I prodotti tipici e la sicurezza del consumatore
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I prodotti tipici e la sicurezza del consumatore
1 Mi preme parlare della tutela penale e delle norme che trovano applicazione nel campo che stiamo trattando, in quanto, a seguito di una diffusione ed allargamento dei prodotti tipici, anche con riferimento ai prodotti agricoli biologici, che tipici non sono, ma che comunque sono assoggettati a specifiche normative (faccio riferimento al Regolamento CEE 2092/2001), è necessario ben delineare le ipotesi criminose applicabili essendo diventata molto sottile la linea di discrimine tra di esse. Mi riferisco innanzitutto alle figure criminose previste dagli artt. 515, 516 e 517 c.p., intitolate rispettivamente “frode nell’esercizio del commercio” , “ vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine” e “ vendita di prodotti industriali con segni mendaci”, in effetti ci si pone la domanda se un prodotto dichiarato tipico, ma che tale non è, vada considerato diverso, per origine, provenienza, qualità da quello dichiarato (art. 515) oppure vada ritenuto non genuino. Ed ancora, se tale fatto, vendita di prodotti dichiarati tipici ma che tali non sono, può integrare anche la violazione della norma prevista dall’art. 13 della L. 283/62 che sanziona solo amministrativamente la mera messa in vendita di sostanze alimentari con denominazioni improprie o, comunque, ingannevoli. O piuttosto, visto che le sigle DOP e IGP concretizzano una sorta di marchi collettivi, non si verta nel reato previsto dal già richiamato art. 517 c.p.. Che anche i prodotti tipici siano regolati, quanto alla tutela penale, dai richiamati articoli del codice penale oramai, con l’introduzione dell’art. 517 bis c.p., con il d.lsvo 30.12.1999 n. 507, è dato acquisito normativamente. L’art. 517 bis c.p. infatti, stabilisce che, quando le condotte punite dai precedenti artt. 515-516 e 517 c.p., hanno ad oggetto prodotti alimentare “tipici”, le pene sono aumentate. Dunque è necessario fare alcune puntualizzazioni. 2 Si deve, cioè, stabilire se le sigle DOP e IGP possano essere considerati dei marchi o, semplicemente, qualità o caratteristiche di un determinato prodotto. Secondo l’accezione giuridica il marchio è il segno distintivo (grafico- disegno- etichetta- o altro) che individua un determinato prodotto che, (circoscrivendolo, per quanto qui ci interessa al campo della produzione industriale alimentare), come tale, garantisce il consumatore in ordine a qualità, provenienza, metodo di produzione, caratteristiche organolettiche del prodotto stesso, rappresentando l’azienda che lo produce. Le sigle DOP e IGP, invece, indicano la particolare caratteristica del prodotto collegata unicamente alla sua origine, ma non rappresentano specificamente il segno distintivo di quella determinata azienda, un loro uso illegittimo non può qualificarsi contraffazione o alterazione di marchio (art. 473 c.p.) ma integra esclusivamente il delitto previsto dall’art. 517 c.p. come vedremo in seguito. Se, invece, esse si accompagnano anche al “marchio” tipico di quella determinata azienda e questo risulta contraffatto o alterato, la norma violata sarà quella dell’art. 473 c.p.. La tutela del marchio è consequenziale alla sua fondamentale importanza che riveste nel sistema commerciale, atteso che esso, come già evidenziato, identifica e caratterizza un prodotto all'interno di un "genus" ed allo stesso tempo guida il consumatore nel momento della sua scelta. L'art. 515 c.p.. Le disposizioni fondamentali dettate in proposito dal codice penale sono costituite dagli artt. 515 – 516 e 517. Per quanto riguarda il reato di cui all'ari 515, l'attività materiale penalmente sanzionata è costituita dalla consegna, nell'esercizio di un'attività commerciale, di una cosa mobile al posto di un'altra oppure dalla consegna di una cosa mobile diversa, per origine, provenienza, qualità o quantità, da quella dichiarata o pattuita. 3 Il bene giuridico che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la disposizione in oggetto è costituito dalla correttezza e lealtà commerciale e questo lo si desume dalla stessa struttura del reato, il quale si realizza con la semplice consegna della cosa, senza che assuma rilevanza l'atteggiamento psicologico del compratore: In considerazione, infatti, della natura pubblicistica del bene tutelato, la punibilità del venditore non è esclusa dal fatto che l'acquirente sapesse preventivamente che gli sarebbero stati consegnati prodotti diversi, per qualità, da quelli richiesti. Lo stesso elemento soggettivo del reato si sostanzia nel dolo generico, cioè nella semplice coscienza e volontà del venditore di consegnare una cosa diversa da quella pattuita. I moventi dell’azione criminosa sono, invece, estranei ed irrilevanti ai fini della configurabilità di tale delitto, che sussiste, pertanto anche se l’agente non si proponga come scopo l’inganno o il danno dell’acquirente. Si ripete, con la norma di cui all’art. 515 c.p. si tutela principalmente l’interesse dello Stato al leale esercizio del commercio; l’interesse privato del compratore è preso in considerazione, invece, solo in via secondaria ed accessoria. Ne consegue che il reato di frode in commercio è configurabile anche quando la cosa consegnata in luogo di quella pattuita sia equivalente nelle caratteristiche sostanziali o meno costose. Nel contratto che si conclude tra compratore e venditore spetta a quest’ultimo risolvere il dubbio sull’effettiva portata della volontà dell’acquirente e sulla disponibilità ad accettare prodotti diversi da quelli richiesti. Se il venditore non formula controfferte e non domanda chiarimenti, deve intendersi che egli accetta la richiesta nei termini letterali in cui questa è formulata ed il contratto deve essere eseguito in conformità. Ed è bene notare che il reato si realizza indipendentemente dal fatto che il soggetto agente abbia usato particolari accorgimenti per ingannare l'acquirente. 4 Per la sussistenza del delitto di frode nell’esercizio del commercio, infatti, non occorrono artifizi e raggiri da parte del venditore, essendo insito l’inganno nella obbiettività della consegna di una cosa per un’altra, ovvero di una cosa per origine, qualità o quantità diversa da quella dichiarata o pattuita. L’accettazione della cosa e la corresponsione del prezzo da parte dell’acquirente non incidono sulla sussistenza del reato, che non fa parte dei delitti contro il patrimonio, sicché il consenso della parte che fa l’acquisto non può derogare, con la sua semplice tolleranza o acquiescenza, alla disposizione di ordine pubblico. Ed è sotto questo profilo che il delitto di frode in commercio si distingue da quello di truffa (art. 640 c.p.), reato contro il patrimonio, in quanto in esso manca la condotta tipica del delitto di truffa, rappresentata dal compimento degli artifici e raggiri. Risponde, pertanto, del reato di truffa il venditore che, in sede di esecuzione del contratto, avvalendosi di artifici e raggiri, induca l'altra parte ad accettare condizioni diverse da quelle pattuite. Il reato di frode in commercio richiede per la sua configurabilità che vi sia stata una libera contrattazione, ossia attiene all'esecuzione del contratto di cui si presuppone già liberamente formato il consenso, senza il concors o di artifici o raggiri. La ratio del reato di cui all'art. 515 c.p., con il quale il legislatore ha inteso proteggere il consumatore dalle frodi commesse nei suoi confronti nell'atto dell'esercizio del commercio, ci consente di ipotizzare il concorso di tale norma con la violazione amministrativa di cui all'art. 13 della legge 30.04.1962 n. 283 (precedentemente figura di reato depenalizzata dal d.lsvo 30.12.1999 n. 507), la quale vieta esplicitamente l'uso di nomi impropri nella vendita o propaganda di sostanze alimentari: tale norma tende, infatti, alla difesa della generalità dei possibili acquirenti e particolarmente di coloro che hanno minore attitudine a rendersi conto, da 5 se medesimi, delle manovre ingannevoli degli altri, a prescindere dal fatto che avvenga o meno l'atto di commercio. È chiaro, pertanto, che le due norme in oggetto hanno una diversa obiettività giuridica: tutela della correttezza e lealtà commerciale nel primo caso, garanzia della qualità dei prodotti affidati per la vendita nel secondo. L'art. 13 della legge 30 aprile 1962 n. 283, sanziona amministrativamente la mera messa in vendita di sostanze alimentari con denominazioni improprie o comunque ingannevoli, in quanto si propone di evitare che in tal modo venga sorpresa la buona fede del consumatore o che l'acquirente possa essere indotto in errore circa la natura, o le proprietà nutritive delle sostanze alimentari stesse. In buona sostanza l’art. 13 tutela la buona fede del consumatore, volendosi evitare che le scelte di questi siano in qualche modo influenzate da una rappresentazione della realtà non veritiera, ovvero comunque tale da indurlo ad acquistare prodotti che, in assenza di quel particolare messaggio pubblicitario, non avrebbe acquistato o l’avrebbe fatto per un motivo diverso (Cass. Sez. III, sent. 12 giugno – 5 ottobre 1998 n. 10410). Secondo la cassazione (Sez. III, sent. 3-15 settembre 1999 n. 10643) è pubblicità ingannevole, punita in virtù dell’art. 13 L. 283/62, l’offerta in vendita di sostanze alimentari con denominazioni o nomi impropri. E’ tale l’espressione <<formaggio per pizza>>, laddove si accerti che il prodotto commercializzato non contenga formaggio ma grassi di orgine vegetale. Né ha rilievo la circostanza che il prodotto stesso sia prevalentemente acquistato da soggetti professionali qualificati (pizzaioli), in quanto la tutela concerne ogni possibile acquirente, ivi compresi questi soggetti. E a ciò aggiungasi, comunque, che ne può derivare pregiudizio anche per l’utente finale non qualificato (il consumatore di pizza); quest’ultimo, infatti, consumerà un alimento 6 privo dei requisiti nutritivi essenziali, tratto in inganno dall’uso – che può avvenire anche in buona fede – da parte del menzionato pizzaiolo. Di conseguenza il produttore-venditore del “formaggio per pizza”, fatto con grassi vegetali, risponderà della violazione amministrativa prevista dall’art. 13 L.283/62 e del reato previsto dall’art. 515 c.p., avendo consegnato una cosa diversa per qualità, ed a sua volta il pizzaiolo, se non in buona fede, nel senso che pur essendosi accorto di tale diversità, abbia confezionato e venduto pizze con formaggio, risponderà nei confronti dei suoi clienti del reato di cui all’art. 515 c.p.. E sempre a proposito di formaggi e della possibilità che più reati possano essere contestati in riferimento alla stessa condotta, la Cassazione ha anche affermato (V. Sez. III, sent. 12 giugno-28 luglio 1998 n. 8785) che produrre e porre in commercio mozzarella e provola “di bufala” – che sono formaggi a denominazione d’origine tipica – fatte non con solo latte di bufala, come si richiede per l’uso della denominazione tipica riconosciuta, ma anche con latte di vacca, integrava gli estremi del reato di cui all’art. 9 della L. 10 aprile 1954 n. 125, con il reato previsto dall’art. 5 lett. a) L. 283/62 e dall’art. 516 c.p.. Se non che, considerato che con il decreto L.vo n. 30.12.1999 n.507 anche il reato previsto dall’art. 9 della L. 10 aprile 1954 n. 125 è stato depenalizzato, si pone il problema se quest’ultima disposizione, di natura amministrativa, in base al principio della specialità (lex specialis derogat lex generalis), debba esser applicata in luogo delle norme generali penali, quale quella di cui all’art. 5 lett a) L. 283/62 e dell’art. 516 c.p. La risposta non può che essere negativa in ragione, come già si osservato, del diverso bene giuridico tutelato. La norma speciale (quella amministrativa) è posta a tutela del marchio di denominazione di origine controllata, le altre tutelano 7 rispettivamente la salute del consumatore e la correttezza e la lealtà commerciale. Sanzionando penalmente la condotta di chi nell'esercizio di un'attività commerciale consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, il legislatore è riuscito a tutelare il consumatore che, come abbiamo visto più sopra, ripone una particolare fiducia nel marchio che contraddistingue un determinato prodotto. Per questo motivo, infatti, la Cassazione ha stabilito che la mancanza o la differenza di segni distintivi di rilevanza determinante nell'attività commerciale, dà luogo a quella diversità che integra il reato di frode nell'esercizio del commercio di cui all'art. 515 c.p., indipendentemente dalle intrinseche caratteristiche del prodotto e dalle sue qualità. Al segno distintivo si ricollega, infatti, nell'attività commerciale "uno specifico valore che incide anche sul prezzo e, quando la circostanza che il bene acquistato sia connotato dal segno distintivo ha per l'acquirente carattere determinante, non può rilevare il fatto che il bene consegnato, pur essendo privo di tale segno, abbia identiche caratteristiche" (Cass. pen. sez. VI, 7 luglio 1989). A tale proposito non si può dimenticare che l'apposizione del contrassegno sui prodotti tutelati è il risultato di precisi ed accurati controlli, che, come tali, offrono precise garanzie al consumatoreacquirente. La denominazione d'origine, del resto, viene riconosciuta solo ai prodotti "tipici" di una determinata zona, in modo che, se a richiesta dell'acquirente il venditore consegna un prodotto di diversa provenienza senza ottenere il consenso del cliente, egli commette il delitto di frode in commercio, sotto il profilo della dazione di aliud pro alio (Cass. pen. sez. VI, 19 novembre 1993). Per quanto riguarda la configurabilità del tentativo di frode commerciale esso è ammissibile solo in presenza di una contrattazione 8 idoneamente ed inequivocabilmente predisposta alla consegna di merce diversa a chi in concreto intende acquistarla, non essendo sufficiente ad integrare tale ipotesi criminosa la semplice esposizione della merce per l'eventuale vendita. Perché si possa parlare di tentativo, pertanto, è necessario che la situazione prospettata sia idonea a trarre in inganno la clientela che ha la legittima aspettativa di vedersi venduto o servito il prodotto richiesto o reclamizzato e non altro. L’art. 516 c.p. Solo qualche cenno, per evidenziare le differenze dalla precedente norma e per verificare se la condotta prevista da tale articolo possa ricomprendere anche quella che abbia ad oggetto la vendita di sostanze alimentari dichiarate tipiche ma che tali non sono. Il delitto di vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine rappresenta una forma di tutela avanzata rispetto al reato di frode in commercio, di cui si è già parlato, in quanto relativo ad una fase preliminare e comunque autonoma riguardo alla relazione commerciale vera e propria tra due soggetti, e presenta un ambito più vasto rispetto al delitto previsto dall’art. 515 c.p., poiché si consuma con la messa in commercio delle cose non genuine, configurando un reato di pericolo. Va innanzitutto precisato che le sostanze alimentari cui fa riferimento la norma devono intendersi non solo le materie prime naturali, provenienti direttamente o indirettamente dalla terra, bensì anche i prodotti alimentari ottenuti dall’industria attraverso la manipolazione di quelle materie prime. La Dottrina ritiene che per sostanza alimentare non genuina si deve intendere quella che abbia effettivamente subito un’artificiosa alterazione nella sua essenza o nella sua normale composizione ( mediante impiego di sostanze estranee o sottrazione di principi nutritivi caratteristici, per la giurisprudenza, invece, la non genuinità va ravvisata nella semplice 9 difformità tra le sostanze che compongono il prodotto medesimo e quelle prescritte obbligatoriamente dalle singole leggi speciali in materia alimentare; quindi, la non genuinità del prodotto sarebbe determinata non solo facendo leva sul criterio naturale (effettiva alterazione della sostanza naturale) ma anche alla stregua dei criteri formali indicati di volta in volta dal legislatore che prevede l’impiego obbligatorio di talune sostanze nella composizione dei prodotti alimentari. La giurisprudenza ritiene ancora che la genuinità di un prodotto alimentare può venir meno anche nel caso in cui, pur facendosi uso dei componenti naturali della sostanza, questi siano impiegati in modo abnorme o contrario a specifiche norme di legge, così da provocare il depauperamento dei principi nutritivi caratteristici. Ora, per quanto oggi interessa al tema del corso, anche la vendita di un prodotto etichettato come tipico, sia esso DOP e IGP, ma che sia privo dei principi nutritivi caratteristici o sia mescolato con sostanze che non caratterizzano quella tipicità integra la condotta del delitto in esame (es. mozzarella di bufala). Si è detto che il vendere mozzarella di bufala, formaggio tipico, che contiene anche latte vaccino, sicuramente integra il delitto de quo, perché il prodotto oltre a non corrispondere alle caratteristiche tipiche protette dalla legge, contiene una sostanza – latte vaccino – che, in termini di quantità di grassi – è da considerarsi depauperata dei principi nutritivi. Il formaggio fresco a pasta filata, ottenuto da latte vaccino o da latte misto e comunemente denominato <<mozzarella>>, non è annoverato, al contrario della <<mozzarella di bufala>>, tra i formaggi a denominazione d’origine ed a denominazione tipica, mancando del riconoscimento previsto dalla L. 125/1954, può, pertanto, contenere sostanze grasse in percentuale minima non predeterminata, con l’onere, tuttavia, per il produttore di indicare nell’etichetta, per informazione del consumatore, la quantità di materia grassa contenuta (e la conseguente qualità di formaggio) quando 10 questa sia inferiore al venti per cento o compresa tra il venti ed il trentacinque per cento, come richiede l’art. 53 commi 1 e 2 della L. 19 febbraio 1992 n. 142. L'art. 517 c.p. Altra fattispecie criminosa che assume una particolare rilevanza ai fini che qui interessano è quella disciplinata dall'art. 517 c.p., il quale sanziona la condotta di chi "pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto". Il reato in esame presuppone, naturalmente, che il prodotto messo in vendita o in circolazione abbia un particolare "contrassegno" che lo individua e lo distingue all'interno di una vasta gamma di prodotti similari; consentendo come tale al consumatore di ricollegare ad esso precise caratteristiche e qualità. Con tale norma, infatti, il legislatore ha inteso tutelare l'ordine economico, che deve essere garantito contro gli inganni tesi al consumatore. Per questo motivo la realizzazione del reato richiede la semplice imitazione, cioè una semplice somiglianza di nomi, marchi o segni distintivi purché idonea a trarre in inganno l'acquirente. Secondo la Cassazione, pertanto, la fattispecie di cui all'art. 517 c.p. è costituita dall'imitazione dei marchi - ancorché non registrati - e dei segni distintivi preadottati da altro imprenditore, la quale sia suscettibile di creare confusione sulla provenienza dei prodotti". La somiglianza fra i segni e la sua idoneità ingannatoria, peraltro, "debbono essere accertate attraverso un esame sintetico dei segni medesimi ed avendo riguardo ai consumatori di media diligenza dello specifico prodotto" (Cass. pen. sez. VI, 16 marzo 1990). 11 Quindi se io vendo <<prosciutto di Parma>> ma ha altra provenienza, vendo una cosa per un’altra e rispondo di frode in commercio (art. 515); se io vendo <<prosciutto Parmas>>, che non è prosciutto di Parma, risponderò del delitto previsto dall’art. 517 c.p., in quanto ho tratto in inganno il consumatore utilizzando un nome che si confonde con altro che indica un prodotto tipico. Se è vero, pertanto, che l'avvenuto rilascio del brevetto per un marchio costituito da un nome geografico, non esclude l'uso da parte di terzi dello stesso nome come semplice indicazione di provenienza, è pure vero che tale uso, secondo la Cassazione (v. ult. sent. cit.) trova un limite nella confondibilità dei prodotti e deve essere quindi penalmente represso nel caso in cui, per le modalità con le quali il nome geografico venga impiegato, sia suscettibile di trarre in inganno i consumatori. Tenuto conto che è sufficiente ad integrare la condotta criminosa di cui all'art. 517 c.p. l'uso di un nome o di un marchio che, senza essere contraffatti, risultino idonei ad indurre in errore il consumatore circa l'origine, la provenienza o le qualità del prodotto, è chiara la differenza che intercorre fra la fattispecie in esame ed il reato di cui all'art. 474 c.p. Con l’art. 474, infatti, il legislatore ha inteso tutelare la pubblica fede ed ha, pertanto, richiesto per la sua configurabilità la contraffazione od alterazione del marchio o del segno distintivo della merce, non ritenendo sufficiente, come nell'art. 517, una semplice somiglianza. Il reato di cui all'art. 517, del resto, sussiste anche nel caso in cui vengano messi in circolazione prodotti con nomi, marchi o segni distintivi genuini, cioè non contraffatti, ma illegittimi, in quanto sostituiti illegittimamente a quelli originari e, pertanto, idonei ad ingannare il consumatore in ordine all'origine ed alla provenienza del prodotto. Va pure ricordato che la fattispecie criminosa in oggetto ha natura di reato plurioffensivo, in quanto la commercializzazione di un prodotto somigliante ad un altro precedentemente 12 posto in commercio da un'altra ditta "mentre può danneggiare il consumatore, è peraltro idonea a procurare un nocumento economico alla ditta il cui prodotto è stato imitato" . Quando al momento consumativo di tale figura criminosa si evidenzia che il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci si consuma nel momento in cui l’opera ed il prodotto vengono <<posti in vendita>> e, pertanto, l’elemento oggettivo del delitto deve essere ritenuto sussistente sia allorquando si sia materialmente realizzata la consegna della cosa dal venditore all’acquirente, sia quando vi sia stata una mera attività di porre in vendita, mettendo cioè semplicemente la cosa a disposizione dei potenziali acquirenti. Dott. Claudio D’Isa, Magistrato di Cassazione in servizio presso la Corte d’Appello di Napoli. .