NONNO CEKIN - Fondazione Valle Bavona

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NONNO CEKIN - Fondazione Valle Bavona
NONNO CEKIN - L'emigrante italiano che nacque in America
Bruno Fodrini – 1° premio Emigrazione
Tra i quattro milioni d'italiani che fra il 1880 e il 1915 sbarcarono negli Stati
Uniti in cerca di fortuna ci furono anche molti ossolani, tra i quali il nonno
paterno di mia moglie, nonno Cekin, che ebbi modo di frequentare nei suoi
ultimi anni di vita terrena. Salari insufficienti, disoccupazione, miseria erano le
cause prevalenti dell'emigrazione. America del Nord o del Sud, Svizzera,
miniere del Belgio o della Germania non importava, bastava conoscere
qualcuno già emigrato per avere un riferimento con la consapevolezza di
affrontare una nuova vita, magari ancora sacrificata ma con pasti assicurati e
un discreto salario. C'era pure chi lo faceva col semplice spirito d' avventura,
lusingato da belle fantasie, cui però alle euforiche partenze si
contrapponevano melanconici ritorni.
Così doveva essere andato anche per i suoi stessi genitori che rientrarono
dal Brasile, con nonno Cekin ancora in tenera età e andando ad abitare in un
piccolo e misero nucleo di case, oggi mezze diroccate, a mezza costa sopra
la piccola frazione di Cuzzego.
Nonno Cekin, al secolo Falcioni Francesco, era nato proprio durante
quell'esperienza migratoria dei suoi genitori a S. Pedro - Rio Grande - il 22
agosto 1888 (secondo carta d'identità rilasciata dal comune di Beura
Cardezza nel 1944), o a Pelotas due giorni prima, il 20 agosto (secondo il
passaporto rilasciato il 13.03.1913 dalla Repubblica ltaliana).
In ogni modo nato in Brasile da genitori italiani con il solo dubbio del luogo e
del giorno di nascita che anche lui stesso, nonno Cekin, non sapeva
precisare.
Dopo qualche anno scesero ad abitare in Cuzzego e quando la mamma morì
il padre si risposò e dovette, con i propri figli, crescere anche quelli della
nuova moglie rimasta vedova pure lei.
Anni di vita misera poiché a malapena riuscivano a mantenersi col lavoro del
padre e di quello che producevano le poche bestie nella stalla e il frutto
ricavato dai campi. A tale proposito ricordava spesso la desolazione che
aveva vissuto in casa l'anno in cui l'afta epizootica s'era portata via qualche
mucca dalla stalla.
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Già da ragazzo, per non essere di peso alla famiglia, nonno Cekin aveva
svolto lavori stagionali nelle cave di sasso e fatto il bocia per muratori , senza
però mai trovare un'occupazione stabile.
Sposo da poco e con moglie incinta le difficoltà erano di molto aumentate. A
quel punto il tarlo dell'emigrazione aveva cominciato a roderlo tanto da
prendere segretamente in considerazione una via di fuga per gli Stati Uniti,
che a fine ottocento erano passati rapidamente in testa agli altri paesi
transoceanici, superando Argentina e Brasile come meta agognata di
destinazione.
All'insaputa di tutti, a cominciare dal padre già rimasto deluso dall'esperienza
brasiliana, all’inizio del 1913 nonno Cekin intraprese le pratiche per ottenere il
passaporto. Facendo parte di una classe di leva a rischio richiamo a causa
del conflitto italo-turco del 1911-12 per la conquista della Libia, concluso da
pochi mesi con la pace di Losanna, ma che nella nuova colonia aveva
lasciato pericolosi focolai di guerriglia, stupisce che in data marzo 1913 il
documento gli fosse rilasciato, sia pure limitatamente a Francia e Svizzera.
Fu così che una sera di quel tribolato fine inverno del 1913 disse, con
apparente indifferenza, che si recava all'osteria a comperare le sigarette.
Faceva invece un vero salto nel buio lasciando la moglie Savina col figlio
Ernesto di neppure due mesi.
“Non è grossa non è pesante la valigia dell’emigrante” ( Gianni Rodari)
Dalla soffitta aveva recuperato la valigetta di cartone nascosta in precedenza,
contenente poche cose, e si era incamminato, con i soli stracci di vestito che
indossava verso la stazione ferroviaria di Vogogna distante qualche
chilometro. Racconterà poi che passando a piedi nella piccola frazione di
Prata “sulla torre del campanile batteva un bot, l'una di notte. Mi è venuto un
magone . . . volevo quasi tornare indietro".
Partito invece col primo treno da Vogogna era giunto a Torino. Qui il suo
racconto si faceva confuso.
Era noto, infatti, che l'emigrazione per l'America del Nord aveva il suo punto
di partenza soprattutto dal porto di Genova, ma per quelli che non avevano i
documenti in regola, oppure erano renitenti alla leva o semplicemente
volevano risparmiare sul costo del biglietto, correva voce che nei porti
francesi fosse più facile aggirare i controlli all'imbarco.
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In tal senso doveva averlo consigliato proprio un compaesano di Cardezza,
appena tornato dall'America, incontrato casualmente a Torino. Gli aveva
prestato anche qualche soldo e consigliato di comperarsi una coperta per il
viaggio in nave, perché quelle che davano - diceva - erano sporche e a
rischio contagio malattie.
Così fu che in qualche modo riuscì ad imbarcarsi a Le Havre col piroscafo
France in rotta per gli Stati Uniti. Pur avendo viaggiato in terza classe non
parlava male della traversata, lamentandosi solo che nella stiva ristagnava,
specie quando il mare era mosso, quel puzzo di vomito di piccoli e grandi che
soffrivano il mal di mare.
Era difficile anche eliminarlo perché "c'erano solo dei finestrini rotondi che
non si potevano aprire. Per fortuna che sul ponte, pioggia e freddo
permettendo, potevi trovare un po' di sollievo". E sul ponte poteva blandire la
nostalgia unendosi al coro degli altri emigranti come ricorderà una vecchia
canzone poi in voga negli anni cinquanta cantata da Luciano Tajoli: " E
vanno, tanto lontano vanno, dove andranno, se torneranno nessun lo sa. Un
velo di pianto, l'ansia e il tormento mentre la nave va . ."
Comunque sabato 22 marzo 1913, vigilia di Pasqua , il France entrava nel
porto di New York, lasciando tutti intimiditi alla vista della luccicante parte sud
di Manhattan, già con molti grattacieli, e della statua della Libertà, alta come
un palazzo di venti piani.
Quello stesso giorno nonno Cekin raggiunse Ellis Island, la famosa porta
d'ingresso al sogno americano varcata da milioni di morti di fame provenienti
da ogni parte del mondo. Purtroppo in quel tempo non erano in vigore accordi
internazionali a tutela degli emigranti. Anche a causa della criminalità
italo/americana molto diffusa negli Stati Uniti, ad Ellis Island essi venivano
trattati con durezza. Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne
e bambini dall'altra. Chi non presentava una salute perfetta veniva esaminato
sommariamente e messo in quarantena. Bisognava poi rispondere senza
esitazione alle numerose domande dei funzionari del governo "Oltre a dirgli
dove volevi andare e se avevi già dei parenti negli Stati Uniti bisognava
mostrare i soldi che avevi in tasca e guai a fare il furbo perché quelli ti
rispedivano indietro", diceva con risentimento.
La diffidenza diveniva tanto maggiore quanto più il colore della pelle virasse
al nero. Infatti in quel crogiolo di razze, a volte, il nonno si sentiva quasi un
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previlegiato poiché verso i bianchi c'era un po' più di tolleranza, così pure,
almeno diceva, per gli italiani del nord rispetto a quelli del sud.
Finalmente censito, appena il tempo di conoscere la parte americana non
benestante, quella dei quartieri degradati, dove le famiglie numerose
vivevano anche in una sola stanza e con la latrina nel cortile, dove per
dormire bisognava accontentarsi di un sottoscala sudicio, e subito di nuovo in
viaggio, questa volta in treno, attraverso gli Stati Uniti, per raggiungere la
California.
Di questo percorso " che non finiva mai”, diceva aveva un ricordo più
spiacevole rispetto alla traversata atlantica. "Eravamo stipati in carrozze
come sardine dai troppi bagagli che le famiglie si portavano appresso.
Abbiamo attraversato praterie e boschi a perdita d'occhio con la locomotiva a
vapore che sbuffava e se abbassavi solo un poco il finestrino ti riempivi di
fuliggine. Ho visto gli indiani e i cawboy a cavallo che ci salutavano sparando
in aria"
"Corre lontano sui binari della vita..." (Claudio Cisco, poeta messinese)
Il lungo treno viaggiava giorno e notte ma quando si fermava lo faceva per
ore intere. Erano delle fermate snervanti che però "ci permettevano di
sgranchirci le gambe e fare rifornimento di viveri". All'arrivo a San Francisco,
nel frastuono di voci, grida, baci, abbracci e pianti, il richiamo di una voce
italiana gli aveva tolto quel senso d'angoscia che quasi lo soffocava . "Erano
quelli del consolato italiano che accoglievano i disperati come me e, nel men
che non si dica, grazie a laro trovai alloggio, lavoro e compaesani".
I primi anni li passò lavorando sulle ferrovie intorno a San Francisco e
Richmond, alloggiando in cantieri mobili che seguivano la costruzione delle
strade ferrate, provvisti di mense e dormitori. Si fece evidentemente anche
apprezzare, tanto da avere compiti di sorveglianza per la quale raccontava
con orgoglio "per controllare l'orario dei treni mi diedero in dotazione un
Rosskopf", orologio da taschino che portò con sé in Italia.
Intanto, nell'estate del 1914, l'Europa precipitava nella guerra. Quando,
nell'agosto di quell'anno, nonno Cekin non rispose alla cartolina di richiamo
alle armi, fu dichiarato disertore. Correva perciò il rischio di non tornare più in
Italia poiché per tale reato era prevista la pena di morte. In qualche modo,
lavorando nei boschi sulle montagne della Sierra Nevada dove gli inverni
erano molto più rigidi di quelli ossolani, riuscì ad evitare anche l'arruolamento
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americano quando, nel 1916, gli stati Uniti entrarono in guerra a fianco delle
nazioni dell'intesa, di cui faceva parte anche l'Italia promettendo agli
emigranti italiani che si fossero arruolati la cittadinanza americana.
Suggestiva quella cartolina inviata alla moglie Savina con raffigurato una
segheria con davanti un vasto bacino con dei tronchi galleggianti.
Melanconico quell'addio che poneva in fondo a tutta la posta che faceva
presagire un improbabile ritorno. Quando a Savina chiedevano notizie del
marito in America, non dandosi pensiero per l'amor di Patria, si consolava
dicendo: “Meglio un marito lontano e che forse non tornerà più che un marito
in guerra". Nelle foreste di quelle fredde montagne nonno Cekin diceva, "non
c'era niente, solo quattro baracche ma in compenso guadagnavo un mucchio
di dollari in più. Ci restavamo tutto l'inverno. Spesso mangiavamo pesci che
pescavamo noi stessi nel fiume e che venivano conservati sotto sale in grossi
canestri. In primavera, col disgelo, portavamo a valle tutto il legname" e
maliziosamente aggiungeva: "In città ci fermavamo a spendere qualche
dollaro altrimenti diventavamo troppo ricchi”.
"Son figlio d'emigrante, per questo son distante, lavoro perché a casa un dì
tornerò” (Edoardo Spataro, cantante fiorentino)
In quegli anni, abituato com'era a non risparmiarsi nel lavoro, doveva davvero
avere fatto una discreta fortuna. Il primo conflitto mondiale si era concluso e
quei primi anni del dopoguerra, a partire dal 1919 in particolare, furono anni
di straordinario benessere economico per gli Stati Uniti poiché i mercati
europei, impegnati nella ricostruzione e aperti all’industria americana,
n'assorbivano insaziabilmente la produzione.
E proprio in quel fortunato 1919 nonno Cekin, grazie all'amnistia concessa
dal governo Nitti a tutti i disertori, poté regolarizzare la sua posizione
anagrafica presso il Consolato italiano di San Francisco.
Il 22 novembre 1921 rinnovò il passaporto che gli venne convalidato solo per
il rientro in patria. Poteva quindi ritornare finalmente in Italia senza spiacevoli
conseguenze.
Sbarcò nel porto francese di Cherbourg l'8 dicembre 1921, passò la frontiera
di Modane il 9, e si presume che abbia raggiunto il paesello il 10 dicembre, in
tempo utile per festeggiare il Natate più bello della sua vita.
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Immaginarsi, dopo un'assenza di quasi nove anni, la scena dell’incontro con
la moglie e con il figlio. Un'emozione da non potersi immaginare. L'amore
della sua Savina e quel figlio lasciato nella culla appena nato l'avevano
aiutato a tenere duro, a risparmiare e soprattutto a non perdere mai la
speranza del ritornare . "Bastava pensare a loro e ad un probabile ritorno per
togliermi di dosso la tristezza, anche se la nostalgia di casa a volte diventava
insopportabile", raccontava.
Fu accolto come il figliol prodigo, a braccia aperte, ma non per quello che era
ritornato a casa dopo aver sperperato tutte le ricchezze, ma per quello che
era considerato perso e poi ritrovato. Il tempo di conoscere il figlio Ernesto e
subito, nel dicembre del 1922, arriva anche la figlia Pierina. Non ebbe altri
figli.
In paese era meglio conosciuto col soprannome di "Dio caro", intercalare che
usava, inframezzando qualche parola d'americano, quando ricordava gli anni
duri della giovinezza e le sue esperienze d'emigrante. Era poi solito
apostrofare la fame di quel tempo con "U baia la vàina", detto dialettale in
disuso che per Cardezza e Cuzzego significa "una specie di volpe che abbaia
per la fame" .
A tal proposito l'alpino Bionda Carlo di Cardezza, classe 1918, dal fronte
slavo scriveva alla mamma "ciò sempre una vaina che la sento abbaiare
dappertutto".
Per dire quanto il mondo sia piccolo raccontava sempre di quel cardezzano
incontrato a Torino che gli aveva prestato ottanta centesimi di dollaro
(all'epoca quasi la paga giornaliera di un operaio in America) e che poi, dopo
diversi anni, l'aveva di nuovo incontrato per pura combinazione in un bar
californiano, potendo così restituirgli il prestito.
Un altro suo aneddoto era l'incontro con una coppia di americani davanti alla
stazione ferroviaria di Domodossola che parlavano tranquillamente a voce
alta, convinti che nessuno li capisse. Quando in americano aveva chiesto loro
da dove venissero "mi hanno fatto una gran festa e mi hanno pagato una
"sciopa at bira" al buffet della stazione". Con orgoglio si vantava anche di
avere conosciuto le due americhe, la prima quella dul sciuc (asciutto, ossia
povera) la seconda quella dei sacrati, dollari, ricca! E aggiungeva: "Col
gruzzolo che avevo guadagnato avrei potuto comprare mezzo paese, invece
feci solo l'aggiunta alla casa dei miei genitori, una cascina nei boschi sopra il
paese, qualche terreno coltivabile e il resto se né andò in svalutazioni”. Infatti,
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parte dei frutti della sua fatica erano andati in fumo con la grande
depressione del '29-30 che aveva inghiottito i capitali di tanti risparmiatori.
"La vecchiaia è bella. Peccato duri poco" (Gianni Brera, giornalista)
Trascorse i suoi ultimi anni di vita semicieco, masticando pezzi di sigaro e
centellinando dal solito bicchiere di vino che la moglie Savina gli allungava
sempre con un po’ d'acqua.
Siccome partì per l'America un po' alla furtiva e dopo aver detto alla moglie,
in presenza dei propri genitori, che andava all'osteria a prendere le sigarette,
per farlo ridere bastava dirgli: "Quando siete tornato a casa dalla Merica vi ha
poi chiesto Savina se avete comperato le sigarette?".
Nonno Cekin se ne è andato per sempre oltre le sconfinate praterie
americane, nell'agosto del 1967. Solo pochi mesi dopo, a dicembre, lo ha
seguito anche nonna Savina. Quando tengo sulle ginocchia i miei nipotini e
racconto loro la storia del trisavolo sulla nave degli emigranti e sul lungo treno
che corre fischiando nella pianura americana, penso davvero che fino a
quando si tiene vivo il ricordo di una persona cara, essa resti ancora tra di noi
e ci dona tanto benessere e serenità.
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