Breve enciclopedia del fumo Inizio con una storia. Una vecchia
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Breve enciclopedia del fumo Inizio con una storia. Una vecchia
Breve enciclopedia del fumo Inizio con una storia. Una vecchia storia albanese. Un tale doveva incontrare per affari il socio, con il quale era anche “fratello di sangue”, cioè molto legato. Si ammalò, oppure dovette andare via per un impegno imprescindibile e così aveva inviato suo figlio, molto giovane, per quell’incontro. Il figlio si presentò, il socio del padre lo accolse con tutti gli onori, parlarono della vita, della salute, d’affari. Questo giovane figlio del socio entrò nelle simpatie dell’uomo. Osservata la prassi del caffè, l’uomo gli offrì una sigaretta. Il ragazzo, con molto garbo, la rifiutò. Era tanto giovane, non fumava ancora, disse. Nessun problema, e tutto andò come prima: molta cordialità, fino alla fine della giornata. Dopo un po’ di tempo i due soci si rividero. Mentre parlavano, il primo chiese come si era trovato quella volta con suo figlio. «Oh, tutto bene» disse l’altro e menzionò le numerose qualità che aveva trovato nel figlio del socio «solo», disse «solo, quel giorno, conversammo ma…non scambiammo nessuna conversazione»: non avevano scambiato tra di loro alcuna sigaretta. Quando nacqui io questa storia rispecchiava bene lo stretto rapporto degli albanesi con il fumo. Le mie impressioni da bambino erano solo un po’ distorte, nel senso che io pensavo che fossero le donne a fumare di più, forse perché i bambini, maschi e femmine, sono stregati dal mondo femminile. Come prima cosa: la mamma fumava e mio padre no [per la maggior parte della sua vita mio padre fu astemio. Imparò a bere e fumare (e non poteva essere altrimenti) in Cina, a quarant’anni, dove aveva vissuto per un anno. Era andato, in piena Rivoluzione Culturale, con un gruppo di medici albanesi per la specializzazione, lui in chirurgia toracica. Non ha mai imparato il cinese, aveva pochi contatti con la popolazione e non gli mancava nulla, ma i chirurghi hanno un sesto senso per capire le sofferenze. Di mattina presto, capitava che il primo ministro Zhou Enlai passasse a salutarli prima di andare a dormire (come Richelieu, anche lui lavorava di notte e dormiva di giorno). Erano forse gli unici stranieri in tutta Pechino, Zhou s’interessava su come se la passassero i compagni albanesi (comunicavano in russo) e, fumando la sua ennesima sigaretta, li diceva apertamente che aveva quel cancro alla vescica che, al momento «non era possibile curare». Ma questa è un’altra storia]. Io, nel frattempo, passavo molte delle mie giornate nella grandissima casa dei miei nonni materni. Lì c’erano il nonno e gli zii che non fumavano e la nonna, la bisnonna e la zia più giovane (ancora di nascosto) che fumavano. Così pare che un giorno, vedendo un tale che fumava, io abbia detto: «ma, nonna, anche gli uomini fumano?». Molti anni dopo ho fatto anch’io il medico. Non ho mai fumato tanto in vita mia quanto nei turni di notte del reparto di urologia, durante l’ultimo giro di corsia, in prossimità del sonno che non arrivava mai, con i pazienti nervosi o doloranti che fumavano e scambiavano volentieri con te una sigaretta, e come potevi dire di no a una sigaretta ricevuta da un vecchio che il giorno dopo sarebbe andato sotto i ferri per un brutto cancro alla vescica (tipico nei forti fumatori)? Dovevi accettarla come una benedizione, riceverla insieme all’accendino, tirare fuori la lingua e leccarla per bagnarla un po’, così bruciava lentamente, con fuoco terso e scuro, e prolungavi la tua conversazione finché il paziente, dopo aver “scambiato” con te quattro chiacchiere e una sigaretta, andava a letto un po’ più sereno. Ancora oggi, quando torno a Tirana e, seduto in un bar, mi viene voglia di fumare una sigaretta che non ho, mi avvicino a un tavolo con sopra un pacchetto e chiedo gentilmente se posso prenderne una. Allora sento rispondermi, tra stupore e irruenza, con questa frase un po’ sessista: «alla donna a letto e per il pacchetto sul tavolo non si chiede il permesso». Mi capita per strada che mi chiedano se ho da accendere e mi sento male, mi rattristo perché non ho più da accendere. Eppure, quando siamo arrivati a Padova fumavo ancora, per carità cinquesei sigarette al giorno, nulla di ché, diciamo, e mia moglie ogni tanto fumava anche lei con me, ma poi man mano, vedendo che intorno a noi in pochi fumavano, cominciammo a ridurre il numero delle sigarette, finché un bel giorno smettemmo e io dissi a mia moglie che OK, non fumiamo più, non comperiamo più quei maledetti pacchetti di sigarette che tra l’altro costano tanto, ma almeno uno lo dobbiamo tenere, dai, lo teniamo in casa per gli ospiti, perché se ti arriva un ospite gli devi offrire insieme al caffè anche la sigaretta e così facemmo, solo che gli ospiti non arrivavano e se, per caso, qualche volta qualcuno bussava, stava sulla soglia, composto, e non accennava ad entrare, lo dovevi pregare cento volte affinché entrasse, cosa che noi facevamo con molta delicatezza, ma poi loro rimanevano come incantati, in piedi, all’ingresso e noi all’inizio non capivamo, ma poi abbiamo capito, abbiamo capito con orrore che non si sedevano perché nessuno di noi l’aveva proposto; cominciammo allora a proporlo ad alta voce anche se ci sembrava strano, perché nel nostro paese l’ospite una volta che era entrato in casa poteva fare più o meno tutto quel che voleva e che la sua decenza gli permetteva di fare: non doveva mica chiedere se accomodarsi o no, andava da sé che si sedesse e anzi, dove gli garbava, ma insomma, per riuscire a capire questa storia dell’essere seduti a casa nostra ci abbiamo messo un po’ e chissà quante persone sono andate via offese (forse) perché noi non le abbiamo detto di sedersi, ma insomma, anche seduti, in genere non fumavano e così quel pacchetto di sigarette tenuto per gli ospiti alla fine, giustamente, ammuffì e lo buttammo e poi si bagnarono anche i fiammiferi e li buttammo, e poi si ruppe anche il portacenere, quel souvenir comperato a Parigi con la tour Eiffel tutta incrostata da vecchi mozziconi e i pezzi li buttammo, e poi si esaurì anche il gas dell’accendino e lo buttammo, e adesso non abbiamo nemmeno l’accendino da offrire a qualcuno che per strada ti chiede se ne abbiamo uno per accendere la sua sigaretta, e adesso non abbiamo neanche una sigaretta da scambiare con quel qualcuno mentre, ad esempio, guardiamo le stelle, e non ci sfiora nemmeno l’idea di chiedere una sigaretta da fumare con quel qualcuno, o anche da soli, in santa pace; no, non osiamo chiederlo, ci vergogniamo da morire di fare questa cosa, cioè di chiedere una sigaretta a uno sconosciuto per strada, così: - «Hai da accendere?». Arben Dedja. Padova, 2011