Temporary shop

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Temporary shop
AS 11 [2010] 703-706
Schedario/ Lessico oggi
Vittorio Filippi
Temporary shop
Docente di Sociologia
dei consumi nell’Istituzione
Universitaria SISF di Venezia
Non deve meravigliare che sia proprio il
mondo dei consumi a ufficializzare e promuovere il concetto di temporaneità. Già da
tempo l’accelerazione delle mode, l’invecchiamento rapido delle merci e degli stili,
il dinamismo delle formule comunicative
della pubblicità ci hanno indotto a vedere
nei consumi un potente motore di velocizzazione culturale e degli stili di vita.
Il fenomeno dei temporary shop rientra pienamente in questa tendenza. Dopo
che sono stati «precarizzati» marchi, loghi,
prodotti (attraverso l’esasperazione della
velocità del ciclo di vita delle merci, fino
alla limited edition, vale a dire una edizione limitata di un prodotto, disponibile
in pochi esemplari), oggi risulta a termine
perfino lo spazio commerciale stesso dove
fare gli acquisti: lo potremmo chiamare
«negozio a tempo determinato», progettato
fin dall’inizio per rimanere aperto solo per
un certo periodo, destinato poi a sparire o
a trasformarsi in un qualcosa di diverso.
Vale qui l’osservazione del sociologo anglopolacco Zygmunt Bauman: «La vita di
un consumatore, la vita di consumo, non
consiste nell’acquisire e possedere. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto,
nel rimanere in movimento» (Bauman Z.,
Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari
2008, 123).
© fcsf - Aggiornamenti Sociali
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Come spesso accade, non tutto è radicalmente nuovo. Anche nel passato il
commercio presentava aspetti di mobilità
spaziale, di temporaneità: si pensi ai venditori ambulanti, alle bancarelle itineranti,
ai mercati, al fitto mondo delle sagre, delle
fiere, delle feste paesane, in cui consumi,
divertimenti e socialità si mescolavano in
modo fortissimo. Realtà pure oggi presenti e non prive di novità, come l’esempio
americano degli chef on the road, furgoni
che offrono cibo di una certa qualità. Certamente, però, la tendenza, storicamente,
si è indirizzata verso strutture di vendita
stabili e radicate.
Definizione ed evoluzione
Si può far iniziare la storia del temporary
shop nei primi anni Duemila, quando Russ
Miller, un americano esperto in pubbliche
relazioni, crea a New York uno store itinerante, Vacant, pensato per restare aperto un
mese, in spazi urbani dismessi, vendendo
prodotti di vario genere, dalle lampade alle scarpe, dai giocattoli all’alta moda, in
quantità limitata e di marche affermate,
dove l’aspetto esperienziale e polisensoriale
era particolarmente curato e lo strumento
comunicativo adottato era il passaparola, invece del messaggio pubblicitario canonico.
La formula lentamente si diffonde anche in
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Gran Bretagna, dove tocca il comparto della
ristorazione. Nel 2004 la stilista giapponese Rei Kawakubo, fondatrice della casa
di moda Comme des Garçons, ha l’idea di
presentare la sua collezione in uno spazio
volutamente effimero e teatrale di Berlino,
in un’area urbana animata da artisti e creativi, tempo di apertura un anno e non di più.
Anche qui vale la filosofia minimalista, la
forza del passaparola, la marginalità della
pubblicità.
In Italia l’esperimento parte visibilmente
nel 2005 con l’apertura da parte di L’Oréal,
per soli dodici giorni, di uno spazio dedicato
a Lancôme e a un suo nuovo prodotto estetico per la pelle. Chi riesce a prenotare un
appuntamento può provare in anteprima il
prodotto, nonché avere la consulenza gratuita di una squadra di esperti di bellezza.
Ciò avviene a Milano, la capitale della moda
e del design, i due incubatori naturali più
sensibili allo sviluppo del fenomeno. Tre
anni più tardi nasce Assotemporary, l’associazione che vuol rappresentare tutte le
nuove formule commerciali temporanee. In
effetti il 2008 è l’anno in cui l’idea degli
spazi commerciali a tempo si consolida,
tanto è vero che — stima Assotemporary —
nascono una settantina di temporary shop in
Italia, che spaziano dalla vendita di gadget
legati alle squadre di calcio agli alimenti
biologici, dall’abbigliamento al make-up e
agli accessori.
L’alchimia della formula
La temporaneità dell’offerta, nonostante
le sue origini antiche, ha oggi una strutturazione del tutto nuova, che possiamo sintetizzare attraverso un trittico di concetti.
Il primo è quello di atmosfera. Già nel
1973 un grande studioso di marketing come
Philip Kotler aveva scritto che non è solo il
prodotto a essere venduto, ma sono le stesse
caratteristiche del luogo di vendita — né
Vittorio Filippi
asettiche né neutre — che possono inibire
o promuovere le vendite.
Il secondo ingrediente rimanda alla marca e alla sua importanza nell’immaginario
odierno del consumo (in cui, è stato detto,
la marca ha addirittura sostituito le grandi ideologie novecentesche). Per meglio
comunicare l’identità della marca, dagli
anni Ottanta si svilupparono i concept store,
negozi monomarca in cui era proprio la
comunicatività particolare dell’atmosfera
che doveva esprimere e rinforzare l’immagine della filosofia dell’azienda, dei
suoi prodotti, della sua mission. Questi
«negozi-ammiraglie» servono oggi anche
per recepire informazioni sui clienti ed entrare in relazione con loro. È il discorso del
marketing relazionale, che vuole andare
oltre la mera transazione per arrivare alla buona «conversazione» con il cliente,
come sapevano fare i bottegai sotto casa
d’un tempo.
Il terzo aspetto è quello dell’evento.
L’evento aziendale mira a più obiettivi. Essendo per definizione limitato nel tempo,
alimenta la tensione e l’emotività «dell’esserci». Essendo unico, spinge sull’originalità, sulla creatività, sulla spettacolarizzazione. Sa aggregare creando, anche se solo
per specifici momenti, alti livelli di empatia
collettiva tra i partecipanti. Inoltre, sa ben
dissimulare le finalità (aziendali, ovviamente, anche se non immediatamente di
vendita) sottese, assumendo così un ruolo
accattivante quanto neutro. Infine l’evento
ha una elevata capacità comunicazionale
sia nei confronti dei vari pubblici a cui si
rivolge e che vi partecipano (segmentando
così gli obiettivi di mercato), sia nei confronti degli assenti, raggiungibili attraverso
i media ma soprattutto attraverso il passaparola (che è alla base del cosiddetto marketing virale: l’aggettivo nella sua efficacia
si comprende da sé).
Temporary shop
Riassumendo, il temporary shop sintetizza oggi in sé questi tre differenti aspetti.
Si comprende allora come questa formula
sia in realtà più comunicativa che commerciale, più un vistoso «portabandiera»
di una marca (con tutto ciò che comporta in
termini di stili di vita proposti) che semplice
vendita. Ci troviamo di fronte a una realtà
di natura ibrida, che punta a un obiettivo
assolutamente unitario: sparigliare la scena dello shopping usuale introducendovi
sorprese e mutamenti di scena continui,
«scuotendo» un contesto in cui tutto appare
terribilmente assordante e affollato di prodotti, di pubblicità, di marchi e di loghi.
Tendenze socioculturali
dei consumi
Potremmo dire, in un’ottica sociologica e
antropologica, che il negozio a termine è la
risposta ad alcune tendenze culturali profonde, che rimandano al ruolo della marca,
alla velocizzazione dei consumi, alla spettacolarizzazione (di merci e punti vendita) e
alla bulimia dei mercati e dell’offerta.
Per quanto riguarda la marca, da tempo
essa non si limita più a «nominare» un prodotto o una linea di prodotti, ma propone
valori, stili di vita, un’estetica e talvolta addirittura un’etica e una visione del mondo,
che una volta erano prodotti dalle ideologie
politiche ma che oggi, dato l’indebolimento
e il discredito di queste ultime, sono stati
affidati alle marche, vale a dire al mercato.
In un certo senso, più che produrre i prodotti, le marche «producono» i consumatori,
attraendoli e trasformandoli in attori del
mondo — più o meno immaginario — che
sanno proporre.
La velocizzazione è ben visibile dall’accelerazione del ciclo di vita dei prodotti,
sempre più breve, stimola nel potenziale
acquirente il timore di essere in ritardo e
quindi escluso dalla proposta, dall’affare,
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dall’irripetibilità dell’evento. Lo stesso termine «consumo», che etimologicamente
si rifà a distruzione, logoramento, usura,
è ormai semanticamente inadatto a esprimere il consumo odierno, non più fisico,
ma puramente estetico. Infatti nel campo
dell’abbigliamento, i capi che eliminiamo
spesso sono semplicemente fuori moda, ma
quasi mai consumati materialmente. È ovvio
che questa obsolescenza rapida delle cose
decreta la morte simbolica dei concetti di
durata e di rinvio, uccisi dalla prepotenza
fascinosa della novità e del capriccio.
Inoltre, come facilmente si nota, viviamo
in un mondo sempre più spettacolarizzato,
politica compresa, ma in particolare sono
le merci che non si limitano più a essere
meramente funzionali, puntando invece a
destare sorpresa, curiosità, interesse. Anche i luoghi della vendita hanno adottato
un approccio teatrale, dapprima con una
«vetrinizzazione» sempre più efficace e
sofisticata (fino a ritagliarsi sull’individuo
stesso che, come una vetrina in movimento, indossa o usa cose griffate) e poi con
architetture e spazi sempre più caratterizzati da atmosfere ludiche e avvolgenti
come appendici di parchi a tema, in cui
l’acquisto diviene divertente, disinibito,
perfino d’impulso.
Infine il temporary shop, reinventandosi
con saggezza creativa nella sua voluta caducità, vuole catturare una clientela oggi
effettivamente soffocata e disorientata da
una bulimia di offerta e di offerte. È la
«mercificazione» della società, che oggi
ci pone di fronte all’«ingorgo merceologico»
e all’eccedenza paralizzante delle scelte (un
esempio: nel 1980 chi voleva comperare
un’auto sceglieva tra 520 opzioni, oggi tra
quasi quattromila), nonché a una pubblicità
ridondante e intrusiva. Il negozio a termine
allora mira a offrire uno scenario dedicato,
un mondo esclusivo in cui la marca — o
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meglio, la sua identità — e il visitatore
possono conversare con tranquillità, come
in un appuntamento non ripetibile, evitando
il frastuono e la cacofonia semiotica che
l’iperconsumo produce.
Prospettive
È la stessa rapidità dei fenomeni del
consumo a rendere ardua una previsione
sul futuro dei temporary shop. Si può dire però che l’esperienza potrà estendersi
a nuovi settori come l’immobiliare, il turismo, l’editoria, l’entertainment. Inoltre
potrebbe anche coinvolgere aree urbane
minori: il caso di Sidecar Temporary Shop
Network, pur avviato a Milano, vuole infatti
estendersi a 24 città italiane entro il 2014.
Anche dal punto di vista della tipologia di
aziende e delle loro dimensioni, il percorso
evolutivo porterebbe verso un pluralismo di
attività coinvolte e verso realtà aziendali più
piccole, più contenute. Infine è possibile
pensare alla tournée di tali esperienze, nel
senso di una loro moltiplicazione in più città
contemporaneamente o in sequenza.
Inoltre sarà interessante sapere cosa le
ricerche sul campo diranno circa gli effetti
di tali spazi di consumo temporaneo sulla
domanda: se accresceranno l’acquisto di
nuovi prodotti, se aumenterà la fidelizzazione verso l’azienda. E ancora, se e cosa potrà
mutare circa il valore della marca, ovvero
la sua immagine, il giudizio dei consumatori, la sua percepibilità o salienza. Non da
ultimo andrà fatta una comparazione tra la
capacità comunicativa del temporary shop e
quella degli eventi aziendali e del web o di
quella più classica della pubblicità.
In ogni caso, la genesi di questi spazi
commerciali «usa e getta» dimostra la camaleontica e vitalistica capacità del mondo
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dei consumi di reinventarsi formule che
rinvigoriscano la seduttività (nel senso
etimologico del «condurre altrove») del
mondo di marca, non dimenticando che il
consumatore oggi vuole sensazioni più che
cose e ben sapendo, infine, che — nell’era
del «troppo» — occorrono luoghi di contatti
forti e privilegiati con i clienti, potenziali
o acquisiti che siano. Luoghi comunicativamente efficaci, dove la durata, una categoria ormai svalutata dall’ipermodernità,
conta poco.
Per saperne di più
Bauman Z., Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008.
Catalano F. – Zorzetto F., Temporary
store. La strategia dell’effimero. Come
comprendere un fenomeno di successo e
sfruttarne le potenzialità, FrancoAngeli,
Milano 2010.
Codeluppi V., Il potere della marca. Disney, McDonald’s, Nike e le altre, Bollati
Boringhieri, Torino 2001.
Costa M. – Cattaneo A., Il temporary
shop. Nuove forme di comunicazione e di
vendita in sintonia con lo spirito dei tempi,
Lupetti, Milano 2010.
Fabris G. P., Societing. Il marketing
nella società postmoderna, Egea, Milano
2008.
T riani G., L’ingorgo. Sopravvivere al
troppo, Elèuthera, Milano 2010.
Zarantonello L., «Gli spazi di consumo temporanei: un’analisi esplorativa
attraverso cinque casi di studio», in Micro
& Macro Marketing, 1 (2009) 19-40.
Assotemporary, <www.assotemporary.
com>.