don Chisciotte - Istituto Pascal RE

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don Chisciotte - Istituto Pascal RE
1/8 -Miguelde Cervantes,L'ingegnoso hidalgo don Chisciotte della Mancia (1605-1615),
Il cavaliere...
I • CHE TRATTA DEL CARATTERE E DELLE OCCUPAZIONI DEL FAMOSO HIDALGO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
«In un borgo della Mancia», il cui nome non mi viene a mente, non molto tempo fa viveva un
cavaliere di quelli con lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ronzino1 magro e un levriero corridore. Un piatto più di vacca che di castrato2, un tritato di carne fredda in insalata tutte
le sere, frittata coi ciccioli il sabato, lenticchie il venerdì, qualche piccioncino in soprappiù la domenica, consumavano tre quarti della sua rendita. Il resto se ne andava tra un mantello di fino
panno nero, calzoni di velluto per i giorni festivi, con soprascarpe della stessa stoffa, e un vestito di lana greggia della migliore per tutti i giorni. Aveva in casa una governante che passava i
quarant'anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone per i lavori della campagna e
per la spesa, capace tanto di sellare il ronzino quanto di maneggiare la roncola. L'età del nostro
gentiluomo rasentava i cinquant'anni: era di complessione robusta, asciutto di corpo, magro di
viso, molto mattiniero e amante della caccia. Si afferma che avesse il soprannome di Quijada o
Quesada (c'è una certa discordanza tra gli scrittori che trattano di ciò), sebbene si possa arguire, in base a plausibili congetture, che si chiamasse Quijana. Ma questo poco interessa il nostro
racconto: l'importante è che nella narrazione non ci si allontani minimamente dalla verità.
Bisogna dunque sapere che il suddetto gentiluomo, nei momenti di ozio (che erano la maggior
parte dell'anno), si dedicava a leggere libri di cavalleria con tanta passione e diletto che giungeva quasi a dimenticare totalmente l'esercizio della caccia e perfino l'amministrazione dei
suoi beni; anzi, la sua maniaca curiosità a questo riguardo arrivò al punto da fargli vendere
molte are3 di terra da semina per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e così si portò a
casa quanti se ne poté procurare, ma, fra tutti, i più belli gli parvero quelli del famoso Feliciano
de Silva, perché la limpidità della sua prosa e quelle sue ingarbugliate argomentazioni gli sembravano una cosa meravigliosa, soprattutto quando leggeva quelle galanterie o quelle lettere
di sfida in cui in molti punti trovava scritto: «La ragione del torto che si fa alla mia ragione, fiacca in tal modo la mia ragione che mi affliggo a ragione della vostra bellezza.» E anche quando
leggeva: «Gli alti cieli che della vostra divinità vi fortificano divinamente con le stelle e vi fanno
meritevole del merito che merita la vostra grandezza...»
Il povero cavaliere perdeva la testa dietro a queste argomentazioni e non dormiva per cercar di
capirle e sviscerarne il senso, ma neanche Aristotele in persona, se fosse risuscitato a quel solo
scopo, sarebbe riuscito a cavarne fuori e a capirci qualcosa. [...] Ebbe molte volte discussioni
con il curato del paese (che era un uomo dotto, laureato a Sigüenza) su chi fosse stato miglior
cavaliere, se Palmerino d'Inghilterra o Amadigi di Gaula; mastro Nicolás però, barbiere di quello
stesso villaggio, diceva che nessuno poteva competere con il Cavaliere di Febo e che se qualcuno reggeva al suo paragone era don Galaor, fratello di Amadigi di Gaula, perché aveva ottime qualità che lo rendevano adatto a tutto: non era un cavaliere sdolcinato e piagnucolone
come il fratello e non gli era da meno in valore.
Insomma, si assorbì tanto in quelle letture che passava le notti, dal principio alla fine, e i giorni,
dalla mattina alla sera, a leggere; e così, per effetto del dormir poco e leggere molto, gli si inaridì il cervello al punto che perse il senno. La fantasia gli si riempì di tutto quello che leggeva
nei libri: d'incantamenti, contese, battaglie, sfide, ferite, galanterie, amori, tempeste e altre impossibili stramberie. E la convinzione che fosse verità tutta quella macchina d'immaginarie invenzioni che leggeva gli si conficcò talmente nella testa, che per lui non c'era al mondo altra
storia più certa. [...]
Così, perduto ormai il senno, giunse alla determinazione più stravagante che abbia mai preso
un pazzo al mondo, cioè gli parve conveniente e necessario, sia per accrescere la propria fama,
sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e andarsene per il mondo con le sue
armi e il suo cavallo in cerca di avventure e cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che
si cimentavano i cavalieri erranti, vendicando ogni genere di torti ed esponendosi a situazioni
pericolose da cui potesse, portandole felicemente a termine, trarre onore e fama eterna. Il pover'uomo si vedeva già incoronato, per il valore del suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda; e così, con queste affascinanti prospettive, trascinato dallo strano piacere che gli procuravano, si affrettò a mandare ad effetto il suo desiderio.
E la prima cosa che fece fu quella di ripulire certe armi che erano state dei suoi bisavoli e che,
arrugginite e coperte di muffa, da lunghi secoli stavano accantonate e dimenticate in un angolo. Le pulì e le rassettò come meglio poté, ma si accorse che presentavano un grave difetto, e
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ronzino: cavallo di scarsa qualità.
un piatto... castrato: la carne dell’animale castrato è particolarmente tenera e di qualità pregiata. Ma il povero cavaliere deve accontentarsi della carne dura di un bovino vecchio.
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molte are: l’ara è un’unità di misura agricola pari a 100 metri quadrati.
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cioè che al posto di una celata a incastro c'era solo il morione4; a questo, però, trovò rimedio la
sua abilità, perché fece una specie di mezza celata di cartone, che, incastrata nel morione,
dava l'idea di una celata intera. Vero è che, per provare se era forte e se poteva reggere al rischio di un fendente, trasse fuori la spada e le assestò due colpi, e con il primo, in un attimo,
distrusse quello che aveva fatto in una settimana. La facilità con cui l'aveva ridotta a pezzi non
mancò di fargli una cattiva impressione, e, per garantirsi da questo pericolo, tornò a ripararla,
mettendo in essa dalla parte interna alcune sbarre di ferro in modo che rimase soddisfatto della sua solidità e, senza voler rifarne la prova, la giudicò e la stimò una celata a incastro di qualità.
Dopo si recò a esaminare il suo ronzino e, quantunque avesse più fenditure negli zoccoli e più
acciacchi del cavallo del Gonnella5, il quale tantum pellis et ossa fuit, gli sembrò che non potessero reggerne il confronto né il Bucefalo di Alessandro, né il Babieca del Cid. Passò quattro giorni ad almanaccare quale nome gli dovesse dare; perché (com' egli diceva a se stesso) non era
giusto che il cavallo di un cavaliere così famoso, ed esso stesso così eccellente, rimanesse senza un nome illustre; pertanto cercava di trovargliene uno che dimostrasse ciò che era stato prima di appartenere a un cavaliere errante e ciò che era allora; d'altronde era ben logico che,
mutando di condizione il suo padrone, anch'esso rinnovasse il nome e ne assumesse uno illustre e risonante, come si conveniva al nuovo ordine e al nuovo esercizio che ormai professava;
così, dopo aver inventato, cancellato e scartato molti nomi, dopo averli allungati, disfatti e rifatti nella sua mente e nella sua fantasia, infine lo chiamò Ronzinante, nome, a parer suo, preclaro, risonante e rappresentativo di ciò che era stato quando era ronzino, ante, e di ciò che era
ora, cioè primo ed innante a tutti i ronzini del mondo.
Dato il nome, e un nome tanto di suo gusto, al cavallo, volle darsene uno anche lui, e nella ricerca di esso trascorse altri otto giorni, finché decise di chiamarsi Don Chisciotte; e da qui,
come si è detto, gli scrittori di questa autentica storia trassero motivo per affermare che doveva senza dubbio chiamarsi Quijada e non Quesada, come altri vollero sostenere. Però, ricordandosi che il valoroso Amadigi non si era accontentato di chiamarsi solo Amadigi e nulla più, ma
aveva aggiunto il nome del suo regno e della sua patria per renderla famosa, e aveva assunto il
nome di Amadigi di Gaula, volle anch'egli, da buon cavaliere, aggiungere al nome proprio quello della sua patria e chiamarsi Don Chisciotte della Mancia, e con ciò gli parve di aver rivelato
chiaramente il suo lignaggio e la sua patria, e di averla onorata prendendo da essa il proprio
cognome.
Ripulite, dunque, le armi, fatta del morione celata, messo un nome al suo ronzino e cresimato
sè stesso, capì che non gli mancava nient'altro se non cercare una dama di cui innamorarsi,
perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza foglie né frutti e come un
corpo senz'anima. «Se io» diceva tra sé, «per la gravità delle mie colpe o per la mia buona fortuna, m'imbatto, andando in giro, in qualche gigante, come accade di solito ai cavalieri erranti,
e lo atterro al primo scontro o lo spacco in due o, insomma, lo vinco e lo costringo ad arrendersi, non sarà bene che abbia a chi mandarlo in regalo, in modo che entri e s'inginocchi davanti
alla mia dolce signora e dica con voce umile e sottomessa: “Io sono il gigante Caraculiambro6,
signore dell'isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza lodato cavaliere don Chisciotte della Mancia, il quale mi ha ordinato di presentarmi davanti alla signoria vostra perché la vostra grandezza disponga di me a suo talento”?» Oh, come si rallegrò il nostro
buon cavaliere quando ebbe fatto questo discorso, e più ancora quando ebbe trovato chi eleggere a sua dama! Si dice, infatti, a quanto si crede, che in un paese della Mancia vicino al suo
ci fosse una giovane contadina di fattezze molto belle, della quale egli un tempo era stato innamorato, sebbene, a quel che si dice, ella non ne avesse saputo mai nulla né se ne fosse mai accorta. Si chiamava Aldonza7 Lorenzo, e gli parve bene dare a lei il titolo di signora dei suoi pensieri; quindi, cercandole un nome che non disdicesse molto al suo e che suonasse e arieggiasse
quello di principessa e gran signora, la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso, nome che gli parve musicale, peregrino e significativo, come tutti gli altri che aveva posto a sé e alle sue cose. [...]
4
celata... morione: il morione è un elmo leggero spagnolo rinascimentale, caratterizzato da tese laterali e da un’alta cresta; la celata
dei cavalieri medievali, che don Chisciotte tenta di costruirsi alla men peggio, è invece un casco che protegge integralmente la testa e
si incastra nell’armatura per mezzo della barbozza.
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Gonnella: Pietro Gonnella fu un buffone della corte di Obizzo III d’Este (prima metà del ‘300), reso famoso da molte novelle popolari. La citazione latina che segue (“era soltanto pelle o ossa”) è tratta dall’epigramma Ad Falchettum del poeta comico Teofilo Folengo.
6
Caraculiambro: il nome dell’immaginario gigante ha un intento comico: “cara” in spagnolo significa “viso”; perciò un altro traduttore del Chisciotte (Carlesi) lo italianizza in Visoculonio.
7
Aldonza: il nome Aldonza ricorre nei motti di spirito e nei detti proverbiali spagnoli con una connotazione ridicola e volgare. Nel
nome Aldonza si può tuttavia riconoscere la radice di “dolce”, che giustifica la trasformazione nobilitante in Dulcinea.
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Lo scudiero...
VII • DELLA SECONDA USCITA DEL NOSTRO BRAVO CAVALIERE DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
[...] Il fatto è che stette quindici giorni a casa molto tranquillo, senza dar segno di voler ricominciare i vaneggiamenti di prima, e in quei giorni ebbe piacevolissime conversazioni con i suoi
due amici, il curato e il barbiere nelle quali sosteneva che ciò di cui aveva più bisogno il mondo
era di cavalieri erranti e che in esso risorgesse la cavalleria errante. Il curato a volte lo contraddiceva e altre assentiva, perché se non ricorreva a questa tattica non avrebbe potuto ridurlo
alla ragione.
In questo tempo don Chisciotte fece pressioni, per prenderlo al suo servizio, su un contadino del suo paese, uomo dabbene (se si può dare questo titolo a chi è povero) ma con pochissimo sale in zucca. In conclusione, tanto gli disse e promise, tanto lo esortò che il povero
villico si decise a partire con lui e a fargli da scudiero. Gli diceva, tra l'altro, don Chisciotte che
si disponesse a seguirlo di buon animo, perché poteva forse capitargli qualche avventura che
gli facesse guadagnare in un batter d'occhio una isola dove avrebbe lasciato lui come governatore. Con queste e altre simili promesse, Sancho Panza (poiché così si chiamava il contadino)
lasciò la moglie e i figli e diventò scudiero del suo compaesano.
Poi don Chisciotte si diede a procurarsi denaro, e, vendendo una cosa, impegnandone
un'altra, sempre a suo scapito, mise insieme una discreta somma. Così anche si provvide d'uno
scudo rotondo che chiese in prestito a un suo amico e, riparata come meglio poté la celata rotta, avvertì il suo scudiero Sancho del giorno e dell'ora in cui pensava di mettersi in cammino,
affinché si provvedesse di ciò che gli sembrasse più necessario: anzitutto gli raccomandò di
portare bisacce. Egli rispose che le avrebbe portate e che pensava anche di portare un suo asino, buonissimo perché non era abituato a camminare molto a piedi. Sulla faccenda dell'asino
don Chisciotte riflettè un poco, cercando di ricordarsi se qualche cavaliere errante si fosse portato dietro uno scudiero a cavallo di un asino, ma non gliene venne alcuno in mente; ciò nonostante gli concesse di portarselo con la riserva di provvederlo di una più onorevole cavalcatura,
non appena se ne fosse data l'occasione, togliendo il cavallo al primo scortese cavaliere in cui
s'imbattesse. Si fornì inoltre di camicie e di quante altre cose potè, seguendo il consiglio che gli
aveva dato l'oste; fatti tutti questi preparativi, senza che Sancho si congedasse dai figli e dalla
moglie, né don Chisciotte dalla sua governante e da sua nipote, una notte uscirono dal paese
non visti da alcuno; e nel corso di essa camminarono tanto che all'alba si considerarono sicuri
di non essere trovati anche se cercati.
Sancho Panza andava sul suo asino come un patriarca, con l'otre e le bisacce, ed un
gran desiderio di vedersi presto governatore dell'isola che il suo padrone gli aveva promesso.
Don Chisciotte riusci a prendere la medesima direzione e la medesima strada che aveva preso
nel primo viaggio, cioè andò per la campagna di Montiel, attraverso la quale ora camminava
con minor disagio della volta precedente perché, essendo di mattina presto e i raggi del sole
ferendolo obliqui, non lo stancavano. Ad un certo punto Sancho Panza disse al suo padrone:
«Mi raccomando, signor cavaliere errante, vossignoria non dimentichi quello che mi ha
promesso riguardo all'isola, ché io saprò governarla, per quanto grande essa sia.»
Al che don Chisciotte rispose:
«Devi sapere, amico Sancho Panza, che fu costume assai diffuso tra gli antichi cavalieri
erranti di fare i loro scudieri governatori delle isole o dei regni che essi conquistavano, e io ho
ferma intenzione di non venir meno a questa così lodevole usanza; anzi penso di spingermi ancora più in là; perché essi alcune volte, e forse il più delle volte, aspettavano che i loro scudieri
diventassero vecchi, e quando ormai erano stufi di servire e di passare brutti giorni e peggiori
notti, davano loro un titolo di conte o tutt'al più di marchese di qualche valle o provincia più o
meno importante; ma, se tu ed io viviamo, potrebbe essere che prima di sei giorni io conquistassi un tal regno, che ne avesse annessi altri, e sarebbe un'occasione assai opportuna per incoronarti re di uno di essi. E non crederla una cosa straordinaria, perché ai cavalieri erranti accadono cose e casi in forme talmente imprevedute e impensate che facilmente potrei darti anche più di quel che ti prometto.»
«In tal modo,» rispose Sancho Panza, «se io per uno di quei miracoli che la signoria vostra dice, diventassi re, Juana Gutiérrez, mia moglie, diverrebbe per lo meno regina e i miei figli
principi ereditari.»
«E chi lo mette in dubbio?» rispose don Chisciotte.
«Io, lo metto in dubbio,» replicò Sancho Panza, «perché sono convinto che, anche se Dio
facesse piovere corone reali sulla terra, nessuna starebbe bene sulla testa di Maria Gutiérrez.
Sappia signore, che come regina non vale due soldi: contessa le andrà meglio, e sempre che
Dio ce la mandi buona.»
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«Tu raccomanda la cosa a Dio, Sancho,» rispose don Chisciotte, «ché Egli le darà ciò che
più le conviene; ma non umiliarti tanto da contentarti di essere meno di governatore.»
«Non lo farò, mio signore,» rispose Sancho, «soprattutto avendo un padrone così illustre
qual è la signoria vostra, che mi saprà dare tutto ciò che mi conviene e che io ho la capacità di
adempiere.» [...]
La dama...
XXXI · DELLA DIVERTENTE CONVERSAZIONE CHE SI SVOLSE FRA DON CHISCIOTTE E SANCHO
PANZA, SUO SCUDIERO, CON ALTRI AVVENIMENTI
[Sancho ha incontrato Aldonza-Dulcinea e viene interrogato da Don Chisciotte] «Tutto
ciò non mi dispiace; va' avanti,» disse don Chisciotte. «Arrivasti, dunque, e che cosa faceva
quella regina della bellezza? Certamente la trovasti che infilava perle, o ricamava con oro filato
qualche impresa per questo cavaliere suo schiavo.»
«Non la trovai intenta ad altro,» rispose Sancho, «che a vagliare due staia di grano in un
cortile di casa sua.»
«Ebbene, fa' pur conto,» disse don Chisciotte, «che i chicchi di quel grano diventavano
chicchi di perle, al tocco delle sue mani. E hai notato, amico, se il grano era grano rosello o grano marzuolo?»
«Non era che grano saraceno,» rispose Sancho.
«Ebbene, io ti assicuro,» disse don Chisciotte, «che, vagliato dalle sue mani, avrà dato,
senza alcun dubbio, pane bianco. Ma va' avanti: quando le desti la mia lettera, la baciò? se la
portò sul cuore? Adempì a qualche formalità degna di tale lettera, ovvero che cosa fece?»
«Quando io stavo per dargliela,» rispose Sancho, «lei era ingolfata a rimenare una buona partita di grano che aveva nel vaglio, e mi disse: ‹Mettete, amico, cotesta lettera su quel
sacco, perché non la posso leggere finché non ho finito di vagliare tutto questo grano.›»
«Prudente signora!» disse don Chisciotte. «Questo l'avrà fatto per leggerla a suo agio e
trarne liberamente diletto. Avanti, Sancho. E mentre attendeva al suo lavoro, che discorsi fece
con te? Ti domandò di me? E tu, che cosa le rispondesti? Finisci, raccontami tutto, non tralasciare neanche il più piccolo particolare.»
«Lei non mi domandò nulla,» disse Sancho; «ma io le dissi in che modo la signoria vostra, per servirla, stava facendo penitenza, nudo dalla cintola in su, rintanato fra questi monti
come se fosse un selvaggio, dormendo per terra, senza mangiare pane su tovaglia e senza pettinarsi la barba, piangendo e maledicendo la sua sorte.»
«Dicendo che maledicevo la mia sorte dicesti male,» obiettò don Chisciotte, «perché, invece, la benedico e la benedirò ogni giorno della mia vita, per avermi fatto degno d'amare così
alta signora come Dulcinea del Toboso.»
«È così alta,» rispose Sancho, «che, certamente, mi supera di un buon palmo.»
«Ma come, Sancho?» disse don Chisciotte, «Ti sei misurato con lei?»
«Mi sono misurato in questo modo» gli disse Sancho, «che, accostandomi per aiutarla a
mettere un sacco di grano sopra un giumento, ci siamo trovati così vicini, che ho notato che mi
superava di un buon palmo.»
«Ma è pur vero,» replicò don Chisciotte, «ch'ella accompagna e adorna cotesta altezza
con infinite doti dell'anima! E non mi negherai, Sancho, una cosa: quando ti avvicinasti a lei,
non sentisti un olezzo sabeo, una fragranza aromatica e un non so che di squisito, a cui non riesco a dare un nome? Voglio dire un'essenza o un sentore come se tu fossi stato nella bottega di
un raffinato guantaio?»
«Ciò ch'io posso dire,» rispose Sancho, «è che sentii un certo puzzo mascolino, forse
perché, lavorando molto, era impregnata di sudore rappreso.»
«Non sarà stato così,» replicò don Chisciotte, «se non che tu dovevi essere raffreddato,
oppure avrai annusato te stesso, perché io so bene come odora quella rosa fra le spine, quel giglio del campo, quell'ambra stemperata.»
«Può anche essere,» rispose Sancho; «infatti spesso viene da me quel tanfo che allora
mi parve che venisse dalla signora Dulcinea, ma non c'è da meravigliarsene, perché un diavolo
somiglia all'altro.»
«Ebbene,» proseguì don Chisciotte, «ecco che ora ha finito di vagliare il suo grano e di
mandarlo al mulino. Che cosa ha fatto quando ha letto la lettera?»
«La lettera,» disse Sancho, «non la lesse perché disse che non sapeva né leggere né
scrivere, anzi la strappò e la fece in piccolissimi pezzi, dicendo che non voleva farla leggere a
nessuno, perché in paese non si sapessero i suoi segreti, e che bastava ciò che le avevo detto
io a voce sull'amore che la signoria vostra aveva per lei e sulla straordinaria penitenza che per
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causa sua stava facendo. E, infine, mi disse di riferire alla signoria vostra che le baciava le
mani, che restava lì con maggior desiderio di vederla che di scriverle, e che, quindi, la supplicava e le ordinava che, senza indugio, uscisse da quelle fratte, la finisse di fare stramberie e si
mettesse subito in cammino verso il Toboso, se non le sopravvenisse cosa di maggiore importanza, perché aveva un gran desiderio di vedere la signoria vostra. Rise molto quando le dissi
che la signoria vostra si chiamava il ‹Cavaliere dalla Triste Figura›8. Le domandai se era andato
là il biscaglino dei giorni scorsi; mi rispose di sì e che era una persona molto dabbene. Le chiesi
anche dei galeotti, ma mi disse che fino allora non aveva visto nessuno.»
«Fin qui va tutto bene,» disse don Chisciotte. «Ma dimmi: che gioiello ti diede nel congedarti, per le notizie che di me le avevi recato? Perché è antico e solito costume fra i cavalieri e
le dame erranti di dare agli scudieri, alle donzelle o ai nani che recano notizie delle loro dame
ai cavalieri e dei cavalieri alle loro dame, qualche prezioso gioiello come regalo, per ringraziarli
del messaggio.»
«Può ben darsi, e io la reputo un'ottima usanza, ma questo doveva essere nei tempi
passati, perché ora dev'esserci solo l'usanza di dare un pezzo di pane e formaggio, che è ciò
che mi ha dato la signora Dulcinea, attraverso il recinto del cortile, quando mi congedai da lei;
anzi, per maggior precisione, era formaggio pecorino.»
«Ella è molto generosa,» disse don Chisciotte, «e se non ti ha dato un gioiello d'oro, è
stato senza dubbio perché non lo avrà avuto a portata di mano per fartene dono, ma ciò ch'è rimandato non è perduto; la vedrò io e tutto si accomoderà. Sai, però, che cosa mi sorprende,
Sancho? Che mi sembra che tu sia andato e tornato di volo, perché per andare e tornare da qui
al Toboso ci hai messo poco più di tre giorni, pur essendoci da qui a lì più di trenta leghe, dal
che capisco che quel saggio negromante che ha cura delle mie cose e mi è amico, perché per
forza ce n'è uno e ci deve essere, altrimenti io non sarei buon cavaliere errante, costui, dico,
dovette aiutarti a camminare, senza che tu te ne accorgessi; infatti ci sono di questi maghi che
prendono un cavaliere errante mentre dorme nel suo letto, e, senza sapere com'è, come non è,
questi si trova, all'alba del giorno dopo, più di mille leghe lontano da dove si era trovato all'annottare. E se così non fosse, i cavalieri erranti non si potrebbero soccorrere tra loro nei pericoli
come si soccorrono ogni momento; infatti accade che uno stia combattendo nei monti di Armenia con qualche drago o con qualche fiero mostro o con un altro cavaliere, avendo la peggio
nella battaglia, tanto che già sta in punto di morte, e quando meno se l'aspetta, spunta lassù,
in cima a una nube o sopra un carro di fuoco, un altro cavaliere suo amico che poco prima si
trovava in Inghilterra, il quale gli presta soccorso e lo libera dalla morte; così la notte si trova in
casa sua, ove cena a suo piacere; eppure ci saranno due o tre mila leghe tra un luogo e l'altro.
Quindi tutto ciò avviene per l'abilità e la sapienza di questi saggi incantatori, che si prendono
cura di tali valorosi cavalieri. Pertanto, amico Sancho, non mi resta difficile credere che in così
breve tempo tu sia andato e tornato da qui al Toboso, poiché, come ho detto, qualche mago
amico deve averti portato in volo, senza che tu te ne accorgessi.»
«Dev'esser stato così,» disse Sancho, «perché Ronzinante correva certamente come se
fosse stato l'asino di un gitano, con l'argento vivo negli orecchi.»
«Altro che, se aveva l'argento vivo!» disse don Chisciotte. «E anche una legione di demoni, che è una genia che cammina e fa camminare, senza stancarsi, quanto le pare e piace.
Ma, lasciando questo da parte, che cosa ti sembra ch'io debba fare circa l'ordine della mia signora di recarmi a vederla? Perché, quantunque io capisca che ho l'obbligo di eseguire il suo
comando, mi vedo anche impossibilitato a farlo dalla grazia promessa alla principessa che è
con noi, e la legge della cavalleria m'impone di soddisfare la mia parola prima che il mio piacere. Da una parte, mi incalza e mi travaglia il desiderio di vedere la mia signora, dall'altra mi
sprona e mi chiama la fede promessa e la gloria che devo acquistarmi in quest'impresa. Ma ciò
che penso di fare è camminare in fretta e arrivare presto dov'è questo gigante; arrivato, gli taglierò la testa, rimetterò pacificamente la principessa nel suo stato, e senza indugio tornerò indietro per vedere la luce che illumina la mia vita; alla quale presenterò tali scuse che ella troverà giusto il mio ritardo, vedendo che tutto ridonda in accrescimento della sua gloria e della sua
fama, poiché tutta quella che io ho conseguito, conseguo e conseguirò con le armi in questa
vita, deriva tutta dal favore che ella mi concede e dall'esser io suo.» [...]
La fine....
LXXIV • DI COME DON CHISCIOTTE CADDE MALATO, DEL TESTAMENTO CHE FECE E DELLA
SUA MORTE
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Il Cavaliere della Trista Figura: è un altro dei nomi adottati da Don Chisciotte, imitando in ciò i cavalieri dei romanzi che avevano
più denominazioni in relazione alle loro imprese e al loro aspetto. L’espressione è in realtà inventata da Sancho a cui è suggerita dal
misero aspetto del suo signore
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Poiché le cose umane non sono eterne, ma vanno sempre declinando dai loro princìpi fino a giungere al
loro ultimo termine, specialmente la vita degli uomini, e poiché quella di don Chisciotte non aveva dal cielo
alcun privilegio per arrestare il proprio corso, giunse il suo ultimo termine quand'egli meno se l'aspettava;
perché, o per l'abbattimento che gli procurava il vedersi vinto, ovvero per volere del cielo che così
disponeva, fu preso da una febbre che lo tenne a letto sei giorni, durante i quali ricevé molte volte la visita
del curato, del baccelliere e del barbiere, suoi amici, e Sancho Panza, il suo devoto scudiero, non gli si staccò
mai dal capezzale. Costoro, credendo che il dispiacere di vedersi vinto e di non veder adempiuto il suo
desiderio circa la liberazione e il disincanto di Dulcinea lo tenessero in quello stato, cercavano in tutti i modi
possibili di rallegrarlo, e il baccelliere gli diceva che si facesse coraggio e si alzasse per cominciare la sua
vita pastorale, per la quale egli aveva già composto un'ecloga che altro che tutte quelle scritte dal
Sannazzaro9, e che aveva già comprato a sue spese due cani bravissimi per sorvegliare il gregge, uno
chiamato Barcino e l'altro Butrón, e glieli aveva venduti un allevatore di bestiame del Quintanar. Ma non per
questo don Chisciotte cessava d'esser triste.
I suoi amici chiamarono il medico: gli tastò il polso ma non ne fu molto soddisfatto e disse che, per ogni
evenienza, avesse cura della salute dell'anima, perché quella del corpo era in pericolo. Don Chisciotte udì ciò
con animo sereno, ma non così la governante, la nipote e lo scudiero, che cominciarono a piangere
accoratamente, come se lo avessero già davanti morto. Il parere del medico fu che erano l'abbattimento e i
dispiaceri a finirlo. Don Chisciotte pregò che lo lasciassero solo, perché voleva dormire un poco. Così
fecero, ed egli dormì tutta una tirata, come si dice, più di sei ore, tanto che la governante e la nipote
pensarono che dovesse restarci, nel sonno. Si svegliò in capo al tempo che s'è detto, e gridando forte disse:
«Benedetto l'onnipotente Iddio, che tanto bene mi ha fatto! Davvero le sue misericordie non hanno limite;
né i peccati degli uomini le diminuiscono e impediscono!»
La nipote stette attenta alle parole dello zio che le parvero più ragionevoli di quelle ch'egli soleva dire, per
lo meno durante quella malattia, e gli domandò: «Che dice la signoria vostra, signore? C'è qualcosa di
nuovo? Di che misericordie si tratta, e di che peccati degli uomini?»
«Le misericordie,» rispose don Chisciotte, «nipote, sono quelle che in quest'istante ha usato verso di me
Dio, al quale, come ho detto, non sono d'impedimento i miei peccati. Ormai ho il giudizio libero e chiaro,
senza le ombre caliginose dell'ignoranza in cui me l'aveva avvolto l'incresciosa e continua lettura dei
detestabili libri di cavalleria. Ormai capisco le loro assurdità e i loro inganni e non mi dispiace altro se non
che il riconoscimento di quest'errore sia giunto così tardi da non lasciarmi tempo di fare alcune ammenda,
leggendone altri che siano luce dell'anima. Io mi sento, nipote, in punto di morte; vorrei morire in modo tale
da far capire che la mia vita non è stata tanto cattiva da lasciarmi nomea di pazzo; ché sebbene lo sia stato,
non vorrei confermare questa verità con la mia morte. Chiamami, cara, i miei buoni amici: il curato, il
baccelliere Sansón Carrasco e mastro Nicolás, il barbiere, perché voglio confessarmi e far testamento.»
Ma la nipote si risparmiò questa fatica, perché entravano tutti e tre. Non appena don Chisciotte li vide,
disse:
«Congratulatevi con me, signori miei, ché non sono più don Chisciotte della Mancha, ma Alonso Quijano
a cui i retti costumi meritarono il soprannome di Buono. Ormai sono nemico di Amadigi di Gaula10 e di tutta
l'infinita caterva della sua stirpe; ormai mi sono odiose tutte le storie profane della cavalleria errante; ormai
riconosco la mia stoltezza e il pericolo a cui mi ha esposto l'averle lette; ormai, per misericordia di Dio,
avendo imparato a mie spese, le detesto.»
Quando i tre gli ebbero udito dir questo, credettero, senza dubbio, che lo avesse colto qualche nuova
pazzia. E Sansón gli disse:
«Proprio ora, signor don Chisciotte, che abbiamo notizia che la signora Dulcinea è disincantata, se n'esce
con tale discorso la signoria vostra? E proprio ora che siamo lì lì per diventare pastori e passare la vita
cantando, da principi, la signoria vostra vuol farsi eremita? Stia zitto, per carità, ritorni in sé e lasci stare
queste sciocchezze.»
«Quelle commesse finora,» replicò don Chisciotte, «che sono state vere sciocchezze a mio danno, la mia
morte, con l'aiuto del cielo, le convertirà a mio vantaggio. Io, signori, sento che mi avvicino alla morte a gran
passi: lasciamo da parte gli scherzi e venga qui un sacerdote che mi confessi e un notaio che scriva il mio
testamento, perché in momenti come questi l'uomo non deve prendersi giuoco dell'anima; perciò vi supplico,
mentre il signor curato mi confessa, di andare a chiamare il notaio.»
Si guardarono l'un l'altro, meravigliati delle parole di don Chisciotte e, pur in dubbio, vollero credergli; e
9
Jacopo Sannazaro: poeta napoletano (1456-1530), famoso in Italia e in tutta Europa per il romanzo pastorale Arcadia, che costituì il
modello del genere per oltre due secoli.
10
Amadigi di Gaula è un famoso personaggio di romanzi e poemi cavallereschi medievali e rinascimentali.
7/8 -Miguelde Cervantes,L'ingegnoso hidalgo don Chisciotte della Mancia (1605-1615),
uno dei segni da cui arguirono che ormai moriva fu l'essersi mutato con tanta facilità da pazzo in savio,
perché alle parole già dette ne aggiunse molte altre così ben espresse, così cristiane e così logiche, da toglier
loro del tutto i dubbi e convincerli che era in senno.
Il curato fece uscire tutti e, rimasto solo con don Chisciotte lo confessò. Il baccelliere andò a chiamare il
notaio e di lì a poco tornò con lui e con Sancho Panza; e Sancho (che già sapeva, informato dal baccelliere,
in che stato era il suo padrone), trovate la nipote e la governante che piangevano, cominciò a contrarre la
bocca e giù a spargere lacrime. Finita la confessione, il curato venne fuori dicendo:
«Muore davvero, e davvero è in senno Alonso Quijano il Buono; ben possiamo entrare perché faccia
testamento.»
Questa notizia fu un tremendo incentivo per gli occhi pieni di lacrime della governante, della nipote e di
Sancho Panza, suo devoto scudiero, così che li fece scoppiare in pianto dirotto ed emettere mille profondi
sospiri dal petto; perché davvero, come talvolta si è detto, sia quando don Chisciotte fu solamente Alonso
Quijano il Buono, sia quando fu don Chisciotte della Mancha, fu sempre di carattere mite e di modi piacevoli
e per questo era benvoluto non solo da quelli di casa sua, ma da quanti lo conoscevano. Entrò il notaio con
gli altri e, dopo ch'egli ebbe scritto l'intestazione del testamento, don Chisciotte, raccomandata la sua anima
con tutte quelle particolari formule cristiane che si richiedono, giunto ai legati, disse:
«Item11, è mia volontà che di certi denari che ha Sancho Panza, ch'io nella mia pazzia feci mio scudiero,
essendoci stati tra lui e me certi conti di dare e avere, non gli si faccia carico, né gli si chieda alcun conto,
anzi se, dopo che si sarà pagato di ciò che gli devo, avanzerà qualcosa, tale rimanenza, che sarà ben poca, sia
sua, e buono pro gli faccia. E se come, da pazzo, contribuii a fargli dare il governo dell'isola, potessi ora, da
savio, dargli quello di un regno, glielo darei, perché la semplicità della sua indole e la fedeltà del suo
comportamento lo meritano.»
Poi, volgendosi a Sancho, gli disse:
«Perdonami, amico, di averti messo nella condizione di sembrare pazzo come me, facendoti cadere
nell'errore in cui io sono caduto, cioè che vi siano stati e vi siano cavalieri erranti nel mondo.»
«Ah!» rispose Sancho, piangendo. «Non voglia morire la signoria vostra, signor mio, ma accetti il mio
consiglio e campi molti anni, perché la maggior pazzia che un uomo può fare in questa vita è di lasciarsi
morire così, su due piedi, senza che nessuno l'uccida e non lo finisca altra mano che quella della malinconia.
Cerchi di non esser pigro e si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori, come siamo
rimasti d'accordo: chissà che dietro qualche cespuglio non troviamo la signora donna Dulcinea disincantata,
in modo che non si possa vedere niente di più bello. Se è che se ne muore dal dispiacere di vedersi vinto,
getti la colpa su di me, dicendo che la scavalcarono perché io avevo messo male le cinghie a Ronzinante,
tanto più che la signoria vostra avrà visto nei suoi libri di cavalleria che è una cosa ordinaria che i cavalieri si
scavalchino a vicenda e quello che è vinto oggi sarà vincitore domani.»
«Proprio così,» disse Sansón, «e il buon Sancho Panza è bene informato sulla verità di questi casi.»
«Signori,» disse don Chisciotte, «andiamo molto adagio; ‹ché nei nidi d'or è un anno, non v'ha uccelli più
quest'anno›12. Io sono stato pazzo e ora sono savio: sono stato don Chisciotte della Mancha e ora sono, come
ho detto, Alonso Quijano il Buono. Possa la mia sincerità e il mio pentimento ridarmi presso di voi la stima
in cui ero tenuto, e il signor notaio vada avanti. Item, lascio ogni mio avere, interamente, ad Antonia Quijana
mia nipote, qui presente, dopo che sia stato detratto dalla parte che rende di più quello che sarà necessario
per soddisfare i legati da me istituiti, e il primo da soddisfare voglio che sia il pagamento alla mia governante
del salario che le devo per il tempo in cui mi ha servito, più venti ducati per un vestito. Lascio per miei
esecutori testamentari il signor curato e il signor baccelliere Sansón Carrasco qui presenti. Item, è mio volere
che se mia nipote Antonia Quijana vorrà sposarsi, si sposi con un uomo di cui prima si sia accertato che non
sa che cosa siano i libri di cavalleria; e se mai si accertasse che lo sa e, con tutto ciò, mia nipote volesse
sposarselo, e se lo sposasse, perda tutto quanto le ho lasciato, che i miei esecutori testamentari potranno
distribuire in opere pie, a loro beneplacito. Item, scongiuro i suddetti signori miei esecutori testamentari che
se la buona sorte li portasse a conoscere l'autore che si dice abbia composto una storia la quale va in giro col
titolo di Seconda parte delle imprese di don Chisciotte della Mancha, gli chiedano da parte mia, quanto più
caldamente potranno, che mi perdoni per l'occasione che, senza volerlo, gli ho dato di scrivere tante e così
enormi balordaggini quante in essa ne scrive, perché parto da questa vita con lo scrupolo di avergli dato
motivo di scriverle13.»
11
Item: ugualmente, allo stesso modo. Avverbio latino usato nelle formule giuridiche, in presenza di una elencazione con il medesimo soggetto e il medesimo predicato, come avviene in un testamento.
12
Il proverbio significa che il passato non ha più peso sul presente.
13
Nella chiusura del romanzo, Cervantes riprende, per bocca del suo eroe morente, un’ultima volta la polemica spesso ripetuta nella
seconda parte del Don Chisciotte contro Avellaneda, un letterato che nel 1614 aveva pubblicato un suo Don Chisciotte a imitazione
8/8 -Miguelde Cervantes,L'ingegnoso hidalgo don Chisciotte della Mancia (1605-1615),
Con ciò chiuse il testamento e, preso da un deliquio, cadde lungo disteso nel letto. Tutti si misero in
agitazione e corsero in suo aiuto; egli, nei tre giorni che visse dopo quello in cui aveva fatto testamento, ebbe
a svenire molto spesso. La casa era tutta in subbuglio, ma, ciò nonostante, la nipote mangiava, la governante
beveva e Sancho Panza se la godeva, perché il fatto di ereditare cancella un po' o attenua il rimpianto e la
pena che è naturale che il morto lasci. Infine, dopo che don Chisciotte ebbe ricevuto tutti i sacramenti ed
esecrato con molte ed efficaci parole i libri di cavalleria, giunse la sua ultima ora. Si trovò presente il notaio,
e disse di non aver mai letto in nessun libro di cavalleria che alcun cavaliere errante fosse morto nel suo letto
così tranquillamente e così cristianamente come don Chisciotte; il quale, fra il compianto e le lacrime di
coloro che si trovavano lì, esalò il suo spirito: vale a dire che morì.
Ciò visto, il curato chiese al notaio che gli attestasse come Alonso Quijano il Buono, chiamato
comunemente don Chisciotte della Mancha, era passato da questa vita presente e realmente morto; e disse
che chiedeva tale attestazione per evitare il caso che qualche altro autore diverso da Cide Hamete Benengeli
lo risuscitasse falsamente e scrivesse interminabili storie delle sue imprese. Questa fine ebbe l'Ingegnoso
Hidalgo della Mancha, il cui villaggio Cide Hamete non volle precisare, per lasciare che tutti i borghi e i
paesi della Mancha si contendessero il diritto di farlo e considerarlo proprio figlio, come ebbero a contendere
fra loro le sette città della Grecia per Omero.
Si omettono qui i pianti di Sancho, della nipote e della governante di don Chisciotte, i nuovi epitaffi della
sua sepoltura; tuttavia diciamo che Sansón Carrasco gli pose questo:
Giace qui l'hidalgo forte.
A tal punto egli pervenne
di prodezza fiera e ardita
che la morte con sua morte
non trionfò della sua vita.
L'universo ebbe in non cale
e fe' al mondo gran paura;
fu la sua condizion tale
che provò la sua ventura
morir savio e viver pazzo.
E il saggissimo Cide Hamete disse alla sua penna: «Qui resterai, appesa a questo gancio e a questo filo
metallico, non so se ben temperata o male appuntita, mia penna d'oca, e qui vivrai lunghi secoli, se storici
presuntuosi e perversi non ti distaccheranno dal tuo posto per profanarti. Ma prima che ti si accostino, puoi
avvertirli e dir loro nel miglior modo che potrai:
Piano, piano furfantelli!
Da nessuno io sia toccata;
ché a me sola, o mio buon re,
quest'impresa era serbata.
Per me sola nacque don Chisciotte e io per lui; egli seppe sperare e io scrivere; noi due soli formiamo un
tutto unico a dispetto e ad onta del falso e tordesigliesco scrittore 14 ché si arrischiò o si arrischierà a
scrivere con grossolana e mal temperata penna di struzzo le imprese del mio valoroso cavaliere, perché non
è peso per le sue spalle né compito per il suo torpido ingegno. E se per caso tu giunga a conoscerlo,
avvertilo di lasciar riposare nella tomba le stanche e ormai decomposte ossa di don Chisciotte, e di non
volerlo portare, contro tutti i diritti della morte, nella vecchia Castiglia, traendolo fuori della fossa, dove
realmente e veramente giace disteso quant'è lungo, nell'impossibilità di fare una terza spedizione e una
nuova uscita; che per mettere in ridicolo quante ne fecero tanti cavalieri erranti, bastano le due che egli
fece, con così gran diletto e plauso delle genti che ne vennero a conoscenza sia in questi e sia nei regni
stranieri. Con ciò adempirai il tuo dovere cristiano, consigliando bene chi ti vuol male, e io resterò contento
e soddisfatto di essere stato il primo che ha goduto interamente il frutto dei suoi scritti, come desideravo,
perché non è stato altro il mio desiderio se non quello di far aborrire dagli uomini le false e assurde storie
dei libri di cavalleria, che, mercé quelle del mio vero don Chisciotte, vanno già incespicando e finiranno col
cadere del tutto, senza alcun dubbio.» Vale.
della prima parte dell’opera di Cervantes, stampata nel 1605.
14
tordesigliesco scrittore: a Tordesillas era nato Avellaneda.