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www.europaquotidiano.it FRANCESCO LO SARDO GIULIA GUGLIERMAN VIRGINIA BRUNELLI FRANCESCO MAESANO ANTONELLO COLIMBERTI FABRIZIA BAGOZZI Norman Atlantic, 8 vittime. Giallo sui dispersi Niente capo dello stato. Atene al voto anticipato Grecia, per ora l’Ue osserva. Ma servono le riforme Il “discorso di fine anno” di Beppe Grillo Nel mondo delle icone, dall’India a Bisanzio Ravenna, adesso indaga la procura i commenti di www.europaquotidiano.it Martedì 30 Dicembre 2014 n n COMUNICATO n n RENZI n n LA CONFERENZA STAMPA DI FINE ANNO Caro Pd, non si può fare Europa senza Europa Il premier in salita (aspettando il Quirinale) Il coach ci crede. Renzi sprona l’Italia a trovare il ritmo COMITATO DI REDAZIONE A fronte dello sconcertante silenzio con cui il Partito democratico ha accolto l’annuncio del direttore Stefano Menichini di non partecipare alla nuova Europa targata Eyu per le scarse garanzie del progetto e le inaccettabili condizioni occupazionali prospettate, l’assemblea dei giornalisti ritiene che non sia possibile che il sito possa proseguire le pubblicazioni senza il suo direttore e la sua redazione oltre il termine previsto del 30 dicembre. I numerosi attestati di stima giunti nelle ultime ore da più parti, non solo a firma di politici e parlamentari del Pd ma anche di molti lettori e colleghi, concordano nell’affermare che così si snaturerebbe il progetto editoriale di Europa. Per questo i giornalisti non sono disponibili a partecipare ad una nuova avventura editoriale che non fornisca garanzie su un loro pieno coinvolgimento nel progetto. Da gennaio Europa dovrebbe essere prodotta, secondo le intenzioni della nuova proprietà, da una maggioranza di giornalisti attualmente in forza al Pd e solo da tre giornalisti dell’attuale redazione: numeri irrisori, peraltro mai comunicati ufficialmente al Cdr, e pertanto inaccettabili. Chiediamo, dunque, un incontro urgente al segretario del Pd Matteo Renzi, ai due vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, al presidente dell’Assemblea nazionale Matteo Orfini e al tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, per riportare la discussione su un terreno praticabile. Prima della ripresa delle pubblicazioni occorre infatti concordare l’individuazione del target di riferimento del nuovo sito, il piano editoriale del direttore responsabile che, a nostro avviso, non potrà non essere Stefano Menichini oltre a un cronoprogramma per il totale riassorbimento dei giornalisti di Europa anche all’interno del nuovo network della comunicazione del Pd. Certi che il Partito democratico non abbia intenzione di cancellare la storia di Europa con un tratto di penna, auspichiamo che al più presto si interrompa il silenzio ufficiale sulle sorti della testata e dei suoi giornalisti. FABRIZIO RONDOLINO L a superficie della conferenza stampa di fine anno è proprio come ce la si aspetta da Matteo Renzi: scintillante, smaliziata, positiva, brillante, pop: «Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, il coach che ha il compito di dire ai suoi che ce la possono fare. E io sono convinto che l’Italia ce la può fare». E poi: «Addio paura. Nel 2015 l’Italia correrà». E ancora: «La parola del 2015 è “ritmo”: dare il senso del cambiamento, per far sì che l’Italia torni a riprendere il suo ruolo nel mondo». E infine, lapidario e autocentrato: «Nessun alibi, se non ce la facciamo è colpa mia. Meglio essere giudicati arroganti che disertori. Qua la sfida è cambiare l’Italia». Tutto vero, tutto giusto, tutto opportuno: se la parte di Renzi nel comedy drama della politica italiana è quella del coach ottimista, così deve essere fino all’ultima puntata. È importante sottolinearlo proprio perché non si tratta di una novità: il nemico peggiore di Renzi – il più insidioso, il più sornione – è la disillusa pigrizia degli italiani, il nostro cinismo un tanto al chilo, la deriva dell’autocommiserazione pronta ad accendersi in rabbia, il qualunquismo, la cronica mancanza di senso di responsabilità. Pensare che non cambierà niente è una classica profezia che si autoavvera: è la sabbia che blocca il motore prima ancora che la scintilla dell’accensione l’abbia sfiorato. Contro tutta questa sabbia morale Renzi ha sempre combattuto fin dal primo giorno, scegliendo nella battaglia politica e nell’azione legislativa obiettivi che rendessero chiari a tutti il senso e la direzione del rinnovamento, l’intenzione di non fare sconti a nessuno, la volontà di scrollarsi di dosso i lacci e lacciuoli che paralizzano il paese. Ma Gulliver, per la prima volta, sembra patire le corde dei lillipuziani. Per la prima volta l’ottimismo sembra un pochino consumato, e leggermente incrinato. segue MARIO LAVIA U n Bignami del Renzi-pensiero, questo è stata la conferenza stampa di fine anno del premier, il tradizionale appuntamento organizzato dall’Ordine dei giornalisti («non fatemi dire cosa penso degli Ordini professionali..», ha detto carinamente il presidente del consiglio al presidente dell’Ordine Enzo Iacopino lì a fianco che gli ricordava i problemi dell’editoria – ivi comprese le ultime brutte notizie su Europa). Due ore e mezza, 24 domande, tanti sassolini e altrettante svicolate. Come sulla imminente elezione del presidente della repubblica: tre, quattro, cinque domande dei giornalisti, ma lui niente, forlanianamente, tranne le solite cose, Napolitano è tuttora in carica ed è un grande presidente, si troverà un nome autorevole, nessun veto da parte di nessuno, certo che Berlusconi è legittimato a stare nella partita... Nulla di notiziabile:, d’altronde «io non gioco a Indovina chi, non gioco a ping pong sul Colle». In una conferenza stampa inevitabilmente segnata dagli interrogativi e dal susseguirsi di notizie sulla tragedia della Norman Atlantic – lui stesso aggiornava sui fatti – Renzi, impegnato per tutta la giornata e la nottata di domenica a seguire gli sviluppi della situazione, ha più e più volte elogiato le operazioni di soccorso. «Un lavoro strepitoso, è stata evitata un’ecatombe», ha detto il premier quando i morti accertati ancora erano cinque e non otto e non si conosceva ancora niente della sorte dei dispersi. A palazzo Chigi si è lavorato minuto per minuto, con Alfano, Lupi, Pinotti, gli staff, gli esperti. Una notte pazzesca per una vicenda pazzesca. Poteva finire peggio, molto peggio. «L’intervento è stato eccezionale – hanno poi rincarato Pinotti e Lupi nel pomeriggio – certo resta il dolore per le vittime». Ma tornando alla conferenza stampa di fine anno in generale Renzi ha ribadito tante cose che si sapevano già. Le ha chiarite, semmai, anzi le ha rivendicate, si è assunto la responsabilità di un eventuale fallimento «ma certo non si potrà dire che non ci abbiamo provato», e neppure ha scansato le critiche, perché – ha spiegato – «i gufi non sono quelli che ce l’hanno col governo Renzi, sono quelli che ce l’hanno con l’Italia». Renzi ha affrontato i nodi legali alla politica economica, escludendo peraltro il rischio-contagio in seguito alla crisi greca e rivendicando il merito dei salvataggi di questi giorni, Termini Imerese, Meridiana, Terni, Taranto e Piombino. Ma inevitabili sono arrivate le domande sul Jobs act, o meglio, sull’interrogativo se la normativa riguardi anche i dipendenti pubblici. «No, sono io che ho chiesto di stralciare la questione perché il pubblico è affrontato nella legge Madia, non nel Jobs act». Intendiamoci: per il premier «se un dipendente pubblico non lavora va punito, se lavora va premiato». Renzismo puro. Ma lo strumento non è il Jobs act, che riguarda, appunto, il lavoro privato, fine della polemica, il resto è «scontro ideologico». Ancora, fretta sulla legge elettorale (sugli emendamenti di Calderoli scatterà il “canguro”), fretta sulla riforma del senato, fretta sulla riforma della giustizia. È sempre renzismo: «La parola del 2015 è la stessa del 2014: ritmo. Dare un senso di urgenza perché l’Italia si riprenda il suo ruolo nel mondo». Un concetto così spiegato: «Nel 2014 è cambiato il ritmo della politica. Il percorso di cambiamento è sotto gli occhi di tutti, ma a me non basta, a me interessa cambiare profondamente l’umore degli italiani». E ancora: «L’Italia ce la farà, è un grande paese vivo vera sfida del 2015 è far tornare l’Italia a correre». Per poi concludere con una battuta: «Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica che cerca di dire ai suoi che ce la possiamo fare». Siamo dunque sempre lì, ottimismo e velocità, i due ingredienti fondamentali del cocktail che Matteo Renzi ha proposto agli italiani ottenendone un ampio credito. Sono proprio gli stessi ingredienti che dovrebbero fungere da antidoto ai mali veri dell’Italia: pessimismo e lentezza. Non è facile il 2015 che si va ad aprire, ma è l’anno giusto per capire se avrà avuto ragione lui, o il disincanto degli italiani. @mariolavia Botta e risposta segnato dalle notizie della Norman Atlantic: “Evitata un’ecatombe” EDITORIALE A far paura è Bruxelles, non il voto greco ROBERTO SOMMELLA L’ errore più grande nell’affrontare il nuovo caso Grecia sarebbe quello di mettere in discussione l’autodeterminazione dei popoli. Tutti i partiti euroscettici non aspettano altro, per poter dire che l’Europa così come è va buttata a mare con tutto il bambino, rappresentato in questo caso dalla moneta unica. Aver paura delle elezioni democraticamente previste dalla Costituzione ellenica – come sembrano mostrare i mercati che hanno punito pesantemente il listino di Atene e fatto rialzare lo spread italiano facendo cadere anche la borsa di Milano – è profondamente sbagliato. Il paese di Pericle è già passato più volte per le urne, in momenti ancora più difficili come tre anni fa, e tutta l’architettura comunitaria è rimasta comunque in piedi nonostante le Cassandre della speculazione volessero una sostanziale sospensione dei diritti elettivi nei paesi più coinvolti dalla crisi. Dare la parola agli elettori non può e non potrà mai diventare una fonte di rischio in una società democratica. Il problema è un altro: la mal funzionante catena di trasmissione tra le decisioni che si prendono a tavolino a Bruxelles e vengono poi messe in pratica dalla Troika, e la gestione della sovranità in patria. La crisi greca ha assunto l’abnorme dimensione di oggi – 240 miliardi di dollari di prestiti, pari a circa il 100% del Pil, riduzione del 30% del reddito disponibile, 25% di disoccupazione – perché l’Unione europea nel 2010, quando Atene dichiarò di fatto il suo default, è intervenuta in ritardo e solo quando la Germania, le cui banche erano pesantemente coinvolte nel dissesto finanziario greco, diede il suo assenso. Allora, è bene ricordarlo proprio oggi, quando il paese si appresta ad andare ad elezioni nel prossimo gennaio con la possibilità che vinca il partito di Syriza, sarebbero bastati 40 miliardi di euro per tagliare la testa al toro ed evitare guai peggiori. Invece si è traccheggiato, arrivando al punto in cui un salvataggio sta costando più di un fallimento. segue Chiuso in redazione alle 20,30