17.6 mesi vs 15.6 mesi rispettivamente, p=0.90).
Studi in corso e prospettive future
Sulla base dei risultati degli studi citati e degli studi condotti nella malattia avanzata attualmente sono in corso
diversi trials di fase III, riassunti nella Tabella 2.
Studio
CONKO-005
ESPAC-4
RTOG 0848
PRODIGE24/ACCORD 24
GIP-2
APACT
Bracci di trattamento
Gemcitabina vs Gemcitabina + Erlotinib
Gemcitabina vs Gemcitabina + Capecitabina
Gemcitabina +/- Erlotinib, a seguire +/- CRT
Gemcitabina vs mFOLFIRINOX
Gemcitabina vs FOLFOXIRI
Gemcitabina vs Nab-paclitaxel + Gemcitabina
Obiettivo
primario
DFS
OS
OS
DFS
OS/DFS
DFS
N. di registrazione
EudraCT 2007-003813-15
EudraCT 2007-004299-38
NCT01013649
NCT01526135
NCT02355119
NCT01964430
Tabella 2: principali studi di fase III in corso di terapia adiuvante
Lo studio CONKO-005 mette a confronto in pazienti sottoposti a resezione R0 un trattamento adiuvante con
gemcitabina in monoterapia e la combinazione di gemcitabina ed erlotinib, che nella malattia avanzata aveva
dimostrato un modesto, seppur statisticamente significativo, vantaggio (25). L’arruolamento dei 450 pazienti
previsti è stato terminato e restiamo in attesa dei risultati.
Nello studio ESPAC-4 viene valutata la combinazione di gemcitabina e capecitabina verso gemcitabina in
monoterapia in pazienti con tumore del pancreas o carcinoma periampollare. Lo studio ha attualmente arruolato
oltre il 60% dei 1396 pazienti previsti.
Per quanto riguarda il trattamento chemioradioterapico, attualmente è in corso lo studio RTOG 0848, che
prevede un trattamento con gemcitabina con o senza erlotinib per cinque mesi, al termine del quale i pazienti
non progrediti verranno assegnati a ricevere un ulteriore mese del trattamento già effettuato in aggiunta o meno
a chemioradioterapia in associazione a fluoropirimidine. L’obiettivo dello studio è quello di determinare se
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
27
l'aggiunta di erlotinib a gemcitabina determini un miglioramento della sopravvivenza e se un trattamento chemio
radioterapico dopo chemioterapia adiuvante possa aggiungere un beneficio in pazienti non progrediti. Lo studio
ha arruolato al momento oltre un terzo dei pazienti previsti.
Nella malattia avanzata negli ultimi anni la chemioterapia di combinazione ha fornito risultati promettenti. In
particolare, nello studio di fase III PRODIGE 4/ACCORD 11 lo schema FOLFIRINOX (5FU, Oxaliplatino
e Irinotecan) ha dato un vantaggio in sopravvivenza globale, in sopravvivenza libera da progressione e in risposte
obiettive rispetto alla gemcitabina (26). Sulla base di questi risultati è stato pianificato uno studio di fase III
multicentrico di terapia adiuvante, PRODIGE 24/ACCORD 24, in cui un trattamento di sei mesi con lo
schema FOLFIRINOX modificato è confrontato con gemcitabina. L’obiettivo primario dello studio è la
sopravvivenza libera da malattia a 3 anni. Lo studio, che prevede l’arruolamento di 490 pazienti, è attualmente
in corso.
Anche in ambito italiano è in corso uno studio multicentrico di fase III, GIP-2, di confronto tra FOLFOXIRI
e gemcitabina come trattamento adiuvante in pazienti con carcinoma del pancreas resecato. Il regime
FOLFOXIRI, che prevede la combinazione degli stessi 3 farmaci del FOLFIRINOX è stato sviluppato dal
GONO nei tumori del colon-retto ed è stato testato in due studi di fase III dimostrando di essere più attivo ed
efficace rispetto a una doppietta con FOLFIRI. Lo studio GIP-2 è condotto in collaborazione da GISCAD,
GOIM, GOIRC e GONO ed ha come obiettivi primari la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza
mediana. È previsto l’arruolamento di 310 pazienti in 3 anni, il primo paziente è stato randomizzato a Febbraio
2015.
I risultati positivi dello studio MPACT con nab-paclitaxel e gemcitabina nella malattia metastatica (27) sono
alla base della valutazione di tale combinazione nel setting adiuvante. APACT, studio multicentrico di fase III
randomizzato, prevede la randomizzazione a 6 mesi di trattamento con gemcitabina o gemcitabina e nabpaclitaxel di circa 800 pazienti ed ha come obiettivo primario la sopravvivenza libera da malattia.
Conclusioni
Attualmente la chirurgia rappresenta l’unica possibilità di cura per il carcinoma del pancreas ma è ormai sempre
più forte la convinzione che il tumore del pancreas debba essere considerato una malattia sistemica già dal
momento della diagnosi. Gli studi condotti negli ultimi 20 anni hanno stabilito che la chemioterapia adiuvante
aggiunge un beneficio in termini di ritardo della recidiva e sopravvivenza globale che, seppur limitato, è tangibile
e si mantiene nel tempo. Gli standard internazionali attuali prevedono un trattamento di sei mesi a base di
gemcitabina o 5FU. Negli ultimi anni sono stati sviluppati diversi regimi di terapia sistemica attivi che hanno
portato un vantaggio in sopravvivenza nella malattia avanzata, ma il valore aggiunto di regimi di combinazione
nel setting adiuvante attualmente è in fase di valutazione. La ricerca in questo ambito, oltre all’approfondimento
della biologia tumorale, rappresentano la base su cui possiamo fondare ulteriori progressi.
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N Engl J Med. 2011 May 12;364(19):1817-25.
27.
Increased survival in pancreatic cancer with nab-paclitaxel plus gemcitabine.
Von Hoff DD, Ervin T, Arena FP, et al.
N Engl J Med. 2013 Oct 31;369(18):1691-703.
31
Malattia localmente avanzata: i limiti della
chemioterapia e l’utilizzo della radioterapia
Marta Scorsetti¹, Tiziana Comito¹, Nicola Personeni², Lorenza Rimassa², Armando Santoro²
¹Radioterapia e Radiochirurgia, Humanitas Clinical and Research Center, Rozzano (Mi) – Italia
²Oncologia medica ed Ematologia, Humanitas Clinical and Research Center, Rozzano (Mi) – Italia
Vantaggi e limiti della chemioterapia e dell’associazione chemio-radioterapia
Gli attuali orientamenti prevedono che molti pazienti con malattia localmente avanzata non
resecabile (locally advanced pancreatic cancer, LAPC) possano beneficiare di una chemioterapia
esclusiva o di una chemioradioterapia (CRT). Il beneficio, peraltro, potrebbe essere ancora
maggiore nel caso di quelle neoplasie, sempre più spesso riscontrate, che si presentano con un
minor grado di coinvolgimento della vena mesenterica superiore o della vena porta. In questi
casi, il grado di coinvolgimento è tale da poter ancora consentire una resezione R0 nell’ambito
di una malattia di per sé da considerarsi borderline resecabile [1-2].
Non esiste attualmente uno standard terapeutico per il LAPC. Nonostante i dati relativi ai
pazienti affetti da LAPC spesso siano stati aggregati insieme ai dati dei pazienti con malattia
metastatica, esistono delle differenze nella biologia e negli outcomes che suggeriscono la necessità
di considerare in modo separato questi sottogruppi di pazienti [3]. Tuttavia, nei pazienti affetti
da LAPC, ruolo e sequenza da adottare, con riferimento a chemioterapia e radioterapia, devono
ancora essere definiti [4].
Diversi studi effettuati in questo ambito hanno valutato il beneficio di una chemioradioterapia
upfront.
In particolare, negli anni ’80, due studi hanno prodotto risultati discordanti. Infatti, uno studio
del Gastrointestinal Tumor Study Group (GTSG) suggeriva un beneficio con la
radiochemioterapia [5] con un incremento della sopravvivenza a un anno del 30% per i pazienti
con LAPC sottoposti a radiochemioterapia rispetto a sola radioterapia. Risultati che non trovano
conferma in un altro studio ECOG [6], dove tuttavia venivano arruolati pazienti anche con
neoplasia gastrica.
Due studi successivi, condotti con la gemcitabina, hanno posto ulteriori interrogativi rispetto
all’utilizzo della chemioradioterapia upfront. Lo studio cooperativo francese FFCD-SFRO [7]
suggeriva un effetto detrimentale dall’utilizzo sequenziale di chemioradioterapia e chemioterapia
(di mantenimento) in confronto ad una monochemioterapia con gemcitabina (8.6 vs 13.0 mesi;
log-rank stratificato P = .031). La gemcitabina da sola ha dimostrato un aumento del tasso di
sopravvivenza a 1 anno verso la terapia combinata (53% vs 32%; HR = .54, 0.31-0.96; P =
.006). Lo studio è stato interrotto all’interim analysis che ha dimostrato la superiorità del braccio
con sola gemcitabina. Il peggioramento della sopravvivenza è ascrivibile alla tossicità evidenziata
nel braccio di combinazione. Questa tossicità sembra essere imputabile alla dose impiegata per
la radioterapia (60 Gy), non standard, e chiaramente superiore rispetto alla tolleranza degli
organi peripancreatici.
Una recente metanalisi che ha incluso un totale di 1128 pazienti ha confermato a 6 mesi e a 12
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
mesi la superiorità della radiochemioterapia rispetto alla radioterapia esclusiva e alla sola chemioterapia, mentre
a 18 mesi i risultati sembrano sovrapponibili.[8]
Utilizzando una simile strategia, uno studio indipendente ECOG (E4201), invece, ha evidenziato un vantaggio
in sopravvivenza con la radiochemioterapia seguita da gemcitabina in confronto alla sola gemcitabina (11.0 vs
9.2 mesi, in favore dell’approccio multimodale; log-rank stratificato P = .034), malgrado un incremento delle
tossicità di grado 4 nel braccio con radiochemioterapia. Nello studio E4201, la gemcitabina veniva utilizzata a
basse dosi come farmaco radiosensibilizzante [9].
Vi è un crescente interesse nei confronti di una chemioradioterapia posticipata, piuttosto che upfront, nel
corso del trattamento dei pazienti affetti da LAPC. Viene generalmente adottata una strategia che prevede
inizialmente un periodo dai 3 a 6 mesi con sola chemioterapia di induzione, limitando pertanto l'uso successivo
della radioterapia a quel sottogruppo di pazienti in cui la neoplasia è stabile dopo terapia sistemica. Con questo
approccio, un sottogruppo di pazienti (che varia tra il 13% e il 39% dei pazienti con LAPC) non viene sottoposto
a radioterapia, in caso di riscontro di diffusione metastatica durante la stessa chemioterapia di induzione. Una
revisione pubblicata nel 2009 [10] ha osservato che, malgrado la superiorità della chemioradioterapia rispetto
alla sola chemioterapia sia ancora da dimostrare, l’utilizzo di una chemioterapia di induzione seguita da
chemioradioterapia rimane una strategia promettente.
Uno degli studi a supporto di un potenziale benefit circa l’utilizzo di chemioradioterapia posticipata consiste
nell’analisi retrospettiva condotta dal Groupe Cooperateur Multidisciplinaire en Oncologie (GERCOR) [11].
In questa analisi, gli autori hanno mostrato che i pazienti trattati con chemioradioterapia di consolidamento
con 5-FU, dopo almeno 3 mesi di chemioterapia iniziale a base di gemcitabina, hanno beneficiato di una
sopravvivenza mediana di 15.0 mesi rispetto agli 11.7 mesi nei pazienti che hanno continuato con la sola
chemioterapia (P = .0009). Questo studio è un esempio di buon compromesso terapeutico che consente di
avviare a radiochemioterapia quei pazienti con malattia localmente avanzata non resecabile che mantengono
un buon performance status e non vanno incontro a progressione durante il trattamento con gemcitabina.
Ulteriori studi di fase II numericamente meno importanti hanno confermato i promettenti risultati ottenuti in
sopravvivenza con questo approccio sequenziale di chemioterapia first (principalmente a base di gemcitabina),
seguita da chemoradioterapia, soprattutto per quei pazienti che in ultima analisi possono ricevere entrambe le
modalità di trattamento [12-15]. Con lo scopo di definire il miglior trattamento radio sensibilizzante, lo studio
di fase II SCALOP (Selective Chemoradiation in Advanced Localised Pancreatic Cancer) [16], pubblicato
all'inizio del 2013, ha randomizzato i pazienti con malattia localmente avanzata a ricevere chemioterapia di
induzione con gemcitabina e capecitabina seguita da radiochemioterapia con capecitabina o gemcitabina
(utilizzati a scopo radiosensibilizzante). La sopravvivenza mediana globale era significativamente superiore nel
braccio con capecitabina radiosensibilizzante (15.2 mesi vs 13.4 mesi con gemcitabina, P = .012)
Più recentemente, uno studio GERCOR di fase III (LAP-07) [17] ha valutato gemcitabina come induzione
con o senza erlotinib, seguito da chemioradioterapia di consolidamento o prosecuzione della stessa terapia
sistemica, in pazienti con malattia localmente avanzata. I risultati di questo studio su 442 pazienti sono stati
presentati al Meeting ASCO 2013. I pazienti con malattia stabile o in risposta che sono stati randomizzati a
ricevere radiochemioterapia non hanno avuto una sopravvivenza mediana superiore ai pazienti nel braccio con
solo trattamento sistemico (sopravvivenza mediana, 15.2 vs 16.4 mesi, rispettivamente; P = non significativo).
Questo studio solleva una questione importante per quanto riguarda l’utilizzo del trattamento radiante in tutti
i pazienti con LAPC. All’ASCO 2014 sono stati presentati i dati riguardanti i patterns di progressione
locoregionale. È stata evidenziata una tendenza verso una migliore sopravvivenza libera da progressione con la
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radiochemioterapia vs sola chemioterapia (P = .055), e un significativo vantaggio in termini di controllo locale
con la radiochemioterapia. La progressione locale è stata ridotta di circa il 50% con la radiochemioterapia rispetto
alla sola chemioterapia, dal 65% al 34% (P < .0001). Il miglioramento del controllo locale è correlabile a un
intervallo libero da trattamento significativamente prolungato (5.3 mesi dopo chemioradioterapia rispetto a 3.2
mesi con sola chemioterapia, P = 0.05). In un aggiornamento successivo dei dati all’American Society for Radiation
Oncology Annual Meeting, gli autori dello studio hanno anche descritto deviazioni relativamente al trattamento
radiante; inoltre alcuni pazienti randomizzati a chemioradioterapia non hanno ricevuto tale trattamento.
La scelta della terapia sistemica in pazienti con LAPC si avvale di regimi chemioterapici già in uso nella malattia
metastatica. La decisione circa il regime da utilizzare resta basata su diversi fattori di tipo clinico, tra cui
performance status, parametri laboratoristici, e comorbidità. La terapia sistemica è da considerare il trattamento
standard per i pazienti con LAPC che non si qualificano per chemioradioterapia o interventi chirurgici, e per
quelli con malattia metastatica. Lo studio di riferimento, condotto da Burris e colleghi nel 1997, ha definito la
gemcitabina in monoterapia come standard terapeutico per molti anni [18]. Lo studio ha mostrato un beneficio
di sopravvivenza solo modesto (5.65 mesi versus 4.41 mesi) rispetto al bolo di 5-fluorouracile settimanale, ma
un rilevante beneficio clinico per quanto riguarda il controllo del dolore e performance status nel gruppo trattato
con gemcitabina. La bassa tossicità della monoterapia con gemcitabina e il miglioramento della qualità della
vita sono stati i motivi principali che hanno contribuito a rendere questo trattamento come terapia standard.
Successivamente, sono stati condotti numerosi studi, compiuti aggiungendo un altro farmaco alla gemcitabina
tra cui cisplatino, oxaliplatino, irinotecan e capecitabina, ma nessuna delle doppiette ha mostrato un significativo
miglioramento della sopravvivenza globale negli studi randomizzati di fase III [19-21]. Molti di questi studi
erano sottodimensionati per dimostrare piccole differenze in sopravvivenza; meta-analisi successive hanno
dimostrato un piccolo beneficio di sopravvivenza per le combinazioni di gemcitabina con derivati del platino e
capecitabina nei pazienti con performance status conservato [22]. È discutibile se questi risultati siano
clinicamente rilevanti e superino gli effetti collaterali del trattamento.
Più recentemente, lo studio intergruppo PRODIGE ha confermato la superiorità di un regime di associazione
con 5-fluorouracile, oxaliplatino e irinotecan (FOLFIRINOX) rispetto alla sola gemcitabina [23]. È tuttavia
necessario riconoscere che il regime FOLFIRINOX è stato formalmente valutato solo nel setting metastatico,
mentre l'esperienza con questo regime in ambito di LAPC è significativamente più limitata [24, 25].
Le attuali linee guida NCCN per l’adenocarcinoma del pancreas, tuttavia, non fanno una distinzione nella scelta
della chemioterapia tra pazienti con malattia metastatica e malattia localmente avanzata. Principi di selezione
analoghi si applicano in entrambi i contesti. FOLFIRINOX dovrebbe essere riservato solo ai pazienti con un
buon performance (0-1). Attualmente, data l'entità del beneficio osservato con FOLFIRINOX rispetto a
gemcitabina in termini di risposte, sopravvivenza globale e libera da progressione, sembra ragionevole estrapolare
questi dati anche per il setting localmente avanzato. Alla luce di regimi chemioterapici più efficaci rispetto alla
sola gemcitabina, ulteriori studi sono certamente necessari nel sottogruppo di pazienti con LAPC. È in corso
uno studio di fase III che confronta, dopo chemioterapia di induzione (a base di gemcitabina o FOLFIRINOX),
la radiochemioterapia concomitante a base di gemcitabina con la chemioterapia esclusiva utilizzando gli stessi
farmaci dell’induzione (Clinicaltrials.gov NCT01827553). Va infine tenuto presente che i pazienti con LAPC
che ottengono un importante downstaging possono essere valutati per un approccio chirurgico. Esistono infatti
alcune esperienze, basate su casistiche molto ristrette, che suggeriscono la possibilità di una conversione a chirurgia
R0, per esempio con l’impiego di FOLFIRINOX e radiochemioterapia [26].
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Nuovi farmaci chemioterapici
Il paclitaxel è un agente antimicrotubulare che favorisce l’aggregazione dei microtubuli dai dimeri della tubulina,
e li stabilizza impedendone la depolimerizzazione. Nab-paclitaxel contiene nanoparticelle di paclitaxel legate
all’albumina del siero umano. Studi in vitro hanno dimostrato che la presenza di albumina nel nab-paclitaxel
favorisce il trasporto di paclitaxel attraverso le cellule endoteliali. Si ipotizza che il potenziato trasporto
transendoteliale sia mediato dal recettore dell’albumina gp-60, e che si verifichi un maggiore accumulo di
paclitaxel nella zona del tumore a causa della proteina acidica secreta ricca di cisteina (Secreted protein acidic rich
in cysteine, SPARC), una proteina legante dell’albumina. È stato condotto uno studio randomizzato per
confrontare nab-paclitaxel e gemcitabina con gemcitabina in monoterapia come trattamento di prima linea nei
pazienti con adenocarcinoma metastatico. Il trattamento è stato somministrato fino alla progressione della
malattia o allo sviluppo di una tossicità inaccettabile. Sono stati esclusi dallo studio pazienti con rischio
cardiovascolare elevato, anamnesi positiva per arteriopatia periferica e/o patologie del tessuto connettivo e/o
malattia polmonare interstiziale. La durata mediana del trattamento è stata di 3,9 mesi nel braccio nab-paclitaxel
e gemcitabina e di 2,8 mesi nel braccio gemcitabina. Il 32% dei pazienti nel braccio nab-paclitaxel e gemcitabina
sono stati trattati per 6 mesi o più rispetto al 15% dei pazienti nel braccio gemcitabina. Per la popolazione
trattata, l’intensità di dose relativa mediana per la gemcitabina è stata del 75% nel braccio nab-paclitaxel e
gemcitabina e dell’85% nel braccio gemcitabina. Vi è stato un miglioramento statisticamente significativo dell’OS
per i pazienti trattati con nab-paclitaxel/gemcitabina rispetto a gemcitabina da sola, con un aumento di 1,8 mesi
dell’OS mediana, una riduzione complessiva del 28% del rischio di morte, un miglioramento del 59% della
sopravvivenza a 1 anno e un miglioramento del 125% dei tassi di sopravvivenza a 2 anni. Con un’età >75 anni,
nei bracci nab-paclitaxel/gemcitabina e gemcitabina, l’hazard ratio (HR) per la sopravvivenza è stato pari a 1,08
(IC al 95% 0,653; 1,797). Con livelli di CA 19-9 nella norma al basale, l’HR per la sopravvivenza è stato pari
a 1,07 (IC al 95% 0,692; 1,661). Vi è stato un miglioramento statisticamente significativo della PFS per i
pazienti trattati con nab-paclitaxel e gemcitabina rispetto a gemcitabina da sola, con un aumento di 1,8 mesi
della PFS mediana [27].
Sulla base di questi risultati, le attuali linee guida NCCN hanno posto il trattamento con nab-paclitaxel e
gemcitabina nella categoria 1 per i pazienti con malattia metastatica. Per estrapolazione, questo trattamento
viene raccomandato anche nei pazienti con LAPC e buon performance status (categoria 2A; basso livello di
evidenza; consenso uniforme nel panel NCCN). Resta la questione se la disponibilità di trattamenti sistemici
più efficaci possa attenuare o (al contrario) possa aumentare il valore aggiunto della radioterapia. In particolare,
va osservato che la mancanza di beneficio in sopravvivenza globale nello studio LAP-07 è avvenuto nel contesto
di una chemioterapia di induzione meno efficace (gemcitabina +/- erlotinib) rispetto agli standard in uso per la
malattia metastatica [26, 27].
Come per FOLFIRINOX, studi prospettici sono in corso per valutare l’efficacia di nab-paclitaxel nei pazienti
con LAPC, con o senza radioterapia. In particolare, dal mese di gennaio 2014, è attivo uno studio Giscad di
fase 2 che randomizza i pazienti a ricevere gemcitabina o gemcitabina e nab-paclitaxel. End point primario è il
tasso di progressione dopo i primi tre cicli di trattamento (Studio GAP, NCT02043730).
Il ruolo della SBRT nella malattia localmente avanzata e recidiva
Parallelamente ai dati della letteratura, che confermano la maggior efficacia di un trattamento integrato con CT
sequenziale e CRT concomitante per i pazienti con LAPC in assenza di metastasi a distanza [10], nell’ultima
decade sono stati condotti diversi studi che hanno investigato la fattibilità e l’efficacia di un trattamento
radioterapico ipofrazionato, che prevedesse una dose maggiore di quella convenzionale e una durata del
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35
trattamento minore, anche al fine di evitare una sospensione prolungata del trattamento sistemico [28].
Questo razionale insieme ai progressi tecnologici degli ultimi anni hanno portato all’utilizzo, anche per i tumori
del pancreas, di una nuova tecnica di RT, chiamata Stereotactic Body Radiation Therapy (SBRT) o Stereotactic
ABlative Radiotherapy (SABR). La RT stereotassica è caratterizzata da dosi ablative di radiazioni erogate in poche
frazioni (generalmente da 1 a 6) e da una maggior precisione nella definizione dei volumi di trattamento [29].
Un’altra fondamentale peculiarità di questa tecnica è l’elevata accuratezza nell’erogazione della dose resa possibile
da un sistema di imaging integrato, che permette di verificare ed eventualmente correggere la reale posizione
del target tumorale, prima dell’irradiazione. Questa metodica di RT viene definita image-guided radiotherapy
(IGRT) [30].
Le caratteristiche dell’SBRT si traducono, da un lato in una maggior efficacia della terapia grazie alle dosi ablative
di radiazioni che vengono impiegate- e dall’altro in una maggiore tollerabilità al trattamento, grazie alla possibilità
di risparmiare dalle alte dosi gli organi sani vicini al tumore.
Uno degli elementi dose-limitante più rilevante nel trattamento radioterapico del LAPC, infatti, è la tossicità
gastrointestinale (GI), sia acuta che tardiva. I gradi maggiori di tossicità sono correlati, in particolare, alle alte
dosi che ricevono il duodeno e lo stomaco, in considerazione della loro vicinanza anatomica con il pancreas,
come confermato da una recente analisi [31]. La maggior accuratezza nella definizione del tumore e la massima
precisione nell’erogazione del trattamento permettono di irradiare volumi significativamente più piccoli rispetto
al passato e hanno rappresentato i prerequisiti fondamentali per l’applicazione della SBRT nel trattamento dei
tumori del pancreas [32].
Negli ultimi anni diversi trial prospettici e retrospettivi hanno investigato l’utilizzo della SBRT nel trattamento
del LAPC, delle recidive locali pancreatiche e nella malattia oligometastatica.
Il primo studio sulla SBRT nel trattamento di pazienti con LAPC è stato pubblicato nel 2004 dal gruppo della
Stanford University, che ha arruolato 15 pazienti, trattati con una dose di 15, 20 o 25 Gy in una singola frazione.
Il LC è stato del 100%, ma la maggior parte dei pazienti è morta per disseminazione sistemica di malattia con
un OS mediana di 11 mesi [33].
Nel tentativo di migliorare la sopravvivenza di questi pazienti, lo stesso gruppo ha condotto successivamente un
trial di fase II che prevedeva l’utilizzo della SBRT come boost dopo un trattamento CRT convenzionale sul
tumore e sulle stazioni linfonodali loco-regionali, con 5-FU concomitante. Il LC è stato del 94%, ma la
sopravvivenza mediana è stata di soli 8.3 mesi, con un tasso di tossicità GI nettamente aumentato fino al 12.5%
[34]. Alla luce di tale dati, qualche anno più tardi, viene condotto uno studio di fase II che prevedeva
un’induzione con Gemcitabina prima del trattamento stereotassico in singola seduta. Anche in questo caso il
LC è stato eccellente, ma l’OS è rimasta inferiore a 1 anno, con un tasso rilevante di tossicità GI tardiva [35,36].
Proprio per migliorare il profilo di tossicità, il gruppo di Stanford ha in seguito adottato un frazionamento di
SBRT in 5 sedute con una dose totale (DT) di 33 Gy e nel 2014 ha pubblicato insieme alla Johns Hopkins
University e al Memorial Sloan Kettering Cancer i dati relativi ad uno studio prospettico che prevedeva
un’induzione con Gemcitabina e SBRT frazionata. Il LC a 1 anno è stato dell’83%, associato ad una netta
regressione del dolore e ad un miglioramento della qualità di vita; la OS mediana di 13.9 mesi e la tossicità GI
tardiva G2 dell’8% [37].
Nel 2005 anche un gruppo danese riporta la sua esperienza di SBRT nel trattamento del tumore del
pancreas localmente avanzato. Con una DT di 45 Gy erogati in 3 frazioni, il LC è stato del 57%, con una
OS mediana di 5.4 mesi ed un elevato tasso di tossicità GI pari al 79%. Il motivo dello scarso outcome di
tale studio rispetto ai precedenti, va probabilmente ricercato nel maggior diametro tumorale e nella tecnica
radioterapica utilizzata. [38]
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Nel 2010, il gruppo di Beth Israel ha analizzato i dati relativi a 36 pazienti sottoposti a SBRT in 3 frazioni (DT
24-36 Gy) seguita da 6 mesi di Gemcitabina. Il LC è stato del 78%, la OS mediana di 14.3 mesi e il tasso di
tossicità G3 del 14% [39]. Uno studio successivo dello stesso gruppo prevedeva una de-intensificazione della
CT adiuvante a SBRT, con la somministrazione di due cicli di Gemcitabina dopo RT. I tassi di LC e tossicità
sono stati migliori, con una OS mediana di 20 mesi, suggerendo un effetto detrimentale di una CT prolungata
dopo RT [40].
Un approccio terapeutico simile è stato utilizzato anche in uno studio italiano, che ha arruolato 23 pazienti con
LAPC, trattati con 6 settimane di Gemcitabina e successiva SBRT con DT di 30 Gy in 3 frazioni. Il tasso di
controllo locale a 1 anno è stato del 50%, con una sopravvivenza mediana di 10.6 mesi e nessun caso di tossicità
di grado superiore a 2 [41].
Nello stesso periodo, Didolkar et al. analizzano retrospettivamente i dati relativi a 85 pazienti sottoposti a SBRT
con DT di 15-30 Gy in 3 frazioni. Il LC è stato di circa il 92%, con una mediana di sopravvivenza di 18 mesi
[42]. Nel 2011, anche il gruppo dell’Università di Pittsburgh pubblica la sua esperienza di SBRT nel tumore
del pancreas, con un deludente tasso di LC del 48% e una OS mediana di 10.3 mesi, che riflettono la rilevante
disomogeneità dei frazionamenti utilizzati [43].
Circa due anni dopo, la Case Western Reserve University pubblica la sua esperienza su 19 pazienti con LAPC
non resecabile, sottoposti a 20-25 Gy in singola frazione o 24-30 Gy in 3 frazioni. Il LC a 1 anno è stato del
65% con una OS mediana di 14.4 mesi e una tossicità di grado 3 del 16% [44].
Nel 2013, un altro gruppo italiano pubblica i dati relativi a 30 pazienti con LAPC sottoposti a SBRT con DT
di 36-45 Gy in 6 frazioni. Il tasso di controllo locale a 1 anno è stato del 77%, la OS mediana di 11 mesi e la
tossicità trascurabile, senza casi di tossicità GI superiore a G2 [45].
Le elevate dosi altamente conformate che si possono erogare con un trattamento stereotassico, hanno fatto della
SBRT una promettente opzione terapeutica anche per due distinti sottogruppi di pazienti con LAPC, ovvero i
pazienti con malattia borderline resecabile e i pazienti con recidiva locale di malattia dopo CRT convenzionale.
I pazienti con malattia borderline resecabile presentano una malattia confinata localmente, con un’estensione
alle strutture vascolari che riduce in maniera significativa la probabilità di una resezione R0. Se il coinvolgimento
vascolare venisse sostanzialmente ridotto, una resezione radicale diventerebbe possibile anche in questo gruppo
di pazienti [46].
Nel 2013, uno studio condotto dal Moffitt Cancer Center nel Tampa ha arruolato 73 pazienti con LAPC, dei
quali 56 presentavano una malattia borderline resecabile. In questi pazienti sono stati utilizzati due livelli di dose
in 5 frazioni: 35-50 Gy sulla malattia che prendeva contatto con i vasi e 25-30 Gy sul volume tumorale
rimanente. Il trattamento radiante era stato effettuato dopo 3 cicli di CT neoadiuvante con gemcitabina, taxotere
e xeloda. Quattro settimane dopo la fine della SBRT, tutti i pazienti sono stati ristadiati e nel sottogruppo di
pazienti con malattia borderline resecabile, il 77% ha presentato un risposta parziale ed è stato sottoposto a
laparotomia esplorativa, con un 56% di resezioni chirurgiche. Il 97% dei pazienti resecati presentava margini
R0 e nel 9% è stata riscontrata una risposta patologica completa. I pazienti resecati radicalmente hanno presentato
un OS mediana significativamente superiore a quella dei pazienti non operati (19.3 vs 12.3 mesi, p < 0.03). Il
tasso di tossicità GI G3 è stato del 5% [47].
Questi risultati forniscono i presupposti per indagare ulteriormente l’efficacia della SBRT come terapia
neo-adiuvante alla chirurgia, per i pazienti con tumore del pancreas borderline resecabile.
L’altro sottogruppo di pazienti affetti da LAPC, che possono beneficiare di un trattamento stereotassico sono i
pazienti con recidiva locale di malattia dopo RT convenzionale. Sebbene più della metà dei pazienti affetti da
tumore del pancreas sviluppino localizzazioni a distanza di malattia, esiste un distinto gruppo di pazienti che
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37
rappresenta all’incirca il 30% che presenta una recidiva esclusivamente locale di malattia [48].
La re-irradiazione generalmente comporta un elevato rischio di tossicità correlato alla dose distribuita a livello
dei tessuti sani. L’elevata conformazione di dose della SBRT minimizza in maniera significativa la distribuzione
di dose al di fuori del volume tumorale e la rende una tecnica ideale per i ritrattamenti, come già dimostrato
nelle recidive dei tumori polmonari [49] e delle metastasi ossee [50].
Nel 2012 Lominska et al. [51] pubblicano i dati relativi a 28 pazienti sottoposti a ritrattamento con SBRT per
recidiva locale di adenocarcinoma del pancreas precedentemente trattato con CRT convenzionale. Utilizzando
un frazionamento di 20-30 Gy in 3-5 frazioni, il LC è stato dell’86%, la sopravvivenza mediana di 5.9 mesi e
la tossicità GI del 14%. Questo studio dimostra che la re-irradiazione dei pazienti con recidiva locale pancreatica
di malattia dopo CRT convenzionale è fattibile, con un contenuto rischio di tossicità GI.
SBRT: direzioni future
Nonostante la variabilità relativa alla selezione dei pazienti e ai frazionamenti utilizzati nei vari studi finora
pubblicati, possiamo trarre delle conclusioni relative al possibile ruolo della SBRT nel trattamento del tumore
del pancreas localmente avanzato.
I tassi di LC risultano generalmente più elevati rispetto alla RT convenzionale. I tassi di tossicità acuta e tardiva
sono accettabili, se si utilizza una SBRT frazionata. La mortalità rimane elevata a causa dell’alto tasso di
metastatizzazione a distanza, che rende necessarie terapie sistemiche più efficaci. Tuttavia esiste una popolazione
di pazienti non resecabili che presentano una biologia favorevole e che potrebbero beneficiare di terapie locali
più intensive.
I prossimi studi dovrebbero pertanto prendere in considerazione il profilo molecolare, al fine di determinare il
rischio individuale di progressione per paziente e personalizzare la terapia in relazione al sito che presenta il
maggior rischio di ricaduta di malattia.
Nel 2009, i ricercatori del Johns Hopkins Medical Institutions di Baltimora hanno dimostrato su una serie
autoptica di 76 pazienti morti per tumore del pancreas, che nei casi in cui vi era una bassa espressione del gene
oncosoppressore DPC4 coesisteva un elevato tasso di metastatizzazione a distanza, mentre in circa il 30% dei
casi il DPC4 era espresso e la malattia presentava una progressione esclusivamente locale (p < 0.007) [48]. Questi
risultati suggeriscono che potrebbe essere possibile predire il pattern di recidiva in pazienti con cancro del pancreas.
In questo scenario, la SBRT potrebbe essere una valida opzione terapeutica per i pazienti con elevato rischio di
recidiva locale, rispetto a quelli con maggior rischio di metastatizzazione a distanza.
Ad oggi rimangono ancora molte domande aperte sul ruolo della RT nel trattamento del LAPC e la SBRT
rappresenta uno dei campi di ricerca più interessanti. Come supportato dai dati clinici, l’efficacia e la tollerabilità
di questa metodica possono essere ancora migliorate. La prossima generazione di trials dovrebbe focalizzarsi
sull’integrazione con terapie sistemiche sempre più efficaci, sull’associazione con farmaci biologici e sull’uso del
profilo molecolare per la corretta selezione dei pazienti.
Le scale di valutazione della qualità di vita (QoL) dovrebbero inoltre essere utilizzate nel determinare il reale
beneficio che i pazienti traggono dall’essersi sottoposti a questo tipo di terapia, come suggerito dal trial di fase
II del gruppo di Stanford e dai due studi italiani precedentemente citati [37, 41, 45], nei quali i pazienti che
non avevano sviluppato metastasi a distanza entro 3 mesi dalla fine del trattamento, riportavano una significativa
riduzione del dolore, associata ad una rilevante riduzione dell’assunzione di analgesici.
La ricerca futura, infine, dovrà tener conto anche dell’interesse crescente per il rapporto costo-efficacia delle
terapie, dove l’uso della SBRT può risultare vantaggioso rispetto alla CRT convenzionale. Solo uno studio
pubblicato nel 2012 ha analizzato il rapporto cost-effectiveness nel trattamento dei tumori del pancreas,
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confrontando la CT con sola Gemcitabina con RT 3D-conformazionale, IMRT e SBRT associate a
Gemcitabina. Questo studio ha mostrato che la SBRT fornisce la probabilità più elevata di aumentare il rapporto
cost-effectiveness in termini di quality-adjusted life-years [52].
Anche alla luce di questi dati, i prossimi studi futuri dovrebbero quindi valutare il reale beneficio della SBRT in
relazione ai costi del trattamento e compararli con quelli delle altre opzioni terapeutiche alternative.
Come riportato nel 2014 in un’interessante revisione [53] dei 16 maggiori studi condotti su un totale di 572
pazienti con LAPC, l’SBRT permette un buon controllo locale di malattia e incoraggianti risultati in termini di
sopravvivenza globale, in particolare quando il trattamento sterotassico è integrato in maniera sequenziale con
la terapia sistemica. La tossicità GI, che rappresenta un problema importante in molti studi, è significativamente
correlata con la dose e il frazionamento.
La minima durata del tempo di trattamento, le elevate dosi ablative conformate sul tumore e la breve interruzione
della terapia sistemica, sono ad oggi i punti di forza della SBRT nel trattamento del LAPC e delle recidive locali.
Conclusioni
Ad oggi è ancora controverso l’utilizzo del trattamento radio chemioterapico nell’iter terapeutico del tumore
del pancreas localmente avanzato. Sebbene tale trattamento integrato sembri migliorare il controllo locale di
malattia e la qualità di vita non vi è un chiaro beneficio in termini di sopravvivenza.
Una più accurata selezione dei pazienti, anche in relazione al profilo molecolare, potrebbe permettere di
individuare il setting maggiormente a rischio di progressione locale di malattia, nel quale intensificare i trattamenti
locali (radioterapia e chirurgia).
La SBRT rappresenta un’opzione terapeutica promettente nel trattamento del LAPC e della malattia recidiva,
in considerazione del miglior controllo locale ottenuto con le dosi ablative, della sua breve durata e della possibilità
di un’agevole integrazione con i trattamenti sistemici.
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Malattia metastatica: 17 anni di progressi
Alessandro Bittoni, Calliopi Andrikou, Chiara Pellei, Ilaria Fiordoliva, Matteo Santoni, Andrea
Lanese, Rossana Berardi, Stefano Cascinu
Clinica di Oncologia Medica, AOU Ospedali Riuniti, Università Politecnica delle Marche - Ancona
Introduzione
In Italia il carcinoma pancreatico rientra tra le prime cinque cause di morte per tumore
nel sesso maschile, mentre occupa il quarto posto nelle donne. Si tratta di una delle
neoplasie a prognosi più infausta, con solo il 5% degli uomini ed il 6% delle donne che
sopravvivono a 5 anni dalla diagnosi, senza sensibili scostamenti di prognosi negli ultimi
20 anni [1]. L’andamento temporale dell’incidenza di questa neoplasia è in crescita sia nei
maschi che nelle femmine (rispettivamente +0.8% e +2.0%/anno), probabilmente in
relazione al miglioramento ed all’accuratezza delle tecniche diagnostiche (TC, RM, biopsie
TC-guidate, PET) piuttosto che ad un reale aumento dell’incidenza della malattia stessa.
Nonostante tutto, i tassi di mortalità non hanno subito modificazioni sostanziali e sono
quasi sovrapponibili all’incidenza della patologia.
Le cause principali del pessimo andamento di tale neoplasia sono legate alla sua aggressività
biologica, alla rapida evoluzione clinica, alla resistenza alla convenzionale chemioterapia e
radioterapia e all’elevato rischio di recidiva locale o a distanza successivamente ad intervento
chirurgico; inoltre la complessità genetica e la mancanza di marcatori prognostici ha
ostacolato l'identificazione di nuove strategie terapeutiche mirate ed efficaci.
La monochemioterapia con Gemcitabina ha rappresentato lo standard terapeutico dal
1997, con un beneficio clinico del 24%, una mediana di sopravvivenza pari a circa 6 mesi
ed una probabilità di sopravvivenza ad un anno del 18% [2]. Dopo anni di insuccessi della
ricerca clinica, significativi miglioramenti della prognosi dei pazienti con carcinoma del
pancreas metastatico sono stati ottenuti con l’introduzione di regimi chemioterapici dotati
di maggior efficacia, in particolare il regime FOLFIRINOX e la combinazione gemcitabina
e nab-paclitaxel.
In questo articolo riassumeremo e discuteremo i risultati dei principali studi clinici condotti
negli ultimi anni nell’ambito del trattamento chemioterapico del carcinoma del pancreas
metastatico, includendo quelli che hanno valutato l’utilizzo di nuovi farmaci. Discuteremo
inoltre delle prospettive future del trattamento e delle nuove strategie attualmente in fase
di studio.
Trattamento chemioterapico del carcinoma pancreatico metastatico
Circa l’80% dei pazienti affetti da tumore pancreatico presenta alla diagnosi una malattia
metastatica spesso accompagnata da un ricco corteo sintomatologico comprendente
principalmente dolore, astenia, anoressia e malessere generale. Gli obiettivi primari del
trattamento sono pertanto rappresentati dal prolungamento della sopravvivenza, dal
controllo dei sintomi correlati alla malattia e dal tentativo di garantire una buona qualità
di vita al paziente.
Vari studi hanno dimostrato la superiorità della chemioterapia rispetto alla sola terapia di
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44
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
supporto nel trattamento del carcinoma pancreatico metastatico. Infatti, la metanalisi di 9 studi clinici,
che ha confrontato il trattamento con 5-Fluorouracile (5-FU), considerata l’unica scelta terapeutica sino
allo sviluppo di Gemcitabina, verso il solo trattamento di supporto, ha evidenziato un vantaggio in termini
sia di sopravvivenza globale, OS mediana 6.38 mesi vs 3.87 mesi (p < 0.0001) che di qualità di vita [3,4,5].
La monochemioterapia con Gemcitabina ha rappresentato lo standard terapeutico dal 1997, in seguito ai
risultati di uno studio randomizzato di fase III, che mostrava la superiorità della Gemcitabina rispetto al
5-Fluorouracile in termini di sopravvivenza (5.65 vs 4.41 mesi; p<0.0025), clinical benefit (23.8% vs 4.8%;
p< 0,0022) e con un tasso di sopravvivenza a 12 mesi di 18% rispetto al 2% dei pazienti trattati con 5FU [2].
Nell’ultimo decennio, sono stati condotti numerosi trial clinici di confronto tra la Gemcitabina in
monochemioterapia e varie combinazioni chemioterapiche.
In particolare diversi studi di fase III che hanno confrontato la combinazione Gemcitabina-5FU [6,7]
rispetto alla sola Gemcitabina in pazienti con malattia avanzata non hanno mostrato alcun beneficio in
termini di sopravvivenza. Tale dato è stato confermato anche ad uno studio ECOG di fase III, in cui 322
pazienti affetti da carcinoma pancreatico avanzato sono stati randomizzati a ricevere la sola Gemcitabina
o la doppietta Gem-5-FU (OS mediana 5.4 vs 6.7 mesi (p = 0.09); PFS mediana 2.2 mesi vs 3.4 mesi
rispettivamente (p = 0.022).
Il medesimo risultato è emerso da uno studio di fase III condotto da Herrmann et al, che ha confrontato
la Gemcitabina in monochemioterapia con l’associazione Gemcitabina-Capecitabina, un profarmaco del
5-Fluorouracile. Lo studio, in cui sono stati randomizzati 319 pazienti a un braccio con Gem (1.000
mg/m2 nei giorni 1 e 8) più capecitabina (1.300 mg/m2 nei giorni 1-14, ogni 21 giorni) (GemCap) o a
un braccio standard contenente la sola gemcitabina, non ha mostrato differenze statisticamente significative
in OS tra i due bracci (8,4 vs 7,2 mesi; p = 0,23), ma l’analisi del sottogruppo di pazienti con buon PS
(performance status di Karnofsky: 90-100) ha mostrato un prolungamento significativo della OS mediana
nel braccio GemCap rispetto al braccio Gemcitabina (10,1 vs 7,4 mesi, rispettivamente; p = 0,014).
I derivati del platino sono stati spesso utilizzati nei regimi di combinazione per il trattamento del carcinoma
pancreatico. Sebbene risultati incoraggianti fossero stati ottenuti in vari trials clinici di fase II che avevano
valutato la combinazione Gemcitabina-Cisplatino con una sopravvivenza mediana che varia dai 7.1 agli
8.2 mesi [8,9], tali dati non sono stati successivamente confermati dal trial clinico di fase III condotto da
Colucci et al [10] nel quale non è stato riscontrato un beneficio statisticamente significativo in termini di
sopravvivenza per il trattamento di combinazione (7.5 mesi vs 6.0 mesi, p = 0.43), nonostante un netto
miglioramento del tasso di risposte obiettive (RR) (26.4% vs 9.2%, p = 0.02) e del tempo a progressione
(TTP) (TTP mediano 4.6 mesi vs 1.8 mesi, p = 0.048). In un successivo studio di fase III di Colucci et
al il vantaggio riscontrato in PFS e RR scompariva quando il numero di pazienti incrementava da 107 a
400 [11].
Heinemann et al [12], in uno studio randomizzato di fase III, ha confrontato la Gemcitabina con una
schedula a cadenza bisettimanale comprendente Gemcitabina e Cisplatino. I risultati di questo studio
mostrano un trend nettamente favorevole per la combinazione rispetto alla monochemioterapia sia in
termini di OS (7.5 mesi vs 6 mesi), che di PFS (5.3 vs 3.1 mesi) sebbene anche in questo studio non sia
stata raggiunta la significatività statistica.
Il Groupe Cooperateur Disciplinaire en Oncologie (GERCOR), in uno studio di fase II condotto su 64
pazienti affetti da carcinoma pancreatico avanzato, aveva confrontato l’associazione di Gemcitabina ed
Oxaliplatino (GEMOX) con la Gemcitabina da sola, ottenendo risultati incoraggianti (PFS 5.3 mesi, OS
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45
9.2 mesi) e avviando di conseguenza uno studio di fase III [13]. Tale trial [14], condotto sia dal GERCOR
che dal GISCAD (Gruppo Italiano per lo Studio dei Carcinomi dell’Apparato Digerente), ha documentato
la superiorità della combinazione GEMOX in termini di PFS (5.8 mesi vs 3.7 mesi, p = 0,04), RR (26.8%
vs 17.3%, p = 0.04), e di clinical benefit (38.2% vs 26.9%, p = 0.03). Tuttavia, la sopravvivenza globale
non risultava migliorata in maniera significativa (OS mediana 9.0 mesi vs 7.1 mesi, p= 0.13), dato
confermato anche nel ECOG 6201, trial che ha dimostrato che il braccio GEMOX non presenta un
vantaggio statisticamente significativo in termini di sopravvivenza globale mediana rispetto il braccio con
la sola Gemcitabina [15].
Inaspettatamente, le successive meta-analisi che hanno preso in esame tre studi randomizzati
(GERCOR/GISCAD e quello condotto da Heinemann et al hanno evidenziato un vantaggio
statisticamente significativo per le doppiette chemioterapiche contenenti platino rispetto alla
monochemioterapia, mostrando una riduzione del rischio di progressione del 25% (p =0.0030) e una
riduzione del rischio di decesso del 19% (p = 0.031). Le combinazioni terapeutiche inoltre, mostrano un
vantaggio più spiccato nel sottogruppo di pazienti con buon performance status all’esordio (ECOG PS 01). Pertanto emerge la necessità di selezionare con attenzione i pazienti prima di iniziare un trattamento
chemioterapico.
Deludenti sono stati i risultati ottenuti anche da tutti i trial clinici di fase III di confronto tra la
Gemcitabina e le combinazioni terapeutiche della Gemcitabina con farmaci potenzialmente attivi come il
Pemetrexed [16], l’Exatecan [17] e l’Irinotecan [18], che hanno fallito nel dimostrare una superiorità
significativa rispetto alla monoterapia.
Farmaci a bersaglio molecolare
Nel corso degli ultimi anni numerosi studi sono stati condotti nel trattamento del carcinoma pancreatico
avanzato, purtroppo con risultati piuttosto deludenti: in particolare il confronto fra la gemcitabina e le
associazioni contenenti farmaci a bersaglio molecolare ha ancora una volta fallito nel dimostrare una
superiorità terapeutica alla sola Gemcitabina. Tra i farmaci presi in esame ricordiamo: il Tiparfinib, il
Sorafenib, il Bevacizumab ed il Cetuximab. Unica eccezione a questo proposito è rappresentata
dall’Erlotinib, che ha mostrato una superiorità in termini di sopravvivenza mediana rispetto alla
Gemcitabina da sola. Nello studio di Moore et al la combinazione di Gemcitabina e Erlotinib ha dimostrato
di conferire un beneficio in sopravvivenza globale rispetto alla sola Gemcitabina (6.2 vs 5.9 mesi,
rispettivamente; p=0.038) [19]. Nonostante il vantaggio sia risultato statisticamente significativo, l’entità
dell’aumento della sopravvivenza, stimato in circa 14 giorni non appare sufficiente per giustificare l’uso
nella pratica clinica di questo farmaco visti gli elevati costi e il profilo di tossicità associati a questo
trattamento.
Inoltre, i risultati incoraggianti emersi dagli studi preclinici e quelli di fase II della combinazione
Cetuximab-Gemcitabina [20], sono stati successivamente smentiti in uno studio di fase III, lo studio
(SWOG S0205) che ha randomizzato 745 pazienti ad essere trattati con l’associazione Gem-Cetuximab
o con la sola Gemcitabina. Non ci sono state differenze significative in termini di OS (6.3 vs 5.9 mesi, p
= 0.23), di PFS (3.4 vs 3.0 mesi, p = 0.18) e di RR (12% vs 14%, p = 0.59) [21]. Analoghi risultati sono
stati ottenuti dallo studio italiano SPACE, uno studio di fase II randomizzato che ha valutato l’aggiunta
di cetuximab alla combinazione di cisplatino e gemcitabina, senza mostrare beneficio dall’aggiunta
dell’anticorpo monoclonale [22].
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Dato il ruolo svolto dal fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF) nella patogenesi del carcinoma
pancreatico, il Bevacizumab veniva considerato un trattamento potenzialmente efficace; nonostante i
risultati promettenti ottenuti in vari studi di fase II, tutti i trials randomizzati di fase III con Bevacizumab
hanno fallito nel dimostrare una superiorità significativa nel trattamento di associazione rispetto alla
monochemioterapia con Gemcitabina. Nessuno dei due studi di Fase III, uno di Kindler et al. [23] ed il
secondo di Van Cutsem [24] et al, ha dimostrato che l’aggiunta di Bevacizumab alla Gemcitabina comporti
una differenza statisticamente significativa in termini di sopravvivenza globale (OS). Mentre, per quanto
riguarda l’endpoint secondario degli studi, rappresentato dalla sopravvivenza libera da progressione (PFS),
lo studio di Van Cutsem et al. sembra mostrare un beneficio, a differenza di quello di Kindler. In
particolare, Van Cutsem et al hanno randomizzato 607 pazienti con adenocarcinoma metastatico del
pancreas a ricevere un trattamento con Gemcitabina più Erlotinib, con o senza Bevacizumab. Non è stato
dimostrato alcun prolungamento significativo della sopravvivenza con l’aggiunta di Bevacizumab (7.1 mesi
vs 6.0 mesi, p = 0.20), anche se la PFS è stata migliorata in modo statisticamente significativo (4.6 vs 3.6
mesi, p = 0.0002).
Uno studio di fase II randomizzato, condotto da Ko e coll., ha valutato l’efficacia della combinazione tra
Cetuximab e Bevacizumab da sola o in associazione con la Gemcitabina come terapia di prima linea per
l’adenocarcinoma pancreatico avanzato. I pazienti con adenocarcinoma pancreatico localmente avanzato
o metastatico, precedentemente non trattati, sono stati randomizzati a trattamento con Cetuximab +
Bevacizumab, con (braccio A, n = 30) o senza (braccio B, n = 31) Gemcitabina. La durata mediana del
trattamento è stata di 9 settimane per il braccio A e 8 settimane per il braccio B (range: 2.0-40.4). I pazienti
nel braccio A hanno raggiunto una PFS e OS mediana pari rispettivamente a 3.55 e 5.41 mesi rispetto a
1.91 e 4.17 mesi nel braccio B. Lo studio ha chiuso in anticipo per mancanza di sufficiente efficacia in
entrambi i bracci di trattamento. Gli autori hanno concluso che la combinazione di Cetuximab e
Bevacizumab non ha mostrato una promettente attività con o senza Gemcitabina [25].
Ulteriori studi di combinazione di Bevacizumab, con vari agenti chemioterapici per il trattamento
dell’adenocarcinoma avanzato del pancreas, sono stati effettuati senza però ottenere nessun netto
miglioramento in termini di sopravvivenza e di qualità di vita di questi pazienti [26,27,28].
Visti i risultati deludenti ottenuti dall’impiego di Bevacizumab, gli studi clinici sono stati indirizzati alla
valutazione di altri agenti angiogenetici. Cascinu e coll. hanno condotto uno studio randomizzato di fase
II che ha dimostrato come l’aggiunta di Sorafenib alla doppietta chemioterapica Gemcitabina/Cisplatino
non comporti una differenza statisticamente significativa nella PFS mediana (4.9 mesi nel gruppo trattato
con l’aggiunta di Sorafenib vs 3.3 mesi nel gruppo trattato con la sola chemioterapia; HR=1.01;0.65-1.56
CI 95%) in pazienti affetti da carcinoma pancreatico avanzato [29]. Risultati simili sono stati riscontrati
anche in uno studio multicentrico randomizzato in doppio-cieco, di fase III (studio BAYPAN) [30], che
ha valutato l’efficacia della combinazione della Gemcitabina con Sorafenib, un inibitore tirosin-chinasico
multitarget, rispetto alla combinazione Gemcitabina-placebo in 104 pazienti non trattati con
adenocarcinoma pancreatico avanzato o metastatico. Anche in questo caso, non sono state dimostrate
differenze significative nella PFS mediana tra i due gruppi (5.6 vs 3.8 mesi, p = 0.601) e la sopravvivenza
generale mediana è risultata simile (9.2 mesi vs 8.5 mesi, p = 0.146). L’Axitinib, un altro inibitore
multitarget di VEGFR e di altre tirosin-chinasi, è stato valutato per la sua azione antitumorale con
Gemcitabina in un trial di fase II checomunque non ha fornito risultati statisticamente significativi [31].
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
47
Il regime FOLFIRINOX
Il regime FOLFIRINOX, una combinazione di 5-Fu, Irinotecan ed Oxaliplatino, è entrato nella pratica
clinica nel trattamento del carcinoma del pancreas metastatico, in seguito allo studio clinico di Conroy et
al, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2011 [32]. Lo studio, un trial multicentrico, di
fase III, randomizzato, che confrontava il regime FOLFIRINOX verso la sola Gemcitabina in 342 pazienti
affetti da carcinoma del pancreas metastatico, ha dimostrato la superiorità del FOLFIRINOX in termini
di tasso di risposte obiettive (31.6% vs 9.4%, p< 0.001), sopravvivenza libera da progressione (6.4 vs 3.3
mesi; HR= 0.47, p< 0.001) e sopravvivenza globale (11.1 vs 6.8 mesi; HR= 0.57, p< 0.001). Anche la
sopravvivenza ad un anno risultava marcatamente superiore nel braccio FOLFIRINOX rispetto al braccio
Gemcitabina (48.4% vs 20.6%).
Questi risultati, che non trovavano precedenti nei trial randomizzati di chemioterapia nel carcinoma del
pancreas avanzato, confermavano l’elevata attività del regime FOLFIRINOX osservata negli studi di fase
II dagli stessi autori dove veniva riportato un tasso di risposte obiettive del 26%, una PFS mediana di 8.2
mesi ed una OS di 10.2 mesi (39). Come prevedibile, la tossicità osservata nel braccio FOLFIRINOX
risultava maggiore rispetto a quella riportata nel braccio Gemcitabina. In particolare, la neutropenia di
grado 3-4 (45.7% vs 21%, p< 0.001) e la neutropenia febbrile (5.4% vs 1.2%, p= 0.03) risultavano più
frequenti nei pazienti trattati con FOLFIRINOX, dove veniva riscontrato un uso più frequente di fattori
di crescita granulocitari (42.5% vs 5.3%, p< 0.001). Anche la diarrea, la neuropatia sensitiva e la
trombocitopenia grado 3-4 risultavano più frequenti nel braccio FOLFIRINOX. Tuttavia, la mortalità
associata al trattamento è risultata bassa in entrambi i bracci con solo una morte tossica riportata in ciascun
gruppo di pazienti. La maggior tossicità legata al trattamento del FOLFIRINOX non sembra aver
impattato negativamente sulla qualità di vita globale dei pazienti, salvo per la maggior incidenza di diarrea
durante i primi otto cicli di trattamento. Inoltre, il tempo prima del definitivo deterioramento della qualità
di vita era significativamente superiore nei pazienti trattati con FOLFIRINOX rispetto a quelli che
ricevevano sola Gemcitabina, verosimilmente come conseguenza del più lungo intervallo libero da
progressione e della maggior efficacia del trattamento chemioterapico. Per comprendere meglio i risultati
di questo studio ed inserirli nel contesto della pratica clinica è opportuno valutare con attenzione i criteri
di inclusione dello studio stesso. In particolare, l’attesa tossicità correlata ad un trattamento aggressivo
come il FOLFIRINOX ha richiesto dei rigorosi criteri di inclusione per la selezione dei pazienti. Nello
studio, sono stati inclusi pazienti precedentemente non trattati, di età inferiore a 75 anni, con un buon
performance status (ECOG 0-1), senza una storia di cardiopatia ischemica e con valori di bilirubina nella
norma (fino ad 1.5 volte il limite superiore della norma). Anche per questo motivo, la percentuale di
pazienti con neoplasia della testa del pancreas inclusi nello studio (38%) è risultata sostanzialmente inferiore
rispetto a quanto osservato nella normale pratica clinica nonché in altri studi così come relativamente
bassa è stata la quota di pazienti arruolati portatori di stent biliare (14.3%). Nella pratica clinica, il
trattamento con FOLFIRINOX andrebbe quindi riservato a pazienti giovani, con buon performance status
e senza significative comorbidità, in centri con esperienza nel trattamento di pazienti ad elevato rischio di
neutropenia febbrile.
Lo studio di Conroy rappresenta comunque un significativo avanzamento nel trattamento del carcinoma
del pancreas metastatico sia per i ragguardevoli risultati ottenuti in termini di sopravvivenza, con una
sopravvivenza globale che supera gli 11 mesi, sia perché si tratta del primo studio randomizzato ad aver
evidenziato un vantaggio a favore di una chemioterapia non a base di Gemcitabina.
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Nab-paclitaxel
Recentemente, lo studio di fase III MPACT, ha dimostrato la superiorità di gemcitabina più nab-paclitaxel
vs la sola gemcitabina in 842 pazienti con carcinoma pancreatico in stadio IV. Il nab-paclitaxel è una
formulazione di paclitaxel legato all’albumina in nanoparticelle. Si tratta di un farmaco inizialmente
sviluppato allo scopo di superare le difficoltà di utilizzo del paclitaxel, legate alla scarsa solubilità del farmaco
ed alla conseguente necessità di impiegare solventi associati a possibili tossicità. La caratteristica più
interessante di questo farmaco è però la sua capacità di raggiungere in maniera efficace le cellule tumorali
sfruttando i recettori per l’albumina presenti sui vasi ematici tumorali e attraverso il legame con la proteina
SPARC (Secreted Protein Acidic and Rich in Cysteine) [33]. Obiettivo primario dello studio MPACT era
la sopravvivenza globale (OS) ed il trial ha effettivamente dimostrato una sopravvivenza superiore nei
pazienti trattati con nab-paclitaxel rispetto a quelli trattati con sola Gemcitabina con una OS mediana di
8.5 mesi vs 6.7 mesi (p= 0.00015) ed un tasso di sopravvivenza ad 1 anno del 35% vs 22% (p= 0.0002).
Tale beneficio si confermava nell’analisi per sottogruppi in tutti i gruppi di pazienti analizzati, con un
apparente maggior beneficio nei pazienti a peggiore prognosi (performance status scaduto, più di 3 siti
metastatici, valori elevati di Ca 19.9). Per quanto riguarda le tossicità legate al trattamento, l’aggiunta di
nab-paclitaxel ha determinato un incremento significativo dell’astenia di grado 3-4 (17% vs 7%) e della
neuropatia periferica grado 3-4 (17% vs 1%) rispetto alla sola gemcitabina, oltre ad un aumento della
tossicità ematologica, dimostrando comunque un profilo di tossicità piuttosto favorevole e facilmente
gestibile [34]. Per quanto riguarda il potenziale ruolo predittivo di SPARC, inizialmente evidenziato da
uno studio di fase I/II [35], questo sembra essere stato smentito dall’analisi condotta sui pazienti arruolati
nello studio MPACT [36] in cui l’espressione di SPARC non è risultata associata all’efficacia della terapia.
Prospettive future
Grazie alle crescenti conoscenze sui meccanismi patogenetici e sul ruolo che sembra avere il microambiente
tumorale nell’ambito del carcinoma pancreatico, sono state proposte diverse strategie terapeutiche rivolte
a nuovi targets molecolari nel tentativo di migliorare la prognosi cosi infausta di questa malattia.
Nel carcinoma pancreatico, lo sviluppo di Ab monoclonali anti-IGFR1 ha mostrato una certa efficacia sia
in studi preclinici che in studi di fase Ib/II [37,38,39]. Questi risultati cosi incoraggianti hanno portato
allo sviluppo dello studio GAMMA, uno studio multicentrico di fase III che ha valutato la combinazione
di Gemcitabina con AMG 479 vs Gemcitabina + placebo che purtroppo non ha confermato i dati dei
precedenti studi (ClinicalTrials.gov identifier: NCT01231347).
Recentemente, sempre più interesse sembra destare lo studio della via metabolica delle MAP chinasi e PI3;
evidenziando che il blocco di un solo pathway sembra essere inefficace a causa della presenza di un feedback
loop compensatorio tra PI3K e MEK [40]. Infatti, Zhong e coll hanno dimostrato in modelli preclinici
che il blocco concomitante di questi due pathways ha dimostrato un sinergismo antitumorale in PDAC
[41]. Risultati incoraggianti arrivano da uno studio di fase Ib che ha confrontato il trametinib
(GSK1120212), un inibitore selettivo di MEK 1/2 [42], in associazione alla gemcitabina [43] e attualmente
ci sono vari studi ongoing con altri inibitori MEK / P13K (ClinicalTrials.gov identifier: NCT00996892)
e con inibitori MEK/MTOR/PI3K (ClinicalTrials.gov identifier: NCT01390818).
Nello sviluppo di trattamenti a bersaglio nel carcinoma pancreatico, particolare interesse stanno suscitando
i vari componenti dello stroma peritumorale.
Una delle componenti ECM, l’acido ialuronico (HA) che risulta iperespresso nella maggior parte dei
carcinomi pancreatici [44], sembra avere un ruolo importante sia nei processi di invasione tumorale che
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
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nella chemoresistenza di questa patologia [45]. In modelli preclinici, è stata dimostrata una significativa
riduzione della crescita di tumori che accumulano HA in seguito al trattamento con una forma peghilata
sperimentale di ialuronidasi umana ricombinante (rHuPH20), il PEGPH20. [46]. Tale vantaggio è stato
confermato anche in uno studio di fase Ib, nel quale il PEGPH20 veniva somministrato assieme a
gemcitabina, diventando ancora più significativo nei pazienti con alta espressione di acido ialuronico
(HA+) [47]. Attualmente sono in corso vari studi di fase I/II per valutare i vantaggi della somministrazione
di PEGPH20 in combinazione con il FOLFIRINOX (ClinicalTrials.gov identifier: NCT01959139) o
con nab-paclitaxel e gemcitabina (ClinicalTrials.gov identifier: NCT01839487).
Dati controversi sembrano invece arrivare dall’inibizione del pathway di Hedgehog. Nonostante i dati
preclinici molto incoraggianti [48], i primi risultati provenienti da vari studi di fase II sono stati piuttosto
deludenti. Infatti, il vismodegib è stato valutato in uno studio clinico di fase Ib / II di confronto tra la
combinazione di gemcitabina più vismodegib e placebo, dimostrando una OS minore nel gruppo di
trattamento rispetto a quella del placebo [49]. Dati sconfortanti arrivano anche dallo studio di confronto
tra la combinazione di saridegib, un altro inibitore SHH, e la gemcitabina vs placebo [50]. Attualmente,
è in corso uno studio clinico di fase Ib con schemi di associazione di Erismodegib, un inibitore SMO, con
la gemcitabina (ClinicalTrials.gov identifier NCT01487785).
Dati interessanti invece sembrano arrivare dagli studi clinici con gli inibitori del pathway di JAK/STAT.
In particolare, lo studio RECAP, in pazienti con tumore del pancreas recidivante o refrattario al
trattamento, ha mostrato che Ruxolitinib, un inibitore orale di JAK1 e JAK2, ha migliorato in modo
significativo il tasso di sopravvivenza di un sottogruppo ben definito di pazienti con elevati marcatori
infiammatori che hanno presentato un tasso di sopravvivenza a sei mesi del 42% rispetto all’11% nei
pazienti trattati con placebo (hazard ratio, HR=0.47; P=0.005 [51]. Attualmente, due studi randomizzati
di fase 3, JANUS 1 e JANUS 2, su pazienti con carcinoma pancreatico con i punteggi dell’infiammazione
pari a 1 o 2, misurati con il Glasgow Prognostic Score modificato (mGPS) stanno confrontando
l’associazione Capecitabina + Ruxolitinib vs Capecitabina + placebo nel trattamento di 2° linea del
carcinoma pancreatico (JANUS 1, ClinicalTrials.gov identifier: NCT02117479; JANUS 2,
ClinicalTrials.gov identifier: NCT02119663).
Ulteriori progressi terapeutici potranno venire dagli studi in corso (Tabella 1) che stanno valutando
strategie per la deplezione stromale, per l’inibizione di pathways tumorali, quali Hedgehog, RAS-RAFMAPK e PI3K-AKT, aiutandoci a trovare una miglior individualizzazione del trattamento nel singolo
paziente, cercando di migliorare la prognosi cosi infausta di questa patologia.
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Tabella 1: Studi clinici in corso nel trattamento del carcinoma pancratico metastatico
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
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Immunoterapia e carcinoma pancreatico
L’immunoterapia si colloca tra i nuovi filoni di ricerca relativi alla terapia del carcinoma duttale del pancreas.
Con tale termine si intendono tutte le manipolazioni finalizzate a potenziare le risposte immunitarie dell’ospite
e/o a contrastare l’immunosoppressione messa in atto dal tumore nel corso della sua storia naturale. Nelle fasi
iniziali, il sistema immunitario dell’ospite riconosce ed elimina le cellule tumorali; con la successiva progressione,
le cellule neoplastiche eludono la sorveglianza immunitaria attraverso molteplici meccanismi: riduzione
dell’espressione e della presentazione HLA correlata di antigeni tumorali, costituiti per lo più da proteine del
self overespresse o mutate, in grado di evocare deboli risposte immunitarie; riduzione dell’espressione di molecole
co-stimolatorie della famiglia B7 e aumento dell’espressione di molecole co-inibitorie (B7-H1 e B7-H4) da
parte delle cellule tumorali con induzione di tolleranza periferica dei linfociti T; deviazione della risposta
immunitaria verso il pattern anti-infiammatorio; induzione dell’apoptosi dei linfociti T mediata dal complesso
Fas-Fas ligando; accumulo di cellule T di tipo regolatorio e di fattori immunosoppressivi come IL-10, IL-6 e
TGF-β; immunomodulazione da parte della reazione desmoplastica [52, 53, 54, 55].
Alla luce delle conoscenze sull’immunobiologia del carcinoma del pancreas, sono stati sviluppati diversi approcci
d’immunoterapia distinti in:
• immunoterapia attiva: induzione nell’ospite di una risposta immunitaria verso le cellule tumorali, attraverso
sostanze che potenziano l’attività immunitaria in generale o vaccini in grado di stimolare una risposta verso
determinati antigeni tumorali;
• immunoterapia passiva: trasferimento nell’ospite di sostanze, come gli anticorpi monoclonali (Mab) o
cellule in grado di mediare una risposta anti-tumorale.
La vaccinazione consiste nella somministrazione di antigeni accompagnati da adeguati segnali costimolatori in
grado di evocare una risposta immunitaria terapeutica nei confronti della neoplasia. Sono stati testati peptidi
derivati da antigeni iperespressi dalle cellule del carcinoma del pancreas quali telomerasi, CEA, mucine, RAS,
in associazione a G-CSF per potenziarne l’immunogenicità [56]. In alcuni studi, la somministrazione è avvenuta
in combinazione alla chemioterapia tradizionale, come in quelli relativi al GV 1001, un vaccino costituito da
un peptide di 16 amminoacidi estratto dalla telomerasi umana. L’espressione della telomerasi, caratteristica delle
neoplasie umane in fase avanzata, è in grado di innescare una risposta immunitaria cellulo-mediata, come
dimostrato da studi preliminari di fase I e II [57]. Recentemente due trials di fase III in pazienti con neoplasia
pancreatica avanzata/metastatica hanno randomizzato i pazienti a ricevere sola chemioterapia oppure
chemioterapia concomitante o sequenziale all’immunoterapia: in entrambi i casi, la terapia combinata non ha
raggiunto l’end-point primario dell’aumento della sopravvivenza globale (OS), a dimostrazione del fatto che la
sola presenza di una risposta immunitaria non è sufficiente a predire l’efficacia clinica [58,59].
La somministrazione di IMM-101, una sospensione cellulare costituita da Mycobacterium obuense ucciso dal
calore, si associa ad una attivazione immunitaria. Al recente ASCO GI 2015, sono stati presentati i risultati di
uno studio di fase II in pazienti affetti da carcinoma del pancreas avanzato randomizzati a ricevere Gemcitabina
da sola o in associazione a immunoterapia: è stato dimostrato un vantaggio in OS e sopravvivenza libera da
progressione (PFS) nei pz trattati con la combinazione (rispettivamente 7.2 vs 5.6 mesi, p=0.022 e 4.4 vs 2.4
mesi, p=0.003), mostrando un vantaggio maggiore nel sottogruppo di pz con malattia metastatica [60].
L’utilizzo dei Mab, da soli o nell’ambito di approcci multimodali, rappresenta un’altra possibile strategia nel
carcinoma del pancreas. Numerosi studi di fase I/II hanno dimostrato che il blocco di CTLA-4 [61] con Mab
immunomodulanti è in grado di indurre un beneficio clinico, attraverso il potenziamento di risposte celluloN° 7 MARZO 2015
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
mediate e umorali. La cinetica e la durata delle risposte sono molto differenti da quelle dei comuni chemioterapici
pertanto sono stati proposti nuovi criteri di valutazione della risposta alla terapia definiti irRC (immune-related
response criteria). L’inibizione di CTLA-4 induce un profilo caratteristico di effetti collaterali noto come irAE
(immune-related adverse events) quali rash cutaneo, colite, diarrea, epatite, tiroidite, in genere reversibili. Il
riconoscimento dell’espressione di specifici antigeni tumorali ha dato impulso alla ricerca di Mab con attività
antagonista specifica. La loro azione citotossica si esplica nell’induzione di citotossicità anticorpo mediata
(ADCC). E’ in corso uno studio di fase II, arruolante pazienti metastatici in progressione dopo FOLFIRINOX
ad assumere Gemcitabina e Nab-Paclitaxel in associazione o meno a NPC-1C, anticorpo monoclonale chimerico
IgG1 diretto verso una variante di MUC5AC [62].
Considerate le deboli risposte ottenute con le singole strategie di immunoterapia, si può ipotizzare un’azione
sinergica della loro combinazione. A tal riguardo è stato condotto uno studio randomizzato di fase IIa su pazienti
con carcinoma duttale del pancreas già trattati con chemioterapia tradizionale che ha testato l’attività del vaccino
GVAX e dell’immunoattivante CRS-207 confrontata con il solo GVAX. GVAX è costituito da cellule tumorali
allogeniche irradiate e, somministrato dopo basse dosi di ciclofosfamide che inibisce i linfociti T regolatori,
induce una risposta immune verso molteplici antigeni tumorali; CRS-207 è formato da batteri vivi attenuati
della specie Listeria monocytogenes modificati per esprimere l’antigene mesotelina in grado di attivare sia
l’immunità innata che quella acquisita. Dallo studio è emerso che il trattamento immunomodulante combinato
è ben tollerato e determina un aumento di OS rispetto al solo GVAX (6.1 vs 3.9 mesi, HR=0.54, p=0.011)
[63]. E’ in corso un trial di fase IIb di confronto tra GVAX e CRS-207, CRS-207 da solo o chemioterapia in
analogo setting di pazienti pretrattati (Studio ECLIPSE).
Conclusioni
Nonostante i recenti progressi nel trattamento sistemico, il carcinoma pancreatico rimane una patologia a
prognosi infausta. Recenti studi hanno dimostrato come dei trattamenti chemioterapici di combinazione
(FOLFIRINOX, gemcitabina + nab-paclitaxel) possano essere più efficaci rispetto alla monoterapia con
gemcitabina. Ulteriori progressi terapeutici potranno venire dagli studi in corso che stanno valutando strategie
per la deplezione stromale, per l’inibizione di pathways tumorali, quali Hedgehog, RAS-RAF-MAPK e PI3KAKT, o studi di immunoterapia. Altrettanto importante appare l’individuazione di biomarcatori clinici e
biomolecolari che consentano una individualizzazione del trattamento.
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
53
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Tumore del Pancreas: nel Labirinto del Minotauro
avendo perso il gomitolo di Arianna. Promesse e
delusioni delle Terapie a bersaglio molecolare.
Paola Bertocchi, Francesca Aroldi, Alberto Zaniboni.
Oncologia Medica- Fondazione Poliambulanza - Brescia
INTRODUZIONE
Nonostante sia una malattia relativamente rara1 l’adenocarcinoma del pancreas (PDA) rappresenta
la quinta causa di morte per tumore in Italia nel sesso maschile e la quarta nel sesso femminile2.
Nel mondo si stimano 330372 decessi nel 20123. A determinare l’alta mortalità di questa
patologia sono da un lato il ritardo nella diagnosi e dall’altro la scarsa responsività ai trattamenti
medici. Vari trials sono stati condotti per individuare la combinazione di farmaci o il farmaco
più efficace nella terapia del tumore del pancreas, ma a tutt’oggi il farmaco di riferimento rimane
un farmaco storico, la gemcitabina4. Dal 1997 numerosi studi hanno tentato di dimostrare un
incremento della sopravvivenza con l’associazione di fluoro pirimidine e analoghi del platino alla
gemcitabina, ottenendo solamente un incremento della response rate (RR)5-13. Recentemente un
aumento statisticamente significativo in termini di overall survival (OS), è stato raggiunto dalla
combinazione di 5-FU-Oxaliplatino-Irinotecano (FOLFIRINOX)14 e dal nab-paclitaxel associato
alla gemcitabina15. Quest’ultima combinazione si presenta più vantaggiosa in termini di tossicità
e pertanto risulta maggiormente maneggevole e fruibile da un maggior numero di pazienti.
Accanto alla ricerca della miglior combinazione di chemioterapici, si è sviluppato interesse per
farmaci a target specifico. Il PDA rappresenta una patologia estremamente complessa ed
eterogenea, nella cui evoluzione giocano un ruolo innumerevoli bersagli molecolari e genetici,
per cui comprendere quali di essi rappresentino una possibilità terapeutica efficace, spesso si rivela
arduo (Tabella 1).
Tabella 1: La complessità della Biologia del carcinoma pancreatico.
N° 7 MARZO 2015
58
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Andremo di seguito a descrivere i farmaci che dall’erlotinib in poi hanno tentato di rispondere
all’esigenza di terapie target in questa patologia.
TERAPIE TARGET
La carcinogenesi del PDA passa attraverso numerose tappe rappresentate da mutazioni attivanti di proto
oncogeni (es. K-RAS) e perdita di funzione di geni oncosoppressori (es. p16 e SMAD4)16,18. Le ultime
ricerche hanno evidenziato, inoltre, che il microambiente svolge un ruolo fondamentale nella
progressione del PDA e nella resistenza alle terapie. A differenza delle chemioterapie le target therapies
agiscono su specifici bersagli molecolari responsabili della progressione delle cellule tumorali. Gli
oncogeni attivanti sono i target più promettenti perché sono costitutivamente attivi e sono specifici
delle cellule tumorali. La mutazione di K-RAS, che avviene precocemente nella tumorigenesi del PDA,
comporta un’aumentata attività di numerose altre pathways molecolari quali B-RAF, MAP kinasi, PI3K,
mTOR e PLC/PKC/Ca++ che sono implicate nella crescita e nella proliferazione cellulare19,20.
Nel 2007 lo studio del National Cancer Institute of Canada Clinical Trials Group ha dimostrato un
incremento di 6 giorni in PFS ( HR 0.77, p=0.004) e 10 giorni OS (HR 0.82, p=0.038) con l’aggiunta
di erlotinib, inibitore tirosinkinasico di EGFR, alla gemcitabina. Tali risultati hanno portato
all’approvazione di erlotinib per il trattamento di prima linea del PDA, con la raccomandazione ESMO
di sospendere il trattamento nei pazienti in cui non si verifichi un rash cutaneo di grado ≥ 2 entro 8
settimane dal trattamento, dal momento che questo correla con un incremento nella OS21. Anche il
tentativo di agire su EGFR attraverso Cetuximab si è rivelato infruttuoso, infatti la sua aggiunta alla
gemcitabina non ha portato a incrementi significativi della sopravvivenza22.
È stato riscontrato che mutazioni attivanti di KRAS sono presenti nel 90% dei PDA; per questo sono
state testate molecole in grado di agire sulla cascata molecolare di KRAS; un esempio è Tipifarnib, un
inibitore della farnesiltransferasi. In uno studio in doppio cieco di fase III, l’associazione di questo
farmaco alla gemcitabina tuttavia non ha portato ad un aumento significativo della sopravvivenza.
Nonostante ciò, il tipifarnib viene tutt’ora testato in modelli preclinici in associazione ad altri farmaci
come atorvastatina e celecoxib, nel tentativo di sfruttarne l’azione sinergica23.
Più recentemente l’attenzione sul pathway di KRAS si è spostata verso l’inibizione di MEK1/2, attraverso
molecole come Selumetinib e Trametinib. Anche questa strategia si è dimostrata inefficace; infatti per
entrambi i farmaci non si è registrato un beneficio statisticamente significativo. Ciò sembra dovuto ad
un aumentata attivazione della pathway di EGFR mediante PI3K, indipendente da KRAS24,25. Nel
tentativo di superare le resistenze dovute all’aumentata attivazione di EGFR, sono state testate
combinazioni di più farmaci mirati, come per esempio selumetinib ed erlotinib. In uno studio
multicentrico di fase 2 la combinazione dei due farmaci, somministrata in pazienti pretrattati ha portato
al raggiungimento di una OS mediana di 7.5 mesi, con un disease control rate del 51%26.
Al contrario, l’inibizione di mTOR attraverso Everolimus e Temsirolimus ha fatto registrare risultati
modesti, e lo studio di combinazione con l’inibitore di EGFR erlotinib, è stato discontinuato
precocemente per inefficacia27,28.
In più del 45% dei PDA si riscontra l’overespressione di HER2, che risulta amplificato in circa il 1624% dei casi29,30. Per questo è stato condotto uno studio di combinazione con Capecitabina e
Trastuzumab in pazienti con PDA HER2 positivi non pretrattati, che non ha riportato dati soddisfacenti
in termini di OS, se confrontato con la terapia standard. Pertanto gli autori non raccomandano ulteriori
approfondimenti in tale direzione31.
Sulla scorta di quanto è avvenuto in altri tumori solidi, anche nel PDA è stato indagato il ruolo dei
farmaci antiangiogenetici. Lo studio CALGB80303 che testava la combinazione di bevacizumab e
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
59
gemcitabina versus gemcitabina, non ha dimostrato tuttavia differenze sostanziali in termini di OS,
PFS e overall response rate32. L’aggiunta di erlotinib, nonostante i promettenti risultati degli studi di
fase I e II, non ha dimostrato un incremento statisticamente significativo di OS33,34.
Anche l’axitinib, inibitore di VEGFR, si è rivelato inefficace sia in OS che in PFS35. L’inefficacia dei
farmaci antiangiogenetici trova spiegazione nella disorganizzata vascolarizzazione del PDA, che è
responsabile, assieme allo stroma iperdenso, dell’ambiente ipossico che caratterizza questa neoplasia.
Farmaci che agiscono su più target (VEGFR, PDGFR e FGFR) es. dovitinib, in studi preclinici, hanno
dimostrato una riduzione della motilità delle cellule tumorali ed endoteliali in sinergismo con la
gemcitabina36,37. Questo a dimostrazione del fatto che nella proliferazione e crescita del PDA giocano
un ruolo più pattern e che per ottenere dei risultati spesso è necessario inibirli contemporaneamente.
Un ruolo chiave nella proliferazione, nella crescita, nella metastatizzazione e nella resistenza ai
chemioterapici, è svolto dallo stroma che circonda le cellule tumorali.
Le cellule stellate pancreatiche, fibroblasti altamente proliferanti, producendo proteine della matrice
extracellulare, interagendo con le cellule tumorali e attivando vari pathway oncogenici, contribuiscono
alla produzione e al rimodellamento dello stroma38. Sono inoltre implicate nella motilità delle cellule
tumorali e quindi nell’invasione e nella metastatizzazione39.
Lo stroma si presenta quindi come un potenziale target terapeutico. Sono stati ad esempio portati avanti
studi con PEGPH20, una ialuronidasi ricombinante peghilate, dimostrando una normalizzazione nella
vascolarizzazione del tumore con incremento della perfusione e un’attività antitumorale in modelli
preclinici40,41. Sono attualmente in corso trials clinici per indagare la sicurezza e l’efficacia di questa
molecola in combinazione con gemcitabina, mFOLFIRINOX e gemcitabina più nab-paclitaxel.
I risultati del nab-paclitaxel nello studio MPACT sono forse legati al miglior trasporto del farmaco sulla
cellula tumorale, merito dell’innovativo legame del paclitaxel all’albumina. Inizialmente si riteneva che
un’elevata espressione di proteina acida secreta ricca in cisteina (SPARC), indicativa di cattiva prognosi,
fosse un fattore predittivo positivo per la terapia con nab-paclitaxel, in realtà analisi retrospettive più
recenti dimostrano che non vi è correlazione tra la prognosi, la risposta al trattamento e l’elevata
espressione di SPARC42. E’ stato presentato all’ultimo ASCO GI un nuovo farmaco, il MM-398, il
ben noto irinotecano ma in formulazione liposomiale, in associazione al 5 fluorouracile e al calcio
levofolinato. Tale combinazione pare incrementare l’OS e la PFS43; ad ulteriore dimostrazione che
modificare i meccanismi di trasporto e assorbimento del farmaco può essere la chiave per vincere questa
patologia.
Oltre ai singoli target sono state indagate anche alcune vie di segnale in quanto alterate nella maggior
parte dei PDA e implicate nella proliferazione tumorale: la via di Hedgehog, di JAK-STAT e di Notch.
La prima è responsabile del cross-talk tra le cellule epiteliali maligne e le cellule stromali, dell’aumentata
espressione di geni coinvolti nella proliferazione tumorale e del mantenimento dello stroma 44,45. Studi
con un inibitore di questa via il Saridegib hanno dimostrato, in modelli murini, un’efficacia antitumorale
e un’azione sinergica con la gemcitabina, risultati però non confermati dagli studi di fase I e II46.
Nonostante questi riscontri scoraggianti il razionale per lo studio di farmaci inibitori di questa via è
consistente per cui lo studio di questa pathway non è stato ancora abbandonato. Risultati promettenti,
non solo in fase preclinica, ma anche in trial di fase II sono stati invece ottenuti con gli inibitori di JAKSTAT. Lo studio RECAP, studio di confronto tra capecitabina versus l’associazione capecitabina inibitori
di JAK-STAT (Ruxolitinib) in seconda linea dopo progressione con gemcitabina, ha dimostrato
miglioramento clinico in pazienti con elevata proteina C reattiva al baseline47; a conferma
dell’importanza di questa via di segnale nei tumori in cui la componente infiammatoria è ben
rappresentata. Sono tuttora in corso studi di fase III con questi inibitori (JANUS1 e 2)48,49.
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60
New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Un’altra importante via per lo sviluppo e la progressione di PDA è la via di Notch. Cinque sono i ligandi
coinvolti: JAG1, JAG2, ligando 1 delta like (DLL1), DLL3, DLL4. Demcizumab, un anticorpo
monoclonale umanizzato diretto contro DLL4 si è dimostrato, in associazione alla gemcitabina e
all’associazione gemcitabina- nab-paclitaxel, efficace nell’incrementare la response rate, sebbene correlato
ad un rischio di scompenso cardiaco destro e ipertensione polmonare entrambi reversibili50. Dagli ultimi
studi preclinici è emerso inoltre come la combinazione di inibitori di JAK-STAT e di Notch abbia
un’attività antitumorale superiore rispetto ai singoli inibitori. Nello stesso senso si sono spinti altri
ricercatori testando l’inibizione di più vie contemporaneamente51. E’ il caso dello studio di fase due che
sperimenta l’associazione di gemcitabina e Sunitinib (SUNGEM), inibitore tirosinkinasico attivo sulla
vascolarizzazione (PDGFRa e b, VEGFR1,2,3), sulla proliferazione (FLT3, CSF-1R) e sugli oncogeni
(KIT, RET); nonostante le aspettative l’associazione non si è dimostrata superiore rispetto alla gemcitabina
con un incremento della tossicità52. Molto promettente sembra essere invece l’Alisertib, un inibitore
dell’aurora kinasi A, che agisce sui pathway di PI3K/Akt/mTOR, p38 MAPK ed Erk1/2, oltre ad inibire
l’attività di Sirt-1 e del suo pathway. In uno studio preclinico, Alisertib, attraverso l’arresto del ciclo
cellulare, l’autofagia, e l’inibizione della transizione epitelio-mesenchimale mediante Sirt-1, ha dimostrato
una buona efficacia nei confronti delle linee cellulari pancreatiche umane PANC-1 e BxPC-353.
Nella strenua ricerca di un farmaco efficace nel trattamento del tumore del pancreas, visti gli ottimi
risultati ottenuti nel melanoma e il fermento che hanno generato, anche in questa patologia è stato
studiato il ruolo della Immunoterapia. È stato realizzato un vaccino, GV100, nell’ottica di ottenere una
risposta immune nei confronti della telomerasi, che è espressa nella maggior parte delle cellule che
compongono il PDA. Nonostante risultati incoraggianti fossero stati ottenuti in studi di fase I/II, in
due studi di fase III, PrimoVax e TeloVac, non si sono registrati incrementi significativi di OS. Anche
in quest’ambito sembra che la refrattarietà ai farmaci del PDA derivi dal microambiente, che svolge
una funzione immunosoppressiva attraverso fibroblasti attivati e chemochine inibitorie.
Nel tentativo di superare quest’ostacolo, sono in corso studi di associazione come lo studio ECLIPSE,
che testa la combinazione di GVAX, due linee cellulari pancreatiche allogeniche che producono GMCSF e che promuovono il reclutamento di cellule dendritiche, con CRS-207, un ceppo di Listeria
attenuato che esprimendo mesotelina, stimola una risposta immune verso le cellule di PDA54. GVAX
ha prodotto risultati incoraggianti in termini di OS anche nello studio di fase II che testava l’associazione
con ipilimumab55.
Un’altra strategia adottata per aggirare la resistenza dovuta all’azione immunosoppressiva dello stroma
tumorale, è l’utilizzo di anticorpi agonisti di CD40, come CP-870,893, che hanno dimostrato attività
antitumorale in studi di fase I 56,57.
CONCLUSIONI
Nonostante i molti anni di ricerca il tumore del pancreas rimane uno dei tumori più difficile da trattare,
un tumore poco responsivo alla chemioterapia standard perché poco vascolarizzato, con un importante
stroma fibrotico, con varie vie di segnale alterate, e di cui noi purtroppo ancora conosciamo poco. Vari
tentativi sono stati portati avanti cercando target specifici; in primis sono state indagate le vie che
maggiormente risultano alterate nell’oncogenesi e che hanno cambiato la storia naturale di altre neoplasie,
come ad es. RAS, EGFR, VEGFR, mTOR senza purtroppo risultati soddisfacenti (Tabella 2).
Non mancano peraltro motivi di cauto ottimismo, considerando la quantità e la varietà di molecole
allo studio. Probabilmente bisognerà dare più spazio ad un “pensiero strategico” meno convenzionale,
che provi a testare blocchi multipli nonché sequenze farmacologiche innovative.
Restiamo sintonizzati!
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61
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Tabella 2: Alcuni esempi di nuove terapie a bersaglio molecolare nel carcinoma del pancreas.
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Sintesi dei risultati e prospettive per il futuro.
Cristina Tasca, Roberto Labianca
Cancer Center – Ospedale Papa Giovanni XXIII – Bergamo
Il carcinoma pancreatico è ancora oggi la quarta principale causa di morte per neoplasia in
tutto il mondo. Nel 2012, negli Stati Uniti, sono stati stimati 43.920 nuovi casi e 37.390
morti per neoplasia pancreatica con un tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi
inferiore al 5%. (1-2)
Solo nel 10-20% dei casi la malattia neoplastica si presenta resecabile o potenzialmente
tale (borderline) e l’intervento chirurgico, associato o meno ad un trattamento sistemico a
finalità neo-adiuvante o adiuvante, diventa quindi l’unica terapia potenzialmente curativa (3).
Nella maggior parte dei pazienti (circa 80-90% dei casi) la malattia all’esordio si presenta
già localmente avanzata inoperabile o metastatica. La sopravvivenza media dei pazienti
affetti da carcinoma pancreatico localmente avanzato non operabile è di circa 6-11 mesi e
si riduce a 3-6 mesi per i pazienti con malattia metastatica all’esordio (4). L’unica possibilità
terapeutica proponibile è un trattamento sistemico a finalità curativa ma non guaritiva.
Per decenni il chemioterapico cardine nel trattamento della neoplasia pancreatica è stata la
Gemcitabina studiata ed utilizzata in tutti setting di cura, da quello neo-adiuvante a quello
metastatico, in mono-chemioterapia o in combinazione con altri agenti chemioterapici o
con target-therapy. Nel corso degli anni molti studi si sono susseguiti, e tutt’ora sono in
corso, per poter ampliare le possibilità terapeutiche in tutti i setting di cura, in particolare
nella malattia metastatica.
Negli stadi I e II, dove è proponibile un approccio chirurgico, una approfondita
valutazione del T e del coinvolgimento delle strutture vascolari locali (arteria celiaca, arteria
e vena mesenterica superiore, vena porta, arteria epatica) è fondamentale per determinare
la resecabilità nella massa neoplastica (3). A seconda della localizzazione del tumore i
pazienti vengono sottoposti a pancreaticoduodenectomia o a pancreasectomia (con
splenectomia). Una chirurgia estesa, comprensiva di linfoadenectomia e resezione arteriosa
en bloc, non migliora l’outcome e purtroppo molti dei pazienti resecati presentano margini
chirurgici microscopicamente positivi e micrometastasi (5).
Una serie di studi nel setting adiuvante, ha stabilito che 6 mesi di chemioterapia con
gemcitabina o in alternativa con fluorouracile, aumentano l’OS rispetto al solo follow-up
dopo chirurgia (6). Nello studio CONKO-01 sono stati arruolati 368 pazienti per
confrontare la sopravvivenza a 5 anni della popolazione trattata con gemcitabina per 6 mesi
rispetto alla sola osservazione (20.7% vs 10.4%, p =0.01) (7). Nell’ESPAC3 1088 pazienti
sono stati arruolati per valutare la sopravvivenza mediana dei pazienti trattati con
gemcitabina vs fluorouracile con risultati sostanzialmente sovrapponibili (23.0 vs 23.6
mesi, p= 0.39) (8). Nello studio asiatico JASPAC-01 nei 378 pazienti arruolati, quelli
trattati con S-1 (l’unica fluoropirimidina orale) hanno avuto una sopravvivenza maggiore
a 2 anni rispetto a chi ha ricevuto gemcitabina (70% vs 53% a 2yr, p<0.001) (9).
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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives
Ancora incerto rimane invece il ruolo del trattamento chemio-radioterapico adiuvante. Due studi Europei
(EORTC e ESPAC1) non hanno mostrato un beneficio significativo nell’aggiunta del trattamento radiante
nel setting adiuvante ma i dati di questi studi sono in disaccordo con studi americani; attualmente studi
randomizzati sono ancora in corso per meglio definire il ruolo della radioterapia negli stadi I e II (10-11).
Considerato l’alto tasso di N+ e di margini positivi dopo resezione chirurgica (R1 e R2), l’interesse per un
approccio neo-adiuvante ha aperto la strada a nuovi studi, molti dei quali ancora in corso, relativamente
all’utilizzo di un trattamento chemio-radioterapico concomitante o di un trattamento polichemioterapico
(Folfirinox o gemcitabina-paclitaxel oppure CDDP-gemcitabina) o ancora a trattamenti immunologici
(inibitori di PDL1) (12-13).
Attualmente è attivo l’arruolamento di pazienti, con età inferiore ai 75 anni, nel protocollo PACT-15,
studio randomizzato di fase II-III di chemioterapia peri o post-operatoria nel carcinoma del pancreas
resecabile volto a confrontare l’efficacia dei seguenti tre schemi di trattamento: PEXG adiuvante per 6
mesi (Gem 800 mg/mq, Epi 30 mg/mq ev bolo, CDDP 30 mg/mq e cape 1250 mg/mq/die per 14 giorni)
vs PEXG peri-operatorio ai medesimi dosaggi (3 mesi pre-operatori e 3 mesi post operatori) vs il
trattamento standard con gemcitabina adiuvante (1000 mg/mq giorni1,8,15q28) per 6 mesi. Endpoint
primario della fase II è valutare la proporzione di pazienti privi di evento (definito come PD, recidiva di
malattia, secondo tumore, metastasi a distanza o decesso) dopo un anno dalla randomizzazione nei tre
bracci di trattamento; endpoint primario della fase III è valutare l’OS dei due bracci sperimentali rispetto
al trattamento standard con gemcitabina; endpoint secondari sono il tasso di risposte obiettive radiologiche,
di risposte bioumorali, di RC patologiche nel braccio perioperatorio, tasso di resecabilità, tasso di
complicanze, mortalità operatoria, percentuali di pazienti NO ed R0 e tollerabilità dei trattamenti (14).
Nella malattia borderline, se il paziente presenta un buon PS è possibile proporre in neo-adiuvante il
trattamento polichemioterapico con schema mFOLFIRINOX con supporto G-CSF (13). Tale trattamento
è stato dapprima studiato ed approvato nel setting metastatico e considerati i buoni risultati ottenuti nella
malattia avanzata studi preliminari sono stati condotti nella malattia localmente avanzata (LAPC); ottenuta
la resecabilità è possibile proseguire con un trattamento chemio-radioterapico combinato. Se le condizioni
generali del paziente non permettono l’utilizzo della tripletta upfront rimane sempre indicato il trattamento
con gemcitabina o fluorouracile in monochemioterapia.
Nella malattia localmente avanzata non operabile, il trattamento ottimale non è stato ancora chiaramente
definito. Lo studio internazionale LAP-07 che confronta gemcitabina con o senza capecitabina e/o
radioterapia o gemcitabina con e senza erlotinib non ha mostrato una differenza statisticamente significativa
tra i due gruppi.
Diversi lavori, come ad esempio la meta-analisi di Sultana (14) e la revisione sistematica di Huguet (15)
hanno mostrato come il trattamento chemio-radioterapico non aumenti la sopravvivenza incrementando
però le tossicità riportate rispetto al solo trattamento chemioterapico.
Uno studio del GERGOR/GISCAD ha valutato la combinazione di gemcitabina-oxaliplatino verso sola
gemcitabina osservando come a un aumento delle RR, corrisponda una identica PFR ed una eguale OS
(10.3 mesi in entrambi i bracci) (16).
Se le condizioni cliniche del paziente lo permettono, la scelta maggiormente consigliata è la
somministrazione della tripletta con FOLFIRINOX o la combinazione gemcitabine+abraxane, da valutare
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67
l’eventuale trattamento CT-RT di consolidamento se non si evidenzia una PD dopo i primi 3 mesi di
trattamento, come in accordo con l’esperienza francese di Conroy (17).
Lo studio di Gunturu mostra come l’efficacia del FOLFIRINOX nella malattia localmente avanzata non
operabile sia comparabile con i buoni risultati ottenuta nella malattia metastatica: in 16 pazienti si è
osservato un disease control rate del 94% ed una RR del 50% ed un incremento della PFS a 6 e 12 mesi;
tali risultati in RR e PFS risultano maggiori rispetto a quelli ottenuti con una chemioterapia a base di
gemcitabina ed e molto simile a quelli ottenuti nel gruppo di pazienti metastatici trattati nello studio di Conroy.
Nello studio di Gunturu è stata ottenuta anche una RC e 2 pazienti sono stati portati a resezione (18).
Da tenere sempre in considerazione la possibilità di arruolare i pazienti in trials clinici come ad esempio
il protocollo di studio GAP (GISCAD), studio di fase II che confronta il trattamento con gemcitabina
standard (Gemcitabine 1000 mg/mq giorni 1, 8,15 -28) vs gemcitabina e abraxane (nab-paclitaxel 125
mg/mq e gemcitabina 1000 mg/mq giorni 1, 8, 15- 28) . I pazienti, senza evidenza di progressione dopo
i primi 3 cicli di trattamento, ricevono una combinazione di capecitabina 600 mg/mq BID e radioterapia
per 5 settimane.
Nella malattia metastastica l’approccio è unicamente il trattamento chemioterapico sistemico a scopo
citoriduttivo-palliativo da valutare a seconda delle condizioni generali del paziente (PS, età, comorbidità,
estensione di malattia, esami ematici) e dei precedenti trattamenti utilizzati. Anche in questo setting la
Gemcitabina per anni è stata il trattamento di riferimento per lo più in monochemioterapia avendo
dimostrato una superiorità rispetto al 5 fluorouracile ev-bolo, sia in termini di clinical benefit respons
(23.8% vs 4.8%, p=0.0022), sia in termini di sopravvivenza ad 1 anno (18% rispetto al 2% del fluoruracile
ev-bolo) e con favorevole profilo di tossicità; più modesto è stato l’impatto sulla OS mediana con 5.65
mesi della gemcitabina vs 4.41 mesi del bolo di 5-FU (p=0.0025) (19).
Sulla base di queste considerazioni sono stati effettuati studi di fase II/III di combinazione tra gemcitabina
e altri farmaci citotossici con risultati spesso deludenti. Negli anni sono state effettuate molteplici metanalisi
di studi che confrontavano gemcitabina in monochemioterapia rispetto a terapie di combinazione (20).
La metanalisi di Hu et al. pubblicata nel 2011 (21) ha analizzato 35 diversi studi, per un totale di 9.979
pazienti, che confrontavano la gemcitabina da sola versus l’associazione della gemcitabina con irinotecan
(22), docetaxel (23), pemetrexed (24), bevacizumab (25, 26) o con l’utilizzo di doppiette (21). La maggior
parte di questi studi non hanno evidenziato un incremento in OS, PFS e ORR statisticamente significativo
dall’utilizzo della terapia di combinazione rispetto alla gemcitabina in monochemioterapia.
L’aggiunta del platino alla gemcitabina aumenta la PFS e l’ORR ma non incide sulla OS, con risultati di
poco superiori se viene utilizzato l’oxaliplatino (HR=0.86, p=0.04) piuttosto che il cisplatino (HR =0.94,
p=0.61 (21,27,28). L’oxaliplatino ha una attività clinica migliore se utilizzato con il fluorouracile e mostra
attività sinergica in vitro quando somministrato con irinotecan.
Considerati gli ottimi risultati ottenuti dagli studi ESPAC-1 (11) e ESPAC-3 (8) che hanno utilizzato il
fluorouracile/leucovorin nel setting adiuvante, diversi studi hanno valutato la combinazione di gemcitabina
e fluoropirimidine mostrando un aumento in OS (ORs 1.33, p=0.007), PFS (ORs, 1.53; p<0.001) e ORR
(ORs 1.47, p=0.03) rispetto alla sola gemcitabina. Sia il 5-fluorouraclie ev che la capecitabina orale hanno
mostrato un beneficio terapeutico sovrapponibile. La possibilità di assumere le compresse al domicilio,
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oltre che i risultati favorevoli, hanno portato a considerare, negli anni passati, la combinazione GEM-CAP
uno standard nella I linea terapeutica, soprattutto in UK: tale associazione, rispetto alla sola gemcitabina,
mostra un aumento significativo in termini di response rate (19.1% vs 12.4%, p=.0034) e PFS (HR=0.78,
p=.004) con un trend di aumento della OS (p=.008) e con un profilo di tossicità accettabile, senza effetti
detrimentali sulla QoL. La mediana di sopravvivenza dei pazienti che hanno ricevuto la combinazione è
di 7.2 mesi verso i 6.2 mesi di quelli che hanno ricevuto solo gemcitabina (HR=0.86, p=0.08) (29, 30).
Modesti risultati in termini di OS mediana (6.24 vs 5.91 mesi, HR, 0.82; 95% CI, 0.69 to 0.99; p=.038)
e PFS (HR=0.77, p=0.004) si sono ottenuti nello studio di fase II che comparava l’associazione tra
gemcitabina ed erlotinib rispetto alla sola gemcitabina (31). Le migliori risposte in termini di sopravvivenza
si sono registrate nei pazienti che hanno manifestato il rash cutaneo entro le prime 8 settimane di terapia.
La combinazione potrebbe essere usata nei pazienti Kras mutati p53wt.
Studi relativi a terapie sequenziali, associazione di gemcitabina-cetuximab e regimi polichemioterapici a
base di gemcitabina (esempio PEFG) hanno dato risultati deludenti e non hanno pertanto modificato la
pratica clinica (32, 33).
Negli ultimi anni però il panorama del trattamento metastatico si è arricchito di nuovi studi dai risultati
incoraggianti, soprattutto per quanto concerne la I linea, che hanno portato a definire due nuovi cardini
della chemioterapia di I linea per la neoplasia pancreatica: FOLFIRINOX (Oxaliplatino 85 mg/mq,
irinotecan 180 mg/mq, leucovorin 400 mg/mq, 5FU bolo 400 mg/mq, 5 FU ic 1200 mg/mq) e
l’associazione di GEMCITABINA + NAB-PACLITAXEL; entrambi i trattamenti da somministrare per 6
mesi di terapia.
In un iniziale studio di fase I/II FOLFIRINOX comparato con gemcitabina in monochemioterapia ha
dato un miglioramento della sopravvivenza mediana, delle condizioni cliniche generali e della qualità di
vita. Ciò ha dato la spinta allo sviluppo di ulteriori studi, anche di fase III (PRODIGE 4/ACCORD 11),
per valutare l’efficacia e la sicurezza di questa schedula (34).
Nello studio di Conroy et al. 342 pazienti con una età massima di 75 anni sono stati randomizzati a
ricevere Gemcitabina vs FOLFIRINOX per 6 mesi. L’OS mediana nel gruppo con FOLFIRINOX è stata
significativamente maggiore rispetto al gruppo con sola Gemcitabina (11.1 mesi vs 6.8 mesi, HR 0.57,
p<0.001) ; Overall survival rate a 6-12-18 mesi è rispettivamente del 75.9%, 48.4%, 18.6% nel gruppo
con FOLFIRINOX vs 57.6%, 20.6%, 6.0% nel gruppo con sola gemcitabina; cosi come la PFS mediana
di 6.4 mesi vs 3.3 mesi (HR 0.47, p<0,001) , PFR rates a 6-12-18 mesi è stato del 52.8%, 12.1%, 3.3%
nel gruppo con FOLFIRINOX vs 17.2%, 3.5%, 0% nel gruppo con sola gemcitabina); e l’ORR di 31.6%
vs 9.4% (p<0.001); a 6 mesi il 31% dei pazienti con FOLFIRINOX hanno avuto un peggioramento della
QoL, rispetto al 66% del gruppo trattato con gemcitabina. Questi ottimi risultati si scontrano un una maggiore
tossicità del FOLFIRINOX rispetto alla sola gemcitabina con un’alta percentuale di neutropenia di grado 3 e
4 (45.7% vs 21%, p<0.001), neutropenia febbrile (5.4%vs 1-2%, p=0.03) con necessità di introdurre supporto
di G-CSF; inoltre trombocitopenia, diarrea, neurotossicità ed alopecia. Queste tossicità non sembra abbiano
comunque un grosso impatto sullo stato di salute generale e sulla QoL dei pazienti. Inoltre durante le
somministrazioni di irinotecan si sono verificati casi di disartria o sintomi neurologici quali parestesie facciali
e periorali, crampi, atassia, blefarospasmo che si sono risolti spontaneamente sospendendo temporaneamente
la somministrazione del farmaco e/o somministrando agenti colinergici. (35).
Nel tentativo di ridurre gli effetti collaterali migliorando la tollerabilità sono state studiate due schedule di
FOLFIRINOX alternative: mFOLFIRINOX con la delezione del 5-FU ev bolo con una riduzione delle
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neutropenia gr3-4 del 3% (36), e FOLFOXIRI in cui veniva somministrata una dose inferiore di irinotecan (150
mg/mq), senza somministrare 5-FU ev bolo e con una dose incrementata di 5-FU in ic (2800 mg/mq) (37).
Studi successivi, come quello di Gunturu et al. (18), hanno dimostrato come dosi ridotte di irinotecan e
5 fluorouracile ev-bolo (mantenendo invariato il dosaggio del fluorouracile ev e dell’oxaliplatino) e con
supporto di GCSF in profilassi primaria, hanno permesso di ottenere una riduzione in termini di tossicità
senza compromettere l’efficacia del trattamenti in termini di RR e OS rispetto ai risultati mostrati da
Conroy.
Grandi soddisfazioni sono arrivate già nel 2011 dall’utilizzo in I linea di nab-paclitaxel in aggiunta alla
gemcitabina rispetto alla gemcitabina in monochemioterapia (8.5 mesi vs 6.7 mesi) (38,39).
Il meccanismo di azione di Nab-paclitaxel, già largamente utilizzato nella neoplasia mammaria (40),
polmonare (41) e melanoma (42), si basa sull’assorbimento dell’albumina da parte delle cellule tumorali
che favorisce così una migliore diffusione intratumorale del paclitaxel che è legato all’albumina stessa;
questo è ancora più rilevante considerato che il denso stroma che caratterizza la neoplasia pancreatica è
ricco di proteine (SPARCS) che legando l’albumina aumentano le concentrazioni di paclitaxel
intratumorale. La deplezione dello stroma desmoplastico è associata ad una maggiore concentrazione del
farmaco all’interno della cellula tumorale ed a un aumento dell’angiogenesi. L’espressione di SPARC nei
fibroblasti peritumorali è un fattore prognostico negativo nei pazienti con malattia resecabile, mentre
l’espressione di SPARCS nelle cellule tumorali non correla con l’OS (43-44).
Nella fase I/II Von Hoff et al. (39) hanno definito il dosaggio di tale schedula con gemcitabina 1000
mg/mq + nab-paclitaxel 125 mg/mq settimanali, per tre settimane consecutive, da ripetersi ogni 4
settimane; ottenendo una RR del 48% con una PFS di 7.9 mesi e una OS di 12.2 mesi. In tale studio
sono stati inoltre validati sia il ruolo del CA 19-9 come fattore prognostico indipendente nel 80-85% dei
casi che l’espressione di SPARC come marcatore predittivo della precoce risposta all’associazione di
gemcitabina + nab-paclitaxel indipendente dal livello di CA 19-9; l’aumento del livello di SPARC a livello
dello stroma è associato quindi ad un aumento della OS (45-46)). Tali risultati sono stati confermati dallo
studio di fase III (MPACT) di Golsdtein et al. (38) pubblicato su JNCI a Gennaio del 2015: 861 pazienti
sono stati randomizzati a ricevere gemcitabina vs nab-paclitaxel+ gemcitabina ottenendo un aumento
statisticamente significativo della OS (media=8.5 vs 6.7 mesi, HR=0.72, 95% CI da 0.62 a 0.83, p<.001),
della PFS (media=5.5 vs 3.7 mesi, HR=0.69, 95% CI da 0.58 a 0.82, p<.001), e della ORR (23% vs 7%,
response rate ratio =3.19, 95% CI da 2.18 a 4.66, p<.001). È stato effettato un esteso follow up che ha
mostrato la sopravvivenza di circa il 4% dei pazienti oltre i 36 mesi e un 3% dei pazienti oltre i 42 mesi
mentre nessun paziente del braccio con sola gemcitabina è sopravvissuto più di 36 mesi. Le critiche mosse
a questo studio sono legate al fatto che la popolazione selezionata (pazienti giovani, buon ECOG PS, senza
ostruzione biliare) non è rappresentativa della popolazione che si ritrova quotidianamente nella pratica
clinica. Nello studio di Golsdtein è stato definito il ruolo della NLR (neutrophil-lymphocite ratio) come
un marcatore della risposta della infiammazione sistemica e quindi fattore prognostico. Pazienti con NLR
minore o uguale a 5 hanno un aumento statisticamente significativo della OS rispetto a chi ha una NLR
superiore a 5 e nei pazienti con NLR elevato l’OS è maggiore in quelli trattati con la combinazione rispetto
a chi è trattato con la monochemioterapia (47-48-49). Metastasi epatiche, KPS, età e NLR basale sono
tutti fattori predittivi indipendenti della OS La tossicità della combinazione è maggiore rispetto a sola
gemcitabina, sia per la neurotossicità periferica che per la mielosoppressione.
Le opzioni terapeutiche dopo la prima linea chemioterapica a tutt’oggi sono limitate. Gli studi effettuati
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fino ad oggi e da proporre oltre la prima linea terapeutica sono molto spesso non randomizzati e soprattutto
di piccoli dimensioni, considerata l’alta mortalità di questa neoplasia e le fragili condizioni dei pazienti
che ne sono affetti. Gli obiettivi della chemioterapia oltre la prima linea sono quelli di prolungare la
sopravvivenza migliorando la qualità della vita, pertanto i trattamenti proposti in questo setting devono
essere a bassa tossicità e somministrati con schedule non troppo impegnative per il paziente.
Nel 2008 lo studio asiatico di Seong Yoon Yi et al. ha mostrato l’utilizzo dell’irinotecan in monochemioterapia in II linea in un gruppo di 33 pazienti trattatati con CPT-11 150 mg/mq ogni 2 settimane
ottenendo una PFS mediana di 2 mesi e OS di 6.6 mesi con un profilo di tossicità prevedibile e
maneggevole (50).
Nel 2013 è stato pubblicato su JCO un piccolo studio di fase II non randomizzato di Peddi et al. in cui
sono stati arruolati 20 pazienti, precedentemente sottoposti ad almeno 2 linee di chemioterapia, che hanno
ricevuto una dose media di nab-paclitaxel di 100 mg/mq (range 75-125 mg/mq) giorni 1,8-21. I risultati
hanno mostrato una PFS mediana di 3.7 mesi ed una OS di 5.2 mesi; le tossicità maggiormente riscontrate
sono state la polmonite (5 pazienti su 20) e la neutropenia di grado 3-4 (3 pazienti su 20) (51).
Nel 2014 è stato pubblicato lo studio di Zaniboni et al. che, pur nell’esiguità del campione arruolato (23
pazienti), mostra come l’utilizzo di gemcitabina + nab-paclitaxel somministrato a dose ridotta (80% della
dose standard), con supporto di G-CSF in II linea ed oltre, sia un trattamento ben tollerato con un clinical
benefit (inteso come PR+SD) del 43.5%, TTF di 3 mesi e u una OS a 6 mesi del 47.8% (52).
I pazienti resistenti alla gemcitabina con un buon PS e altamente motivati possono essere trattati in seconda
linea anche con fluoropirimide ed oxaliplatino (FOLFOX); quelli con un PS scarso con solo fluoropirimide
o sola gemcitabina.
Ad oggi ci sono pochi dati rispetto ad una seconda linea chemioterapica dopo progressione a
FOLFIRINOX. Secondo Conroy et al. Le maggiori possibilità terapeutiche in seconda linea dopo
FOLFIRINOX sono la gemcitabia o le combinazioni con gemcitabina.
La neoplasia pancreatica rimane ancora oggi una patologia neoplastica aggressiva, ad alta e precoce
mortalità, caratterizzata da una alta complessità genetica e con pochissimi fattori prognostici su cui poter
basare le decisioni cliniche. La malattia localmente avanzata e quella metastatica sono da considerare
prognosticamente differenti e richiedono pertanto algoritmi di trattamento diversi che devono essere
validati in studi clinici separati. Il numero di pazienti con malattia localmente avanzata-borderline e quelli
che possono permettersi un trattamento chemioterapico oltre la prima linea è molto limitato, questo porta
ad avere studi numericamente piccoli che non sono in grado di dare risposte definitive. Risultati
incoraggianti si stanno ottenendo dall’utilizzo di FOLFIRINOX (primo schema polichemioterapico
gemcitabina-free nella neoplasia del pancreas metastatico) e gemcitabina-abraxane che hanno scalzato
l’egemonia decennale della gemcitabina in monochemioterapia in tutti i setting di cura apportando migliori
risultati in termini di sopravvivenza e qualità di vita. I risultati ottenuti con l’utilizzo del nab-paclitaxel
hanno permesso di valorizzare il ruolo dello stroma nello sviluppo della resistenza ai chemioterapici, nella
ipotesi di identificare delle target-therapy. Molti studi sono tutt’ora in corso per valutare il ruolo dello
stroma nell‘invasione locale, nel processo di metastatizzazione e in quello della chemioresistenza (53-54).
Lo stroma nella neoplasia pancreatica è molto denso e poco vascolarizzato, questo determina la formazione
di una barriera che non permette una ottimale diffusione del farmaco all’interno della cellula tumorale.
Analisi genetiche mostrano come il processo di cancerogenesi sia molto lungo (anche17 anni) e ciò rende
ragione dell’importanza di identificare fattori utili ad una diagnosi precoce della neoplasia pancreatica
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(55). Sono in corso studi riguardo l’identificazione di fattori prognostici e predittivi (ECOG PS, mutazione
di K ras, amplificazione di EGFR, valori di PCR basali, anamnesi positiva per DM tipo II, perdita
dell’espressione di SMAD/DPC4, livelli di albumina) che possono aiutare ulteriormente il clinico nella
fase decisionale del programma oncologico sul singolo paziente (56). Le mutazioni genetiche più frequenti
sono K ras, TP53 e SMAD4 ma ad oggi non ci sono ancora farmaci target attivi nell’inibizione di tali
mutazioni. In particolare K ras è mutato nel 90% dei tumori pancreatici attraverso l’attivazione di una
cascata enzimatica e questa mutazione sembra essere una delle prime del processo di carcinogenesi. Le
mutazione di TP53 e di CDKN2A sono presenti nel 80% e 60% dei casi, rispettivamente, e sono
responsabili delle fasi iniziali della cancerogenesi. L’inattivazione di SMAD4, che si manifesta più
tardivamente, indica una maggiore aggressività. La risposta all’irinotecan è diversa nei pazienti con SMAD4
wt vs SMAD4 mutato e ciò permette di personalizzare maggiormente il trattamento chemioterapico (5758-59). Nuovi target sono in corso di studio: BRCA1 e BRCA2, ROBO3 e ROBO1/2, EGFR, PI3Ki,
CSC (60). Studi preclinici mostrano come l’aggiunta di gemcitabina ad agenti CSC-target favorisce la
regressione tumorale sia bloccando il progresso di metastatizzazione sia bloccando il processo di resistenza
verso il chemioterapico (esempio gemcitabina associato a tigatuzumab) (61).
Lo stato infiammatorio associato alla massa tumorale è e sarà un nuovo ambito di studio. Nuove pathway
sono già state indentificate come ad esempio quella di JAK-STAT; lo studio di fase III di Herbert mostra
come l’utilizzo dell’anticorpo monoclonare Ruxolitin in combinazione con la capecitabina in II linea
aumenti l’OS rispetto alla sola capecitabina, soprattutto nei pazienti con elevata PCR basale (62).
Molti passi avanti sono stati fatti per definire nuovi approcci terapeutici nella neoplasia pancreatica in tutti
i setting di cura, ma molti passi devono ancora essere fatti per definire e validare fattori prognostici, fattori
predittivi, basi genetiche e molecolari che possano aiutare l’oncologo nella pratica clinica quotidiana.
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32.55 (suppl; abstr 4000)
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N° 7 MARZO 2015
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