universitá degli studi di padova - Prof. Avv. Marcello M. Fracanzani
Transcript
universitá degli studi di padova - Prof. Avv. Marcello M. Fracanzani
COLLANA DELLA LIBERA UNIVERSITÀ MEDITERRANEA “JEAN MONNET” Serie Giuridica I MARCELLO MARIA FRACANZANI ANALOGIA E INTERPRETAZIONE ESTENSIVA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO MILANO 2003 1 A Ponfolo ed ai suoi fratelli 2 3 INDICE – SOMMARIO PREMESSA: IL PROBLEMA p.1 SEGUE: IL TEMA p.3 1. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE 1.1. Ermeneutica come metodo generale delle scienze dello spirito: spunti e critiche dall’impostazione bettiana utili per l’approccio contemporaneo al tema 1.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione. Dogmatica come parte integrante dell’interpretazione giuridica e oggettività fondata sulla dogmatica nell’impostazione di Betti. Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito p.7 1.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre; l’”astrazione metodica” di Betti; critica al “circolo del comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”. Analisi della possibilità del superamento della critica mettendo tra parentesi il problema metodologico-ontologico. Indagine su una concezione al tempo stesso metodica e ultrametodica .p.19 1.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica. L’ermeneutica come teoria descrittiva o normativa dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione del processo di decisione p.24 1.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una neutralità ermeneutica? Il confronto con Betti. La verità e l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione: valore pedagogico e anticipatorio della legge p.28 1.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione bettiana: spunti e precisazioni . p.34 1.2. Interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato: sulla bontà della distinzione nella prospettiva dell’esperienza giuridica 1.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione? Qual è la funzione dell’interpretazione? Teoria normativistica come riduzione all’analisi del linguaggio. 4 Interpretazione come conoscenza mediante i concetti e interpretazione come apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto, interpretazione della legge e interpretazione dell’interpretazione. Interpretazione in funzione normativa e interpretazione giuridica. Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste categorie p.38 1.3. Contenuti della ricerca interpretativa 1.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa: l’individuazione degli interessi in conflitto; del bene giuridico tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo penalistico) p.45 1.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico e processo interpretativo. Norma e uso della norma. Interpretazione abrogante come strumento per ricostruire l’ordine assiologico nel sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso p.50 1.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà del positivismo non risolubile con l’antipositivismo 1.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della coerenza ermeneutica: ragioni del problema. Le norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in modo conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità dell’esclusione. L’applicazione retroattiva p.55 1.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica al momento stesso della sua entrata in vigore si oggettivizza estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che hanno preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio esegetico); va interpretata facendo riferimento alla situazione esistente al momento della sua applicazione. La norma, nella sua autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non prevedibili verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e nella lettera della disposizione. In tale operazione non opera l’analogia né l’interpretazione estensiva perchè la nuova fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma, considerata nel suo significato letterale e logico p.60 2. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA COME SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE LACUNE 2.1. legge Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica imprecisione della 5 2.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune. Premessa: indagine sulla realtà normativa. Norma come cornice (Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i nomina: tipica come topica giurisprudenziale p.64 2.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale questa distinzione? Ogni sistema è normativamente chiuso e cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza p.70 2.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le lacune pensabili. Il “diritto controverso” di Betti: lacune della legge o insufficienza dell’interprete? Lacune: lacunosità generica e specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche e ideologiche, lacune proprie e improprie. Lacune anche dei principi p.75 2.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di un broccardo 2.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il “caso dubbio”. Come stabilire quando non esistono dubbi sul contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e dubbio assiologico (Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti). In claris vel non, semper fit interpretatio (Perlingieri) p.83 2.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi 2.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà dell’impostazione in termini volontaristici presunta del legislatore: velleitarietà p.90 2.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di natura giuridica (impostazione del problema e rinvio) p.95 2.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere l’incompletezza dell’ordinamento giuridico. Necessità di soffermarsi sulla funzione, prima che sulla struttura di interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è colmare le lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua funzione e non per la sua essenza p.98 3. TENTATIVI DI DISTINGUERE INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA IN BASE ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ 3.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e differenze 3.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare l’area di significanza dei termini senza superare il limite della zona di incertezza.; l’analogia consentirebbe di applicare una norma a una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio). 6 Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di rapporti. Superamento tramite concezione della struttura aperta del linguaggio e ragionamento di “tipo analogico” del giudice p.102 3.2. Interpretazione e creazione: fisiologia e patologia ermeneutica 3.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra integrazione e interpretazione sulla base dell’antitesi creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un confine tra integrazione e interpretazione naturale e fondamentale p.106 3.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero integrazione; ricorso ai principi e auto (o etero?) integrazione. Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione dell’intendere di Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si modifica il contenuto della norma. Inoltre il mutare dei rapporti sociali reagisce sull’originaria ratio iuris (Betti) p.113 3.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiaratività-creatività. Il problema della “falsa applicazione” delle norme. La Corte costituzionale e la sua vocazione paralegislativa nel rapporto integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia come diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme interpretazione della legge). Libera ricerca del diritto. Law in action, law in public action. Tesi: possibilità di intendere l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute law e common law p.119 3.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso sociale alla base del rapporto tra interpretazione estensiva e analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come rappresentazione e come valutazione secondo criteri assiologici di plausibilità e ragionevolezza in Betti. Spazio nelle norme per gli orizzonti di attese collettive e il consenso sociale p.127 4. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA LEGGE: L’ARTICOLO 12 DELLE PRELEGGI INTERPRETAZIONE DELLA 4.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni giurisprudenziali, legislative ed esperienze straniere 4.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes; argumentum a similibus; Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di Ferdinando IV di Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco; artt. 3 codice 1865; art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1 Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero; art. 2 disposizioni di attuazione c.c. svizzero p.132 7 4.2. Analisi dell’attuale articolo 12 4.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge ovvero all’applicazione dei giudici. Richiamo dell’interpretazione in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno di un senso ”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio). Significato della “precisa disposizione di legge”; problema dei combinati disposti. I casi e i tempi “considerati” dell’art. 14 p.141 4.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in quanto prescrive l’analogia, come teoreticamente superfluo e irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici della legge: sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica. L’art. 14 come non dettante alcun criterio di esegesi legislativa. L’interpretazione assiologica come superamento dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione p.149 4.3. La ricerca e la distinzione sulla base della ratio legis 4.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma nell’interpretazione. Il convincimento interpretativo. Art. 12 e ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di una doppia fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis. Problema della ratio legis come un doppione della norma. Ratio come scopo e come fondamento. Differenza tra razionalità della norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion sufficiente della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio legis. L’elemento della ratio nella giurisprudenza p.153 5. LE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA DISTINZIONE 5.1. Premessa logica: ragionamento per analogia nella logica in generale e nel diritto in particolare 5.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica. L’analogia nella logica: le proposizioni. Ragionamento sottinteso: induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per analogia come di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica alla completa equiparazione tra analogia nella logica generale e nella logica giuridica. Esistenza di un termine medio che non è nella legge ma è nel diritto, come un giudizio di valore, non logico in senso stretto p.163 5.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario: indeducibilità di una regola a contrariis da una norma eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità. Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della eguaglianza e della giustizia distributiva come fondamento dell’analogia e della interpretazione estensiva p.179 5.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva 8 5.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa, particolare e generale (ragionamento a sineddoche). Distinguibilità in base al presupposto, agli effetti, alla funzione (Betti e Bobbio). Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico p.184 5.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa. Relazione tra norma e teleologia, validità e fini. Norma come Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di Hume e le critiche alle interpretazioni che ne sono discese. Il problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei principi di non contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La ragionevolezza come condizione del volere normativo p.191 5.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice 5.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento del legittimo impiego dell’analogia all’esistenza di una norma che lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e il contenuto delle norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di altre norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia. Ipotizzabilità di un ordinamento giuridico senza norma di autorizzazione al ricorso analogico. Il problema dell’ordinamento giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà p.198 5.4. I limiti dell’analogia legis 5.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di analogia in rapporto alle norme penali e eccezionali. Estensibilità e valore del divieto. Posizioni della dottrina sui limiti della norma penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto storico tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente diventate regole). Esistenza o meno di altri limiti oltre quelli dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza: l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’art. 3 Costituzione. Il problema dei privilegi legali nel credito. p.206 6. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI 6.1. Analogia legis e analogia iuris 6.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala gerarchica tra i criteri di interpretazione (interpretazione estensiva, analogia legis, analogia iuris). Critica alla distinzione qualitativa o sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare (analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione della distinzione analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto che metterebbero capo a un principio comune (norma inespressa) di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra analogia legis e principi p.222 6.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme e fonti di norme. 9 6.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi generali non si identificano con norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei principi generali. Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali; rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e della vita comunitaria. Analogia e criterio degli interessi. Insostenibilità della distinzione interpretazione estensiva/analogia sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico p.229 7. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA 7.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata al pensiero giuridico 7.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come tentativo di superare la distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola. Avvicinamento al sistema di common law tramite la categoria della discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità di un sistema giuridico “sfumato”. Sostenibilità dell’intendere analogia e interpretazione estensiva come applicazioni fuzzy p.240 7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative 7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12 disp. prel. La norma come risposta ad un problema percepito dal legislatore. La norma come attuazione di un principio (costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della norma; ratio o ragion d’essere della norma. Segue: il problema del criterio che rende ragione dell’ordine. Problema analogo, scopo analogo ed interpretazione analogica della norma. La norma eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento. Compressione del principio e costituzionalità della norma eccezionale. L’estensione della norma eccezionale. Il problema del favor della norma eccezionale. Concorrenza di principi e concorrenza di norme attuative di principi concorrenti. p.249 Indice della giurisprudenza p.268 Indice della bibliografia p.272 10 PREMESSA: IL PROBLEMA “Un altro libro sull’analogia”, dirà con soppesata espressione di malcelato sospetto il teorico accademico: è un tema obsoleto, ormai superato dalle nuove frontiere aperte dai recenti studi sull’ermeneutica…. “Ancora un libro sull’analogia”, esclamerà il pratico del diritto, con tono di ironico compatimento: già quante eleganti costruzioni -in stile tedesco o americano- si sono succedute, nessuna delle quali “spendibile” in tribunale, senza attirarsi gli ilari e salaci commenti dei colleghi, la noia del giudice, correndo il rischio – magari- di compromettere addirittura la causa con astrusità sterili e vanitose…. Critiche forse in parte fondate. Occorre allora rendere ragione della scelta di questo tema, muovendo dall’esperienza giuridica – com’è buona norma- rilevando una di quelle aporie di cui è disseminata la quotidiana vita del diritto, ma alle quali ormai non prestiamo più caso o, tutt’al più, diventano materia per puntuta quanto vacua critica al caffè del tribunale. Due sentenze, relative a due fattispecie identiche nei fatti, sussunte nella stesso articolo di legge, dalla medesima corte penale d’appello. Due i ricorsi per cassazione, con due sentenze diverse: l’una cassa, ritenendo che il giudice abbia operato un’inammissibile interpretazione analogica in malam partem della norma incriminatrice speciale, l’altra (successiva!) conferma il giudizio di secondo grado, peritandosi di confutare le argomentazioni del ricorrente, motivando trattarsi di un’interpretazione estensiva, pienamente legittima anche per le norme incriminatici speciali. Come rispondere a colui che, per aver commesso fatto identico, vede attraverso le porte della prigione ormai definitivamente chiuse, l’altro ricorrente che assapora l’aria libera? È evidente che o analogia ed estensione sono la stessa cosa, ed allora entrambi dovranno uscire; oppure analogia non equivale ad estensione ed allora entrambi usciranno (analogia) o entrambi 11 resteranno in carcere (estensione); ma sicuramente non sarà possibile che uno vi resti e l’altro no. Di fronte a tale risultato del massimo organo giurisdizionale, quindi, è del tutto fuori luogo l’atteggiamento di sufficienza del teorico come il sarcasmo del pratico; ed occorre riprendere, con molta umiltà, le fila di un dibattito che ha prodotto risultati di indiscusso valore scientifico, seppur sembra essersi arenato nelle secche del disinteresse, in parte per causa propria, in parte per nuove mode che hanno distratto i cultori della nostra disciplina. Secondo uno stile che condividiamo, mosso invero da onestà intellettuale, conviene anticipare fin d’ora e con la massima chiarezza, le tesi che ci proponiamo di dimostrare nelle pagine che seguono. E cioè: -a) non ostante la maggior parte dei contributi scientifici a cavaliere dell’ultima guerra si ingegni di dimostrare l’equivalenza dei due termini, a nostro parere il gius positivista si contrattice quando equipara l’analogia all’inteprpretazione estensiva, vanificando il disposto degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale; -b) sotto diverso profilo, il teorico generale compie un inammissbile salto logico quando equipara analogia ed estensione, tratto in inganno dal procedere della conoscenza per identità e differenza, che impregna di un vago “sapore analogico” anche l’interpretazione estensiva. Infine, si cercherà di non limitarsi alla pars destruens (ché già molti screditano la disciplina agli occhi dei colleghi con interventi demolitori senza rischiare la proposta alternativa) proponendo i criteri di individuazione dei limiti dell’estensione e dei limiti all’analogia. E per far questo, si diceva, occorre riprendere le fila di un dibattito ampio ed articolato, ricercando un punto fermo, un solido aggancio, la tonalità in chiave da cui dipanare quelle che –si vedrànon pretendono di essere altro che variazioni su temi noti. Questo punto fermo riteniamo di aver individuato nell’opera di Emilio Betti, sia perché egli stesso ha voluto edificare la sua posizione in confronto dialettico con chi l’ha preceduto, sia perché è l’ultimo 12 autore con cui tutti i successivi abbiano dovuto in qualche modo misurarsi, vedendo riconosciuta la profondità del suo pensiero anche dalla tanto blasonata dottrina giuridica tedesca. Nell’opera di Betti, allora, sia per i risultati, ma soprattutto per il metodo (alla luce del principio di identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso) si è creduto di trovare un esempio che si collochi fra teoria e prassi. 13 SEGUE: IL TEMA Il problema della disparità di trattamento tra i due imputati, rappresentato nelle pagine che precedono, potrebbe essere ritenuto di facile soluzione affermando che analogia ed interpretazione estensiva in realtà coincidono: la nostra indagine si fermerebbe qui. Ed è questa, invero, la conclusione cui è pervenuta la maggior parte dei contributi in materia,1 come si vedrà in prosieguo. Sennonché la tesi dell’equiparazione fra i due canoni ermeneutici nasconde una petizione di principio, sia esaminandola sotto un profilo squisitamente di diritto positivo, sia sotto un più ampio profilo logico. Guardiamo il primo. L’articolo 12 della preleggi, dopo l’indicazione di alcuni canoni ermeneutici (lettera, contesto, intenzione del legislatore) tratta della analogia nelle due varianti di analogia legis ed analogia juris; lasciando ad un momento successivo il giudicare sulla bontà della partizione, consideriamo come l’articolo ambisca contenere i criteri ordinari per l’interpretazione della legge: in questo senso, esso può ben dirsi norma generale, cioè il disposto per l’interpretazione delle leggi, dei regolamenti e delle altre fonti di provenienza unilaterale pubblica.2 All’opposto, il successivo articolo 14 tratta dell’estensione per limitare l’applicazione delle norme penali e “quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi” solo ai casi ed ai tempi in esse considerati. Sorvolando ancora sulle difficoltà di individuare “i casi ed i tempi”, osserviamo che l’articolo 14 si pone in contrasto con l’articolo 12, limitandolo e stabilendo il criterio interpretativo per le norme eccezionali, criterio 1 Più che superato, anche accogliendo la più rassicurante tesi dell’equiparazione tra estensione ed analogia, il problema è solo spostato e diviene più stridente, dovendosi rendere conto della diversità di interpretazioni pur in presenza di un procedimento interpretativo identico. 2 Distinguendosi dalla plurilaterale pubblica / privata (contratti collettivi nel rapporto di impiego ex d.lgs. n. 165/01), dagli atti unilaterali e dagli atti plurilaterali di diritto privato. 14 che potrebbe essere o meno identico a quello dell’articolo 12: ancora non lo sappiamo. Leggiamo però che esso consente la piena estensione della norma eccezionale, in tutta la sua portata, ma non ne autorizza la vigenza per i casi non specificamente considerati: si estenderà alle diverse specificazioni o specializzazioni dei casi indicati, ma non potrà essere invocata per casi diversi.3 Si può in ogni caso dire che l’articolo 14 fa eccezione alle regole generali sull’interpretazione, dettate dall’articolo 12; ed esso stesso, proprio per questo, è norma eccezionale. Infatti, l’articolo 14 fa “eccezione a regole generali” e “ad altre leggi”, cioè alle regole interpretative dettate dall’articolo 12. Ora, chi professa l’equiparazione tra analogia ed estensione, deve dedurre che l’art. 14 dove parla di estensione (per l’equazione posta) intende anche l’analogia. Tuttavia, ritenere che la norma, ove dice estensione dice anche analogia, costituisce evidentemente un’interpretazione estensiva dell’articolo 14, norma eccezionale. Ma, se è interpretazione estensiva, allora è anche interpretazione analogica dell’articolo 14, proprio in virtù dell’equiparazione fra i due termini che si è assunta. In questo modo, però, avremo interpretato estensivamente, ovvero analogicamente, l’articolo 14, cioè una norma eccezionale, anzi la norma eccezionale che vieta l’analogia per le norme eccezionali. In altri termini, se l’articolo 12 vuole disciplinare l’interpretazione in generale, e contiene tra i suoi canoni l’analogia, e se l’articolo 14 fa eccezione alla regola generale, trattando dell’estensione, ne consegue che l’equiparazione di analogia ed estensione comporta (per il principio di non contraddizione e del terzo escluso) un interpretazione estensiva dell’articolo 14; ma, poiché analogia ed estensione sono state identificate, l’interpretazione estensiva dell’articolo 14 comporta altresì un interpretazione analogica 3 Esempio scolastico è il principio di consunzione o di specialità tanto utilizzato nel diritto penale: l’articolo 624 c.p. si applicherà in tutte le sue innumerevoli manifestazioni, caratterizzate da una serie di elementi accidentali, fino a che la presenza di un elemento qualificato non integri una fattispecie propria, per esempio la violenza privata che unita al furto integra la rapina. Su questa base è costruita tutta la dogmatica del reato complesso e del reato composto. 15 dell’articolo 14, cioè l’applicazione dell’articolo 12, norma generale, all’articolo 14, norma eccezionale, anzi norma eccezionale (poiché limita la portata dell’articolo 12) che regola l’interpretazione delle norme eccezionali. Si sarebbe cioè interpretato l’articolo 14 secondo i canoni dell’articolo 12: una norma eccezionale con i criteri previsti per le norme generali. In estrema sintesi, chi propone l’equiparazione, legge nel riferimento dell’articolo 14 ai “casi e tempi in esse considerati” anche i “casi analoghi”; in questo modo interpreta (quanto meno) estensivamente l’articolo 14, ma l’interpretazione estensiva (per la tesi da egli stesso sostenuta) è anche interpretazione analogica, quindi sta interpretando analogicamente la norma eccezionale che vieta l’analogia nelle norme eccezionali. L’equiparazione di estensione ed analogia passa attraverso la vanificazione dell’articolo 14, che dovrebbe ritenersi superfluo, contro lo stesso brocardo che consiglia di leggere i disposti magis ut valeant quam ut pereant. E contro i criteri di stampo positivista che impongono la coerenza e l’esaustività del sistema. Seguendo la procedura della dimostrazione ad absurdum è così emersa una conseguenza contraddittoria dell’equiparazione tra i due termini di indagine che ne dimostra l’insostenibilità. Una seconda ragione di distinzione può essere qui solo indicata, pervadendo l’intero volume e costituendone –forse- la tesi fondamentale. Il procedimento ermeneutico dell’estensione (nelle diverse varianti sviluppate), al pari di ogni procedimento conoscitivo euristico, sconta quella che possiamo chiamare l’ipoteca analogica. Ha trovato sempre più corpo nella storia del pensiero l’intuizione, ormai risalente a ventiquattro secoli, che vuole la nostra mente procedere per genus proximum et differentiam specificam, secondo la concisa formula scolastica.4 Semplificando 4 Il procedimento, tramandato nella più compiuta sistemazione aristotelica (Top., I, 8, 103 b 15), si deve all’intuizione di PLATONE, chiarissima in Soph., 251 B in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Claudio Mazzarelli), Milano, 1991, p. 294. Ulteriore riferimento si trova in PLATONE, Resp. VII, 534, E), in Tutte le opere, a cura di G. Reale (traduzione di Roberto Radice), Milano, 16 sommamente si può dire che, come per una sorta di calcolo binario ante litteram, noi ci avviciniamo all’oggetto da conoscere ponendolo in rapporto con ciò che di più simile ci è noto, ricercandone i caratteri “comuni” con il già noto, quindi ne individuiamo i caratteri “diversi” che ne costituiscono le peculiarità. Se questo è stato ritenuto il paradigma di ogni forma di conoscenza, senza dubbio è anche la struttura del procedere dell’analogia. Chiaramente percepibile è l’assonanza dell’analogia giuridica con il processo della conoscenza. Anticipando, possiamo già dire che “c’è un po’ di analogia” anche nell’interpretazione estensiva: questa è l’ipoteca analogica. Tuttavia, è bene avvisare fin d’ora che non si deve confondere il procedimento conoscitivo per identità e differenza5 con il procedimento ermeneutico dell’interpretazione analogica: in tal modo, se così fosse, “tutto” sarebbe analogia, non solo l’interpretazione estensiva. Il metodo interpretativo dell’argomentum a simile porta forte in sé la traccia del procedimento per identità e differenza, ma non lo esaurisce: si tratta in fondo di comparare due casi, in base ad un metron previamente definito, per vedere se sono analoghi. Anche l’interpretazione estensiva compara la fattispecie descritta dalla legge ed il caso 1991, p. 1256. Tuttavia, se nella Repubblica si giunge al ruolo privilegiato della dialettica, attraverso l’esame delle altre discipline (ginnastica, musica, matematica, astronomia) che formano il cittadino ed il reggitore della polis in particolare, Platone rende nel Politico la più efficace definizione del procedimento dialettico, ove dichiara “si dovrebbe, non appena si sia avvertita la comunanza di molte cose fra loro, non distaccarsene, prima che siano viste in essa tutte le differenze, almeno tutte quelle che si fondano sulle Idee; e, d’altra parte, quando vi siano diversità di molti tipi in molte cose, non dovrebbe essere possibile sentirsi sconcertati, e desistere, prima di aver stretto tutte quante le cose affini all’interno di un’unica uguaglianza, e di averle rinchiuse nell’essenza di un determinato genere.” Così PLATONE, Pol., 285 A – B) in op. cit., p.344, nella traduzione di Claudio Mazzarelli. Per il significato “oggettivo”, contro le “tentazioni soggettive” di questa “buona regola”, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, specialmente p. 44 e ss. 5 Utilizzerò nel prosieguo questa dicitura per indicare il procedimento conoscitivo sommariamente descritto, sia perché ormai largamente diffusa, sia preferendola all’originaria dicitura di “diverso” e “comune” per le ragioni che saranno esposte infra al § 5.1.1. 17 concreto, ricercando fin dove può giungere la previsione (di lettera, di ratio, di evoluzione) contenuta nel testo di legge. Credo, però che l’analogia giuridica non esaurisca il procedimento conoscitivo fondamentale proprio in forza della preventiva fissazione del criterio: questa preventiva operazione di limitazione dell’indagine trasforma la tensione filosofica del “comune” e “diverso” nella tecnica dell’analogia, nel mezzo per un fine che è il procedimento interpretativo. Tuttavia, per quanto la distinzione fin’ora possa essere stata riconosciuta in negativo, almeno come impossibilità di (o contraddittorietà della) equiparazione, non si è ancora ben tracciata la differenza specifica che consenta una definizione in positivo di analogia ed estensione, Occorre cioè (tentare di) trovare il criterio per dire dove comincia l’una e dove finisce l’altra. E per far questo conviene partire dal genere prossimo che apparenta interpretazione analogica ed interpretazione estensiva, affrontando subito lo spinosissimo problema se l’ermeneutica sia questione di metodo o se attenga all’essenza, se appartenga alla metodologia o all’ontologia, scegliendo come campioni delle diverse posizioni in lizza rispettivamente Emilio Betti ed Hans Georg Gadamer, nella loro garbata polemica sulla natura dell’interpretazione. 18 8. INQUADRAMENTO DEL TEMA NEL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE 8.1. Ermeneutica come metodo generale delle scienze dello spirito: spunti e critiche dall’impostazione bettiana utili per l’approccio contemporaneo al tema 8.1.1. Positivismo e dogmatica in tema di interpretazione. Dogmatica come parte integrante dell’interpretazione giuridica e oggettività fondata sulla dogmatica nell’impostazione di Betti. Categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito Per poter condurre efficacemente la riflessione sul tema del rapporto tra l’interpretazione estensiva e l’analogia è imprescindibile aprire lo sguardo sul terreno entro cui il problema affonda le sue radici, e quindi collocare il discorso all’interno della più vasta questione dell’interpretazione. In questo senso può condividersi l’affermazione che in realtà “ogni scienza include una componente ermeneutica”6 e ha “molto di illusorio anche il concetto 6 M. BRETONE, Il paradosso di una polemica, in Quaderni fiorentini n. 7, Milano, 1978, p. 115. Il passo di Bretone trae spunto dalla riflessione a proposito della cd. polemica Betti-Gadamer - sulla quale vedi infra - in tema di relazione tra verità e metodo. La “scoperta” che anche in ambito eminentemente scientifico, che dovrebbe a rigore essere deputato ad espellere, in nome dell’obiettività, qualunque tensione interpretativa, è presente, al contrario, una componente ermeneutica gioca a favore dell’intendere l’ermeneutica come “metodica generale”. Non esiste, dice Bretone, nemmeno una scienza puramente “tecnica”, perché le implicazioni ontologiche rimandano alla sua componente ermeneutica. Di qui la necessità di approfondire preliminarmente, ai fini del presente lavoro, la questione dell’interpretazione. 19 “tecnico” di scienza, se non se ne scoprono le implicazioni ontologiche”.7 Donde una preliminare questione di metodo. Infatti a partire dalla fine dell’Ottocento, riprendendo distinzioni già di età classica, accanto a filosofie che consideravano lo “spirito” da un punto di vista prevalentemente etico, si avvalorò l’idea che dello spirito fondava un complesso di scienze, dette appunto Geistwissenschaften. Fu soprattutto Dilthey,8 che pochi sanno essere stato ispiratore di molte delle teorie di Betti, a diffondere il concetto di scienze dello spirito come “l’insieme delle scienze aventi per oggetto la realtà storico-sociale”. Caratteristica delle scienze dello spirito è, in questa impostazione, il carattere storico del procedere - sono infatti dette anche scienze storiche - in quanto l’originalità dello spirito genera “prodotti” irripetibili, e perciò “storici”. Com’è noto, contrapposte alle scienze dello spirito si sono sovente catalogate le “scienze della natura”,9presentate, contrariamente alle prime, come un complesso compatto e omogeneo, apoditticamente certe.10 La fiducia, di matrice ottocentesca, nella scienza come sola attività teoretica seria11 ha 7 Scrive JEAN GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p.113: “Le titre allemand, “Doctrine générale de l’interprétation comme méthodologie des sciences humaines”, souligne bien l’intention diltheyenne”. 8 W. DILTHEY, Einleitung in die Geistwissenschaften, in Schriften, II ed., I, Leipzig 1921, p. 5. 9 Anche sulla falsariga delle distinzioni tra fisiologia e psicologia. Per diverse considerazioni su queste classificazioni, cfr. U. SCARPELLI, Semanitica, morale, diritto, Torino, 1969, nonché, più decisamente, IDEM, Le argomentazioni dei giudici, in IDEM, L’etica senza verità, Bologna, 1982, cui vuol far eco A. PINTORE, il diritto senza verità, Torino, 1996. 10 Non interessa in questa sede sollevare la distinzione. Per ulteriori approfondimenti cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904; più recentemente T. SERRA, Il disagio del diritto, Milano, 1995. 11 Cfr. G. MORRA, voce Spirito (Scienze dello) in Enciclopedia filosofica (1957), vol. VII, Roma, 1979, p. 1030. Programmatico lo scritto di G. RADBRUCH, Einführung in die Rechtswissenschaft, Leipzig, 1919. Ma è una tendenza che permane, anzi cui vieppiù si aggrappano i “non scienziati” (come i giuristi), proprio quando gli scienziati ne prendono le distanze. Cfr. F. MODUGNO, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998. Per un 20 spesso così spinto verso la ricerca di “scientificità” anche le scienze dello spirito, non dissipando, tuttavia, tutti gli equivoci su che cosa siano, effettivamente, le scienze dello spirito e sulla legittimità di procedere in esse con metodo scientifico. Ma questo è un problema più ampio. La “monumentale”12 opera di Emilio Betti è senza dubbio paradigma di una necessità sistematica là dove inquadra anche le istanze più strettamente “tecniche” connesse all’interpretare giuridico dentro un sistema di Teoria generale dell’interpretazione, spostando, in certo qual modo, il baricentro delle argomentazioni da un taglio più strettamente tecnico, o meccanico-giuridico, ad un amplissimo respiro teoretico.13 “La nostra meta è una teoria generale ermeneutica che, pur animata dalla fiducia nello spirito, vuol restare sul terreno fenomenologico della scienza (bei den Sachen selbst) senza ascriversi a nessun particolare sistema filosofico”,14 scrive Betti. Non filosofica, dunque, ma forse si deve ritenere non ideologica.15 Scientifica, poi, non tanto come sinonimo panorama spagnolo della monarchia restaurata, J.J. MORESO, La indeterminación del Derecho y la interpretación de la Consitución, Madrid, 1997, ma più profondamente, J BMS., VALLET DE GOYTISOLO, En torno de las relaciónes constituciónales, in Annales de la Fundación Francisco Elías de Tejada, VII, 2001, p. 17 e ss. 12 Questa la definizione di N. ABBAGNANO, in Storia della filosofia, IV, La filosofia contemporanea, Torino, 1991, p.577 e ripresa, tra gli altri, da G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 19. 13 Cfr. M. GENTILE, Breve trattato di filosofia, Padova, 1974, p. 38. “La problematicità”, scrive Gentile, “è un atteggiamento teoretico, cioè appartiene al sapere in quanto tale, e ne costituisce la stessa condizione”. E più oltre “La problematicità appartiene [...] come carattere costitutivo a tutte le forme del sapere, sia a quella filosofica sia a quella scientifica[...]”. Ed è questa consapevolezza critica che consente a Betti di elevarsi dalle angustie del dibattito. 14 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, Prefazione p. IX. 15 Laddove l’ideologia simula la filosofia applicando solo una parte del movimento dialettico, il momento del “comune”, ed orientandosi a mantenere il potere acquisito, collocandosi specularmene alla struttura dell’utopia, plasmata sul solo momento del “diverso” e funzionale all’acquisto del potere, come ha messo elegantemente in evidenza, ricostruendole le radici storiche e le matrici 21 di procedimento convenzionale operativo, quanto di procedimento rigoroso, riproducibile ed insegnabile, secondo la definizione usuale nei primi decenni del Novecento.16 Certo, si legge un’aspirazione alla purezza, di stampo kelseniano, ad una inconsapevole ricerca di avalutatività, propria della tèkne. Questa teoria, secondo il progetto bettiano, “dovrebbe studiare il problema epistemologico dell’intendere [...] il processo interpretativo (come processo gnoseologico), e soprattutto la metodologia ermeneutica, approfondendo i tratti comuni e quelli differenziali,17 che il metodo ermeneutico assume nelle scienze dello spirito”.18 Sarà dunque la categoria dell’interpretazione a fungere da Leitmotiv di ogni trattazione se, come si è anticipato, si assume che “ogni scienza include una componente ermeneutica”. Anche il problema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia, cioè, e di una loro possibile o impossibile differenziazione, non si potrà risolvere se non partendo da una riflessione su che cosa sia l’interpretare, su questa “componente ermeneutica”. La scelta di questa o quella impostazione ermeneutica, poi, varrà a reggere la costruzione messa a tema, e l’opera bettiana, di cui si è fatta la scelta preliminare, costituirà l’impalcatura - per proseguire nella metafora - tramite cui raggiungere la cima. teoretiche F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 187. 16 Cfr. A. RAVÀ, La classificazione delle scienze, Roma, 1904, p.47 e 112. Cfr. altresì A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap. XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione italiana di P. Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930, p. 537 e ss. Sul punto rinvio al ponderoso saggio di P. BELLINAZZI, Conoscenza, morale e diritto: il futuro della metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990, p. 440 e ss. Cfr. altresì, recentemente, C. T OMMASI, Riflessioni sul pensiero etico e politico di Arthur Schopenhauer, in Il Pensiero Politico, 1996, I, p. 41 e ss. 17 Sarà dunque il procedimento per identità e differenza, e il principio di non contraddizione a caratterizzare l’indagine. 18 E. BETTI, Teoria generale, cit., p. XVIII. Giova qui solo sottolineare, per quanto si dirà in prosieguo, l’inconsapevole tralatizia assegnazione dello studio del fenomeno giuridico alle “scienze dello spirito”, categoria vaga e mutevole, spesso aggregata solo in quanto contrapposta alle “scienze della natura”. Cfr. altresì supra nota 16. 22 Ermeneutica e scienze dello spirito si rivela, perciò, il binomio di partenza: binomio che subito si trova quasi travolto dalla necessità di una scelta, si potrebbe dire sistematica, tra la collocazione, in ottica positivista oppure eminentemente dogmatica, del tema cruciale sotteso a tutta la riflessione, e cioè quello dell’oggettività dell’interpretazione medesima. Rifuggita la tentazione soggettivista, là dove confina pericolosamente con l’arbitrio, il problema fondamentale che si pone ogni ermeneuta è proprio quello della tensione obiettiva, e a maggior ragione il giurista-interprete, costantemente pressato dall’istanza egalitarista come conditio sine qua non di ogni costruzione autenticamente e ordinatamente giuridica.19 “A differenza di Betti che voleva fondare l’oggettività dell’interpretazione sulla dogmatica, il positivismo voleva raggiungerla distruggendo la dogmatica”, sostiene Pier Giuseppe Monateri.20 Emerge subito, tuttavia, la necessità di distinguere tra due possibili significati del termine “dogmatica”. Da un lato dogmatica come un’intelaiatura, un insieme di pure convenzioni, così come emerge nella stessa impostazione positivista. Dall’altro, al contrario, la dogmatica come la possibilità di una costruzione e un ordinamento legittimo di concetti, un’impalcatura che si si edifica di concetto in concetto, ma sui dati raccolti dall’esperienza, così come nell’impostazione di Betti. Una dogmatica, in questo secondo senso, che è una “rappresentazione della realtà”, tramite cui, davvero, si può raggiungere l’obiettività, contrariamente all’impostazione dogmatica dei positivisti che, ponendosi come pura convenzionalità, paradossalmente potrebbe diventare 19 Si vuole qui dire che proprio perché la legge deve essere “uguale per tutti” perché si possa autenticamente collocare in un “sistema” giuridico ordinato, fuori da ogni arbitrio, almeno, se non da ogni incertezza, è necessario postulare la necessità quanto meno di una tensione verso l’obiettività, sia questa più o meno realizzabile. Obiettività che, però, non può essere meramente “tecnica”, avulsa da un giudizio di valore, ma al contrario potrà realizzarsi solo entro una impostazione che tenga conto delle istanze assiologiche. 20 Così P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, par. 29. Di diverso avviso, almeno nel rapporto tra sicenza del diritto e positivismo giuridico, U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965. 23 soggettivista. Solo con i chiarimenti fatti si può vedere, allora, se e in che limiti anche Betti sia un dogmatico. Preliminarmente, si impone la scelta tra fondazione dogmatica - nel senso di rappresentazione della realtà, di costruzione concettuale raccolta dall’esperienza, come detto, e non di mera costruzione a tavolino - o positivista; e non è, questo, mero esercizio speculativo: la scelta qualifica la genesi, la struttura e le prospettive concettuali e applicative della materia. Betti non chiarisce mai fino in fondo che cosa siano queste “scienze dello spirito”, né ritiene di giustificare esplicitamente la collocazione del diritto tra le scienze dello spirito. Si può notare, tuttavia, come la catalogazione del diritto in tale categoria, in ogni caso, evidenzi una implicita negazione della natura meramente tecnica del diritto. Le leggi del diritto, cioè, non sono come le leggi naturali (come potrebbero essere quelle fisiche) essendo leggi che sottendono a esigenze etiche, prima fra tutte la convivenza. Se ne deduce fin da subito, perciò, l’impossibilità di collocare il diritto come si collocherebbe una norma tecnica, e la necessità, al contrario, di darne un fondamento assiologico, che è quanto si verrà sostenendo. In limine osserviamo come Betti (al pari di Ravà) sia prigioniero del dibattito tedesco sulla classificazione. Fatta con Betti la scelta per l’ermeneutica come “metodica generale delle scienze dello spirito” ne segue, quasi spontaneamente, l’adesione ad un’idea di dogmatica - nel senso di rappresentazione del reale, come detto - quale “parte integrante dell’interpretazione giuridica”.21Questa implicazione discende dall’aderire a un concetto di interpretazione come processo “dialettico”22 in cui la soggettività dell’interprete convive con 21 Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), (1949), II ed. a cura di G. Crifò, Milano, 1971, p.105. 22 Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 602. Il termine dialettico viene qui usato dall’autore in senso (inconsapevolmente) idealistico, secondo il movimento triadico comune a Fiche, Schelling ed Hegel, sviluppato sul sistema del criticismo kantiano, contrapponendo la soggettività dell’inpterprete all’oggettività del dato. La stessa tematizzazione di una verità data, necessarimante diversa dalla percezione del soggetto conoscente (noumeno / 24 l’aspirazione oggettiva della norma. Da questa convivenza e dal fatto che il diritto è attività pratica, non puramente convenzionale, in cui è imprescindibile il momento valutativo, consegue che la soluzione al problema dell’interpretazione giuridica non può essere né tecnica né meramente logica, ma deve essere, perciò, dogmatica, nel senso che si preciserà subito. Si crea, in questo modo, un sistema superiore alle visioni particolari, una sorta di comunione tra il pensiero dell’interprete e il pensiero veicolo del contenuto ontologico dell’oggetto dell’interpretazione, nel nostro caso della norma.23 Dogmatica, dunque, in quanto rappresentazione della realtà, come reazione al pericolo formalistico (e in quanto tale in certo qual modo anti-ermeneutico) del positivismo, soprattutto di ispirazione kelseniana, e come fondamento dell’oggettività quale “canone ermeneutico”. Dogmatica sì, ma quale dogmatica? La dogmatica di Betti si caratterizza per una “compiuta ed elaborata sistematica di principi, di metodi e di canoni” 24 e per la scelta della metodica come strumento di verificazione oggettiva.25 La contrapposizione con l’”ontologia ermeneutica”di Gadamer (che poi dette origine alla famosa polemica Betti-Gadamer) si coglie, tuttavia, laddove il discorso esclusivamente ontologico va alla ricerca dell’essenza della volontà del legislatore ma, essendo fenomeno), pone una seria ipoteca sulla possibilità di risolvere in unità il problema dell’interpretazione. 23 Addirittura anche la stessa Teoria generale dell’interpretazione viene concepita come “adatta ad educare nei giovani l’abito della tolleranza e il senso del rispetto per le opinioni altrui”, così E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione,in Riv it. sc. giur., 1948, p.4. 24 Così J. BLEICHER, Contemporary hermeneutics : hermeneutics as method, philosophy and critique, London, 1980 (nell’ottima tr. it. a cura di Stefano Sabattini, Bologna, 1986), citato anche da G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 791. 25 Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 792. 25 un’indagine sull’essere “compiuta dal di fuori”,26 questa volontà risulta, poi, interpretata in innumerevoli modi tutti “scientificamente legittimi” ma inevitabilmente diversi e quindi sospetti di essere soggettivi. Inserendo questa impostazione dentro la problematica interpretativa in discussione ne viene fuori la necessità di una scelta ermeneutica per la dogmatica nel senso di rappresentazione della realtà come precisato sopra - quanto meno in chiave antiformalistica, là dove si sottolinea l’affondare dell’impostazione dogmatica in un discorso teoretico - e in questa di una metodica generale. Ma anche di non prescindere dal momento assiologico sul quale, solo, è possibile ricondurre ad unità ciascuna delle multiformi interpretazioni tutte intente ad accedere ad un unico significato ontologico. Analogia e interpretazione estensiva, dunque, come discorso sulle scelte del legislatore e della giurisprudenza. Si rifugge, dunque, la strada esclusivamente “ontologica”. L’intento è quello di conferire all’interpretazione una validità non meramente soggettiva e la necessità, conseguente, è perciò di approfondire la riflessione sulle procedure27 attraverso le quali è possibile sottoporre a controllo le conoscenze raggiunte.28 Ma per questa impostazione è necessario prendere le distanze da una ermeneutica ontologica, scegliendo un tipo di avvicinamento alla realtà completamente diverso dalla “conoscenza oggettiva” cui l’impostazione rigettata sembra cedere.29 26 Cfr. G. SANTINELLO, voce Ontico in Enciclopedia filosofica (1957), vol. VI, Roma, 1979, p. 101. 27 Si intravvede la distinzione tra teoria e teoremi, fra speculazione ed il metodo speculativo. Cfr. U. VOLLI, Manuale di semiotica, Bari – Roma, 2000. 28 Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28. 29 F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28. Cfr. altresì le sempre lucidissime pagine di L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996; nonché F. ANCORA, La corte costituzionale e il 26 Il tentativo, tuttavia, di rendere possibile all’interprete l’espressione di preferenze ermeneutiche “oggettivamente” e non soggettivamente motivate30 passa necessariamente per la “generalità” di un’ermeneutica e per l’ordine “cognitivo” che la sostiene. “Le rôle d’une herméneutique générale est d’en éclairer les fondements et d’en distinguer les types afin de définir les conditions d’une interprétation qui soit objective. Le dénominateur commun de toute interprétation est d’ordre cognitif”, scrive Jean Grondin. 31 La cognitività diventa dunque cifra e condizione dell’applicatio nel senso che si enfatizza, con Betti, la fase “ricognitiva” di ogni interpretazione; tuttavia, per evitare di scivolare in una applicazione sottratta a qualsiasi possibilità di controllo, si accetta una identificazione e definizione preventiva delle grandezze tra cui la mediazione interpretativa è chiamata ad operare.32 Tutto ciò, trasposto dentro la questione - tecnica ma non solo tecnica - del difficile rapporto tra l’interpretazione estensiva e l’analogia, messa a tema, ha un grande rilievo. Significa, infatti, rifiutare di assumere il testo normativo da interpretare come qualcosa di plastico, mutevole al mutare dell’applicazione e soggettivamente estensibile. Significa, pertanto, obiettare, a chi accusa la coincidenza di interpretazione estensiva e analogia come fonte di soggettivismo, che ciò che si attua nell’interpretazione - in quanto tale, estensiva o non estensiva - è proprio, in prima fase, una “ri-cognizione” della realtà. Su questa base anche l’analogia entra potere legislativo, in Giur. cost., 1987, I, 3825; infine, preciso nella distinzione, G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974. 30 F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 30. 31 Cfr. J. GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 115. 32 Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28 p. 31. Si intende qui sottolineare che solo tramite le categorie teoretiche di una costruzione generale, è possibile accedere alla interpretazione come conoscenza, che proprio per questa “predefinizione” si caratterizza per una ri-conoscenza, una fase, appunto ri-cognitiva. 27 nel processo interpretativo come rappresentativo del reale e perde di significato distinguerla dall’interpretazione estensiva. A patto, però, di attingere a quella “preventiva definizione delle grandezze” cui si faceva cenno e tramite cui viene ad affacciarsi l’impostazione dogmatica così come la si è indicata. A questo punto, però, viene da chiedersi: la scelta tra i metodi interpretativi avviene sulla base di considerazioni meramente logiche o tecniche capaci di imporsi universalmente, o deve avvenire sulla base di giudizi di valore?33 È concepibile uscire dai limiti del “pregiudizio dell’automatismo logico” e da quello della “riduzione in termini di rigorosa e soltanto formale coerenza”?34 Con Betti concordo sulla necessità di fondare, tramite una dogmatica coerente, le valutazioni più adatte a giustificare la comprensione del reale35 a partire proprio dall’”attualità” dell’intendere, che discende dall’impostazione di una dogmatica come “rappresentazione della realtà”. Addirittura Betti parla di “drammatizzazione”, insita nell’interpretazione, che è un affondare nella dimensione dell’agire con la consapevolezza e l’obiettivo, però, di “valutare alla stregua di criteri assiologici il risultato epistemologico”. Rinviando il discorso eminentemente assiologico36 è imprescindibile, tuttavia, la riflessione sulla connotazione “spirituale” del processo interpretativo che ne esce, sulla ricerca di questo “reale” tramite un continuo “rinnovamento ermeneutico”.37 33 Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p. 13. 34 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p.13. Cfr. per la positiva, recentemente L. J. WINTGENS, Coherence of the Law, in ARPS, 1993, p. 483 – 519. 35 P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ., 1987, p. 603. 36 Cfr. §. 3.2.4. Per le aspettative che un’ottica incentrata (solo) sui valori può suscitare (spesso deludendole), cfr. il frizzante contributo di P.A. CAPOTOSTI, Tanto tuonò …, ma non piovve, in Giur. cost., 1990, p. 2622. 37 “Così come il rinnovamento dell’ermeneutica divenne una questione di esistenza per la teologia protestante sulla base del principio della prevalenza della scrittura sul magistero della Chiesa.”, così F. W IEACKER, in Dalla storia del diritto alla teoria dell’interpretazione. (il pensiero filosofico-giuridico di Emilio Betti), in Riv. dir. civ., 1970, I, 305. Non si dimentichi che Betti vive e scrive 28 È l’istanza dell’”interiorità” che qui si viene ad affacciare, e l’intendere l’interpretazione come attività, appunto, complessa che non può non fare appello allo spirito. È anche la valorizzazione dell’interprete, con la sua “spiritualità”, come mediatore e attualizzatore: questi è dotato di un suo “spirito vivente e pensante”38 e ha di fronte, nella norma, una “spiritualità che si è oggettivata in forme rappresentative”.39 Egli deve, allora, fare proprio la mediazione di quelle forme rappresentative: in esse la spiritualità che vi si è, diremmo così, oggettivata si contrappone - o meglio giustappone - al soggetto interpretante come “qualcosa di altro e indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.40 Acquista un significato, in quest’ottica, parlare di “circolarità dello spirito con lo Spirito e della interpretazione nello Spirito”.41 Porre l’accento sulle categorie dogmatiche e giuridiche come creazioni dello spirito può, malgrado ciò, rivelarsi rischiosamente vicino ad un rincorrere un “paradiso dei concetti” (Begriffshimmel) alla Jhering e uno scivolone in una sorta di “esoterismo giuridico” che è davvero, come lo definì Hegel, lo stratagemma del tiranno immerso nella cultura tedesca, culla del protestantesimo e delle sue istanze ermeneutiche. 38 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss, ove leggo un riferimento al magistero di Gioele Solari, in particolare a G. SOLARI, Filosofia del diritto privato. Storicismo e diritto privato, Torino, 1940. 39 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. Per il simbolo come rappresentanza dell'assente, il rinvio d’obbligo è ancora una volta alla quasi coeva opera di cfr. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967. 40 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 ss. È da sottolineare il rischio di spaccatura scheptica tra soggetto ed oggetto che l’espressione dell’autore camerte può avanzare. Per quanto diremmo in prosueguo, crediamo emerga forte l’eredità gentiliana della distinzione tra “pensiero pensante” e “pensiero pensato”, distinzione idealistica, che (almeno in quella prospettiva) trova sempre dunque componimento. 41 G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 797. 29 Dionigi, che aveva appeso le tavole della legge troppo alte per essere lette. Da questa critica ci si dovrà ben guardare. Tuttavia anche rincorrendo l’oggettività attraverso l’impostazione dogmatica, al di là di ogni connotazione “spirituale”, si può rischiare di ritrovarsi di fronte a una struttura a contenuto tautologico. Potrebbe, cioè, obiettarsi che cercare di sostenere l’oggettività dell’interpretazione appellandosi al fatto che la norma è rappresentazione della realtà, significherebbe sostenere una struttura normativa perfettamente adatta alla struttura reale proprio perché aprioristicamente determinata come combaciante.42 Allo stesso modo allacciare troppo saldamente le categorie dogmatiche e giuridiche al gancio dello spirito potrebbe rivelarsi un apriorismo. “Se avessimo accesso direttamente alla natura in sé, avremmo accesso anche alla norma in sé”, scrive Monateri. 43 A patto, ovviamente, che la norma appartenga a questa “natura”. “Ma questo accesso ci è dato? Se la logica diventa natura, e la natura Spirito, lo Spirito ha ovviamente accesso alla natura [...]. Ma questa visione delle cose annulla in realtà ogni residuo di una possibile visione oggettivistica del mondo.[...] Le categorie dogmatiche e giuridiche sono creazioni dello Spirito, e noi possiamo pretendere che esse siano oggettive, solo se sosteniamo che il nostro mondo è un prodotto del nostro spirito. [...] È chiaro che contrabbandiamo, allora, per oggettive le nostre visioni soggettive e tacciamo di soggettivista chi non condivida le nostre opinioni”.44 Condividendo e ponendo come premessa le critiche ai limiti tanto del dogmatismo metodologico quanto dell’esoterismo ermeneutico preme, prima di procedere, analizzare la categoria 42 Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 603. P.G. MONATERI, ivi. 44 P.G. MONATERI, ivi. È fin troppo evidente la reazione all’anti relavitismo. La tesi dell’autore, perso prova troppo: egli muove però dalla falsa alternativa tra soggettività / oggettività, invero incomunicabili se si esclude, come sembra fare Monateri, la possibilità che il soggetto ri-coinosca l’oggettività, meglio l’ordine in cui è inserito e che questo riconoscimento in comune con altri sia il momento giuridico per eccellenza, nella definizione celsina del diritto, come ars boni et aequi e come suum cuique tribuere. 43 30 bettiana dell’”atteggiamento di carattere emotivo”,45 e perciò metateoretico di cui l’interprete deve appropriarsi per conseguire il giusto esito interpretativo. Betti li definirà “atteggiamenti metateoretici preliminari al processo interpretativo”.46 Atteggiamenti che certo non entrano nella struttura teoretica del procedimento ermeneutico, come spiega lo stesso Betti,47 ma semmai servono ad agevolare e predisporre “l’adeguazione” dell’intendere. È il sich einfühlen (l’immedesimarsi) che induce l’interprete, in una sorta di empatia o fusione affettiva eteropatica, a identificarsi con lo spirito che gli parla attraverso l’oggettivazione.48 Con il rischio, come pure si è osservato, che questo evocare lo spirito della legge possa diventare un espediente per salvare, insieme, l’avalutatività e la fecondità dell’interpretazione. Ma è anche vero che, al di là delle categorie bettiane un po’ romantiche “dell’interesse ad intendere, dell’attenzione dell’abnegazione di sè, dell’apertura mentale”49 questi presupposti dell’intendere aprono la strada ad un’interpretazione che è un “farsi” con l’interprete, non è solo un descrivere. Questo credo conferisca una straordinaria “fluidità” al processo interpretativo, anche e proprio là ove se ne postula il canone dell’oggettività, e rende sostenibile la teorizzazione di un 45 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 269 e ss. Si osservi che ne L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 100 e ss., Betti indicherà come ”emozionali” anche gli elementi valutativi e assiologici, immanenti alla norma stessa da interpretare. Su questo si veda infra. 46 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, , p. 269. 47 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276. 48 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. it. sc. giur., 1948, p 41 e ss. Ripresa in questo senso anche da G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 778. 49 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 270. Si tratta di formule che tradiscono l’anelito alla comprensione, alla ricerca dell’equilibrio, se si vuole, alla ricerca di giustizia. Che richiede, però, quella classica attitudine all’autonomia (cioè capacità di darsi delle regole e rispettarle) che lo stesso Betti epidermicamente percepisce impura incrostazione giusnaturalistica, imepedendosi così il “salto di qualità” per elevare lo studio dell’ermeneutica a filosofia. 31 interpretare dai confini “sfumati”,50 ma non per questo incerti, dove anche l’analogia, proprio perché addiviene ad un adattamento della norma alle situazioni di fatto,51 si inserisce nel pieno dell’attività interpretativa. 50 Per le nuove prospettive “a logica sfumata” cfr. § 7.1.1. Così E. BETTI,, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), (1949), II ed., a cura di G. Crifò, Milano, 1971, cap. XI. 51 32 8.1.2. Impostazione ermeneutica come Methodenlehre; l’”astrazione metodica” di Betti; critica al “circolo del comprendere come circolo metodico, anziché ontologico”. Analisi della possibilità del superamento della critica mettendo tra parentesi il problema metodologico-ontologico. Indagine su una concezione al tempo stesso metodica e ultra-metodica “Sensus non est inferendus sed efferendus”, ripete ad oltranza Betti52 rifacendosi ad un antico brocardo. Questo è non solo il segnale di una scelta a favore di una interpretazione volta a ritrovare le “valutazioni immanenti e latenti nella legge”,53 ma è anche il primo dei canoni ermeneutici attinenti all’oggetto: la dichiarazione programmatica di far fronte alla seduzione soggettiva.54 Emerge in questo modo come una simile impostazione ermeneutica sia fortemente caratterizzata dal punto di vista metodologico: “l’interpretazione si può caratterizzare come l’azione il cui evento utile è l’intendere”, scrive Betti,55 capovolgendo l’ordine logico delle tesi56 in merito a un intendere preliminare, che sarebbe 52 Grondin dirà “répeté partout Betti”, cfr. J. GRONDIN in L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti, in G. BENEDETTI (a cura di) L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 123. 53 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31. Per questi aspetti vedi infra § 1.2. 54 E. BETTI, op ult. cit. p. 10 ss. 55 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. 56 Già di Heidegger, condivisa da Bultmann e Gadamer. Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, 14. Auflage, Tübingen, 1977, p. 143; G. GADAMER, L’art de comprendre, tome I, Paris, tr. franc. 1982, pp. 54 ss; R. BULTMANN, È possibile un’esegesi priva di presupposti? in Credere e comprendere, trad. it. di A. Rizzi, Brescia, 1977, p. 803. Come si dice nel testo, qui vediamo la radice della teoria della precomprensione sviluppata da J. ESSER, Vorverstandnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung: Rationalitatsgrundlagen richterlicher 33 presupposto dell’attività interpretativa, cioè di quello che troverà fortuna come “precomprensione”. Il “senso” di cui si tratta, quello delle norme, non dovrebbe, cioè, essere surrettiziamente e indebitamente introdotto, ma si dovrebbe, invece, estrapolare, estrarre, dalla forma rappresentativa.57 Senza dimenticare la “circolarità” del comprendere, se si volessero applicare le categorie dell’azione e dell’evento, come fa Betti,58 l’intendere risulterebbe non tanto un’azione, un prius, bensì un evento. A prima vista potrebbe sembrare una concezione statica, invece, al contrario, questa impostazione è sì metodologica, tuttavia - a maggior ragione per questo - estremamente dinamica, specie là dove concepisce un “ordine giuridico” non come un fatto fisico, privo di vitalità e incapace di modificarsi, rinnovarsi, evolversi bensì, piuttosto, come “una totalità spirituale, che si sviluppa e si fa, ma proprio per opera assidua di interpretazione e di applicazione.”59 È il dinamismo dato da quella che Betti chiama l’”efficienza evolutiva” dell’interpretazione.60 Entscheidungspraxis, Kronberg, 1975, i cui lavori sono stati introdotti e divulgati in Italia soprattutto da Giuseppe Zaccaria. 57 E. BETTI,, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. 58 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319 e ss. 59 E. BETTI, Interpretazione della legge e sua efficienza evolutiva, in Scritti giuridici in onore di Mario Cavalieri, Milano, 1959, p. 547. 60 E. BETTI, L’efficienza evolutiva dell’interpretazione, in Diritto, metodo, Ermeneutica, a cura di G. Crifò, Milano, 1991, p. 547. Questo farsi dell’interpretazione partecipa, ma non esaurisce (almeno così ci sembra) l’ordinatio, cioè l’operazione di mettere ordine tra le norme, in base ad un criterio, operazione il cui prodotto è l’ordinatum, il risultato (provvisorio) del porre ordine tra le norme. I due termini latini che sciolgono l’ambiguità dell’italiano “ordinamento”, costituiscono le chiavi di lettura proposte da F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. 34 A questo punto, però, se il nodo cruciale è quello di vivificare,61 attualizzare una virtualità del sistema stesso62 a partire dall’einfühlen dell’interprete, è corretto spostare la teorizzazione da un piano fenomenologico a un piano meramente metodologico? Su questa dicotomia, in realtà più apparente che reale, si sono accese le polemiche non solo tra l’impostazione bettiana e quella gadameriana, ma proprio su questo filone si è sviluppata molta dell’anti-metodica capeggiata dalla Freie Rechtsfindung. Per la verità fin dall’antichità la parola hermeneìa, che designava l’attività di chi profetizzava e pronunciava i messaggi sacri, sottolineava un manifestare all’esterno, un dispiegare linguisticamente, un “esprimere che presuppone un interpretare.”63 Fin dall’origine, dunque, il comprendere interpretando si caratterizzava per la circolarità dell’impostazione: la realtà interpella l’ermeneuta che interpreta e fa emergere, esprime, la realtà. Non deve stupire, pertanto, l’equivoco, smascherato da Betti, di chi ha preteso capovolgere il rapporto genetico tra interpretare e comprendere confondendo l’uso ambivalente della parola intendere: da un lato per indicare la conoscenza, ottenuta mediante attività interpretativa, del contenuto di una oggettivazione dello spirito altrui, dall’altro per indicare la conoscenza in sé.64 Il problema metodologico, di fronte a questo dato fenomenologico, si è posto e si pone solo se ci si ostina a intendere il problema interpretativo esclusivamente come un problema connesso ad un procedere, e quindi a un metodo. Solo così si può spiegare il rifiuto della Methodenlehre di Betti e l’accusa di avere erroneamente collocato il “circolo del comprendere” entro un’impostazione metodica anziché 61 C. COSSIO, in El derecho en el derecho judicial, 1945, p. 117, citato da Betti, dirà: ”Se trata de un conocimiento por comprension, [...] ; el interprete deve vivenciar esa conducta y elegir la ley aplicable”. 62 E. BETTI, cit, p. 548. Per la pregnanza inabito giuridico del termine virtualità, cfr. le acute osservazioni di F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. 63 G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 326. 64 L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p. 130. 35 ontologica.65 Ma là dove ci si rifà ad una “astrazione metodica”66 si produce un mutamento di prospettiva, capace di subordinare le preoccupazioni di metodo al momento della ricognizione interpretativa e normativa. Tradurre tutto ciò sul piano pratico non è men gravido di conseguenze. Ammettere o negare un’interpretazione in quanto estensione della norma può essere inteso, infatti, come un compiere implicitamente un’operazione interpretativa per stabilire “quanto significato” vi è nella norma in sè e quanto vi è di estensione. L’obiezione secondo cui in questo modo si verrebbe ad affacciare una precomprensione, una pre-interpretazione rimarrebbe, allora, ineludibile se non staccandola da un piano strettamente metodologico. È la norma in sè, ci si chiede, a contenere “ontologicamente” il significato dato dall’estensione, o questo significato è raggiunto solo metodologicamente, partendo, per così dire, da un concettobase e allargandolo a seconda della “natura delle cose”, “dell’attualità dell’intendere” o di qualsiasi altro criterio? A questo punto viene da chiedersi se sia possibile superare l’ostacolo teoretico dell’ontologia-metodologia ermeneutica mettendo tra parentesi lo stesso nodo problematico. Probabilmente è possibile ove la presunta “svolta ontologica o metodologica”67 è, come si diceva, più apparente che reale, se si ammette, cioè, una loro possibile coesistenza. A condizione di preservarsi da quell’errore tipico del metodologismo dato dalla presunzione di fornire dei canoni e dei criteri direttivi anteriormente e indipendentemente dal concreto procedimento interpretativo,68 e a patto di riconoscere il valore, per contro, del metodo, come via 65 Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p. 439. 66 E. BETTI, L’ermeneutica storica e la storicità dell’intendere, in Annali della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, XVI (1962), p. 27 e ss. 67 F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28. 68 G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 331. 36 sicura in grado di rendere ragione di sé69 contro ogni soggettivismo, sempre che il metodo stesso possa ritenersi fondato, cioè non falsificabile.70 Non si supera il metodo - forse anche a cagione della necessità di non rinunciare a una tensione all’oggettività dell’interpretazione - e quindi difficilmente si può sostenere la conciliabilità di metodica e ultra-metodica. Tuttavia in quest’ottica è consentito avvalersi di uno strumentario che - se non si può definire al tempo stesso metodico e ultra-metodico - si può azzardare metodologico e ontologico attraverso cui procedere nella tensione verso una - non più Naiver71 - obiettività. L’analogia, in questa concezione, non è più solo un problema logico, ma si inquadra, metodologicamente e ontologicamente, dentro il problema ermeneutico. Si può, allora, insinuare un superamento del metodo solo intendendosi sul fatto che si va a parare contro la spiccata vocazione dell’ermeneutica a risolversi in etica72 e ci si appella al contenuto assiologico delle norme da interpretare. Quello etico, in questo modo, si può ipotizzare come il terreno di incontro ultra-metodico tra un’impostazione metodica e un’anti-metodica73 o meglio, il Leitmotiv cui ontologica e metodologia ermeneutica si riconducono. 69 Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 797. 70 Secondo il procedere per identità e differenza, come suggerisce il principio di non contraddizione e del terzo escluso di cui si è detto al § 5.1.1. 71 Così G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p 439. 72 G. VATTIMO, Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione? in Aut Aut, 225, 1988, p. 1 ss. È tuttavia da sottolineare che nell’impostazione di Vattimo l’istanza etica è giustificata come un evento di destino di “costituzione nichilista”, come “pensiero dell’epoca della fine della metafisica”, là dove in Betti l’istanza etica emerge come catarsi dell’interprete. Per le possibilità, tutt’altro che crepuscolari, di essere terreno d’incontro che tale riconduzione all’etica propone mi sento di condividere quest’ultima impostazione. 73 Cfr. G. BENEDETTI, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 797. 37 8.1.3. Necessità della concretizzazione ermeneutica. L’ermeneutica come teoria descrittiva o normativa dell’interpretazione. Valutazione soggettiva e razionalizzazione del processo di decisione. Definiti i limiti e le possibilità meramente metodologiche, presa posizione relativamente a una certa impostazione e concezione dogmatica, rimane davanti all’interprete, ciò nonostante, la domanda che prende in considerazione le decisioni valutative dei giudici e cerca una risposta capace di far collimare tutte le ipotesi pur sempre astratte - di partenza con i risultati - concreti - derivanti dall’applicazione normativa. È sotto gli occhi di chiunque la “insopprimibile distanza”74 tra l’universalità della norma e la particolarità di ogni caso concreto: diventa però un problema - dogmatico, metodologico e fenomenologico al contempo - porre mano alla concretizzazione del diritto,75 “lavorare” il diritto stesso se lo si vede, con Adolf Merkl,76 come un “semilavorato” che diventa “prodotto finito” solo con la fase applicativa. Qual è l’obiettivo del linguaggio giuridico? È un “dire per operare” o un “dire per comprendere”? Con Esser77 ritengo che l’obiettivo stia nella trasmissione di modelli decisionali e di 74 G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv dir civ., 1989, I, p. 334. 75 Così K. ENGISCH, Die Idee der Konkretisierung im Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit, Heidelberg, 1968. Per un approfondimento sulle problematiche che affondano nella Konkretisierung tedesca e al suo rapporto con la creatività si rinvia al § 3.2. 76 A. ABIGNENTE, Adolf Merkl: la costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, in Riv. dir. civ. 1987, I, 621-654. 77 Cfr. J. ESSER, Vorverstaendnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung. Rationalitaetsgrundlagen richtlicher Entscheidungspraxis, Frankfurt a.M., 1972, p.133. 38 indicazioni relative all’azione, ma credo che sia fondamentale l’obiettivo di trasmissione di valori, pur tenendo presente che quest’intento viene filtrato attraverso una veste tecnica dogmatizzata e sistematica dell’ordinamento. Si potrebbe allora dire che il diritto è strumento di “comunicazione”.78 Si aprono qui, oltre alle problematiche connesse agli (inevitabili?) conflitti interpretativi79 e alla frizione tra un modo di intendere l’ermeneutica come teoria meramente descrittiva oppure normativa dell’interpretazione,80 anche gli spazi lasciati aperti dalla querelle positivista-antipositivista già emersa sul terreno della dogmatica. Il maggiore punto di attrito, da questo punto di vista, lo crea l’impostazione kelseniana,81 là dove postula l’espulsione dei giudizi di valore dalla rigorosa e geometrica teoria interpretativa lasciando tra parentesi ogni vincolo metodologico. “A Kelsen interessa il soggetto che interpreta, non il modo di interpretare”.82 Se si pone l’accento sul soggetto interprete glissando il tema delle modalità interpretative si viene sì operando una “rimozione”83 del ruolo che l’interprete esplica nello stesso processo di individuazione del diritto, ma questa esclusione non è certo metodologicamente irrilevante. Non è il caso di soffermarsi troppo ampiamente qui sulla validità o meno dell’assunto di una “precedenza della domanda” 78 Cfr. F. GENTILE, L’ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, II ed., integrata da tre codicilli, Padova, 2001. 79 Per i quali si veda infra, § 1.4. 80 Per la quale si veda infra, § 3.2. 81 H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. it. di M.G.Losano, Torino, 1966, pp. 92-110. 82 G. ZACCARIA, L’apportodell’ermeneutica cit., p. 340. 83 G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 340. Per questa via, infatti, l’interpretazione di chi “rappresenta” l’autorità costituita, cioè di chi ha il potere giuridico di interpretare, è di per sé sempre corretta. Della costruzione dell’giusfilosofo di Praga si trova (forse inconsapevole) traccia in E. BINDI, Un caso di bilanciamento (mascherato) tra esigenze di efficacia della giustizia e principi costituzionali relativi alle garanzie giurisdizionali in Giur cost., 1998, p. 900 e ss. 39 nella struttura speculativa dell’esperienza,84 che trasposto in chiave normativa conduce all’intima connessione tra la comprensione giuridica e il contesto dell’azione. Certo è che i rapporti tra fattispecie concreta e astratta non possono non sollevare la questione sulla sufficienza o meno dei canoni ermeneutici tradizionali nel vincolare a precisi criteri di razionalità la prassi della concretizzazione del diritto. Il “buco nero”di qualunque impostazione giuridica è dunque ancora una volta quello dell’oggettività interpretativa, “luogo” in cui si entra ma non si riesce più ad uscire e che sembra inghiottire qualsiasi, anche contrastante, tentativo di teorizzazione.85 Arrovellarsi sulla descrittività o normatività di qualunque ermeneutica, perciò, potrebbe rivelarsi un pericoloso avvicinamento al “buco nero” dell’oggettività, capace di lasciare un vuoto concettuale là dove tenta di incasellare nella “fisica giuridica” di un positivismo esasperato quella che è l’anti-fisica della “circolarità spirituale” di cui si è discorso.86 Poste queste chiarificazioni si può anche approdare alla concezione bettiana che individua una tripartizione, a seconda della funzione, in interpretazione meramente conoscitiva o ricognitiva, riproduttiva o rappresentativa, o normativa.87 Concezione che, data 84 G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972, tr. It. (sulla II ed., ivi, 1965) a cura di G. Vattimo, Milano, 1983, p 283 ss. 85 Secondo i recenti studi di astrofisica sui cd. “buchi neri” questi sarebbero “luoghi” in cui non si può dimostrare la validità delle leggi fisiche vigenti. Sarebbero, pertanto, dei luoghi in cui può esistere una anti-fisica, dove i concetti di materia, tempo, spazio assumono connotazioni anche molto diverse da quelle fisicamente conosciute. Date queste caratteristiche l’”ingresso” nel “buco nero” segna un punto di non ritorno all’universo fisico. Cfr. C. LUCCHIN, Introduzione alla cosmologia, Bologna, 1996, p. 266 ss. 86 È l’antimateria del positivismo di cui parla U. PAGALLO, Alle fonti del diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino, 2002. 87 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 33 ss. Per quanto verremo a dire, occorre segnalare subito la perplessità di un’interpretazione cognitiva diversa da quella rappresentativa, anzi di un’interpetazione che non sia rappresentativa: altro invece è vedere se la rappresentazione sia “icona”, immagine fedele alla sua natura di immagine, ovvero “fantasma”, immagine che tradisce la sua funzione, ponendosi come 40 la impostazione di dogmatica come rappresentazione della realtà, come drammatizzazione, assurge a criterio e metodo, è operativa proprio perché è descrittiva. Aggiungendo subito, però che non si deve confondere l’interpretazione con la qualificazione giuridica. “Cade in tale equivoco chi identifica l’interpretazione giuridica con la valutazione del fatto in termini di astrattezza legislativa e crede che gli elementi interpretativi consistano negli indici di regolarità fissati nella previsione legislativa. In realtà l’interpretazione di atti anche rilevanti per il diritto coglie l’atto nella sua concreta individualità, nel suo contenuto di spirito e di pensiero e nel senso che ha nell’ambiente sociale, spoglio ancora di ogni qualificazione giuridica definitiva”.88 È possibile, allora, su queste basi, sostenere la razionalizzabilità del processo di decisione dentro le valutazioni soggettive dell’interprete ma lontano da ogni soggettivismo, portando anzi proprio dentro la norma il “modo vissuto”89 dell’interprete. immagine concorrente, ma priva di realtà. Per la coppia “icona” / “fantasma” e per la sua radice platonica, mi permetto di rinviare al mio Il problema della rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova, 2000. 88 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 100. Il problema della qualificazione dell’atto ad un archetipo normativamente previsto guida le sempre acute osservazioni di F. G. SCOCA, La teoria del provvedimento dalla sua formazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, p. 1-55. 89 E. BETTI, ibidem. Sarebbe insomma l’esperienza dell’interprete a vificare la norma, sicché una più maturata sapientia, per applicazione di scientia e vissuta experientia, porterebbe l’interprete a rendere nuova e diversa interpretazione dello stesso testo, in ragione di un mutamento “soggettivo”, non “oggettivo”. Ma vi si legge anche l’anelito all’apertura all’esperienza giuridica, al farsi del diritto nella controversia, cioè nel momento dialettico del riconoscimento, su cui rinvio ancora una volta a F. GENTILE , La controversia alla radice dell’esperienza giuridica, in AA. VV., Soggetti e norme. Individuo e società, Napoli, 1987, p. 151 e ss. 41 8.1.4. L’ interpres come mediatore (interpretium). C’è una neutralità ermeneutica? Il confronto con Betti. La verità e l’interpretazione. Esistenza di una verità nella e della interpretazione. Efficacia storica/esattezza di una interpretazione: valore pedagogico e anticipatorio della legge. Si è già accennato alla connotazione “mediatica” che caratterizzò il ruolo degli ermeneuti all’origine del termine. Anche il temine interpres, non di meno, rimanda al ruolo dell’interprete come “mediatore“, riferendosi alla figura dell’inter-pretium. Già linguisticamente, dunque, l’accento è posto sulla soggettività dell’interprete e, verrebbe da dire, anche sulla terzietà di questi rispetto da un lato alla norma, dall’altra alla realtà. Lo stesso Betti spinge molto in senso kantiano sottolineando la necessità di mantenere la consapevolezza della parte che ha il soggetto nel processo conoscitivo delle scienze dello spirito.90 Tra i canoni ermeneutici che l’autore individua c’è, in primissimo piano, quello dell’”attualità dell’intendere”, con una costante attenzione a quella “vivificazione“ del diritto91 che non può che essere sviluppata tramite l’interprete (tramite il tramite, pertanto).92 90 E. BETTI, Diritto romano e dogmatica odierna, in Arch. giur., 1928, p.129 ss. 91 Scrive Luis RECASENS SICHES, riprodotto da Betti, in N. filos. de la interpret. del derecho, 1956, p. 138, 219: “La norma general al proyectarse sobre una conducta singular, pasa por el proceso de ser individualizada, de ser concretada respecto de ese comportamiento singular, de ser interpretada en cuanto al sentido e al alcance que deba tener para eso caso singular. El risultado de ese proceso es lo que constituye el revivir actual de la norma, el cumplimiento de esta en un caso particular.” 92 Cfr. L. RECASENS SICHES, cit., p. 219: “Por lo tanto el cumplimiento de una norma general en cada caso particular no consiste en un reproducir la norma general, sino en un adaptar la pauta general por ella señalada a cada caso singular, 42 La mediazione avviene non solo tra il tempo dell’interprete e quello del legislatore (e da cui discendono tutte le discussioni intorno alla ricerca della ratio, del “senso della legge”, della “natura delle cose”, della mens auctoris, e così via), ma anche tra la soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma, tra l’esigenza di certezza e l’efficienza evolutiva dell’atto normativo. L’interprete, cioè, si trova di fronte alla norma con tutta la sua soggettività, quindi con tutte le sue categorie, i suoi condizionamenti, di cui non può, tuttavia, sbarazzarsi per fare posto a una vagheggiata neutralità. Dacchè sarebbe “spogliarsi della propria soggettività”, aspirazione del tutto assurda dato che, come dice Betti, egli “perderebbe gli occhi per vedere”.93 Si trova anche, però, di fronte alla necessità di non fare della propria soggettività un soggettivismo che sfocerebbe nell’arbitrio e quindi, in nome della certezza, viene a dover conciliare l’oggettività interpretativa con la soggettività connessa all’essere l’operazione ermeneutica cosa altra da una mera operazione aritmetica o contabile. È il canone dell’adeguazione dell’intendere o della corrispondenza o consonanza ermeneutica, per cui l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente attualità in intima adesione e armonia con l’incitamento che gli perviene dall’oggetto”.94 Per la verità è stato sottolineato come l’applicazione, nei fatti, prevalga di gran lunga sulla mediazione95 e la strumentalità dell’interpretazione in funzione normativa -che va oltre, in certo qual modo, il semplice interpretare per conoscere- ne esce alquanto consiste en cumplir de modo concreto en la conducta singular el sentido formulado en términos genéricos y abstractos por la norma general”. 93 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25. È il tema su cui ci si è congedati dal capitolo che precede e che, come si vede, costituisce preoccupazione ricorrente in tutta l’opera del nosto, in reazione agli scritti coevi, p. es,. quello di R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947. 94 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 25. 95 Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 28. 43 subordinata, al di là dei meritori intenti, all’efficacia strettamente applicativa. Servirebbe un’interpretazione “aderente al vero” se poi non avesse alcuna efficacia applicativa? Il diritto, non di meno, comprende una natura applicativa, altrimenti diritto non sarebbe, riducendosi a pura speculazione. Secondo l’insegnamento della tripartizione aristotelica, lo studio del diritto e dello Stato non è né scienza, né tecnica, ma un arte (come la strategia, l’arte militare), partecipando della teoresi, ma non riducendosi a questa in un librarsi estetizzante, appartenendo alla creta del produrre, senza retarne invischiato, sospeso cioè tra cielo e terra, come la linea dell’orizzonte dell’Alighieri. Credo, però, che per uscire dall’alternativa tra oggettività e soggettività dell’interpretazione e nell’interpretazione ricorrere al criterio degli interessi in gioco, alla ricerca - di natura applicativa - del senso della norma come tutela di questo o quell’interesse non tolga né dal soggettivismo - dato che chi riuscisse a far prevalere il proprio interesse potrebbe ottenere un’interpretazione favorevole - né da un’inguaribile conflittualità interpretativa data dalla necessità di stabilire, comunque, un criterio per dare la prevalenza a questo o quell’interesse. È il criterio del télos, è la necessità di fondare l’interpretazione sui valori96 che può far uscire dall’alternativa e può costituire terreno di confronto fuori da ogni soggettivismo. Tuttavia il problema della verità della interpretazione e della ricerca della verità nella interpretazione, cruciale e lacerante, si scontra pur sempre, proprio in virtù di questa sua natura “meccanica” con l’efficacia, per l’interprete, di porsi la domanda sulla efficacia applicativa. Ossia, quando l’interprete si accinge ad interpretare una norma deve interrogarsi sull’interpretazione più rispondente al vero in termini di risultato, o in termini di metodo, o ancora deve rinunciare a questo ennesimo “buco nero” e badare solo all’efficienza evolutiva della sua interpretazione? 96 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p.14 ss. 44 Il problema di una neutralità ermeneutica, capace di accedere alla verità (normativa) come dis-velamento di ciò che già in sé è dato è un modo scorretto di porsi di fronte all’impasse della certezza dell’interpretazione. Collegare con tanta sicurezza certezza e verità, a parte l’inevitabile irraggiungibilità di una conoscenza piena di tutta la verità a causa della inguaribile parzialità dell’approccio conoscitivo,97 può far perdere di vista l’impostazione ermeneutica prescelta di un “farsi” dell’oggetto d’interpretazione la norma - tramite l’interpretare medesimo. È da condividersi allora l’opinione di Cavalla che sostiene come “il problema della logica (conoscere quali siano le condizioni che rendono un discorso rigoroso)” non si risolva “esibendo una logica (sistema di criteri per connettere in modo necessario una serie di proposizioni) che, in se stessa, è sempre e solo strumento per accertare, e non per produrre la verità”. 98 Rincorrere la verità per amore di certezza taglia, però, fuori quei fatti giuridicamente rilevanti ma inevitabilmente sottoposti a “senescenza assiologica”, o quanto meno metamorfosi evolutiva: si pensi, ad esempio, al concetto di “buon costume”. Non solo: rende pure stridente l’applicazione di criteri interpretativi logici, quale il modello analogico, a quegli stessi fatti attinenti la vita giuridica difficilmente comprimibili entro strutture fermamente logiche. È chiara, dunque, la necessità di ricorrere a tutta la “potenza assiologica del diritto”99 e di instaurare giudizi di valore come testata d’angolo di qualunque costruzione interpretativa. Nell’analisi di Betti è costante la preoccupazione relativa alla “questione della verità”, che rimanda al problema del comprendere nell’interpretare. Tuttavia vi è in Betti una sorta di sfasatura tra la 97 Sembra sottintendersi infatti che oggetto di conoscenza non sia mai la totalità dei fenomeni, ma solo una parte. Anche per il tradimento filosofico che muta l’anelito alla verità con la ricerca della certezza, individuato nell’opera sistematizzante dell’Aquinate, cfr. il denso saggio di Francesco Cavalla di cui alla nota seguente. 98 F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Padova, 1996, p. 110. 99 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p.17. 45 posizione critica, sostenitrice di una interpretazione mirata ad attingere nelle forme rappresentative i valori,100 e quella strettamente metodologica che, postulando il canone dell’astrazione metodica, implica una certa indifferenza alla verità dei testi con cui si ha a che fare.101 È lo stesso Betti che scrive come si debba cominciare a tenere distinta dal positivismo giuridico l’esigenza di “neutralità ermeneutica” che vieta all’interprete, giudice o giurista teorico, di risalire ad istanze metagiuridiche, etiche, religiose, sociali o economiche, secondo preferenze sue personali, e gl’impone di attenersi alle valutazioni normative che determinano la disciplina positiva dei rapporti e sono immanenti all’ordine giuridico di cui si tratta”.102 Tuttavia poco oltre aggiunge che “l’esigenza di neutralità non significa che qui sia richiesta all’interprete una supina rassegnazione o una sorta di cecità morale, ma essa è in tanto affermata in quanto si presuppone che proprio negli organi dell’interpretazione, siccome esponenti della coscienza sociale, sia viva e vivace la consapevolezza della tradizione e con essa la sensibilità delle sue basi morali”.103 Le teorie positivistiche del diritto vorrebbero, dunque, espellere le istanze etiche dal diritto e ridurre l’interpretazione giuridica a una mera analisi del linguaggio legislativo. Al più la “verità” sarebbe ritrovata nella pura conformità delle regole a “certi principi etici accolti come criteri di valutazione di una società storicamente determinata”.104 Questo, tuttavia, oltre a ridurre fortemente le potenzialità e la creatività dell’interpretazione condurrebbe a una insopprimibile staticità del sistema. Ma le norme, come sottolinea Betti, non sono ”pure enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la sintesi di un soggetto e di un predicato, ma sono strumenti ad un 100 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p.291 ss. 101 L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p. 128. 102 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 795. 103 E. BETTI, op.ult. cit. p. 796. 104 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 796. 46 fine di convivenza sociale”. Inserire i giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, dunque, significa fare del giurista un uomo che si pone fondamenti etici e li immette nel sistema con l’attualità della sua interpretazione, o, meglio, li emette dal sistema con il suo intendere. L’impostazione di Betti in merito alla esattezza dell’interpretazione procede sicura dentro il canone dell’oggettività: ”I caratteri che contraddistinguono l’interpretazione anche in funzione integrativa e ne fanno risaltare l’antitesi con la discrezionalità sono: l’univocità, che conduce a riconoscere esatta, almeno teoricamente, una sola soluzione (in quel dato momento storico e in quella data situazione di fatto); quindi la prevedibilità e la rigorosa controllabilità del risultato, assicurate, almeno in teoria, dal fatto che in essa sono escluse valutazioni di mera opportunità”.105 Avvicinare così tanto l’efficacia storica con l’esattezza di un’interpretazione può, tuttavia, rivelarsi pericoloso là dove ci si aggroviglia nel trasporre questa concezione dentro la necessaria imperatività delle norme. Si rischierebbe di essere fraintesi passando per sostenitori di una legalità solo se storicamente efficiente. Non solo. Si rischia di passare sotto silenzio la problematica connessa al cosiddetto valore “profetico e pedagogico” della legge, là dove accade che le proposizioni normative siano più evolute del sentire sociale o che il sistema di legalità faccia insorgere nuovi bisogni o nuovi conflitti di interesse cui la norma inconsapevolmente risponde. È la critica del brocardo “quod non est in lege nec in iure”, caro all’impostazione tradizionale, che tuttavia riceve dalle considerazioni fatte, anche con Betti, un profondo scossone. 105 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p. 68. La prudenza nell’escludere con sicurezza le valutazioni di opportunità dall’interpretazione salva l’autore camerte da un astrazione che porterebbe la sua argomentazione fuori dalla realtà. Che poi ogni interpretazione abbia in sé componenti di opportunità riteniamo sia momento fisiologico del carattere politico che pervade anche il momento giuridico (costituendone anzi la genesi), necessaria anche per scegliere tra più possibili interpretazioni, tutte scientificamente legittime. 47 8.1.5. L’interpretazione evolutiva nell’impostazione bettiana: spunti e precisazioni. Prima di procedere oltre sul tema sarà opportuno approfondire un aspetto del problema dell’interpretazione messo in luce dalla maggior parte degli autori, ma alla cui soluzione raramente si è giunti con sicurezza e uniformità. Si tratta dell’interpretazione evolutiva che spesso è ritenuta confinare con l’analogia, sicché la definizione di quella è preliminare alla corretta individuazione di questa. Sovente dottrina e giurisprudenza si sono prodotte in una pletora di partizioni a riguardo dell’interpretazione e, in particolare, si è da tempo delineato il concetto di interpretazione evolutiva, per evidenziare il carattere di attualità e di attualizzazione della norma cui l’opera dell’interprete dà luogo. Ci si è, cioè, rifugiati nell’idea dell’”evolutività” dell’interpretazione per sottolineare la vitalità delle stesse norme grazie proprio all’apporto ermeneutico, la loro capacità di adattamento al mutare delle situazioni sociali e anche dell’ethos, e per fuggire alla critica di ancorare il significato dei precetti ad una ormai desueta letteralità. Perciò, senza rinunciare all’idea di certezza che sempre ha assillato dottrina e giurisprudenza, individuare nella capacità evolutiva dell’interpretazione la possibilità - sottoposta ad un rigido controllo di disciplina - di adeguare ad un presente in continuo mutamento anche norme poste in un passato non recentissimo ha dato, quanto meno, l’illusione che l’ermeneuta potesse soccorrere “l’impossibile Sisifo”106 del legislatore, costretto, altrimenti, ad una 106 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 240 e ss. 48 frenetica attività di produzione legislativa nella rincorsa costante per rimettersi al passo con i tempi.107 Può esservi una nuova valutazione degli interessi in conflitto? Betti parla108 di nomogenesi per riferirsi al modo in cui in origine la norma fu pensata e alla valutazione e coordinazione degli interessi in gioco attuata dal legislatore ai tempi della emanazione normativa e, per contro, di eterogenesi degli scopi per sottolineare proprio il ruolo - da questo punto di vita innovatore, e quindi evolutivo - dell’interprete di ricercare sì, nell’interpretare la norma, la valutazione originaria e immanente ad essa, ma anche di analizzare se questa abbia maturato un esito ulteriore, rinvenibile anche attraverso il coordinamento con altre norme del sistema e anche da dati extragiuridici. Sarebbe, in questo modo attuata la nuova valutazione, evolutiva, degli interessi in conflitto. Tuttavia l’autore camerte si sofferma ad analizzare un aspetto a questo consequenziale: è legittima questa interpretazione evolutiva? Rispondendo alla critica di Romano,109 Betti sottolinea come l’interpretazione evolutiva non sia, come sovente la dottrina aveva affermato, un particolare metodo o criterio ermeneutico, ma un carattere della stessa interpretazione giuridica che necessita di essere integrata e arricchita quanto più la formula si allontana nel tempo dalla presente attualità, come del resto sottolinea avvenire per ogni linguaggio. 107 Cfr. §. 2.1.3. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, (Teoria generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971, p. 112 e ss. 109 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e ss; E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 833 e ss. La posizione di Santi Romano rispecchia il momento dell’evoluzione del diritto pubblico ed è conseguenza della teoria istituzionalistica, come recupero di quel fattore storico che – paradossalmente- proprio la Germania dell’Ottocento, patria dello storicismo, aveva finito col tradire. Cfr. S. ROMANO, Interpretazione evolutiva, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947 (rist. 1983), p. 120 – 125. 108 49 D’altro canto il fatto che l’ordinamento sia visto come qualcosa non di prestabilito ma di dinamicamente in costruzione, una “comunione di vivente spiritualità”110 fa sì che si renda necessaria questa opera di “assidua interpretazione”, cosicché l’efficienza evolutiva si dia come semplicemente un risultato consequenziale, magari inconsapevole, del processo ermeneutica.111 Ciò che, tuttavia, in tutta questa impostazione non può non lasciare perplessi è il fatto che lo stesso Betti, nonostante la teutonica meticolosità delle argomentazioni, sembra riporre una fiducia fin troppo marcata nell’interprete e nella sue capacità di raggiungere un’oggettività non scientifica, ma per riconoscimento del significato -del ruolo- della norma in ragione del posto che occupa all’interno dell’ordinamento. Come si raggiunge, per Betti, la congruenza tra la realtà mutevole e la certezza del diritto? Mediante una “efficiente collaborazione dell’interprete”,112 precisa nella sua Teoria. Ma questa collaborazione efficiente mi sembra, senza cadere in una sorta di pessimismo giuridico, dimostri una punta di ingenuità, se non altro per questo costante confidare nella ragionevolezza dell’interprete: il che non può non lasciare qualche dubbio, a prescindere dal carattere soggettivo della “ragionevolezza”. Del resto l’opera dell’interprete, che giustifica un’interpretazione “di comodo” con l’aderenza alle mutate esigenze sociali, o meglio che fa un uso “politico” del concetto di evoluzione normativa e che, lungi dal dare una nuova interpretazione ad una norma vecchia apre la via alla creazione, per via ermeneutica, di una norma nuova113 non è poi così lontana dall’esperienza giuridica contemporanea. 110 111 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 836. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 125 e ss. 112 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 834. Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 12. 113 50 Ma allora tanto vale porre già come rischio immanente ad ogni interpretazione quello di un certo grado di arbitrarietà, specie se introdotta per via di analogia o di estensione, e chiarire che postulare un legislatore e un ermeneuta “ragionevoli”114 null’altro significa che autorizzare la legittimità delle loro valutazioni. Premesso ciò, dunque, assume un significato più netto il compito che Betti affida alla giurisprudenza: quello di organo della coscienza sociale che, senza per questo cadere nella confusione tra i poteri giudiziario e legislativo, è il termometro, con le sue decisioni, di una “sensibilità per l’etica del diritto e per le esigenze sociali”.115 Dichiarare che la forza di espansione assiologica, e quindi evolutiva, sia attribuita alle norme, e in particolare ai principi immanenti ai vari ordinamenti,116 più che ad una attività in senso stretto dell’interprete sembra, in realtà, nascondere una sorta di fiducia nelle capacità “intuitive” dell’interprete che vale la pena di mettere in luce, se non altro per evidenziare i pericoli cui l’impostazione bettiana può dare adito. Allo stesso modo, se pur si nega il ritorno al diritto naturale come elemento sussidiario e finale di interpretazione in grado di assicurare l’aderenza delle norme al sentire sociale, pare che l’insistenza sulle “valutazioni immanenti e latenti nella legge” e sull’opera di “rinvenimento” del diritto fra il coacervo della legge, da parte dell’interprete, presenti gli stessi motivi di perplessità che fecero respingere l’idea di diritto naturale tout court. Solo l’idea di una legalità costituzionale, con dei valori codificati e condivisi, a cui riferire un giudizio ultimo di legittimità può, allora, forse salvare dall’impasse e sollevare dall’impressione dell’arbitrarietà di qualunque interpretazione: resta comunque sottolineato, e converrà tenerlo presente nei prossimi capitoli, che la libertà dell’interprete non potrebbe essere soppressa né arginata nemmeno se vigesse il più stretto formalismo e si rincorresse la lettera della legge. Libertà dell’interprete in cui, del resto, si gioca, a 114 Cfr. anche L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 314. 115 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano 1955, I, p. 864. 116 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 51 ben guardare, la stessa libertà del diritto. Ma di tutte queste tematiche si avrà modo di condurre, nel prosieguo del lavoro una più approfondita analisi. 52 8.2. Interpretazione-ricerca e interpretazionerisultato: sulla bontà della distinzione nella prospettiva dell’esperienza giuridica 8.2.1. Rapporto tra norma e testo. Chi fa l’interpretazione? Qual è la funzione dell’interpretazione? Teoria normativistica come riduzione all’analisi del linguaggio. Interpretazione come conoscenza mediante i concetti e interpretazione come apprezzamento assiologico. Interpretazione del diritto, interpretazione della legge e interpretazione dell’interpretazione. Interpretazione in funzione normativa e interpretazione giuridica. Diritto in potenza e diritto latente: valutazione di queste categorie. Se lo strumento interpretante è il milieu dell’interprete, come postula il canone dell’attualità dell’intendere, e non il linguaggio o il lessico del testo stesso, ci si chiede117 se il processo volto alla comprensione possa, tuttavia, essere semplificato, sulla scorta del canone dell’autonomia ermeneutica dell’oggetto, a una mera riproduzione del testo, a una “rinascita” del testo stesso ricostruendone la genesi, a un procedimento che porta l’interprete a “penetrare e trasferirsi nello spirito che gli parla”.118 È il problema del rapporto tra la norma e il testo, che riproduce, in forma moderna, la relazione cui il brocardo “quod non est in lege nec in iure” tentava di dare una risposta. Il canone dell’autonomia ermeneutica, o dell’immanenza del criterio ermeneutico, tuttavia, non deve essere frainteso. Esso, 117 L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p. 138. 118 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p 24. Felicissima immagine, feconda di implicazioni, sui cui rinvio, per l’assonanza a V. CRISAFULLI, Questione in tema di interpretazione della Corte costituzionale nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria, in Giur cost., 1956, p. 929 e ss. 53 infatti, postula che la norma deve essere intesa secondo “una sua interiore necessità, coerenza e razionalità”119 e quindi non secondo la sua idoneità a “servire a questo o a quello scopo estrinseco” e in quanto tale “eteronomo”.120 Al di là delle tradizionali considerazioni sulla validità e opportunità, nonché verità, di una interpretazione con i caratteri della letteralità, in prospettiva realistica si osserva come sia difficile postulare l’esistenza “dietro” le leggi di una volontà univoca e determinata delle norme giuridiche.121 La non coincidenza della norma e del testo non solo pone la questione, dunque, della letteralità, ma pone in seria crisi anche la concezione dell’applicazione giudiziale come di un sillogismo. Dato, infatti, che il giudice non è più, in questa impostazione, chiamato a ricavare una conclusione logica da premesse già precostituite, ma si trova alle prese con la stessa predisposizione delle “premesse”, a “creare”122 lo iure proprio nel momento in cui si accinge a ricostruire la lege, l’interprete stesso si troverà ad essere “costitutivamente incluso in questo processo di integrazione del significato normativo del dato giuridico”.123 La constatata distanza tra la norma e il testo interroga su chi, effettivamente, faccia l’interpretazione, su chi, cioè, concretamente si trovi a gestire questa sorta di “discrasia giuridica”. Chi fa l’interpretazione? Nonostante la manualistica richiami costantemente le partizioni tradizionali che vedono giustapposte l’interpretazione dottrinale, giudiziale, autentica,124 ritengo che il 119 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 14. Qui vale la pena di segnalare come il termine “eteronomo” intenda l’uso della norma per fini diversi da quelli per i quali era stato posto, in sostanza “l’abuso del diritto”. 121 G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, cit., p. 337. 122 Per la dialettica integrazione-creazione dell’interpretazione si veda infra al § 3. 123 G. ZACCARIA, L’apporto cit., p. 346. 124 Tra gli altri A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova, 1991, p. 36; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, p. 79 e ss.; 120 54 problema sia dato in primo luogo dal modo di intendere la stessa interpretazione, come risultato oppure come ricerca. È l’obiettivo che qualifica l’interprete? L’approdo alla “verità” dell’interpretazione, con questa impostazione, si fa più rarefatto, anche perché nuovamente si vedono contrapposte una concezione dell’oggetto interpretando - la norma - o come contenuto da disvelare, come risultato da raggiungere, già prestabilito, oppure come un “farsi” tramite l’interprete della norma medesima, come ricerca da condurre. Anche nella configurazione di Betti l’interpretazione presenta un doppio aspetto, quello di “apprezzamento” e quello ricognitivo, tuttavia è fuorviante mettere in relazione queste categorie con le figure di interpretazione-ricerca e interpretazione-risultato.125 Il canone della autonomia ermeneutica, o della immanenza del criterio ermeneutico impone che la norma debba essere “apprezzata alla stregua immanente dell’esigenza cui [essa] doveva rispondere”126 all’atto della creazione. Non solo; altrimenti, infatti, si rischierebbe di ricadere nella staticità o nella mera ricostruzione storica. Vi può essere, nell’interpretazione, anche una nuova valutazione degli interessi in conflitto tanto che la ricognizione interpretativa viene a mutarsi gradualmente man mano che la norma assicura, accanto al suo “scopo” primigenio, il raggiungimento di esiti ulteriori. È quella che Betti definisce, con linguaggio ricavato dalla psicologia, l’eterogenesi degli scopi. Questo non solo implica una ricognizione e un apprezzamento assiologico tramite la soggettività (non il soggettivismo) dell’interprete, ma anche il superamento della distinzione tra ricerca e risultato nell’interpretazione. E in particolare si legittima anche il procedimento analogico, che rinviene aliunde, mediante, appunto, eterogenesi, scopi immanenti ad altre norme, come procedimento normalmente - o, meglio, teleologicamente - interpretativo. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p. 75 ss. 125 R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 758. 126 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 11 ss. 55 Credo, a questo punto, che per rispondere alla questione sulla soggettività interpretativa non si possa che affondare la riflessione sulla funzione - in termini di télos o di convenzione dell’interpretazione.127 “L’interpretazione non ha, in sé, nessuna funzione”, sostiene Sacco,128 “semmai alcuni atti del processo interpretativo hanno, come funzione, (o meglio, come normale, logica conseguenza) ulteriori atti del processo interpretativo [...]. Tutt’al più si può parlare di funzione dell’interpretazione per indicarne, invece, il contenuto”.129 Betti avrebbe glissato sull’equivoco solo perché, almeno secondo Sacco,130 avrebbe parlato di interpretazione attribuendole caratteri propri della sola applicazione.131 L’affermazione è forte, laddove risuonano ancora come convincenti le partizioni, a volte fin troppo geometriche, rese da Betti, quasi pedante nell’insistere per delineare i caratteri di quella che cataloga come interpretazione in funzione normativa. La confusione tra questa funzione dell’”intendere per agire” e la concretizzazione, tra interpretazione e applicazione può sussistere solo ove si confondano l’efficacia vincolante, normativa, appunto, della legge con l’oggetto - la norma, appunto.132 La condotta pratica da informare al criterio che si desume dalla norma non coincide con l’attività interpretativa. Se così fosse, infatti, non vi sarebbe interpretazione al di fuori di quella che desse luogo ad un comportamento da parte degli interessati, escludendo in questo modo qualunque interpretazione, come quella scientifica, diversa da quella giudiziale.133 127 Per un approfondimento della possibilità di ricostruire di volta in volta una diversa struttura di un istituto a seconda delle funzioni che si intende affidargli cfr., si vis, M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova, 2000. 128 R. SACCO, cit., p. 760. 129 R. SACCO, ibidem. Per questa distinzione e sulla sua bontà, cfr. S. PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978. 130 R. SACCO, cit., p. 761 131 Malgrado le dichiarazioni d’intenti nettamente contrarie. Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 11. 132 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 809. 133 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 99. 56 Chiarito l’equivoco dato dalla negazione di ogni funzione all’interpretazione, da quella forma di “nichilismo funzionale interpretativo” di Sacco, è possibile recuperare nella sua impostazione l’idea che, mettendo per un attimo tra parentesi la funzione dell’interpretazione, pone l’accento su quell’”in sé” dell’interpretazione, e in esso riconosce un dato di ricerca e significato assiologico. Anche a prescindere dalla funzione, pertanto, si può recuperare l’apprezzamento assiologico come dimensione del processo interpretativo, senza rifugiarsi nel “paradiso dei concetti” ma senza, nemmeno, perdere di vista il fatto che la norma non esiste per esistere, ma sempre in funzione strumentale a un qualche scopo. Respinta con Betti la tesi normativistica, che “riduce l’interpretazione giuridica ad un’analisi del linguaggio legislativo” perché dimentica, come detto, che “le norme non sono pure enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la sintesi di un soggetto e un predicato, ma sono strumenti ad un fine di convivenza sociale”,134 è importante, dunque, recuperare la conoscenza mediante i concetti e i giudizi di valore come cifra del processo interpretativo. È possibile la convivenza, entro la medesima costruzione, di una teorizzazione dell’interpretazione come conoscenza mediante i concetti e allo stesso tempo come apprezzamento assiologico?135 Sostenere questo significa avvalorare la ricerca, nella norma, di quello “spirito” - l’esprit des lois, verrebbe da dire - ad essa immanente, significa riconoscere che il concetto normativo non è neutro, ma ha in sè una forte connotazione di valore e aprire la ricerca interpretativa alla ricerca dei fini normativi. Credo che riconoscere la soggettività dell’interprete come mediatore, ma non per questo come passivo esecutore, accettarne 134 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 797. Convivenza intesa non come mera coesistenza degli arbitri al modo di Kant, bensì come comunicazione, riconoscimento delle ragioni di ciascuno, espressione della capacità di darsi delle regole e rispettarle. 135 R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 748-766. 57 concettualmente questa natura “anfibia”, sia implicitamente un ammettere la realizzabilità di questa convivenza. Alla luce di quanto detto la distinzione tra interpretazione del diritto e interpretazione della legge sembra venirsi ad insinuare tra le maglie di un’antitesi giuspositivismo-giusnaturalismo latente, e rimane pur sempre scoperto il fianco della scelta di fondo sottesa alla “interpretazione dell’interpretazione”.136 Come interpretare l’interpretazione “ottenuta” o il processo di “ricerca” interpretativa? Alla luce di quali valori e in quale chiave metodologica? Il processo potrebbe andare all’infinito se non si facesse, con Betti, la scelta137 per l’”eccedenza assiologica”138 delle norme. Al di là della lettera, infatti, vi è una sovrabbondanza di valore, un giudizio che va al di là del testo, immanente alla norma, una valutazione, che non è mero giudizio logico, illuminante la norma medesima. Senza, tuttavia, abbandonare la concezione evolutiva e dinamica di un “diritto in fieri” che “si fa” - con procedimento non avalutativo - con l’interprete e per il tramite di questi. Se si ragiona in termini meramente “riproduttivi” si cade nell’”appiattimento di prospettiva” delineato da Betti: “Questa concezione [anti-evoluzionistica] implica il presupposto che nelle norme di un ordinamento sia cristallizzata una volontà espressa dal “legislatore” una volta per sempre, che l’interprete sia chiamato non già a sviluppare, ma a riprodurre. La volontà del giudice viene collocata sul medesimo piano della volontà dell’amministratore”.139 Al contrario gli “apprezzamenti interpretativi”, sul cui reale significato, peraltro, non tutti sono concordi,140 mirano a ritrovare “valutazioni normative della legge anche colà dove esse siano 136 G. AMENTA, Interpretazione e fonti del diritto nell’ottica dell’ermeneutica antropologica, in Giur. it., 1987, IV, 520. 137 Sulla quale si veda infra § 3.2.4. 138 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 822. 139 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., §. 11. 140 Vedi contra R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 760. 58 rimaste latenti o meno appariscenti, senza manifestarsi in modo esplicito in “precise disposizioni””.141 Si apre qui la categoria del “diritto latente” che è vista come paradigmatica della ricerca interpretativa. Addirittura si parla di “immanenza” nella legge di valutazioni che, mentre formano la ratio iuris di norme già formulate, possano servire di “base o di addentellato” da cui ricavare e rendere esplicite le pluricitate “massime di decisione”.142 Riemerge, dunque, surrettiziamente, la tentazione dell’oggettività dell’interpretazione e la soluzione data dal brocardo “sensus non est inferendus sed efferendus”. La fase “ricognitiva” che Betti143 enfatizza molto come primo momento dell’interpretazione non nega, ma rappresenta la condizione della fase applicativa144 e trova qui la sua giustificazione a patto, però, di rimanere solo una partizione funzionale ad un processo che è unitario e che, comunque, non può essere avulso da un giudizio. La categoria del “diritto latente” è efficace anche perché pone in rilievo che la legge di uno Stato non raccoglie tutto il diritto, poiché questo in “massima parte rimane latente nel seno della società”.145 Tuttavia, pur nel suo rigore metodologico, essa richiama tutte le ambiguità di un concetto di interpretazione più vicino al disvelamento che al dinamismo interpretativo. Per questa via, ad ogni modo, Betti arriva anche a superare questa storica dicotomia e allargando gli spunti offerti dalla sua teoria può essere utile, oggi, assumere la categoria del “diritto in potenza” che meglio si accorda, tra l’altro, alla moderna idea della struttura aperta del linguaggio e sottolinea, allo stesso tempo, - bettianamente - che è l’ambiente interpretativo a determinare abbondantemente gli esiti 141 142 E. BETTI, op. ult. loc. cit. Tra gli altri E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31. 143 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 343-389. Cfr. F. BIANCO, La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 31. 145 D. SIMONCELLI, Le presenti difficoltà della scienza del diritto civile, p 423, citato da P. GROSSI, Interpretazione ed esegesi, Riv. dir. civ., 1989, p. 211. 144 59 dell’interpretazione, fornendone i principali elementi di quella “potenzialità” che la definizione fornisce. È il contesto che fa il testo146 (o i contesti i testi)?147 O si deve concludere che sia la cena del giudice Holmes?148 146 N. IRTI, Testo e contesto : una lettura dell'art. 1362 Codice civile, Padova, 1996. 147 U. PAGALLO, Testi e contesti dell'ordinamento giuridico : sei studi di teoria generale del diritto, (1998) III ed., Padova, 2001. 148 Com’è noto, il giudice Holmes, esponente del realismo giuridico americano (detto anche realismo giuridico ingenuo), affermava con piena serietà ed altrettale intenzione dissacrante, che la decisione della sentenza dipende in larga parte da che cosa il giudice ha avuto per cena la sera prima. Sostanzialmente a questa posizione si rifanno le posizioni scettiche di chi ritiene che l’interpretazione della legge sia puro arbitrio, paragonabile alla teoria dei giochi. Per una documentata ricostruzione, cfr. E. DICIOTTI, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999; IDEM, Verità e certezza nell’interpretazione della legge,ivi, 1999. 60 8.3. Contenuti della ricerca interpretativa 8.3.1. Criteri discretivi della ricerca interpretativa: l’individuazione degli interessi in conflitto; del bene giuridico tutelato. Superamento di queste impostazioni (anche in campo penalistico). “Betti subisce inizialmente il fascino delle geometriche teorizzazioni kelseniane ma se ne allontana ben presto nella convinzione - che diverrà l’asse portante del suo pensiero - della centralità della nozione di interesse per tutta la vita del diritto”.149 In effetti la manualistica giuridica150 si è sempre soffermata sulla centralità e propedeuticità di ogni riflessione del concetto di interesse, come individuazione di quel quid capace di giustificare le stesse proposizioni normative e la loro positività alla luce di un qualche “oggetto” da tutelare. È nota la contrapposizione tra la scuola della “giurisprudenza degli interessi” e quella della “giurisprudenza dei concetti” che ha animato il dibattito giuridico tedesco ed internazionale: un approfondimento porterebbe troppo lontani dal tema, tuttavia è interessante notare come alla radice di queste divergenti prese di posizione ci fosse ancora una volta l’interrogativo sul nucleo centrale del fenomeno normativo e quindi, di conseguenza, di quello interpretativo. Che cosa si ha di mira quando si interpreta? La risposta al quesito ha notevoli implicazioni pratiche per i fini che ci siamo proposti. Se si cerca una distinzione tra interpretazione estensiva e 149 F. RICCOBONO, Emilio Betti e la “malattia kelseniana”, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, cit., p. 160. 150 L’elenco potrebbe riguardare la maggior parte delle trattazioni istituzionali soprattutto in ambito penalistico. Per tutte, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p.145 e ss.; G. FIANDACAE. MUSCO, Diritto penale, Bologna, 1993, capitolo I. 61 analogia, come si è tradizionalmente fatto, sulla base degli obiettivi che nell’applicazione dell’una e dell’altra l’interprete si propone nell’una la ricerca del senso proprio della norma, nell’altra il risalire ad una ratio comune con il caso simile - ci si deve previamente interrogare su quale sia l’obiettivo di ogni interpretazione, sia questa estensiva o analogica. Com’è noto, la dottrina e la giurisprudenza penale si sono cimentate nella estrapolazione, dal coacervo concettuale, del criterio del “bene giuridico tutelato” visto, addirittura, come il luogo d’incontro tra politica criminale e dogmatica penalistica,151 e come contrassegno del limite152 alle funzioni del diritto in campo penale. Non sono mancate, tuttavia, le critiche ad un’eccessiva fiducia in questo criterio interpretativo: bastino le considerazioni sulla oggettiva difficoltà ad individuare i confini e la concretezza di codesto “bene giuridico”, la rischiosa tracimazione del concetto, puranche individuato, entro il télos della norma, con relativa confusione tra bene tutelato e scopo, o ratio, della norma.153 Difficilmente superabile appare, in questa impostazione, anche quella critica che oppone e contesta la viziosità di un ragionamento volto a cercare il quid normativo per stabilire un qualunque criterio d’interpretazione: questo procedimento richiederebbe - si contesta una interpretazione preliminare alla stessa interpretazione per individuare, in un circolo vizioso, appunto, il criterio interpretativo medesimo.154 Giustapposta alla teoria del “bene giuridico” sta, anche fuori dalla teorizzazione penalistica, il pensiero di chi individua nel nucleo normativo una “valutazione degli interessi in conflitto”.155 151 Così D. PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 32. 152 C. ROXIN, Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973, p. 43. 153 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, XI ed, Milano, p. 159. 154 F. ANTOLISEI, Manuale cit., p. 81. 155 D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della legge, in Foro it., 1949, IV, p. 4 ss. 62 Contrariamente al metodo totalizzante della “giurisprudenza degli interessi” e alla presunta autosufficienza interpretativa di questo criterio propugnata da tale scuola di pensiero, Rubino indica la valutazione degli interessi in conflitto come criterio integrativo per l’interpretazione della legge cui ricorrere solo in caso di dubbi sul contenuto di una norma o di lacune anche nei principi generali cui normalmente si dovrebbe far ricorso.156 A parte le insidie connesse al concetto di dubbio157 e le considerazioni sulla prospettabilità di lacune nei principi,158 Rubino inserisce il suo criterio degli interessi entro l’interpretazione sistematica, raccomandando nell’opera di interpretazione, la considerazione di tutto il sistema e delle esigenze che esso comporta. Addirittura rende l’immagine plastica di un interprete “ostetrico del diritto”159 che recupera le categorie del diritto latente160 da “trovare” nel sistema. La critica di Betti a questa impostazione è puntuale. “La presenza e l’importanza del momento teleologico o si ammette o si nega; ma se si ammette, non si può senza incoerenza riconoscere legittimo secundum eventum il criterio della valutazione comparativa degli interessi: legittimo, quando il suo controllo porti a correggere il risultato del c.d. “criterio logico”; non più legittimo, o comunque inopportuno, quando viceversa porti a confermarlo”.161 156 D. RUBINO, cit., p. 6. Insidie pericolosissime, specialmente in prospettiva giuridica ed ancora più secondo protocolli giuspositivisti, che fanno della chiarezza, esaustività e non eterointegrabilità i propri alfieri. Per questi aspetti, cfr. § 2.1., ma fin da subito P. PERLINGIERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo “in claris non fit interpretatio”, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi” in Rass. dir. civ., 1985, p. 990 – 1017. 158 Sulla quale cfr. § 2.1.3. 159 D. RUBINO, op. ult. cit., p.6. L’immgine efficace, non deve trarre in inganno per l’assonanza socratica dell’arte maieutica. Qui, ci sembra di intravedere un operazione costitutiva contrabbandata per attività puramente dichiarativa, un momento assertorio anziché il responsabile procedimento di crescita ed apprendimento nella consapevolezza della provvisorietà problematica del risultato. 160 Vedi supra § 1.2.1. 161 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 284. 157 63 Si rifiuta, cioè, l’accoglimento del criterio degli interessi solo colà dove la legge non è “chiara”, per recuperare, quindi, solo sussidiariamente il criterio teleologico. L’interpretazione teleologica potrebbe sembrare adatta a fare luce su eccessi non coglibili col solo criterio logico. Tuttavia per verificare quando il risultato debba essere aggiustato, corretto e quando la logica basti a se stessa è indispensabile il vaglio critico e il controllo del criterio teleologico in ogni caso.162 Ma il momento teleologico è, per Betti, “immanente al sistema”,163 tanto che anche lo stesso argomentare per analogia ha per l’autore carattere essenzialmente teleologico.164 Allora già da qui si potrebbe dire come, ameno in apparenza, le categorie dell’interpretazione estensiva e dell’analogia non trovino ragione di distinzione, facendo entrambe riferimento ad un unico processo teleologico - ermeneutico. È l’ipoteca del procedimento per identità e differenza che pervede sia il procedimento analogico, sia il procedimento estensivo e che rischia, con una perdita di consapevolezza, di farli confondere. Ma si tratta di un profilo epistemico su cui si dovrà tornare. Poste queste premesse il criterio che Betti adotta è quello di “razionalità teleologica”,165 che vede come protagonista un apprezzamento rispondente alle esigenze assiologiche di una valutazione normativa, e postula il raffronto tra la norma e il 162 E. BETTI, ibidem. Per questa prospettiva di metodo, rinvio a H. M. PAWLOWSKI, Einfürung in die juristische Methodenlehre, II ed., Heidelberg, 2000, specialmente p. 197 (della prima ed., 1986, segnalo la tr. it. Milano, 1993 a cura di S. Mazzamuto e L. Navarra). 163 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 285. 164 E. BETTI, op. cit., p. 285. Vi è dunque quella primogenitura del criterio teleologico che sosterremo alla fine di questo lavoro, unita però, e guidata, dall’attenzione al contesto, in un movimento sincretistico che troverà fortuna e che ancora oggi sembra tenere la posizione dominate in diverse forme di equilibrio tra la pretesa oggettività autoevidente del testo e le correnti irrazionalistiche del “gioco” del/nel diritto. Rinvio allo scritto di B. PASTORE, Identità del testo, interpretazione letterale e contestualismo nella prospettiva ermeneutical, in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, 2000, p. 137 – 166. 165 E. BETTI, op. cit., p. 287. 64 problema pratico, ma anche tra il mezzo prescelto e l’adeguatezza allo scopo. Nella critica di Heck166 il giudice si troverebbe dinanzi alla totalità degli interessi protetti dalla legge e ne sarebbe vincolato. Tuttavia se si discostasse dalla valutazione degli interessi alla cui integrale ricostruzione è tenuto giungerebbe a frustrare il “senso della legge”. Come far combaciare questa “totalità valutativa” con il mutare degli interessi via via insorgenti? Lo stesso interesse alla composizione degli interessi in conflitto si presenta, come ben sottolinea Betti,167 come un interesse pubblico, “del tutto sociale”. Si aprirebbero, qui, le indagini sul fondamento etico, o meno, dello Stato. Chi stabilisce, infatti, la priorità di questo medesimo interesse? Il ragionamento rischia di diventare asfittico se ci si ostina nelle categorie fin qui enunciate. Già Hans Welzel168 ha sostenuto da tempo, in contrasto con la dottrina dominante, che il compito primario del diritto (penale) consiste nel formare gli atteggiamenti etico-sociali dei cittadini, al fine di favorirne la disponibilità psicologica a rispettare le leggi.169 Lo stesso Betti, poi, più volte ha enunciato l’eccedenza assiologica delle norme170 e la valutatività - non di interessi, ma di valori171 dell’interpretazione ad esse connessa. Credo pertanto che non ci sia via d’uscita al problema se non recuperando, questa dimensione teleologica e assiologia,172 fuori da 166 P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz, Tübingen, 1914, parr. 19-20. 167 E. BETTI, cit., p. 290. 168 H. WELZEL, Strafrecht, 1969, Berlin, p. 4 ss., cui si deve aggiungere C. ROXIN C., Grundlagen, der Aufbau der Verbrechenslehre, München, 1997. 169 G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 38. 170 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822. 171 Sottolinea L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p.127, che Betti pensa di fornire alla sua “teoria generale dell’interpretazione” una base filosofica più aggiornata radicandola nella filosofia dei valori. 172 Cfr. la felice intuizione L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953. 65 ogni finzione giustificativa e superando, così, le impostazioni precedentemente delineate in merito a possibili criteri discretivi della ricerca interpretativa. 66 8.3.2. Circolo di reciprocità tra vigore dell’ordine giuridico e processo interpretativo. Norma e uso della norma. Interpretazione abrogante come strumento per ricostruire l’ordine assiologico nel sistema. Comunità dell’interpretazione giuridica/comunità giuridica. Norma giuridica come pre-giudizio sociale condiviso. Sovente Betti torna sul “circolo di reciprocità”, sulla continua correlazione che intercorre tra il vigore dell’ordine giuridico, ma anche morale, ecc., da cui si desume la “massima dell’azione”, e il processo interpretativo “che se ne fa in senso integrativo e complementare”.173 Interpretare, dunque, significa “tornare a conoscere” - riconoscere - la norma non tanto come una “oggettivazione di pensiero in sè conchiusa”,174 ma per “integrarla e realizzarla nella vita di relazione”.175 È interessante notare come Betti sottolinei che la funzione di tale interpretazione normativa sia di sviluppare direttive per un’azione pratica o un’”opzione”176 - sempre offerta a chi è chiamato ad agire - tra più possibilità. In questo modo l’interpretazione viene a mantenere continuamente vivo il diritto, e in perenne efficienza nella vita di una società. È quello che già Bobbio177 aveva delineato come compito dell’interpretazione normativa: l’intendere nella formula di legge la continuità dello 173 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 802. Per pressoché analoghe considerazioni come termine di un cammino affatto diverso, cfr. gli scritti raccolti da J. RAZ, Ethics in the Public Domain, Oxford, 1994. 174 E. BETTI, op. cit., p. 803. 175 E. BETTI, ibidem. 176 E. BETTI, op. cit., p. 803 nota I-a. 177 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., Torino, 1938, p. 136. 67 spirito, il risvegliare l’atto spirituale che era in essa sopito, l’immetterlo un’altra volta rinnovato nella vita dello spirito”.178 La circolarità, pertanto, deriva dalla continua osmosi tra società e legge attraverso l’interpretazione, tra attualità e intelligenza della formula, in una continua opera di vivificazione e reciproca influenza. Da tutto ciò, a parte le considerazioni sull’”operante concatenazione produttiva” di matrice diltheyana,179 si evince la sottolineatura su un interpretare che non è più soltanto un tornare a conoscere una proposizione normativa, ma è anche un integrarla e soprattutto realizzarla nel vivere sociale.180 Se, tuttavia, la costruzione e la proposta di un modello di diritto nasce da una considerazione dell’attualità del comportamento di tutti i consociati, non tanto di coloro che l’hanno posto, si delinea una relazione stretta tra l’”uso” della norma nella prassi comportamentale e lo stesso concetto di norma.181 È citato da molti autori, compreso lo stesso Betti, l’esempio del codice civile tedesco immesso nel sistema giuridico giapponese,182 con tutti gli adattamenti e le difficoltà derivanti non solo dalla recezione di norme e di principi “nuovi”, ma anche dal rendere “conformi allo spirito del sistema” le nuove regole. A quali norme implicite fare riferimento? A quelle tedesche, immanenti nella ”legge” o a quelle giapponesi, immanenti nel “diritto”? 178 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 136 Questo, per Bobbio, differenzia l’interprete dal legislatore. 179 Sulla quale si veda §. 3. 180 G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786. 181 A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, in Riv. dir. civ., 1990, II, 122. 182 Non va sottaciuto che già nel 1873 l’imperatore Mutsuhito chiamò il professor Boissonade in qualità di esperto presso il Ministero di giustizia per fargli elaborare un progetto di codice civile sul modello napoleonico. Nonostante la bocciatura parlamentare esso esercitò un notevole influsso sulla più diffusa prassi arbitrale nipponica. Successivamente, nel 1898, fu adottato un codice fortemente influenzato dai progetti preliminari del BGB tedesco, con indiretta vicinanza, pertanto al modello francese. Cfr. altresì, A. GARCÌA FIGUEROA, Principios y positivismo jurìdico, Madrid, 1998. 68 “Un procedere ermeneutico non è più caratterizzato dal linguaggio culto e metaforico della tradizione, ma si scioglie nel linguaggio comune e ordinario dei consociati che si imbattono o, da un altro punto di vista, combattono con la comprensione, recezione, riformulazione delle regole e quindi del mondo normativo, ove naturalmente la tradizione si miscela e diremmo quasi annega nella quotidianità”.183 Ma che cosa distingue, allora, l’esistenza - imperativa - di una norma? Questo emergere di una quotidianità diremmo così ”normativa”, capace se non di dettar legge almeno di dettare diritto è anche un implicito colpire alle fondamenta le costruzioni del positivismo. Distinguere le norme giuridiche dalle abitudini e norme sociali può essere utile per uscire dalla “sfera rarefatta del formalismo dei concetti verso il mondo empirico degli atteggiamenti normativi”184 e questo sia per valorizzare una certa esigenza di kelseniana “effettività” della norma, sia per sottolineare un certo elemento “deontico” immanente alla norma. Prima di procedere oltre è interessante accennare al valore della interpretazione cd. abrogante.185 È consentita una abrogazione per via d’interpretazione? Non ci si riferisce, qui, alle sentenze, evidentemente legittime, della Corte costituzionale. Ci si riferisce, al contrario, alla ordinaria interpretazione che, mediante un processo di progressiva espulsione dal sistema degli elementi normativi contrastanti con un “sentire sociale” interpretato come diffuso, di fatto espunge, abrogandoli, norme se non principi. Verrebbe da dire che questo genere di interpretazione potrebbe essere considerato uno strumento per ricostruire l’ordine assiologico nel sistema. Non mi soffermerò sulla presunta 183 A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 122. L.A. HART, Il concetto di diritto, tr. it. e cura di M.A. Cattaneo, Torino, 1965, p. 67. 185 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civile, 1985, p. 1005. 184 69 vocazione paralegislativa di questo o quell’organo giudicante.186 Tuttavia non può non fare riflettere come parte della creatività interpretativa si giochi non solo sul piano positivo dell’interpretazione, ma anche su quello “negativo” dell’abrogazione interpretativa. L’insieme di tutte queste “interpretazioni”, o meglio possibilità interpretative, può dare origine a quella che è stata definita “comunità dell’interpretazione giuridica”187 in cui vengono a raccogliersi e unificarsi i modi di pensare tramandati dalla cultura giuridica e in cui lo stesso giudice-interprete è parte attiva. Questa comunità sarebbe il superamento della stessa “comunità giuridica” o legal community poiché lo stesso testo giuridico verrebbe inserito non solo nell’ordinamento, ma anche nel processo interpretativo; significativa, per tutte, l’esperienza della recezione in Giappone del BGB tedesco. Questa impostazione, per la verità molto più vicina al sistema anglosassone di common law che non alla nostra tradizione giuridica, o meglio alla nostra consapevolezza ermeneutica, lascia intuire almeno due ordini di problemi. Da un lato l’oscillazione tra la tentazione di una totale desoggettivizzazione della prassi interpretativa e l’inglobamento della soggettività dell’interprete entro la categoria ermeneutica. Dall’altro l’apertura alla concettualizzazione delle norme giuridiche come pre-giudizi sociali condivisi,188 come (pre-)giudizi di valore sulla vita sociale formalizzati nei testi normativi e sostenuti dall’imperatività ma anche - almeno fino all’interpretazione abrogante - da un’abitudine sociale appunto “condivisa”. 186 Cfr. §. 3.2.3. G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, p. 347. Più recentemente ha ricostruito la genesi di questo concetto, analizzando l’opera della più attenta dottrina nord americana, E. PARIOTTI, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Torino, 1997, poi riprese in IDEM, La comunità interpretativa nell'applicazione del diritto, Torino, 2000. 188 A. CATANIA, Ermeneutica e definizione del diritto, cit., p. 126. 187 70 Su questa linea alcuni autori, come McIntyre,189 hanno addirittura sviluppato teorie volte a sostenere una concezione comunitaria dell’etica, secondo cui non solo i criteri delle scelte morali individuali ma anche la stessa legittimità dell’ordine politico e sociale troverebbero fondamento nella cultura morale di una comunità. Addirittura, sostiene lo scozzese, i fondamenti delle leggi vanno ricercati nell’ethos, nelle tradizioni e nelle relazioni interindividuali che costituiscono una comunità, poiché solo così sarà possibile restituire razionalità e intelligibilità ai vincoli che la vita comunitaria impone. Ed è verso tali fondamenti che l’interpretazione si deve dirigere. Come ognuno può vedere, tuttavia, nonostante il fascino di questa impostazione dell’ermeneutica giuridica, è in agguato lo scivolone non solo in un “paradiso giuridico”, per parafrasare Jhering, ma anche un allontanamento dalla possibilità di giustificare - se non con un fallimento della cd. comunità interpretativa? - il dato empirico di un’altissima conflittualità interpretativa. Ed è in questa direzione che dobbiamo ora rivolgerci. 189 A. McINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 1981, II ed. riv., 1984. L’autore scozzese trova le sue radici teoretiche in un più ampio movimento di rinascita della filosofia pratica, in reazione agli esiti totalitari della prima metà del secolo passato, che annovera nella scuola anche Leo Strauss e Hannah Arendt, come poi Hans Georg Gadamer, Joakim Ritter, Alasdair MacIntyre, appunto, Hans Jonas e, con tendenze kantiane, Martin Riedel e Karl Heinz Ilting. Un aspetto particolare della filosofia pratica aristotelica costituisce la linea portante della speculazione di Hannah Arendt, che fa del comunicare il fondamento di tutta la propria opera: il giudicare nel conoscere ed il comunicare nel giudicare saranno le coordinate del suo agire politicamente. Per questi aspetti, rinviamo T. SERRA, L’autonomia del politico, Teramo, 1984, fra i primi saggi italiani sull’argomento. Altresì, L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Milano, 1995, p. 136; nonché, L. BAZZICALUPO, Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, 1996, p. 254. L’osservazione risulta interessante per il prosieguo della nostra ricerca, giacché riconoscendo nel comunicare l’essenza dell’arte della pòlis (anzi la caratteristica stessa dell’uomo), fonda necessariamente il diritto (anche) sull’alterità, profilo peculiare della struttura emeneutica. Per questi aspetti cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, specialmente p. 194 e ss. Cfr. anche P.J. OPITZ, Politische Wissenschaft als Ordnungswissenschaft. Anmerkungen zum Problem der Normativität im Werke Eric Voegelins, in Der Staat, 1991, p. 349 e ss. 71 8.4. Il conflitto delle interpretazioni: una difficoltà del positivismo non risolubile con l’antipositivismo 8.4.1. Il conflitto delle interpretazioni. Il problema della coerenza ermeneutica: ragioni dell’esistenza della problematica. Le norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in modo conforme al sistema. I significati assurdi: ragioni e modalità dell’esclusione. L’applicazione retroattiva. Se i canoni interpretativi sono correttamente applicati da che cosa deriva il “conflitto delle interpretazioni”? E se quello stesso “ambiente” che influenza l’interprete rende, con il suo “spirito”, l’univocità della norma, come spiegare tutte le interpretazioni empiricamente divergenti? Si pone la domanda Sacco190 che prosegue, poi, negando la rilevanza di uno “spirito” della legge correlativo all’ambiente come oggetto di interpretazione, e ammettendolo, semmai, come parte dell’interprete e facente parte di questi. Nell’analisi di Betti,191 al contrario, si distingue tra possibili conflitti di norme -dove si segnala il prevalere dei criteri tradizionali come “lex posterior derogat legi priori”- e incongruenze che rendono necessario un adattamento per via d’interpretazione in base al punto di vista della società contemporanea. È evidente come il terreno su cui ci si muove sia costituito dalle pericolose sabbie mobili del soggettivismo interpretativo che dà adito ad una potenzialmente altissima “conflittualità interpretativa”. 190 R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1951, p. 754. 191 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 120 ss. 72 Il problema affonda le sue radici da un lato in quello della verità dell’interpretazione e nell’interpretazione,192 dall’altro in quello della coerenza ermeneutica. Infatti la problematicità della coesistenza di interpretazioni divergenti della stessa norma deriva dall’avere postulato la necessaria coerenza del “sistema”, in ordine al raggiungimento del “mito” dell’oggettività e della certezza ermeneutica e all’interno di quella tradizionale partizione dell’interpretazione detta, appunto, sistematica. Sono numerose le pronunce giurisprudenziali che postulano la necessità di riferirsi al “sistema” e, in nome del mantenimento alla “conformità” a questo, ispirano criteri interpretativi. Interessante, a questo proposito, è una sentenza del T.A.R. Sicilia del 1994 che stabilisce come compito fondamentale del giudice “consista [...] nell’individuare di volta in volta il significato che la norma viene ad assumere nell’attuale contesto storico, tenendo conto dell’evoluzione complessiva del sistema quale risulta dalla successione normativa, delle interpretazioni date dalla norma stessa, nonché delle eventuali mutate esigenze cui quella norma debba necessariamente essere adeguata nell’intento della conservazione di una sua utilità ordinamentale, in relazione ad istanze socio-economiche la cui rilevanza si sia manifestata nell’ordinamento e che in esso abbia trovato adeguato compimento”. 193 La sentenza si ispira, chiaramente, ad un ampio concetto di interpretazione evolutiva e, potremmo dire, di law in contest, soprattutto laddove parla di attualità di contesto storico e di significato dinamicamente in movimento con il mutare delle situazioni. È di rilievo la partizione che la sentenza fa rispetto agli elementi capaci di determinare il modificarsi del significato normativo e che l’interprete è tenuto a ricercare. Da un lato la successione normativa, cioè l’interpretazione sistematica deve andare di pari passo con quella evolutiva, costituendone, anzi, 192 Per cui si rinvia a quanto detto supra § 1.1.4., oltre all’icastico studio di A. M. POGGI, “A ciascuno il suo”, in Giur. cost., 1987, 1731 e ss. 193 T.A.R. Sicilia sez. II, 4.10.1994 n. 888 in Repertorio Giustizia civile, 1995, con sottolineature nostre. Cfr. altresì, F. GENTILE, Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, III ed. ampliata, Padova, 2000. 73 alimento; dall’altro le interpretazioni date della norma stessa. Si apre qui uno spazio di notevole avvicinamento ai sistemi di common law poiché si riconosce che, tramite l’interpretazione, si viene a creare una sfera - significante, oltre che significativa - di diritto giurisprudenziale. Peculiare è l’osservazione che la sentenza fa, poi, di un terzo elemento capace di influire sul modificarsi del significato delle norme: si tratta delle mutate esigenze cui la norma deve necessariamente essere adeguata. Questa ammissione, per la verità, potrebbe dare adito a un soggettivismo esasperato delle interpretazioni, quando non ad un arbitrio, perché rischierebbe di avallare una interpretazione strumentale a questo o quell’obiettivo operativo dell’interprete, decisamente fuori da ogni possibilità, non solo di oggettività, ma anche di giustizia. Così non è se si tiene presente la precisazione in merito alla “conservazione dell’utilità ordinamentale” che la norma interpretata deve mantenere, il che significa che non sono autorizzate interpretazioni che facciano uscire la norma dal sistema di utilità per cui era stata posta. Non solo. Se si tengono presenti le osservazioni fatte sull’oggettività della norma e la soggettività dell’interprete e sull’attualità dell’intendere si evita il rischio annunciato. Anche il Consiglio di Stato si pronuncia a favore di un’interpretazione conforme ad un significato “il più possibile coerente con le disposizioni risultanti dal complesso normativo globale in cui la norma da interpretare si trova collocata”. 194 È questa una conferma del carattere sistematico che l’interpretazione deve assumere, anche se l’incertezza che quell’ “il più possibile coerente” denota non può non lasciare perplessi. È chiaro, infatti, che questa regola può rivelarsi utile nel confronto tra più 194 Cons. Stato, VI sez. 89/717. Sul punto, cfr. F. DELFINO, Omissioni legislative e Corte costituzionale (delle sentenze costituzionali c.d. creative), in AA. VV. Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974, p. 911 e ss., nonché M. LUCIANI, Lo spazio della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, in AA. VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 245 e ss. 74 interpretazioni possibili, tuttavia sarà ben difficile stabilire solo con questo parametro la maggiore o minore vicinanza alla coerenza del sistema. È sempre il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, poi, a stabilire che “norme plurivoche o di significato ambiguo vanno interpretate in modo conforme al sistema”.195 In che cosa consista questa coerenza del sistema, tuttavia, è ben lungi dall’essere un dato acquisito, poiché è empiricamente molto facile riscontrare non solo contrasti giurisprudenziali, ma anche legislativi. Credo però che se non si rincorre il fantasma della geometria giuridica e si tengono presenti le considerazioni fatte in merito al “farsi” dell’interpretazione anche attraverso, e non solo mediante, l’interprete, le incongruenze sistematiche si rivelino non più che apparenti entro una concezione dinamica - non per questo caotica - dell’ordinamento. Come si vedrà meglio al capitolo 7, concependo un sistema a logica “sfumata” anche le contraddizioni sono accettate, purché la probabilità del loro accadimento si possa ricondurre alle logiche del sistema. Di più, il problema della coerenza del sistema è dovuto dalla difficoltà di ordinare l’insieme di norme, elevandole a “sistema”, operazione che richiede un criterio ordinatore, in forza del quale “disporre” ogni norma “al suo posto”; ma questo criterio ordinatore, il mètron dei classici, non può essere trovato nel diritto positivo, anzi –come diremo- richiede quell’attitudine all’ordine che è caratteristica propria dell’uomo. L’interprete alle prese con la coerenza sistemica non può non trovarsi di fronte al problema dei cosiddetti “significati assurdi”: con quali criteri li escluderà, e perchè deciderà di escluderli? L’assurdità di un significato, o di una interpretazione potrebbe essere individuata nella contrarietà al senso “usuale”: sarebbe immediata, tuttavia, non solo la reazione al soggettivismo implicito in questa impostazione, ma anche la constatazione che la coincidenza della verità - posto che la si individui dell’interpretazione con il suo essere conforme all’”usuale” può 195 Cons. Stato, ad. plenaria, 16.12.1983, n. 27 in Riv. amm. R.. I., 1984, 262. 75 venire stabilito in termini di probabilità, non già di necessità logica.196 Credo, allora, che sia corretto ricondurre l’assurdità o meno di un significato e di una interpretazione nell’ambito della ratio giuridica e rinviare al paragrafo 4.3 la trattazione. Prima di analizzare la soluzione giurisprudenziale in materia di coerenza sistemica è bene soffermarsi, tuttavia, sul problema della cosiddetta “applicazione retroattiva”. Chi, come Betti, asserisce la presenza di un momento logico della norma, consistente nell’enunciazione di un “apprezzamento interpretativo”197 si trova poi a dover fare i conti con l’applicazione retroattiva -là dove consentito, ovviamente - delle norme e a dover giustificare la singolarità delle norme interpretative nell’ottica di coerenza e autosufficienza ermeneutica del sistema. Come far convivere questi opposti? Probabilmente questo è un falso problema, essendo sì una questione interpretativa,198 ma più fittizia che reale. La norma 196 R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 755. Più ampiamente, sul problema temporale degli effetti, tra interpretazione e declaratoria di incostituzionalità, l’ottima monografia di M. E. D’AMICO, Giudizio sulle legge ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità, Milano, 1993. 197 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 95. Peraltro si veda anche: M. CARTABIA, Portata e limiti della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale che incidono sugli status giuridici della persona. In margine ad alcune recenti sentenze della Corte di cassazione in materia di cittadinanza, in Giur. cost., 1996, p. 3260 e ss. Per un profilo comparatistico, cfr. A. A. CERVATI, Incostituzionalità delle leggi ed efficacia delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in AA. VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con firerimento alle esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 125 e ss. 198 “La retroattività è una questione interpretativa”, asserisce E. CROSA in I diritti di libertà e la Costituzione, Giur. it., 1948, II, 131. Quarant’anni dopo, ed a Corte costituzionale pienamente operante (anche con fantasia), può essere interessante comparare la posizione dell’illustra costituzionalista con il salace scritto di P. CARNEVALE, La pronuncia di incostituzionalità “ad effettoparzialmente retroattivo” del regime della perequazione automatica per le 76 interpretativa, che si sovrappone a quella interpretanda, riceve, infatti, un orientamento retroattivo - anche se sarà comunque valida per l’avvenire - tale per cui l’intento interpretativo non viene altro che a camuffare quello creativo così che quella che doveva essere una “interpretazione”, una ricognizione retroattiva non è altro che una positiva nuova creazione normativa. pensioni dei magistrati: ancora una declaratoria di illegittimità costituzionale con efficacia “temporalmente circoscritta”, in Giur. it, 1989, I, 1, 761 e ss. 77 8.4.2. Una soluzione giurisprudenziale: la norma giuridica al momento stesso della sua entrata in vigore si oggettivizza estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che hanno preceduto la sua emanazione (che conservano il valore di ausilio esegetico); va interpretata facendo riferimento alla situazione esistente al momento della sua applicazione. La norma, nella sua autonomia comprende tutte quelle situazioni anche non prevedibili verificatesi successivamente che si inquadrino nella sua ratio e nella lettera della disposizione. In tale operazione non opera l’analogia né l’interpretazione estensiva perchè la nuova fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma, considerata nel suo significato letterale e logico. Contrariamente all’opinione di Kelsen, Gorla e Sacco, nel suo “manifesto ermeneutico” del 1948 Betti enuncia il carattere specificativo e integrativo del precetto da interpretare che costituisce l’interpretazione medesima.199 Essa crea una “complementarietà concorrente, un circolo di continua e reciproca rispondenza fra il vigore della legge e il processo interpretativo”. Lo stesso processo conoscitivo è visto assumere carattere triadico: “in primo luogo lo spirito vivente e pensante dell’interprete; quindi una spiritualità che si è oggettivata in forme rappresentative; infine la mediazione di quelle forme 199 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 39. Leggiamo nel manifesto il momento della frattura con la “tradizione” fiorita nell’Ottocento francese e ben rappresentata dall’espresisone di Demante: “C’est la volonté du législateur, qui constitue la loi. L’esprit du législateur est, pour nous, une guide si sûr, que nous souvent le faire prevaloir sur ses termes...” spirito che deve consistere “dans l’ensemble de disposition qui composent la même loi, ou même dans la comparaison d’une loi avec une autre, ou egard à la plus ou moins grande analogie des matières”. A. DEMANTE, Cour anlytique de Code Civil, Paris, 1849, p. 13-14, cit. da M. A. CATTANEO, Illuminismo e codificazione, Milano, 1966, p. 148 78 rappresentative nelle quali la spiritualità, che si è oggettivata, sta di contro al soggetto interpretante come qualcosa di altro e indipendente da esso, come una oggettività irremovibile”.200 Di vago sapore bettiano, allora, parrebbe definirsi la sentenza della Cassazione penale del 1982201 in materia di radiotelevisione. La questione oggetto della pronuncia riguardava la estensibilità o meno della legislazione - penale - sull’obbligo di registrazione e indicazione del direttore responsabile anche alle trasmissioni televisive private, così come esplicitamente previsto per quelle pubbliche, non ancora esistenti al tempo dell’emanazione della legge. La sentenza si rivela interessante perché, in motivazione, fa riferimento esplicito a un “fondamentale principio ermeneutico”, quello che vede la norma giuridica, al momento stesso della sua 200 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. Facilmente riconoscibili, per assonanza, i debiti hegeliani di Betti, non disgiunti –ad onor del vero- da una rimeditazione personale dell’attualismo gentialiano nella contrapposizione tra pensiero pensante e pensiero pensato, inteso come spirito obbiettivato, derivatagli tramite Adolfo Ravà, maestro anche di Carlo Esposito: Orbene, su queste basi lo studioso italiano può sostenere “che si ha un fenomeno sociale tutte le volte che due o più psichi umane entrano in relazione tra loro. È evidente che questa relazione non si può porre che per mezzo di fenomeni fisici, ma questi sono in tal caso espressione di un fatto psichico: sono azioni, cioè movimenti (fatto fisico) determinati da volontà (fatto psichico). Le azioni sono dunque i fatti sociali per eccellenza. E i prodotti di queste azioni (linguaggio, leggi, istituzioni), se anche distaccati da ogni psiche e viventi per sé, pure conservano l’impronta dello spirito umano che li ha prodotti, e in tanto noi ce ne possiamo servire, in quanto sentiamo risonare in noi la stessa vibrazione psichica che ha dato loro la vita. Qui è profonda la veduta di Hegel, che li chiamò spirito obiettivato. Così A. RAVÀ, La classificazione delle scienze e le discipline sociali, Roma, 1904, p. 131. 201 Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. penale 1983, II, 633. Peraltro, su quello che si dira in conclusione di questo lavoro, in ordine ai “doveri” del legislatore ed ai suoi limiti come ausilio all’interpretazione, cfr. I. MASSA PINTO, La discrezionalità politica del legislatore tra tutela costituzionale del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 1309 e ss. 79 entrata in vigore, oggettivizzarsi, “estraniandosi dai fatti contingenti e dalle vicende che hanno preceduto la sua emanazione”. Questo significa che, aderendo a tale canone, è la norma stessa a rendersi oggettiva, senza bisogno che sia l’interpretazione a farlo. Non può non rimbalzare, qui, l’eco di quella “spiritualità oggettivata” di Betti alla quale si faceva cenno sopra. C’è anche una presa di posizione forte là dove quasi si nega all’interprete di risalire alla genesi normativa per vincolarlo all’attualità, probabilmente la stessa “attualità dell’intendere” bettiana, anche se questa cesura tra il tempo dell’emanazione e quello dell’applicazione, segnata dalla sentenza, sembra rinnegare quel “farsi” dell’interpretazione di cui si è parlato. Interessante è l’analisi nella quale prosegue la sentenza: “in tale operazione [l’oggettivizzarsi della norma] non opera l’analogia, né la (pur legittima) interpretazione estensiva perché la nuova fattispecie rientra direttamente nella previsione della norma, considerata nel suo significato letterale e logico”. Così, nel caso di specie, l’obbligo di registrazione viene “esteso”, dalle emittenti pubbliche a quelle - allora inesistenti - private, non per via di interpretazione analogica e nemmeno estensiva, ma proprio perché l’attualità, cioè la compresenza di entrambi i tipi di proprietà delle emittenti, è entrata nell’imperativo stesso della norma, addirittura nella sua letteralità e logicità. Le condizioni di emanazione di questa pronuncia giudiziale del 1982, “l’attualità” del giudicare, si potrebbe parafrasare, evidenziano l’esigenza di un certo controllo politico in un settore come quello radiotelevisivo privato allora agli albori. Sorge quanto meno il sospetto che si sia azzardata una teorizzazione funzionale agli scopi della sentenza, superando, tra l’altro, con essa il catenaccio della non estensibilità analogica delle norme penali. Tuttavia il principio che ne scaturisce non può che rivelarsi di estremo interesse a chi con la sentenza si viene a confrontare. Significativo è il fatto che l’approdo in Cassazione fosse stato generato da un ricorso del Procuratore generale (di Palermo) contro una precedente sentenza, evidentemente contraria, che aveva ritenuto “non equivalenti le finalità delle informazioni di Stato 80 istituzionalmente obiettive a quelle delle emittenti private”, affermando che l’interpretazione letterale e logico-sistematica della legge regolatrice in questione conducevano ad opposte conclusioni. Già nel ricorso del Procuratore generale, dunque, vi è un’argomentazione agganciata alla necessità di inserire l’interpretazione entro la costruzione logico-sistematica. Per dirimere il conflitto la Cassazione si appella alla ratio della normativa - ed è lì che ogni conflitto dovrà andare a parare con un’accezione, però, nuova data, come detto, da una sorta di “inglobamento” entro l’area di significanza della stessa norma dei nuovi significati scaturenti dall’attualità applicativa. Al di là della strumentalità della soluzione, e del rischio di uso strumentale cui questa teorizzazione può dar luogo è di notevole rilievo questa annunciata espulsione dal problema interpretativo sia del discorso sull’estensione, sia di quello sull’analogia. Non serve più parlarne, e nemmeno, quindi, cercarne una distinzione, sembra dire la sentenza, perché i significati cui si vorrebbe accedere per estensione o per analogia stanno già nella norma. I fatti contingenti, che non sono meri accessori ma, al contrario, potrebbero, secondo un’altra impostazione, essere elementi essenziali per la ricostruzione del senso della norma, sono schiacciati dall’oggettivizzarsi della norma. Il che sembra voler dire che la norma sopravvive e si cristallizza come impianto, ma il suo spirito si evolve e adatta via via che la norma viene applicata. Paradossalmente, perciò, a ben guardare proprio nel culmine dell’oggettività, come è questo “oggettivizzarsi” della norma, sembra rivelarsi e dischiudersi all’interprete la massima estensione della creatività. 81 9. LA NECESSITÀ DI UNA DISTINZIONE TRA INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA COME SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLE LACUNE 9.1. Le lacune dell’ordinamento: sulla fisiologica imprecisione della legge 9.1.1. Il rapporto tra l’interpretazione e le lacune. Premessa: indagine sulla realtà normativa. Norma come cornice (Kelsen) e norma come realtà spirituale (Betti). I tipi e i nomina: tipica come topica giurisprudenziale. Prima di addentrarsi nell’analisi di quelle teorie che vedono contrapposte -per distinguere tra analogia ed estensione- la funzione integrativa ovvero dichiarativa dell’interpretazione, è opportuno chiarire la matrice profonda delle questioni che stanno alla base di tali specificazioni. I fenomeni dell’estensione o dell’analogia interpretativa, nascono da un lato dall’intrinseca necessità interpretativa, contro ogni letteralità -come detto- delle proposizioni normative. Dall’altro, tuttavia, essi trovano ragione di sé nella incapacità delle regole previste di coprire tutte le necessità di disciplina che la vita giuridica comporta. Può essere efficace, allora, affermare che la teoria dell’interpretazione è il rovescio della teoria delle lacune, o meglio, parafrasando, che la teoria delle lacune - e con essa quella che involve l’analogia e l’interpretazione estensiva - non si può che intendere come l’altra faccia della teoria dell’interpretazione. A questo punto, tuttavia, prima di procedere oltre nell’analisi del fenomeno, occorre richiamare la natura degli strumenti che si è deciso di utilizzare per accostarsi ad esso andando ad indagare sulla scelta di campo operata in merito all’evento normativo. 82 Il problema delle lacune, e quindi anche quello interpretativo, si collocano come risposta - problematica - a quello che è stato definito come il “duplice postulato del legalismo”202 e che si 202 L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 29, che così distilla l’insegnamento soprattutto della Scuola dell’esegesi. A ben vedere, però all’esaustività (“tutto il diritto è nella legge e non v’è non-diritto nella legge”), tiene necessariamente seguito il principio di non eterointegrabilità, cioè l’impossibilità di “completare” il diritto legale con materiale extralegale: “non vi è diritto se non attraverso la legge”. Intendo con il termine tradizione, qui, come in seguito, riferirmi alla “tradizione codicistica”, che si afferma a partire dalla promulgazione del codice Napoleone e il conseguente affermarsi dell’école de l’exégèse. È qust’ultima una dottrina fortemente giuspositivistica, che crea quasi un culto legalistico del codice, portando alla sopravvalutazione del testo: come se tutto il diritto coincidesse con il dettato normativo del codice, e la perfetta conoscenza di quest’ultimo fosse la condizione necessaria e sufficiente di una sua esatta applicazione. Il credo di questo indirizzo scientifico -che produce giuristi del calibro di P. Merlin, A. Duranton, C. Demolombe, A. Demante- si riassume nella “boutade” dell’esegeta J. Bugnet: “Io non conosco il diritto civile, io insegno il codice Napoleone”. La Scuola dell’Esegesi fa emergere una concezione volontaristica della legge come diretto comando del legislatore ai cittadini eguali tra di loro e segna altresì la nascita del giuspositivismo moderno, basato sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico. Questo viene infatti ora concepito come sistema chiuso, provvisto della capacità interna di produrre la soluzione di qualsiasi caso concreto, senza necessità di far riferimento ad altre fonti di produzione normativa, cui il codice stesso non faccia espressamente rinvio. E’ questo il caso, tra l’altro, del diritto naturale: mancando infatti un espresso rinvio nel codice, gli esegeti tralasciano del tutto ogni riferimento al diritto naturale e sostengono il principio della pura dichiaratività dell’interpretazione, la quale ha dunque soltanto il compito di spiegare il significato del testo senza spingersi ad esaminare alcun elemento ulteriore. L’attività interpretativa viene così concepita come un sistema di operazioni logiche basate su tre presupposti: l’interprete non deve far riferimento ad alcun elemento extra-testuale; non deve creare, ma soltanto ritrovare la norma entro i confini di un sistema non eterointegrabile; il sistema contiene tutti gli elementi necessari per condurre tramite deduzioni logiche alla soluzione di qualsiasi caso. Il principio secondo il quale, in mancanza di una norma espressa, esiste comunque una norma implicita, produce quindi la notevole conseguenza di privare in pratica il giudice della possibilità di rifarsi al diritto naturale; possibilità che invece J.E.M. PORTALIS, nel Discours préliminaire sur le projet de Code civil (in IDEM, Discours, rapports et travaux inedits sur le code civil / par JeanEtienne-Marie Portalis, Paris, 1844) aveva ritenuto necessaria in ragione della fatale incompletezza normativa anche di un codice sistematicamente completo. 83 sostanzia nelle due massime “la legge è tutto diritto” e “la legge è tutta diritto”, ossia “non c’è diritto al di fuori della legge” e “non c’è non-diritto all’interno della legge”. Legalismo che nasce, appunto, dall’aver considerato in modo eccessivamente “geometrico” il fenomeno normativo. Del resto, infatti, prevedere e predisporre all’interno del sistema giuridico una serie di rimedi - come l’interpretazione estensiva o l’analogia - al problema delle lacune può essere inteso come un’implicita ammissione del fatto che le lacune esistono, contro uno dei postulati del positivismo. Prevedere già nell’ordinamento giuridico dei rimedi alle lacune, cioè, è anche negare uno dei pilastri dell’ordinamento stesso dato dalla completezza del medesimo. Se però si apre uno “spazio vuoto” tra diritto e legge perché, contrariamente ai due postulati appena enunciati, si teorizza l’insufficienza delle leggi, delle fattispecie astratte, a coprire tutte le fattispecie concrete, allora il problema della completezza o meno dell’ordinamento giuridico, e delle eventuali lacune, si può anche ridurre a quello dell’astrattezza della norma.203 La scoperta di questo “spazio vuoto” dato dall’intrinseca impossibilità delle proposizioni normative di regolamentare dettagliatamente tutte le possibili situazioni concrete significa, pertanto, spostare il problema. Da un’impostazione che privilegia l’analisi della completezza dell’ordinamento, e quindi si interroga sulla “quantità” (sufficiente o insufficiente) si potrebbe dire, di leggi atte a disciplinare la realtà ci si rivolge verso un’impostazione che Secondo gli esegeti, dunque, il sistema delle fonti presupposto dall’art. 4 del codice Napoleone impone che il giudice -qualora la norma che regola la fattispecie su cui è chiamato a giudicare non gli appaia chiara e sufficiente- faccia ricorso anzitutto all’interpretazione letterale; quindi all’analogia; infine ai principi generali dell’ordinamento. Cfr. S. GASPARINI, Illuminismo e codificazione, Padova, 1991, p. 92. Si veda altresì sull’argomento la lucida ricostruzione di G. TARELLO, voce Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1969, p. 819 ss. 203 Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc. 2, p. 12. 84 guarda alla norma in sé e, constatandone l’astrattezza, si interroga sulla capacità di qualunque norma, anche la più dettagliata, di regolare, proprio perché necessariamente astratta, tutte le multiformi fattispecie concrete. Il problema è, dunque, dell’ordinamento che è incompleto o della norma giuridica che per sua natura è astratta?204 “Non può dirsi che è logicamente pensabile un diritto senza lacune, appunto perché è nella natura stessa della legge di essere astratta (cioè lacunosa)”, scrive Ascarelli,205 e aggiunge che le lacune della legge risultano colmate dall’interpretazione “del caso concreto attraverso la sentenza” la quale ”si risolve in una valutazione giuridica del caso singolo e non di una classe di casi (come la legge) sì che attraverso di essa ogni possibile lacuna riesce eliminata”.206 È l’interpretazione, pertanto, in questa impostazione, che colma, nell’applicazione concreta, lo spazio vuoto tra la legge e il diritto. Interpretazione sì, ma quale? Quella estensiva o quella analogica? Il fatto che si sia constatata la necessità interpretativa sempre e comunque della norma e che sia l’interpretazione estensiva che quella analogica si pongano come strumenti per colmare proprio questo “vuoto” tra legge e diritto può già far abbozzare l’idea che, di fatto, non abbia senso la distinzione tra questi due meccanismi interpretativi. Il che, però, non deve affrettare la conclusione che sarà più avanti affrontata: l’identità di scopo non deve far superficialmente concludere per l’identità di oggetto.207 204 Imposta così il problema T. ASCARELLI, cit., p. 12. Sulla prospettiva autenticamente filosofica di questo autore, che mai ebbe a dirsi tale, cfr. lo stimolante volume di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo, Napoli, 1999. 205 T. ASCARELLI, cit., p. 15. 206 T. ASCARELLI, cit., p. 20. Indicativa sul punto la posizione dei contemporanei, per cui ex multis, rinviamo infra alla nota 559. 207 L’identità di scopo non equivale ad identità di oggetto: essenza e funzione restano ben distinte. Cfr. W. P. ALSTON, Filosofia del linguaggio, (1964), tr. it. Bologna, 1971. 85 Tutto sembrerebbe logico se a turbare l’ordine così teorizzato non facessero capolino i “buchi neri” della generalità, dell’imperatività e della necessaria certezza delle norme. La completezza ritrovata attraverso l’interpretazione giudiziale è sufficiente a colmare anche il vuoto di generalità, di imperatività e di certezza che l’aver “trovato” la “legge del caso singolo” può generare? Come conciliare le diverse concretizzazioni, capaci di colmare la medesima lacuna in modi tanto differenti quante sono le applicazioni giudiziali? Non si ritornerà sui problemi affrontati al capitolo 1. È il caso, invece, di accennare a due diversi modi di intendere la norma che illustrino non solo un diverso oggetto d’interpretazione, ma anche una diversa impostazione ermeneutica. “Fra la parola e il significato della legge vi è sempre una distanza che dev’essere colmata con la viva attività del nostro spirito.[...] La legge può parlare solo mediante concetti generali e astratti, i quali non sono altro che imperfetti tentativi di rappresentare una massa di fenomeni non delimitata né delimitabile con precisione. [...] insomma, la parola della legge è sempre soltanto una cornice, spesso assai manchevole, nell’ambito della quale il giurista deve cercare liberamente la decisione: la scienza del diritto deve contribuire per l’appunto a che tale cornice sia rettamente riempita”.208 Sono parole di Ernst Zitelmann riportate da Betti nel suo discorso di commemorazione del giurista tedesco.209 Riecheggiano le parole di Kelsen, la sua concezione geometrica cui l’immagine della norma-cornice non può non rinviare, seppure l’assonanza non comporti identità di impostazione. La giustapposizione dell’idea di norma come “realtà spirituale”,210 alla maniera di Betti, che ne fanno Burdese e Gallo211 208 E. ZITELMANN, Die Gefahren des bürgerlichen Gesetzbuches für die Rechtswissenschaft, discorso tenuto a Bonn il 27 gennaio 1896 citato in E. B ETTI, Metodica e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir. (RIFD), 1925, p. 5, ora in Diritto, Metodo, Ermeneutica, Milano, 1991, p. 14. 209 E. BETTI, op. ult. cit., p. 14. 210 Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 753. 86 può apparire, tuttavia come una contrapposizione, dato che vengono a trovarsi contigue due concezioni differenti. Se, cioè, come fanno gli autori citati, si cerca la convivenza, o il compromesso tra la norma come cornice alla Kelsen e la norma come realtà spirituale, si rischia di franare nella contraddizione della convivenza tra concezioni antitetiche. Da un lato vi è la serie di possibili interpretazioni, e di possibili significati equivoci, cui si trova di fronte l’interprete che riduce l’oggetto interpretativo alla dichiarazione legislativa.212 Dall’altro la “dotazione spirituale” affidata al documento segna il ritorno a quella - univoca? - spiritualità di cui si è parlato al capitolo 1. Di fronte alla comprensione di un “contenuto spirituale obbiettivato”,213 pertanto, si trova la volizione astratta e tipica espressa nella norma. Astratta oggettività e oggettiva spiritualizzazione l’un contro l’altra armate, verrebbe da dire. Per tentare qualunque conciliazione tra questi due elementi, quindi, non si può che rivolgere la riflessione preliminare sulla tipica, nei cui confronti, più che in quelli delle leggi, sembra, alla fine, porsi il problema della completezza dell’ordinamento. La tipica, cioè, come vera topica214 giurisprudenziale215 che significa, contrariamente all’immaginabile, rifiuto del concettualismo estremo 211 A. BURDESE M. GALLO, Ipotesi normativa ed interpretazione del diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 356 e ss. 212 Così R. SACCO, cit., p. 752. 213 L. CAIANI, voce Analogia. b) Teoria generale, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, p. 354. 214 Perspicua la definizione di F. CAVALLA nella voce Topica giuridica per l’Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, p. 720, che delinea la topica come “l’attività diretta a rinvenire - quando non si disponga di un principio scientifico - l’affermazione con cui cominciare una procedura discorsiva, idonea a organizzare una serie di proposizioni verso una conclusione [...] Il modo e l’oggetto del rinvenimento ricevono una configurazione diversa a seconda della concezione che si assuma nel metodo di sviluppo delle premesse ritrovate”. 215 L’espressione è di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p 31. 87 e, anzi, un continuo “spezzarsi” di questo, attraverso la metodica dei tipi, nella concretezza dei casi.216 Da qui, dalla tipica, su queste basi può partire allora anche la riflessione sull’analogia e l’interpretazione estensiva, se è vero che nel procedimento analogico da questa si dipana il ragionamento. Se è vero, cioè, che nel procedimento analogico si applica una norma particolare sostituendo i “nomina strettamente dipendenti dalla collocazione sistematica all’interno di un codice” con i “nomina propri del conflitto o della situazione sociale non contemplati” sulla base della loro “reciproca fungibilità” in ordine al tipo di problemi e principi di soluzione che la norma prospetta.217 È già in nuce qui, da quanto si può vedere, l’apertura alle varie forme di applicazioni analogiche, su cui ci si soffermerà ai capitoli seguenti; la eventuale presenza di ulteriori conflitti e situazioni sociali, non riconducibili ai termini della descrizione normativa porterà, alla fine, ad esse. 216 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto cit., p. 32. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica del dir. priv., 1991, p. 53. 217 88 9.1.2. Ordinamenti giuridici chiusi e aperti: è ancora attuale questa distinzione? Ogni sistema è normativamente chiuso e cognitivamente aperto. Completezza e autosufficienza L’analisi condotta da Bobbio sui rapporti tra lacune e analogia ne pone in luce una non piena coincidenza sulla base del concetto di completezza dell’ordinamento giuridico. “Il problema delle lacune e quello dell’analogia non combaciano perfettamente”, scrive Bobbio. “O la completezza si valuta dal punto di vista formale, e allora un ordinamento è sempre completo anche senza l’analogia; o dal punto di vista reale, e allora l’ordinamento è sempre incompleto nonostante l’analogia. L’analogia è un problema logico, le lacune sono un problema politico”. 218 Del resto, il filosofo torinese aveva detto poco sopra che “l’incompletezza di un ordinamento non è un problema da dialettici o da sofisti ma è prima di tutto un problema politico ed etico”. 219 Nell’impostazione di Bobbio la categoria del “politico”, tuttavia, sembra afferire più ad un’idea di “discrezionale”, di “sovrano”, a-logico, verrebbe da dire, così che il problema delle lacune sembra presentarsi come l’altra faccia della discrezionalità del legislatore. Se, invece, si assume la categoria “politica” come legata ad un discorso sui valori - qui sì, allora, “etico” - che la norma prende in considerazione ma, anche, che il sistema si pone, al di là e oltre le norme, allora anche l’analogia può diventare un problema “politico”. Non, però, questa volta, nel senso di “discrezionale”, ma nel senso più pienamente logico. Logico perché politico, si potrebbe dire. Posto che si abbia di fronte un legislatore ragionevole e coerente, pertanto, nel momento in cui le norme sorgono già vi è inclusa un’intrinseca ragionevolezza, già vi è un valore protetto. E allora la stessa interpretazione teleologica, 218 219 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II, cap. 3. N. BOBBIO, op. ult. cit., p. II, cap. 2. 89 potendo avvicinare la “volontà del legislatore” con il bene protetto dalla norma, potrà accedere con maggiore successo alla “certezza” ermeneutica. Ma se sia l’analogia che l’interpretazione approdano alla questione politica, o meglio, a quella assiologica, allora già se ne può trarre argomento per un avvicinamento concettuale. Da quanto si è detto emerge, dunque, la connessione stretta che esiste tra il problema dell’analogia, quello delle lacune, e le diverse concezioni in merito all’ordinamento giuridico. Affiora subito, però, anche l’idea che a dare scaturigine a queste implicazioni sia fondamentalmente l’impostazione eletta in merito agli ordinamenti giuridici, elemento da cui discendono tutte le altre teorizzazioni. Si impone, cioè, una scelta di campo sul modo di intendere l’ordinamento giuridico e, secondo l’impostazione tradizionale, sul modo di comporlo come un sistema “chiuso” ovvero un sistema “aperto”. Chiusura determinata dalla pretesa di completezza data, soprattutto, dalla fiducia nella capacità delle norme, e soprattutto dei codici, di coprire tutta la realtà da regolare. Apertura data, al contrario, dal concepire l’ordinamento come un sistema incapace di esaurire le necessità normative e allo stesso tempo recettivo alle integrazioni provenienti da fonti extrasistematiche. A quale completezza, cioè, si fa riferimento? A quella assoluta di un sistema “chiuso”, in sé esaustivo, oppure a quella relativa di un sistema “aperto”? La storia delle codificazioni220 è anche la storia della pretesa, protrattasi fino alla metà del ventesimo secolo, di completezza e “chiusura” degli ordinamenti proprio grazie ad una fiducia illimitata nella onnicomprensività dei codici; fiducia che traeva alimento da una impostazione fondata sul concetto di Stato come unica fonte del diritto, “aggravata dall’idea dello Stato nazionale o nazionalista”.221 Il pensiero giuridico recente, al contrario, soprattutto a seguito 220 Cfr. F. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982, pp. 253 e ss. 221 Così G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12 delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it., 1992, V, p. 92. 90 dell’inserimento dei sistemi normativi nazionali entro sempre più ampi sistemi internazionali, si è portato via via verso una concezione “aperta” dell’idea di ordinamento giuridico. Senza rinunciare, per questo, all’idea di completezza, ma anzi, spesso, ricorrendo proprio alle fonti “eteronome” per integrare, completandolo, un vuoto normativo. Queste differenziazioni concettuali sembrerebbero non avere effettività applicativa se non ci si accorgesse, con Bobbio, che esse mascherano da un lato un problema politico, dall’altro che le istanze ermeneutiche non possono trovare soluzione se non qualificando l’ambito entro cui si fa operare lo stesso processo interpretativo. Ha senso parlare ancora oggi di scelta di campo tra ordinamenti chiusi o aperti? Con Luhmann222 è possibile ritenere che ogni sistema giuridico sia insieme normativamente chiuso e cognitivamente aperto e che, quindi, la chiusura normativa del sistema non escluda affatto una sua apertura cognitiva. Non escluda, cioè, la “disponibilità del sistema stesso ad apprendere i mutamenti della realtà sociale ed a misurare su di essi le sue risposte normative”.223 A patto, però, di intendersi sul fatto che comunque ciò a cui si fa riferimento è la completezza della legge, non del diritto.224 Quale spazio rimane, con questa impostazione, al discorso sulla completezza dell’ordinamento? “La compiutezza dell’ordinamento non significa inesistenza di lacune ma esigenza di eliminarle per mezzo di un dispositivo”, scriveva Carnelutti,225 insinuando il dubbio se, comunque, la completezza esista o non sia, invece, che una tensione verso un obiettivo mai totalmente raggiunto o addirittura mai raggiungibile 222 Ripreso anche da P. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, cit., p. 61. 223 P. BARCELLONA, L’interpretazione cit., p. 60. 224 Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto in Novissimo Digesto italiano, IX, 1963, p. 420. 225 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951. 91 data, come afferma Ascarelli,226 l’incapacità del diritto di “afferrare la vita e la storia che, nella loro concretezza, sfuggono continuamente”. Si è autorevolmente sostenuto che, storicamente, il discorso sulla completezza, intesa come dogma, postulata dai grandi codificatori, si accompagnò sempre alla teoria della separazione dei poteri227 e alla ricerca di attuazione del principio di legalità. Si osservi, tuttavia, che in alcuni ordinamenti, come quello inglese, la separazione dei poteri fu postulata al di fuori di ogni pretesa di completezza. Si è sostenuta, dunque, la necessità “storica” della legalità come corollario della certezza; certezza derivante da una forma di pan-normativismo conseguente all’intendere l’ordinamento come completo e in grado di completarsi. Separazione dei poteri come distinzione netta tra l’opera degli “applicatori” del diritto e quella dei creatori. Ma già l’esempio storico è in grado di smentire questa impostazione. Sorpassata chiaramente questa teorizzazione anche a livello concettuale, ne è rimasto tuttavia un residuo nelle impostazioni ermeneutiche che, pur distinguendo, sottendono e ricercano ancora il postulato della completezza. Le critiche sono almeno due. In primo luogo più che alla completezza queste impostazioni sembrano rivolgersi all’autosufficienza dell’ordinamento giuridico inteso come “un insieme di norme le cui lacune possono sempre essere colmate mediante interpretazione o integrazione, e quindi senza bisogno di ricorrere al potere creativo del giudice”.228 Da questo punto di vista sarà proprio l’opera creativa del giudice a essere sottoposta a revisione concettuale.229 Autosufficienza, si è detto, che se si contrappone alla completezza proprio in forza del fatto che l’ordinamento completo è 226 T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. nel diritto privato, cit., p. 13. 227 N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 420. 228 Cfr. N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 423. 229 Cfr. § 3.2. 92 “un insieme di norme che non ha lacune”,230 laddove l’ordinamento autosufficiente è quello che riesce a colmarle, si contrappone anche all’ ”autonomia”. Questa, infatti, come noto è la capacità di darsi da sé delle regole e, nel caso specifico, si concreterebbe nella caratteristica dell’ordinamento di esaurire in sé la fonte della normazione. Resterebbe comunque da chiedersi: se l’ordinamento e mezzo e non fine, come fa a darsi da sé le regole? La risposta esula dell’economia di questo studio, ma la stessa domanda, anostro avviso, fa emergere il carattere non meramente tecnico, quanto squisitamente politico dell’ordinamento giuridico, non riducibile alla sola tékne, quanto partecipe della pràxsis, per utilizzare categorie aristoteliche che hanno ritrovato fortuna nel secolo passato. In secondo luogo chiamare in causa l’interpretazione a fronte del problema della completezza significa non sfuggire alla critica di Lombardi Vallauri laddove sostiene che “l’interpretazione, quando opera col postulato della legge completa, non può essere logica, dato che esistono comunque le contraddizioni”.231 Contraddizioni che però sono anche lacune, e lacune che sono contraddizioni. Postulare la completezza significa, cioè, rimanere invischiati nel circolo vizioso. È noto, infatti, che, anche dal punto di vista logico, nessuna teoria formale è abbastanza forte da poter esibire da sola la sua non contraddittorietà, ossia che la coerenza di una teoria non può essere verificata a partire dai teoremi della teoria stessa.232 Pertanto postulare la completezza dell’ordinamento ponendo in dimostrazione le regole - supposte come complete 230 N. BOBBIO, op. cit., p. 423. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 270 ss. 232 La teorizzazione della relatività di ogni assiomatica applicata ai sistemi logici fu dimostrata dal matematico austriaco Kurt Gödel nel 1931, sulla scorta delle osservazioni di Bertrand Russel; di quest’ultimo è rimasta celebre l’antinomia, e perciò la non verificabile verità, dell’affermazione del “mentitore che asserisce di mentire”. Cfr. In matematica non esiste la certezza su “vero e falso” in Il Sole-24 Ore del 25.4.1997. 231 93 dell’ordinamento stesso finisce per essere una costruzione tautologica che non riesce a dimostrare quanto aveva postulato. Conviene, a questo punto, rinunciare a queste categorie e rimettersi, piuttosto, all’apertura cognitiva del sistema, come detto, rimandando, al massimo, la categoria dell’incompletezza a quella di una “inadeguatezza rispetto agli scopi di giustizia”, come si vede costretto a fare lo stesso Bobbio.233 Per questa via, allora, ha un senso proporre l’analogia come soluzione alle inadeguatezze normative e allo iato tra diritto e legge, e assumere quello dell’adeguatezza come criterio interpretativo - ma non nuovo “dogma”- fondamentale. È questa la giustificazione logica della necessità dell’analogia ma anche, assunto quello dell’adeguatezza come criterio interpretativo, dell’interpretazione estensiva. Appurato che esistono, resta da porsi, il problema della distinzione tra questi due strumenti ermeneutici. Problema che per essere affrontato richiede ancora alcune precisazioni in tema di lacune. 233 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p.II, cap. 2. 94 9.1.3. Le lacune: esistono o sono create dall’interprete? Le lacune pensabili. Il “diritto controverso” di Betti: lacune della legge o insufficienza dell’interprete? Lacune: lacunosità generica e specifica, lacune statiche e dinamiche, lacune originarie ed evolutive, lacune metodologiche, lacune operative, lacune politiche e ideologiche, lacune proprie e improprie. Lacune anche dei principi. Come si è detto non si può negare empiricamente l’esistenza di lacune legislative: di fatto, cioè, l’interprete si trova davanti ai “casi non regolati” e alla necessità di reperire la norma per regolarli. Questo, però, solo ad un approccio superficiale. Scavando alle fondamenta delle costruzioni giuridiche in tema di lacune non è difficile imbattersi nell’obiezione che l’esistenza delle lacune possa essere, in realtà, una specie di fata morgana dell’interprete, che creerebbe da se stesso l’idea della lacuna là dove, al contrario, questa non esiste. Già Bobbio aveva messo in guardia contro questa illusione dell’interprete commentando con un’immagine efficace le posizioni, in materia, dei positivisti. “Sin dove giunge la regolamentazione giuridica non ci sono lacune, dove non giunge c’è l’attività indifferente al diritto, che non può chiamarsi “lacuna” del diritto così come la riva di un fiume non si può chiamare “lacuna” del fiume”.234 “La lacuna non è nella norma in sé, ma è sempre il risultato dell’applicazione di una procedura interpretativa: la lacuna è una creazione dell’interprete”.235 Questo, però presupporrebbe l’esistenza di una sorta di “diritto perfetto” prima dell’applicazione interpretativa, di un diritto, cioè, non lacunoso e che, al contrario, 234 235 N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, cit., p. 421. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 595. 95 diverrebbe tale solo a seguito dell’interpretazione. Non può non sorgere il dubbio, tuttavia, che questa impostazione, che in realtà si muove dentro il dogma della completezza, non sia che un artificio logico per eludere la dimostrazione e la scelta sull’esistenza o meno delle lacune e per aprire arbitrariamente la via, per mezzo d’interpretazione, ai rimedi. Nell’impostazione di Monateri, poi, le lacune si paleserebbero solo di fronte al sorgere di una contraddizione tra un certo risultato interpretativo e le aspettative - la “precomprensione”236- o le esigenze che l’interprete ha di condurre detto risultato ad un dato indirizzo. Non si tratterebbe più, pertanto, nemmeno di superare le lacune mediante l’interpretazione, ma di contrapporre rispettivamente più risultati interpretativi. Questo modo d’intendere se può convincere per il superamento del binomio lacune-interpretazione lascia però scoperto il fianco alla critica di indifferentismo razionalistico cui sarebbe portato chi pensa che le soluzioni giuridiche entro cui scegliere siano tutte dotate di pari giuridicità: la critica, cioè, di fare dell’interpretazione così intesa un novello “metodo di Bridoie”.237 L’obiezione logico-formale al problema delle lacune sarebbe, poi, comunque, quella - già accennata - della loro “non pensabilità” per il fatto stesso di essere lacune. Spunta, a questo punto, un problema di costruzione perché si giunge ad un bivio, oltre il quale le lacune non possono più essere colmate attraverso “procedimenti riconducibili ad un concetto, sia pur lato, di interpretazione”,238 ma debbono necessariamente richiamare l’applicazione dell’analogia, o comunque di costruzioni di “giurisprudenza superiore”, secondo la definizione di Jehring. Non pensabili, cioè, solo entro la visione dogmatica della completezza, tuttavia metodologicamente esistenti e non negabili. 236 Cfr. § 1.1.2. Il giudice Bridoie, di cui ci parla Rabelais, pare usasse risolvere coi dadi le cause più difficili, ottenendo, non a caso, il generale consenso. 238 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 270. 237 96 Risolvibili, nonostante tutto, solo entro un sistema di valori e al riparo da ogni indifferentismo ermeneutico. Anche lo stesso Betti, teorizzatore dell’inquadramento entro un sistema giuridico di valori, ha occasione di pronunciarsi sul problema delle lacune contrapponendo le due concezioni - quella che le nega e quella possibilista - per metterne in luce gli equivoci.239 Da un lato egli evidenzia l’equivoco in cui incorre chi, per inseguire la completezza e negare le lacune, scambia la totalità dell’ordinamento con la sua universalità, la coerenza, cioè, con la onnicomprensività. Dall’altro smaschera gli assertori della possibilità di lacune laddove attuano una impropria inversione del rapporto presupposto-risultato dello stesso canone della completezza. La completezza, cioè, nella spiegazione di Betti, non è il presupposto da cui partire con l’interpretazione, ma il risultato, l’obiettivo che la stessa interpretazione deve avere, se mai, di mira. Pertanto asserire l’esistenza di lacune partendo dal presupposto della completezza può significare un ritorno alla concezione, più sopra criticata, di un ordinamento perfetto prima dell’applicazione. Ma già si è messa in luce l’artificiosità della posizione. Alla fine, comunque, tolti gli equivoci, anche Betti conviene sul fatto che quello del difficile rapporto lacune-completezza rimane un problema di “coerenza non solo logica, ma organica e teleologica”.240 Nonostante lo sforzo concettuale per l’esaltazione di questo télos come soluzione ultima, di taglio assiologico, alla problematica non si riesce, però, comunque, a risolvere un dubbio. Quello se la categoria del “diritto controverso”, di quel diritto che esce, cioè, dalla portata delle norme, sia da far risalire a una lacuna della legge o semplicemente ad una insufficienza dell’interprete.241 Ma è vero diritto? Per un positivista di sicuro non lo è, forte dei postulati del legalismo che si sono evidenziati, poiché “non c’è diritto al di fuori della legge”. Tuttavia non può non constatarsi empiricamente lo iato 239 E. BETTI, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136 240 E. BETTI, cit., p. 140. R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p. 752. ss. 241 97 che esiste tra la fattispecie astratta, prevista dalla legge, e l’infinità di fattispecie generiche che si possono presentare. Non rimangono, allora, fuori dalle giustificazioni causali, che le constatazioni empiriche: pensabili o non, nel diritto positivo si opera come se le lacune esistessero. Esaminato, quindi, il problema della colmabilità delle lacune si può passare ad analizzarne l’essenza, tenendo conto che chi ha riconosciuto l’esistenza - al di là della pensabilità - delle lacune non ha potuto fare a meno di individuare, all’interno di questa famiglia, numerose categorie concettuali. Una prima distinzione si è fatta tra lacunosità generica e specifica.242 Quella generica, dipendente dalla tipicità e astrattezza della norma giuridica, sarebbe una “integrazione o innovazione dello schema o cornice astratta della norma ‘come testo’”. Sarebbe, cioè, proprio l’astrattezza della norma giuridica a determinare lo scollamento rispetto al caso storicamente determinato. La lacunosità specifica, invece, cui comunemente ci si riferisce, dipenderebbe dalla necessaria “staticità e chiusura dell’ordinamento”, impossibilitato per natura a coprire la “continua novità ed apertura dell’esperienza”.243 Secondo questa distinzione, dunque, il problema delle lacune si fa risalire da un lato al rapporto “statico” tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, dall’altro a quello “dinamico” tra ordinamento chiuso e realtà sociale mutevole. Già questa distinzione apre la via a quella che classifica le lacune in “statiche” e “dinamiche”.244 La staticità sarebbe appunto data dall’astrazione normativa rispetto alla necessità di doversi applicare ai casi concreti e rispetto all’evoluzione della vita sociale. La stessa plurivocità del linguaggio sarebbe una fonte di queste lacune statiche. Statiche, dunque, in quanto intrinseche allo stesso fenomeno normativo. 242 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 352. 243 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia, cit. p. 352. 244 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 240 ss. 98 La dinamicità, al contrario, sarebbe determinata dal fatto che la norma è destinata ad attuarsi “nel concreto divenire”. Tanto che questa illusione dinamica dell’attualità normativa fa apparire lo stesso giudice-legislatore teso nell’inane sforzo di stare al passo e avvinto da intrinseche Anschauungslücken, dall’impossibilità di cogliere l’intera esperienza che si vorrebbe regolare. A ben guardare, tuttavia, già da qui si avverte una certa artificiosità delle partizioni essendo queste solo rappresentazioni di quella che è il fenomeno normativo all’interno di un sistema giuridico. Rendersi consci di queste partizioni può, tuttavia, rivelarsi utile al fine di individuare il tipo di approccio che i “rimedi” al problema delle lacune, così come tradizionalmente si sono identificati l’analogia e l’interpretazione estensiva, possono attuare. Se si punta l’accento sulla plurivocità del linguaggio e sulla staticità delle lacune si sarà probabilmente portati a individuare quello dell’interpretazione estensiva come il rimedio per eccellenza, laddove si prediligerà, invece, l’analogia di fronte alla constatazione della molteplicità delle esperienze e all’insufficienza della legge a regolarle tutte. Questo, ovviamente, solo ad un primo approccio alla problematica, sintomatico, tuttavia, del rischio cui può portare la mancanza di consapevolezza della mera funzionalità di queste partizioni e la necessità, al contrario, di condurre l’analisi entro una prospettiva globale. Dalla delineata visione “cinetica” del problema delle lacune trae fondamento anche la distinzione tra lacune originarie e lacune evolutive. Le prime, infatti, sarebbero già presenti al momento della determinazione normativa, le seconde si creerebbero in seguito al necessario evolversi del sostrato sociale e dei bisogni sottesi alle necessità normative. È come se si contrapponessero, qui, due fotografie dell’ordinamento - una relativa al momento della determinazione normativa e una relativa al momento applicativo temporalmente distanziate ma dinamicamente connesse. L’aporia di questa impostazione, tuttavia, sta nel fatto che non tiene conto che sia lo strumento interpretativo sia la realtà normativa sono in continua evoluzione per cui, per riprendere la metafora, ci si trova nella stessa situazione di chi “fotografa” con un 99 apparecchio in trasformazione una realtà in movimento. Postulare lacune originarie in antitesi a lacune evolutive, quindi, può rivelarsi indice di una impostazione che vede un diritto “originario” perfetto, corrotto dall’interpretazione o dall’esperienza; concezione, come detto, rigettata anche perchè snaturerebbe il fenomeno dell’interpretazione. Non solo. Porre l’accento sulla evolutività delle lacune può, in realtà, rivelarsi un nascondere la stessa natura evolutiva dell’interpretazione secondo l’impostazione che si è delineata nel capitolo precedente. Perciò invocare l’analogia per risolvere quelle lacune che nemmeno la legge è riuscita, nella sua formulazione, a colmare e, al contrario, l’interpretazione estensiva per colmare quelle lacune date dall’inevitabile evolversi della realtà non è altro che disconoscere il fenomeno normativo in sé e l’interpretazione, in ottica bettiana, come “rappresentazione”. Si vede quindi come, evidenziato l’equivoco insito nella partizione, se ne possa trarre argomento utile per negare una effettiva differenza tra interpretazione estensiva e analogia. Per non rimanere schiacciati dalla generale cinesi che queste impostazioni “evolutive” accentuano urge, come si può immaginare, una scelta, che è politica, prima che logica, tra gli stessi metodi interpretativi per evitare di aprire il fianco a quelle che sono state definite lacune metodologiche. “A rigore si può addirittura affermare che ci sono sotto la stessa legge tanti ordinamenti giuridici quanti sono i metodi d’interpretazione”, scriveva Adolf Merkl nel 1916.245 Lacune metodologiche da non confondersi con le lacune applicative, o di ordine operativo come le definisce una sentenza del 1986.246 Le prime sono, infatti, determinate dalla molteplicità dei metodi di interpretazione nel momento in cui si distoglie quest’ultima dal riferimento assiologico. Paradossalmente sono “vuoti” dati da un eccesso di tentativi di colmare i “vuoti” stessi. Il “buco nero”, di nuovo, dell’indifferentismo interpretativo. 245 Cfr. A. MERKL, Allgemeines Verwaltungsrecht (1916), Darmstadt, 1969, p. 181. 246 Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, Comune Augusta c. Società Esso Italiana e altro, in Riv. Amm. R.I., 1986, 779. 100 Totalmente diverse, al contrario, le lacune operative. Queste ultime sarebbero, infatti, quelle situazioni non fronteggiate in modo “adeguato” dalla legge. La definizione, di origine giudiziale,247 trae spunto da un caso di ordinanze di necessità non tipicizzate od ordinarie, cioè extra ordinem che, si stabilisce, non debbono servire a colmare situazioni impreviste ma a far fronte a situazioni - nella fattispecie si trattava di situazioni di pericolo - che non siano state affrontate in modo adeguato. Lumeggia, qui, come si può vedere, una quanto meno ambigua interpretazione strumentale agli scopi dell’interprete, e in ogni caso la necessità di fissare ermeneuticamente? - i confini e i canoni di questa adeguatezza. Se la scelta tra i metodi interpretativi deve essere fatta e, come detto, si tratta di una scelta politica, la contiguità con la politicità che l’”adeguatezza” normativa nasconde è, tuttavia, palese e comprensibile l’ulteriore distinzione delle lacune in proprie e improprie. Già Zitelmann248 aveva adottato questa distinzione; Betti, la riprende249 e sottolinea come le lacune proprie evidenzino una “inavvertita insufficienza della disciplina legale”, quelle improprie una “inadeguatezza e deficienza teleologica”. È chiaro che si apre qui la categoria delle lacune politiche e ideologiche (o extrasistematiche250) e l’interrogativo se l’assenza di norme giuste valga a costituire una lacuna.251 Interrogativi e aperture che si giustificano e si spiegano solo entro una concezione assiologica della stessa interpretazione252 e che involgono tutta la dimensione equitativa della normazione. Un’ultima categoria forse merita di essere menzionata: la possibilità di individuare lacune non soltanto nella legge come testo 247 Cons. giust. amm. Sicilia 28.8.1986 n. 129, cit. E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, su cui amplius infra. 249 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 146 248 ss. 250 Così L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 31. 251 L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori nell’interpretazione, in Jus 1993. 252 Cfr. § 3.2.4. 101 - la Wortlaut tedesca - ma anche nel Wertsystem sovrastante, in quel livello superiore del diritto che è costituito dall’insieme dei giudizi di valore e dal mare magno dei principi.253 Esistono lacune nei principi? Senz’altro ne esistono contraddizioni. Occorrerebbe, però, chiedersi, a questo punto, se la natura dei principi stessi è quella di norma ovvero di fonti di norme. Perchè se si conviene sulla normatività dei principi allora si può anche riconoscere che laddove la norma è generale essa è anche più esposta al rischio di lacune, per tutte le osservazioni che si sono precedentemente fatte. Anzi, si potrebbe sostenere che tanto più la norma è generale, tanto meno è specifica e vicina al caso concreto, tanto più essa si può rivelare lacunosa. Non bisogna dimenticare, però, che ciò può essere vero fino ad un certo punto, perchè anche la norma più specifica può essere lacunosa e, anzi, proprio perchè eccessivamente specifica è più soggetta sia ad obsolescenza che ad inadeguatezza. D’altro canto accordando ai principi la natura di fonti di norme, e non come norme, si potrebbe eludere il problema delle lacune nell’ambito dei principi stessi se si assumono le categorie della lacunosità come costruzioni adatte esclusivamente al fenomeno normativo. Se, tuttavia, si guarda all’ordinamento in chiave storicoevolutiva non si può fare a meno di notare un dinamismo - più lento ma presente - anche nei principi. Pertanto, a considerare le lacune come a qualcosa di inserito in un continuo divenire, non si può non abbozzarne l’esistenza anche entro la sfera dei principi non scritti. Siano cioè norme o fonti di norme è il fenomeno delle lacune ad attagliarsi ad un oggetto in evoluzione e, quindi, ad essere comunque ammissibile e riscontrabile anche nella sfera dei principi. Interessante, a questo proposito, sarà allora valutare l’interazione di tale fenomeno con i rimedi dell’analogia e dell’interpretazione estensiva, tenuto conto del fatto che tradizionalmente per giustificare l’analogia e distinguerla dall’interpretazione estensiva si 253 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 240 ss. 102 è fatto ricorso al criterio del “principio ispiratore”. Ammettendo la prospettabilità di lacune anche nei principi si vede come pure le delineate distinzioni si vadano affievolendo. 103 9.2. In claris non fit interpretatio: (in) attualità di un broccardo 9.2.1. Pretesa chiarezza di un testo. Il “caso deciso” e il “caso dubbio”. Come stabilire quando non esistono dubbi sul contenuto di una norma? Dubbio diagnostico e dubbio assiologico (Betti). La chiarezza come risultato e non come presupposto (Betti). In claris o non, semper fit interpretatio (Perlingieri). La necessità dell’interpretazione estensiva e dell’analogia, oltre che per un problema “sistematico” relativo alle lacune dell’ordinamento, entra in gioco anche di fronte alle questioni relative alla chiarezza o meno del medesimo testo di legge, supposto esistente. Interpretazione estensiva e analogia, dunque, come risposte alle istanze evidenziate dalla presenza di lacune nel significato, lacune di ordine, diremmo così, semantico. Anche di fronte ad un testo poco chiaro, cioè, e proprio perché proprio chiaro, entrerebbe in gioco il procedimento ermeneutico estensivo o analogico. La critica contro il noto brocardo “in claris non fit interpretatio” si è, tuttavia, ben presto avviata proprio a partire dalle indagini sulla presunta chiarezza del testo normativo. Esiste una chiarezza normativa? Da un punto di vista logico nessun linguaggio è in grado di sviluppare autonomamente la propria semantica, necessitando, semmai, di una sorta, di giustificazione logica di quelle regole di linguaggio, di riflessione teoretica che “abbia ad oggetto quel 104 linguaggio e i fatti a cui esso si riferisce”.254 Si rivela, pertanto, solamente naive la pretesa di individuare un testo normativo veramente “chiaro”. L’ellitticità del linguaggio, anche di quello precettivo, risulta essere, dunque, l’omologo sul fronte oggettivo di quella che Betti definiva, sul piano soggettivo, “l’angustia della coscienza”255 da cui partivano e trovavano spiegazione il mutare delle prospettive e la “costante ulteriorità dell’appercezione”.256 Data questa intrinseca plurivocità del linguaggio anche legislativo, allora, più che di problema di “lacune” si dovrebbe parlare di casi dubbi257 e assumere la categoria del dubbio, più che quella di una “mancanza”, come elemento propulsore di ogni interpretazione. Com’è noto sembra seguire parzialmente questo filone del “dubbio” anche la più recente teoria giuridica nord americana, in particolare con gli scritti di Dworkin,258 ove si sostiene essere i principi (ma non è una novità) l’elemento capace di giocare un 254 P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588. Scrive l’autore che “appare sicuramente naive la credenza che le parole stesse possano dirci qual è il loro significato, anche se ovviamente noi non ci accorgiamo solitamente di questa difficoltà perché abbiamo da sempre appreso ad accoppiare certe parole a certi fatti”. 255 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 16. 256 T. GRIFFERO, Elogio dell’incompiutezza. L’eccedenza simbolica nell’ermeneutica di Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994, p. 95, che però sembra declinare il simbolismo oltre le intenzioni di Betti e, comunque, oltre l’usuale: "Solo in questa rappresentazione e mediante essa diventa possibile anche ciò che noi chiamiamo l'esser dato e la presenza del contenuto. Tutto ciò risulta subito e chiaramente se prendiamo in considerazione anche soltanto il caso più semplice di questa «presenza»: la relazione temporale e il «presente» temporale. Nulla sembra essere più sicuro del fatto che tutto ciò che è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si riferisce ad un singolo istante, o a un determinato «ora», ed è in esso racchiuso." Così E. C ASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, vol I, trad. it., Firenze, 1961, p.37 ss. Sul medesimo punto, cfr. G. G ADAMER, Verità e Metodo, trad. it., Milano, 1983, p. 152. 257 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 352. 258 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982. 105 ruolo determinante nelle controversie di dubbia soluzione, detti anche hard cases. Addirittura Dworkin, almeno nell’interpretazione che ne fa Guastini,259 individua le situazioni di dubbio in tre diverse ipotesi: quella delle lacune, quella delle antinomie e, infine, quella della sussistenza di ambiguità intorno all’interpretazione di una disposizione normativa. Storicamente l’interpretazione attinse sempre come fonte ai casi omessi o dubbi: si parlava delle categorie del casus omissus o novus o dubius come situazioni che chiamavano in causa l’interpretatio in mancanza di testi espressi o precisi di legge.260 Il caso dubbio, tuttavia, non si contrapponeva concettualmente al caso “certo”, bensì alla categoria del caso “deciso”, tanto che proprio per risolvere i dubbi nell’interpretazione si ricorreva ai casi decisi, ossia alla categoria del casus legis. Naturale se si pensa che, a causa del divieto imposto al giudice del non liquet, del “giogo del giudicare” cui si trova sottoposto, anche nel dubbio è necessario trovare una soluzione e proporla come “decisa”, più che come “certa”. Paradossale, tuttavia, se si condivide la moderna concezione della legge che è vista non più come posta a “decidere dei casi”, ma piuttosto come diretta a dettare norme che servono, semmai, a decidere dei casi. Porre il caso dubbio come contrapposto al caso deciso - come fa il nostro articolo 12 delle disposizioni preliminari - è retaggio dell’impostazione romanistica che aveva, come noto, carattere prevalentemente casistico. Se è vero, infatti, che il giudice è il legislatore del caso particolare, per cui il caso “deciso” diventa anche, nel momento in cui è deciso, “certo”, non si può non rilevare l’ambiguità della lettera del nostro articolo 12 disp. prel. il quale, appunto, come si vedrà, contrappone la controversia, impossibile ad essere “decisa” con una precisa disposizione, ai rimedi dei “casi simili e delle materie analoghe”, proponendo poi la soluzione dei principi se “il caso rimane ancora dubbio”. Non dice, cioè, esplicitamente “se il caso non è certo”, puntando l’attenzione 259 R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990, p. 132. G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, II, p. 123. 260 106 sull’interpretazione, bensì “se la controversia non può essere decisa”, dimostrando così di avvalersi ancora delle categorie casistiche classiche.261 Stabilire che non esistono dubbi sul contenuto di una norma, allora, che cosa significa? Che esiste un caso simile già deciso o che la norma presenta un “testo chiaro”? La dicotomia deriva dalla concezione, ormai sorpassata, di un linguaggio - anche normativo - chiaro o chiarificabile secondo precisi canoni, e che vedrebbe l’interpretazione entrare in gioco solo nell’area dell’”ambiguità o oscurità dei significati”.262 Concezione superata, come detto, dall’empirica constatazione dell’ellitticità del linguaggio, prima ancora che delle situazioni oggetto di normazione. Ancora qualche autore,263 tuttavia, indugia nel mito della chiarezza a priori della legge ed afferma che si possa considerare chiara “anche una disposizione formulata con parole improprie quando il discorso non faccia sorgere dubbi”. È ancora una volta Betti264 a porre ordine nella materia facendo luce sulle pieghe entro cui rischiava di incepparsi il ragionamento laddove non chiariva quando, effettivamente, si potesse dire che il discorso era in grado di “non far sorgere dubbi”. L’autore spiega, dunque, come l’interprete che “avverta la insufficienza o deficienza della disciplina legislativa rispetto al caso non previsto testualmente, sottoposto a decisione”, sia per ciò stesso condotto a ravvisare in esso un “caso dubbio” ai sensi dell’art. 12 capv. disp. prel. Tuttavia chiarisce subito come non si tratti di un dubbio logico, dato che l’apprezzamento che si richiede all’interprete è la impossibilità di decidere il caso con una “precisa disposizione”, 261 Per approfondimenti in merito alle radici di queste distinzioni è interessante l’analisi dei precedenti storici dell’art. 12. Cfr. § 4.1. 262 R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, 1974, p. 241. 263 Cfr. R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit., p. 244 ss. 264 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione , cit., p. 841. 107 bensì di un dubbio “diagnostico”, “attinente all’incertezza della diagnosi e valutazione giuridica del caso”.265 Un dubbio, come egli lo definisce, “in questo senso non logico ma assiologico”. Betti mette in guardia, dunque, contro quello che definisce “equivoco indotto dal pregiudizio logicistico”,266 quello di scambiare la logica del diritto con la logica formale e di “ridurre il compito dell’interpretazione a un’operazione di sussunzione logicistica somigliante nel suo rigido automatismo alle operazioni aritmetiche”. Abbiamo qui la dichiarazione per tabulas che per l’autore camerte il diritto non può essere ridotto a scienza esatta, partecipando piuttosto della natura “artistica” propria della prassi di tradizione aristotelica. Preme cioè porre l’attenzione su quel prosilo di prudentia che caratterizza l’approccio al diritto, particolarmente sentito nel momento dell’abbeverarsi alle sue fonti, intese come luogo in cui tradizione (dello jus receptum) e novità (del caso concreto) si incontrano.267 Perciò è la stessa varietà di funzioni dell’interpretazione a far variare la consistenza e la valenza dell’interpretato; il fatto che l’interprete sia chiamato non già ad un’operazione di tipo aritmetico ma ad un apprezzamento rispondente ad esigenze assiologiche268 fa cadere in toto la categoria della chiarezza a priori e fa approdare alla 265 E. BETTI, cit., p. 842. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 283. Tale sembra ancora l’orintamento della Cassazione, ove afferma che “All'uopo va ricordato che è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica dev'essere interpretata innanzi tutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico: ciò al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione del legislatore", avendo però cura di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di specifico esame (Cass. 16 ottobre 1975 n. 3359; 13 novembre 1979 n. 5901).” Così Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 7279 del 03/07/91. 267 Per le definizioni diacroniche e sincroniche, rinvio alla felice raffigurazione resa da U. PAGALLO, Alle fonti del diritto, cit., p. 1 e 252. 268 E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 287. 266 108 concezione per cui, di fatto, esistono sempre dubbi sull’interpretazione di una norma. Compito dell’interprete non può concepirsi alla stregua di un mero ruolo di amministratore, che incasella la realtà entro le categorie della legge, anche se è ben lontano dall’eccesso opposto, di assoluto sovrano nel determinare, arbitrariamente, la legge del caso singolo. La ricerca che deve condurre non è, perciò, limitata ad un discorso aritmetico - o geometrico - di rinvenimento della norma che regola il caso così come potrebbe avvenire per una legge fisica o dell’aritmetica. La ricerca dell’interprete deve essere rivolta al dato assiologico, unico elemento in grado di assicurare ad un tempo l’aderenza dell’interpretazione alla realtà - l’adeguatezza -, la possibilità di evoluzione normativa e al tempo stesso una sorta di koiné giuridica e, di conseguenza, sociale. Questa necessità assiologica si manifesta, tuttavia, non solo come principio sussidiario ai criteri di interpretazione da adottare nell’ipotesi di un caso ambiguo: la ricerca assiologica non è il rimedio degli hard cases ma, al contrario, è un apprezzamento insito nel concetto stesso di interpretazione. Ciò significa, però, anche che se cade il “mito” della chiarezza a priori cade anche la distinzione tra gli strumenti interpretativi che proprio su questa base cercava di trovare piede. L’analogia e l’interpretazione estensiva non trovano più ragione della loro differenziazione nell’essere la prima, contrariamente alla seconda, un procedimento che faceva ricorso ad un’ ”ulteriorità” ermeneutica data, forse, da tale apprezzamento assiologico. Stabilito che questo fa parte integrante di ogni interpretazione viene, giocoforza, a cadere anche la possibilità di distinguere gli indicati strumenti interpretativi su tale base. L’uniformità interpretativa che si può riscontrare non si deve confondere con la intrinseca dubbiosità del precetto normativo: essa, semmai, è solo un sintomo di un comune sostrato assiologico, di un “ritrovarsi attorno ai principi”, un indice di maggiore probabilità di avvicinamento ad un ideale “spazio di intesa comune”, ma nulla più. 109 Pertanto è da rigettare come superato e non condivisibile l’antico brocardo in claris non fit interpretatio. In primo luogo perché l’operazione con cui, eventualmente, si determinasse la chiarezza di un testo legislativo per escluderne la necessità interpretativa sarebbe già di per sé un’operazione interpretativa. Come determinare, cioè, che un testo non necessita d’interpretazione se non interpretandolo? In secondo luogo, poi, la chiarezza, come detto,269 non è un presupposto ma, se mai, un risultato del processo interpretativo. Non è la chiarezza, cioè, che determina se un testo va interpretato oppure no, ma è l’interpretazione che tende il più possibile a produrre chiarezza.270 Alcuni orientamenti giurisprudenziali si presentano, tuttavia, come contrari all’impostazione delineata. In particolare si può considerare significativa la pronuncia emessa dalla Pretura di Bologna271 nel 1994 in materia di criteri legali di interpretazione dei contratti. La sentenza esclude l’applicabilità di tali criteri, a partire da quello dell’interpretazione secondo buona fede fino a quello dell’equo contemperamento degli interessi delle parti, qualora il testo da interpretare - nella fattispecie si trattava di un contratto collettivo di lavoro - non presenti “margini di dubbio o di lacune o di incertezza”. Malgrado la sentenza si occupi di interpretazione dei contratti e non strettamente di interpretazione della legge (seppure il C.C.N.L. ha valenza di atto regolamentare, ancorché da interpretarsi secondo i canoni di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile e non secondo l’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale) è significativo il criterio che la ispira, cioè l’esclusione della necessità di interpretare laddove il testo - del contratto, nel caso di specie - non si qualifichi per l’incertezza dell’interpretazione medesima. Significativo è anche il fatto che la sentenza, con questa pronuncia, mirasse ad escludere l’applicabilità, in contrasto con la lettera del contratto scritto da interpretare, di accordi “politici”, collaterali all’accordo formalizzato, che, al contrario, avrebbero 269 Cfr. § 2.1.2 a proposito della completezza. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 286. 271 Pretura Bologna, 6.9.1994, in Orient. giur. lav. 1994, 469. 270 110 potuto permettere un’interpretazione del contratto collettivo totalmente aderente alla reale volontà delle parti. La ragione dell’esclusione è, tuttavia, indicata non nella prevalenza del criterio della letteralità, come di fatto è, ma nell’incapacità degli accordi politici di influire sul contenuto dell’accordo formalizzato e quindi sull’irrilevanza delle circostanze, che pure determinarono l’accordo scritto, ad influire nell’interpretazione del medesimo. Se tali circostanze non sono in grado di incidere sull’interpretazione il testo si presenta, secondo la sentenza, come “chiaro” e, perciò, come autosufficiente rispetto a qualunque necessità interpretativa. Ma, come si può vedere, questa non è che la giustificazione della validità del criterio letterale, presunto come, in sé, capace di escludere qualunque interpretazione. Rigettata questa impostazione per i motivi che si sono evidenziati e, al contrario, ribadita la necessità interpretativa sempre e comunque, non si può, per quanto detto, che concordare con Perlingeri272 concludendo con lui che, dunque, in claris vel non, semper fit interpretatio. 272 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1017. 111 9.3. Mezzi per colmare le lacune secondo prassi 9.3.1. Ipotesi volontaristica. Volontà presunta del legislatore: velleitarietà dell’impostazione in termini volontaristici. La necessità di distinguere tra interpretazione estensiva e analogia come soluzione al problema delle lacune fa seguito, come visto, a quella, precedente, che vede a confronto le lacune, e financo gli stessi testi legislativi, con il processo e la necessità interpretativa medesima. Una volta stabilita la diuturna esigenza di ricorrere, sempre e comunque, all’interpretazione può rimanere spazio per le categorie del dubbio e del “caso deciso” proprio nel tentativo di dipanare il problema di una distinzione tra interpretazione estensiva e analogica. Si è, cioè, talvolta indicata l’interpretazione estensiva come lo strumento in grado di risolvere i casi dubbi lavorando, si potrebbe dire, proprio a partire dalla loro intrinseca “dubbiosità”, ossia ricercando gli strumenti per la loro soluzione all’interno della stessa attività interpretativa. Al contrario si è cercato di delineare il ricorso all’analogia come ricerca di altri “casi decisi” da affiancare e utilizzare per risolvere gli stessi “casi dubbi”, come ricorso non all’interpretazione ma all’applicazione che dell’interpretazione si è fatta. Alla base di questi tentativi e della possibilità di accoglierli o meno, sta, come si può vedere, una scelta d’impostazione che concerne il processo interpretativo in sé, e raffigura l’interprete alle prese con il testo normativo in una mano e la realtà nell’altra. Per stabilire come l’interprete debba muoversi in questa condizione, se debba - per restare nella metafora - allargare la mano 112 del testo fino a farla coincidere il più possibile con quella della realtà ovvero ricorrere a una terza mano, contenente un altro testo, è necessario comprendere non solo perché le due “mani” non coincidano, il che si è cercato di spiegare finora, ma anche con quale mezzo avvicinare una “mano” all’altra.273 L’ipotesi tradizionale più remota, in materia, è quella cosiddetta “volontaristica”. Ciò che l’interprete deve fare, per tentare il più possibile la coincidenza tra la realtà e il testo, è ricorrere alla ricerca della volontà del legislatore, è, anzi, tentare di immedesimarsi egli stesso nell’ipotetico “legislatore” operando, appunto, nell’interpretare “come se” fosse il legislatore. È la famosa immagine del giudice come la “bouche de la loi”274 e del giudice “come se fosse il legislatore” di tante disposizioni normative sull’interpretazione, la più famosa delle quali forse resta l’art. 1 del codice civile svizzero.275 Carnelutti sembra indugiare in questa impostazione quando si sofferma, analizzando il problema dell’ ”intenzione del legislatore” sul rapporto tra questa intenzione e la dichiarazione normativa. “In quanto attraverso l’indagine dell’intenzione del dichiarante il pensato, anche se non dichiarato, vale come dichiarato, la legge risolve il problema della divergenza tra il fine e l’evento nella dichiarazione facendo prevalere il fine sull’evento”276 scrive l’autore, facendo riferimento alla necessità di ricercare la volontà normativa al di là della lettera della legge. Si tenga, poi, presente che tutti i criteri ermeneutici tradizionali, tranne il criterio teleologico che si propone di indagare quale sarebbe dovuta essere la volontà del legislatore tenendone presenti gli obiettivi, fanno riferimento a tale “volontà del 273 Cfr. anche S. ARMELLINI, Le due due mani della Giustizia, Torino, 1996. 274 L’espressione risale al barone di La Brède, CH. L. DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, L’Esprit des lois, Paris, 1748,. “I giudici della nazione sono soltanto [...] la bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che non possono regolarne né la forza né la severità”. 275 Sul quale si veda infra §. 4.1. 276 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 86 ss. 113 legislatore” in ossequio ai principi cardine del positivismo. Il richiamo, però, ad un “pensato” rimanda all’idea di un legislatore che lo pensi, e quindi avvicina il rischio di rincorrere la finzione della volontà presunta anche su questo fronte. Distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia sulla base di un’ipotesi volontaristica significa ricorrere a questa finzione e ritenere che nell’analogia si tratti di disciplinare il caso non previsto “come se” fosse stato previsto dal legislatore, mentre nell’interpretazione estensiva il caso sia stato, seppure implicitamente, previsto.277 Tuttavia la dottrina, primo fra tutti Bobbio,278 individua le aporie insite nella costruzione volontaristica, segnalandone l’artificiosità. La volontà presunta, infatti, sarebbe, in realtà, un’interpretazione correttiva dato che trasformerebbe la volontà del legislatore in volontà razionale. Questo, almeno, con l’utilizzo del criterio teleologico, volto a ricercare non tanto una volontà in quanto tale ma una volontà, appunto, secondo i criteri della razionalità. Peraltro, così facendo si finirebbe per esautorare la stessa volontà sovrana del legislatore e con essa lo stesso principio di sovranità (il che potrebbe non essere un male). Se dunque l’interprete ricerca legittimazione all’estensione analogica attraverso il ricorso alla volontà presunta cade in errore perché “non è dalla presunzione della volontà favorevole che si deduce la possibilità dell’estensione analogica”, ma è, viceversa, “dalla constatazione della possibilità dell’estensione che si presume una volontà favorevole”.279 Un colpo deciso alla teoria volontaristica è sferrato da Betti che, premettendo come compito dell’interprete sia di “rendere esplicito il senso della legge” mette in guardia contro il pregiudizio psicologistico che induce a raffigurare il legislatore come un uomo reale e contro una distorta concezione del dogma dell’oggettività. Se, infatti, si spersonalizza la volontà presunta di legge, riducendola 277 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 278 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 113. 279 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit. 114 a cristallizzazione vagheggiante l’oggettivo, la si impoverisce ad una “ipostasi o finzione di una “volontà collettiva” che, ove si concepisca come qualcosa di parallelo alla volontà individuale [...] non trova riscontro nella realtà sociale più di quanto vi trovi riscontro una “coscienza collettiva””.280 Betti non nega l’esistenza di una “volontà del legislatore”, ma sotto questa categoria egli individua, così come nella volonté générale di Rousseau,281 una espressione di comodo che ricomprende “l’insieme di quegli interessi della comunità, che nella legge hanno trovato protezione e quindi vanno dall’interprete tenuti presenti”.282 Betti ricorda come Rousseau postuli una volonté générale contrapposta alla volonté de tous, intendendo con quella espressione un orientamento normativo di carattere deontologico che “est toujours droite et tend toujours à l’utilité publique” e tale che “ne regarde qu’à l’interêt commun”.283 Il fatto che, poi, rende generale la volontà non è tanto il numero dei voti ottenuti dalla “consultazione del popolo” ma “l’interesse che li unisce”. 284 È la categoria dell’ ”interesse comune” a caratterizzare tanto la volontà generale quanto la sedicente “volontà del legislatore”, ed è proprio verso questa “tensione virtuale al bene comune”285 che si dovrà dirigere la stessa interpretazione. Dal punto di vista della giurisprudenza alcune sentenze “storiche”, come quella della Cassazione del 1949286 commentata dallo stesso Bobbio, hanno negato alla presunzione della volontà del 280 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 263. Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3; E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 263. 282 E. BETTI, Interpretazione della legge, cit., p. 264. 281 283 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Contrat social, II, cap. 3, su cui F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984, pp. 138 e ss. 284 Ancora J.J. ROUSSEAU, Contrat cit., II, 4. 285 F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed, Milano, 1984, p. 139, ove viene smascherata l’artificio dell’artificiosa equazione tra volontà generale e volontà della maggioranza, intesa sempre retta “per definizione”. 286 Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229232. 115 legislatore legittimità a costituire il fondamento dell’analogia. “Fondamento dell’analogia non è la presunzione della volontà del legislatore, bensì il principio della uguaglianza giuridica”,287 stabilisce la sentenza. Tuttavia una sentenza di poco precedente288 parlava di “necessità che determina la volontà della legge” come l’elemento in grado di interpretare in ogni tempo il testo legislativo, per mezzo del pensiero del suo autore, nell’ordinamento di cui la norma fa parte, dimostrando di andare, con l’escamotàge della ricerca della “necessità causale”, ad individuare di nuovo il “pensiero del legislatore”. Interessante nella sentenza in questione è, tuttavia, il fatto che fa coesistere anche un’altra affermazione: la legge, infatti, si deve interpretare “secondo l’intenzione del legislatore attuale, e non di quello del tempo in cui fu emanata”,289 sistema che assicurerebbe un costante “adattamento” della norma medesima. Volontà, quindi, che coincide, a seconda dell’interpretazione che se ne dà, con gli intenti del legislatore emanante, ovvero con la necessità di disciplina del legislatore attuale. Anche di recente per giustificare, invece, l’interpretazione estensiva si fa riferimento alla volontà del legislatore: ora sostenendo che questi “minus dixit quam voluit”,290 ora segnalando questa estensione come necessità di coprire le lacune avendo riguardo al disegno globale della legge, “ai suoi criteri ispiratori ed alle sue implicazioni necessarie, tenendo conto non solo di ciò che il legislatore ha voluto affermare, dicendolo, ma anche di ciò che ha inteso escludere, tacendo”.291 Queste incertezze della giurisprudenza non valgono, tuttavia, a fondare l’ipotesi volontaristica: la distinzione tra interpretazione estensiva e analogia non può essere costruita sulla base della distinzione tra volontà del legislatore e volontà presunta né di quella 287 Cassazione civile, II sez., 14.7.1949, cit., p. 230. Cassazione civile, S.U., 25.6.1949 n. 1592 in Foro it., 1949, I, 801-805. 289 Cassazione civile, S.U., 25.6.1949, cit., p. 803. 290 Cfr. Cons. Stato sez. IV, 4.7.1978 n. 701 in Cons. Stato 1978, I, 1047. 291 Così T.A.R. Campania 11.6.1980 n. 445 in Foro amm. 1980, I, 2009 e Cons. giust. amm. Sicilia 26.7.1986 n. 109 in Cons. Stato 1986, I, 1046. 288 116 tra volontà della legge e volontà del legislatore.292 In tutti questi tentativi, infatti, si nasconde il tentativo di mascherare l’arbitrio dell’interprete o la sua normale attività integrativo-creativa. Tutto ciò detto e ricordando che alcuni hanno perfino sarcasticamente sostenuto che la norma legislativa comincia ad esistere quando non c’è più nessuna volontà,293 si deve concludere per la velleitarietà dell’ipotesi volontaristica e nella inutilità ed equivocità294 delle sue conclusioni. 292 M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civile, 1954, p. 630. 293 H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. di R. Treves, Milano, 1952, p. 34. 294 M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 631. Implicitamente anche la giurisprudenza, ove afferma “La Corte napoletana ha correttamente evidenziato che, ove al divieto regolamentare di costruire in una determinata zona si dovesse sostituire, nei rapporti tra privati confinanti, l'obbligo di osservare le distanze prescritte dallo stesso strumento urbanistico per altre zone, si verrebbe quasi a legittimare, mediante il semplice arretramento della costruzione alla distanza "analogicamente" applicata, un'opera edilizia che in quella zona non dovrebbe affatto esistere. A monte di tale considerazione, però, vi è la giuridica impossibilità del ricorso all'analogia in un caso come quello che ci occupa. L'art. 12 delle Preleggi, infatti, conseguente l'applicazione analogica solo "se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione", cioè allorquando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativi altrimenti incolmabile in sede giudiziaria, il che non è affatto riscontrabile nell'ipotesi in esame. Per rendersene conto basta osservare che la mancanza, in uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei rapporti di vicinato, fa sì che resti applicabile ad essi la disciplina dettata dagli artt. 873 e segg. del codice civile, con la conseguenza che, in caso di violazione del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha diritto, ai sensi dell'art. 872 dello stesso codice, di esserne risarcito ma non può pretendere la riduzione in pristino ove non risulti contemporaneamente trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste da dette norme codicistiche, sempre, beninteso, che non sia intervenuta con la controparte, come nel caso di specie, una deroga pattizia alle medesime (trattandosi senza dubbio di norme derogabili).” Così Cassazione Civile, Sez. II, n. 4754 del 29/04/95. 117 9.3.2. Ipotesi logicistica; diversità di struttura logica e di natura giuridica (impostazione del problema e rinvio). Respinta l’ipotesi volontaristica la dottrina si è rivolta a quella che è stata definita ipotesi logicistica o normativistica.295 La teoria che poneva l’accento sulla volontà del legislatore o nella legge era stata oggetto di critiche, per la verità, proprio a partire da un discorso logicistico: si sosteneva, infatti, che essa non consentiva la costruzione scientifica in quanto ne negava, in pieno dogma positivistico, il presupposto, cioè l’intima razionalità del sistema positivo.296 L’ipotesi logicistica, allora, si affacciò di fronte all’esigenza di distinguere tra un’attività “normale” di interpretazione e una attività che in dottrina si tese sempre più a identificare come attività di “integrazione del diritto”297: processi propedeutici alla differenziazione tra l’interpretazione estensiva e l’analogia. Vi si affacciò per distinguere sostenendo che “vi sarebbero casi logicamente compresi dalla norma, oppure casi non compresi, ma simili, e quindi da regolare in base alla stessa norma.”298 Si è già fatto cenno all’insistenza sulla dimensione logica del ricorso all’analogia299. Tuttavia in questa impostazione lascia il 295 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 296 Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 116; M. BOSCARELLI, L’analogia giuridica, cit., p. 633. 297 L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353. 298 L. CAIANI, voce Analogia, cit., p. 353. 299 Per tutti Bobbio, la cui opera sull’analogia porta già nel titolo l’inquadramento della trattazione entro un discorso logico. Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit. Caiani ne fa una critica in L. CAIANI, voce Analogia, cit., con argomenti non dissimili da quelli della critica giusliberista, almeno nell’interpretazione che ne dà Lombardi Vallauri. Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 285 nota 262. 118 sospetto di una “insufficiente discriminazione”300 tra il punto in cui la logica finisce e la chiarificazione di quale genere di “non logica” ivi comincia. La critica giusliberista, poi, ha proseguito scagliandosi contro l’analogia come la più importante risorsa della logica giuridica ed evidenziando come da un lato essa non sia una pura trasformazione logica della legge, neppure quando intende esserlo in tutta la misura del possibile, dall’altro come l’analogia non debba assegnarsi come primo scopo di essere il più logica possibile. L’ipotesi logicistica si rivela, per la verità, una “seducente idea”301 e così il fatto che l’analogia possa riposare sull’“intima consequenzialità del diritto”. Consequenzialità, però, non sempre meramente logica, bensì, come la definì Savigny,302 “organica”.303 In questo contesto il tentativo di fare chiarezza sulla distinzione tra interpretazione e integrazione, e poi tra interpretazione estensiva e analogia, è stato condotto attraverso il riferimento ad una diversità di struttura logica. Da un lato si è, così, sottolineato il rimanere - con l’interpretazione, e con quella estensiva - nell’ambito della norma, senza discostarsi da essa, dall’altro ci si è riferiti - con l’integrazione, e con l’analogia - al ricorso ad un elemento che esce dalla portata della norma e, anzi, introduce in essa significati che, altrimenti, non sarebbero stati ricavati per sola via d’interpretazione. A questo genere di distinzione è conseguita l’analisi sulla diversità della natura giuridica dei rispettivi risultati.304 Da un lato, quindi, l’indagine si è spostata sul piano della distinzione tra la dichiaratività e l’integratività dell’interpretazione, dall’altro sul fronte 300 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 285. 301 La definizione è di F. GENY, Méthodes d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, Sirey, 1919, I, pp. 118-122. 302 C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), Rist. Aalen, Scientia, 1973, I, 292, citato anche da L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, (1987), p. 320 ss., nota 29. 303 Cfr.L. GIANFORMAGGIO, op. ult. cit. 304 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 119 dell’esistenza o meno di una norma sovraordinata che giustifichi i diversi risultati interpretativi. Su tali analisi, tuttavia, si soffermeranno i capitoli seguenti. 120 9.3.3. Analogia e ricorso ai principi non valgono a escludere l’incompletezza dell’ordinamento giuridico. Necessità di soffermarsi sulla funzione, prima che sulla struttura di interpretazione estensiva e analogia. Funzione dell’analogia è colmare le lacune? Equivoco: definire l’analogia per la sua funzione e non per la sua essenza. Come si è potuto constatare nei paragrafi precedenti i processi interpretativi che fanno capo all’analogia e all’interpretazione estensiva, ammettendo che siano due procedimenti diversi, non valgono ad escludere l’incompletezza dell’ordinamento giuridico. Già Savigny, del resto, pur con presupposti diversi, aveva escluso la relazione tra questi strumenti interpretativi e la completezza. “L’interpretazione estensiva e restrittiva non hanno a che fare con la completezza dell’ordinamento giuridico, ma si riferiscono solo alla inesattezza delle leggi singole, consistente nel contrasto tra pensiero ed espressione”.305 Sembrerebbe, qui, addirittura, ipotizzare una sorta di “errore ostativo” del legislatore, vizio sanabile mediante la ricostruzione, per via, appunto, d’interpretazione, dell’esattezza di questo rapporto pensiero-espressione. Nemmeno il ricorso ai principi, d’altro canto, vale ad escludere questa postulata incompletezza, se si concorda con l’idea enunciata che sia possibile la presenza di “lacune” anche nei principi, oltre che nelle norme scritte.306 Se dunque la funzione dei processi interpretativi in questione non è quella di colmare l’incompletezza dell’ordinamento giuridico, si rende necessario soffermarsi proprio sulla funzione degli stessi. Il 305 C.F. von SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts (1840), rit. Aalen, 1973, citato anche da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 113. 306 Vedi supra, § 2.1.3. 121 fatto che si sia ventilata una impostazione logicistica fa presupporre che affrontare la questione dell’interpretazione estensiva e dell’analogia come problemi di logica significhi anche fare ricorso ad un’analisi sulla loro struttura. Si può concordare sul fatto che non si possa affrontare il discorso se non lo si inquadra, come già si è cercato di fare, in un’ottica di teoria generale del diritto e, quindi, andando ad indagare, prima ancora che sulla struttura, sulla funzione dei processi interpretativi in discussione. 307 “Qual è la funzione dell’analogia? Essa è uno dei mezzi adoperati dal giudice allo scopo di colmare le lacune della legislazione”,308 scrive Bobbio. In effetti questa impostazione è seguita dalla giurisprudenza che, in numerose sentenze ha dato prova di avere fatto proprio il concetto del mette in relazione lacune e analogia in un rapporto di funzione a strumento. Una sentenza recente della Cassazione mette in chiaro come il ricorso all’analogia sia consentito “dall’articolo 12 delle preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria”.309 Dieci anni prima la Cassazione aveva indicato come, nel caso di lacune, si dovesse procedere ad un’opera di “ricostruzione” della disciplina della materia insufficientemente regolamentata ricorrendo, ove necessario, come ultimo strumento, all’analogia.310 Il problema che si pone, ovviamente, è però quello di determinare quando una materia possa dirsi insufficientemente regolamentata, con quali criteri decidere che c’è o meno un “vuoto normativo” e, infine, a chi affidare - al legislatore o all’interprete? il compito di fare questo discernimento. 307 In adesione alla posizione di M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 627. 308 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, p. 604. 309 Cassazione civile sez. II, 28.4.1995, n. 4754, in Giust. civ. Mass. 1995, 925. 310 Cassazione civile, sez. lav., 4.2.1985 n. 731, in Giust. civ. Mass. 1985, fasc. 2. 122 In senso conforme, ma con un ragionamento a contrariis è anche la sentenza del 1994 che preclude il ricorso all’analogia in assenza di “una qualsivoglia lacuna dell’ordinamento”.311 Si sofferma, invece, ad analizzare la struttura logica dell’analogia la sentenza del T.A.R. del Molise che ammette il ricorso all’analogia “nelle ipotesi delle cosiddette lacune dell’ordinamento” quando, “innanzitutto, sussista un rapporto di similarità tra alcuni elementi della fattispecie regolata ed alcuni elementi di quella non regolata e ricorra, inoltre, una identità di ratio”.312 Decisamente significativa, infine, è la sentenza della Cassazione del 1994 in cui, definitivamente, si mettono sul piatto, come elemento di negazione dell’applicabilità in via analogica delle norme sul fideiussore al terzo datore di ipoteca, da un lato le “diversità funzionali e strutturali” della fideiussione, dall’altro la “completezza della disciplina legislativa della prestazione di ipoteca da parte del terzo che non lascia spazio a lacune di sorta”.313 L’equivoco insito nel costante collegamento tra il problema delle lacune e la soluzione dell’analogia è, tuttavia, delineato dallo stesso Bobbio: “definire l’analogia per il suo scopo (colmare le lacune), ma non per la sua essenza”,314 per cui si finisce per sapere benissimo a che cosa serva l’analogia senza, tuttavia, sapere che cosa sia. 315 Alcuni autori per negare l’identificazione tra interpretazione estensiva e analogia si sono riferiti al procedimento analogico come a un “vero e proprio mezzo di integrazione delle norme legali”, giungendo a rifiutare l’idea che l’analogia possa considerarsi una forma di interpretazione.316 311 Cassazione civile sez. II, 14.12.1994, n. 10699. T.A.R. Molise 6.12.1982 n. 217, in T.A.R. 1983, I, 655. 313 Cassazione civile sez. III, 6.5.1994, n. 4420, in Notariato, 1995, 18 nota Gradassi. 314 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, capitolo VI.. 315 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., pp. 790 e ss. 316 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p.85. 312 123 Sarà dunque necessario tenere presenti le interazioni cui si accennava ed evitare l’equivoco cui si riferiva Bobbio.317 Autore che, peraltro, nega l’esistenza di una differenza tra interpretazione estensiva e analogia,318 evidenziando come il tentativo di distinguere si basi su un’errata comparazione di due punti di vista diversi: da un lato la volontà del legislatore - nell’interpretazione estensiva - guarda al fondamento interpretativo, dall’altro la somiglianza dei casi - nell’analogia - si riferisce, invece, al procedimento interpretativo medesimo. “Il giudizio che si avvale dell’analogia non crea la norma giuridica”, ha affermato la Suprema Corte;319 tuttavia, nonostante il sostanziale accordo, vi sono state alcune correnti dottrinali propense a far rientrare l’analogia puramente e semplicemente nell’interpretazione propriamente detta, e altre propense, invece, a distinguere l’analogia dall’interpretazione per la caratteristica di essere integrazione delle norme giuridiche.320 Si tenterà, perciò, attraverso l’analisi del problema della integratività e della creatività dell’interpretazione,321 di dare una risposta al problema in oggetto. 317 318 Vedi supra all’inizio del paragrafo. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p II, cap. IV. 319 Cassazione civile, II sez., 14.7.1949 n. 1801, in Giur. it. 1951, I, I, 229232, p. 231. 320 Cfr. N. BOBBIO, nota a sent. Cassazione civile sez. II, 14.7.1949 n. 1801, in Giur. it. 1951, I, I, p. 231. 321 Cfr. capitolo 3. 124 10. TENTATIVI DI DISTINGUERE INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA IN BASE ALLA FUNZIONE: IL PROBLEMA DELLA DICHIARATIVITÀ - CREATIVITÀ 10.1. Interpretazione e linguaggio: continuità e differenze 10.1.1. L’interpretazione estensiva tenderebbe ad allargare l’area di significanza dei termini senza superare il limite della zona di incertezza.; l’analogia consentirebbe di applicare una norma a una fattispecie non prevista uscendo dalla norma. (Rinvio). Necessità logica dell’interpretazione estensiva, non similitudine di rapporti. Superamento tramite concezione della struttura aperta del linguaggio e ragionamento di “tipo analogico” del giudice. Si è già approfondito l’argomento del carattere intrinsecamente ellittico del linguaggio e in particolare delle implicazioni sul linguaggio normativo. Taluno individua il nodo problematico centrale dell’intera teoria ermeneutica nel “gioco della logica di domanda e risposta” che c’è nella relazione dialettica tra l’interprete e il testo normativo, e delinea la necessità di soffermarsi sulle implicazioni che l’uso di un particolare medium linguistico ha sulla stessa conoscenza del reale.322 Non è il caso di soffermarsi in questa sede sugli spazi che gli interrogativi posti da un’analisi in termini di filosofia del linguaggio aprirebbe. Basterà accennare, ai fini della trattazione, all’interrogativo che è stato posto da 322 G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 330. 125 Francesco Cavalla:323 l’orizzonte storico in cui si situa il linguaggio è invalicabile dal linguaggio stesso? Che, tradotto in ambiente giuridico, può suonare come un interrogativo sui confini evolutivi di una semantica normativa. Il problema del rapporto tra interpretazione e linguaggio non è peregrino. La stessa necessità interpretativa, infatti, è sovente stata intesa come una insufficienza del linguaggio normativo o come la necessità di una evoluzione semantica. L’enfasi sulla vaghezza324 e indeterminatezza del linguaggio normativo, a fronte dell’evocata fecondità della prassi applicativa è una testimonianza di questo approccio, da taluni definito “altamente povero al diritto”.325 Di avviso totalmente contrario sembra essere una importante sentenza del 1991, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione,326 che individua come ogni termine linguistico, cioè ogni parola, adoperato nell’enunciazione di una norma sia fornito di un’”area di significanza” (o “campo di riferimento”) in cui attorno ad un “nucleo” centrale, più o meno consolidato, si estende una “zona di indeterminazione” (o “di incertezza”) più o meno vasta”. È la stessa struttura linguistica della norma, pertanto, secondo questa impostazione, a caratterizzarsi per tale zona di indeterminazione semantica attorno ad un nucleo - semantico - forte. È evidente come la sentenza sia venuta qui recependo le moderne posizioni non solo in merito alla struttura aperta del linguaggio, ma anche in merito all’ipotizzabilità di un ragionamento giuridico a “logica sfumata”, che tenga, cioè, conto delle zone d’ombra attorno al linguaggio normativo e che collochi in quest’area il discorso sull’interpretazione estensiva e l’analogia.327 Dall’interno di questa impostazione la sentenza prosegue tentando di delineare una differenziazione tra interpretazione 323 F. CAVALLA, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Padova, 1996, p. 7. 324 M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 61. 325 Così M. BARCELLONA, ibidem. 326 Cassazione penale, V sez., 3.7.1991, in Foro it., 1992, II, 146. 327 Per ulteriori approfondimenti cfr. cap. 7. 126 estensiva e analogia. L’interpretazione estensiva sarebbe quella che “tende ad allargare il campo di riferimento” del termine o dell’espressione del testo normativo “fino a ricomprendervi “oggetti” che ricadono nella fascia più sfumata della zona di indeterminazione”.328 L’analogia, invece, applicandosi a fattispecie diverse, ma congruenti con quella di partenza in alcuni aspetti ritenuti essenziali, si avrebbe quando l’identità di ratio fa ricadere entrambe le fattispecie nella stessa “area di similarità”.329 Sarebbe proprio la contrapposizione tra ambito dell’”area di significanza” e ambito della “area di similarità” a differenziare l’interpretazione estensiva dall’analogia. Andando oltre la mera distinzione linguistica, tuttavia, e scendendo ad analizzare in che cosa consista questa estensione dall’interno o all’esterno di questo nucleo forte della norma, emerge un tentativo di distinzione piuttosto antico. Infatti poco oltre la differenziazione sul piano semantico dell’interpretazione estensiva e dell’analogia si legge nella sentenza che il primo procedimento sarebbe “pur sempre legato al testo della norma esistente”, mentre il secondo sarebbe “creativo di una norma nuova che prima non esisteva”.330 Questo non solo spiegherebbe l’inapplicabilità del procedimento analogico alle leggi penali, causa il divieto del nulla poena sine lege sancito dall’articolo 1 c.p. e dall’articolo 25 della Costituzione: un procedimento qualificantesi come “creativo” di una norma nuova diverso dal procedimento legislativo non potrebbe, infatti, che infrangersi contro la previsione del citato divieto. Tale impostazione segna anche il ritorno alle vecchie impostazioni che tentavano di distinguere sulla base dell’approccio dichiarativo o creativo l’interpretazione estensiva dall’analogia, registrando un allontanamento dagli spunti che l’analisi semantica sembrava avere aperto. In conclusione, pur ricorrendo all’impostazione semantica, non ci si discosta dall’intendere l’interpretazione estensiva come un rimanere nell’ambito della norma pur se dilatata fino al limite della 328 Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem. Così Cassazione penale 3.7.1991, ibidem. 330 Cfr. Cassazione penale 3.7.1991, ibidem. 329 127 sua massima espansione linguistica, e l’analogia, al contrario, come un uscire dalla norma per l’impossibilità di ricomprendere il caso dentro la norma, per quanto se ne allarghi il significato fino alla sua massima estensione.331 Il problema, tuttavia, sta proprio qui, cioè nel determinare quando, effettivamente, si possa dire che il significato di una norma sia stato esteso fino alla sua massima espansione; di come, cioè, si fissi il criterio in base a cui “ragionevolmente” un significato si debba catalogare come eccedente rispetto alla “area di significanza” della norma. Alcuni autori332 hanno, su questa scia, distinto altrimenti il ricorso all’interpretazione estensiva da quello all’analogia. Il primo sarebbe dettato dalla “necessità logica” di evitare gli effetti assurdi derivanti dall’assumere i termini linguistici contenuti nelle norme nella loro accezione più ristretta, mentre il secondo procederebbe per “similitudine di rapporti”, creando, così, norme nuove. Per quanto, però, si parli di “necessità” e di “similitudine” non si riesce a delineare un criterio preciso di distinzione tra i due procedimenti, o meglio, di determinazione del confine tra l’uno e l’altro. A ben guardare, però, quella che il giudice o comunque l’interprete fanno nel collocare il caso entro la presunta “area di significanza” ovvero nella “area di similarità” della norma non è altro che un’operazione ermeneutica, dato che si risolve in un “interpretare come è opportuno interpretare” il caso al fine di attribuirgliene la regolamentazione. Operazione ermeneutica che, però, si avvale di un ragionamento “di tipo analogico”,333 fondato su “coincidenze e sovrapposizioni, o divergenze e sfasature” tra il caso 331 Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p.85; M. BOSCARELLI, Analogia e interpretazione estensiva nel diritto penale, Palermo, 1955, p. 68 ss. 332 Così V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1982, I, p. 344. 333 Cfr. G. FINADACA- E. MUSCO, Diritto penale, Bologna, p. 103. 128 da giudicare e quelli che sicuramente si possono far rientrare nella norma.334 Ma allora, se quello che l’interprete deve svolgere è un compito ermeneutico che si avvale di un ragionamento di tipo analogico, è facile vedere come anche il procedimento di interpretazione estensiva e quello dell’analogia, in realtà, vadano coincidendo. E, sulla base di un comune operare “logico” nella struttura aperta del linguaggio - anche normativo - sembrerebbe, dunque, ben difficile individuare una netta linea di confine tra i due procedimenti. 334 Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987, I, p. 45. 129 10.2. Interpretazione patologia ermeneutica e creazione: fisiologia e 10.2.1. Insostenibilità di una distinzione qualitativa tra integrazione e interpretazione sulla base dell’antitesi creatività/dichiaratività. Analogia e interpretazione estensiva come processo sostanzialmente unitario. Impossibilità di stabilire un confine tra integrazione e interpretazione naturale e fondamentale. Respinta l’ipotesi “quantitativa” come discretiva dei procedimenti di interpretazione estensiva e di analogia, quella, cioè, facente capo ad un criterio “fondato sulla maggiore o minore ampiezza dell’ipotesi normativa implicita nella norma da interpretare o estendere”,335 riferita, dunque, all’intrinseca struttura del linguaggio normativo - come illustrato nel paragrafo precedente - si affaccia in dottrina quella che è stata definita come la “distinzione qualitativa”336 che vede contrapposte, in modo paradigmatico ai processi di interpretazione estensiva e analogia, la funzione prettamente interpretativa a quella più propriamente integrativa dei precetti normativi. Si è così giunti a parlare di una sorta di antitesi tra interpretazione in funzione “dichiarativa” e interpretazione in funzione “creativa”, riconoscendo che, se pure fosse possibile negare ogni distinzione tra la struttura logica dei processi di interpretazione estensiva e analogia, non sarebbe, nondimeno, possibile negarne una distinzione sulla base della 335 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 336 Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 130 rispettiva funzione. E questo potrebbe essere un argomento a favore della tesi che vogliamo sostenere. Tuttavia, i punti di attrito che la detta partizione offre sono almeno due. Da un lato si rende, comunque, necessario esplicitare il confine tra la dichiaratività e la creatività del processo interpretativo: quando l’interpretazione finisce di essere dichiarativa e comincia, invece, a qualificarsi come creativa? Non si pensi che questa sia una questione meramente classificatoria: dalla scelta che si fa - per il carattere di creatività ovvero di dichiaratività - in merito ad un’interpretazione discende, secondo questa impostazione, l’ammissibilità o meno di tale procedimento. Basti pensare al campo penalistico dove decidere se una certa interpretazione è creativa o meramente dichiarativa diventa non soltanto un fattore di qualificazione, ma legittimante quella medesima interpretazione. D’altro canto, un ulteriore punto debole della partizione delineata è costituito dalla necessità di individuare e di intendersi sul significato di quella che viene classificata come funzione “dichiarativa” e, per contro, dell’attività più propriamente “creativa”. Dare ad un’applicazione analogica il carattere di interpretazione ovvero di creazione si qualifica ben presto, in realtà, come una “questione meramente verbale”, come la definiscono sia Bobbio337 che Caiani.338 Infatti confinare un’interpretazione in un ambito puramente dichiarativo significa disconoscere il carattere stesso dell’interpretazione così come si è venuta delineando finora, operante entro una “attività spirituale obbiettivata in una forma rappresentativa”,339 quale è la norma interpretanda, e mai passibile, invece, di essere ridotta a mera recezione di un contenuto obbiettivato. 337 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p. 604. 338 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354. 339 Così L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 131 Anche Antolisei espunge dalla sua partizione dell’interpretazione “rispetto ai risultati” quella che identifica come interpretazione dichiarativa - contrapponendola all’interpretazione restrittiva o estensiva - ma con una motivazione che, in realtà, prova troppo. L’interpretazione dichiarativa può essere eliminata come categoria, egli scrive, perché “l’interpretazione è sempre dichiarativa, in quanto il suo scopo essenziale è di spiegare e, quindi, dichiarare il senso della legge”.340 È chiaro che l’operazione concettuale sottesa a queste due impostazioni, pur se diretta in entrambi i casi a espungere dall’orizzonte ermeneutico la categoria della dichiaratività, procede per vie decisamente antitetiche. Nell’impostazione di Antolisei, infatti, si nega l’antitesi tra dichiarazione e creazione sostenendo che l’antitesi non sussiste, dato che l’interpretazione è per definizione dichiarativa. Nell’impostazione di Caiani, invece, si nega la stessa antitesi affermando che l’interpretazione non può mai ridursi a mera dichiarazione, essendo contenuta in ogni attività interpretativa una componente creativa data da quella che definisce la “collaborazione simpatetica”341 dell’interprete secondo i canoni di “attualità dell’intendere” e di “spiritualità dell’interprete” come insegnano le categorie bettiane.342 Sulla base di quanto si è venuto sostenendo nei capitoli precedenti non si può che aderire a questa seconda impostazione. Emerge, dunque, la velleitarietà della distinzione “qualitativa” tra interpretazione estensiva ed analogia sulla base della funzione dichiarativa ovvero integrativa dell’interpretazione medesima proprio perché viene a mancare la stessa categoria della “dichiarazione”. Si fa strada, al contrario, l’impostazione che riconosce in quella che si era delineata come un’antitesi - tra interpretazione e integrazione, tra dichiarazione e creazione - un 340 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p. 76. 341 L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 342 Cfr. E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 10 ss.. Per l’approfondimento delle tesi di Betti sull’integratività e creatività dell’interpretazione vedi infra. 132 processo “fondamentalmente unitario”343 che non segna un confine tra dove inizia la creazione e dove finisce la dichiarazione proprio in virtù del fatto che “la stessa interpretazione è in questo senso sempre integrazione del diritto”.344 Con queste precisazioni anche l’altro aspetto sottolineato, quello della definizione di che cosa significhi, effettivamente, fare attività di creazione, assume un connotato più preciso. “Se s’intende “interpretazione” in senso ristretto, come mera ricognizione del significato di una disposizione legislativa, si dirà che estendendo la portata di una disposizione [...] non si compie opera d’interpretazione, ma di creazione. Allo stesso modo, se s’intende “creazione” in senso ristretto come produzione originale e originaria di una norma giuridica, si dovrà dire che l’analogia non è creazione perché giunge al proprio risultato partendo da una norma precedentemente data”.345 Le parole di Bobbio esprimono in maniera assai efficace come questa distinzione non sia che “meramente verbale”, come detto, e come si riveli determinante chiarire quale estensione assuma la stessa definizione di “creazione” in ambito interpretativo per uscire dal circolo vizioso. Se l’attività di creazione di una nuova norma, cui l’analogia contrariamente all’interpretazione estensiva - darebbe luogo, consiste nella “produzione originale e originaria di una norma giuridica” è chiaro che si viene, tuttavia, ad accostare il fenomeno interpretativo a quello legislativo e, anzi, non si riesce più a individuarne il discrimine. L’attività “creativa” del giudiceinterprete, pertanto, si verrebbe caratterizzando in due diversi modi, così come li individua Caiani nella sua analisi. 343 Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355. 344 345 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p. 604-605. 133 Da un lato si manifesterebbe in un’opera di “traduzione”346 della volizione astratta e tipica contenuta nella norma in una volizione concreta e particolare del caso specifico: la creatività emergerebbe proprio nel passaggio dalla fattispecie astratta a quella concreta. D’altro canto l’emanazione della sentenza che definisce un’interpretazione come corretta costituirebbe il fulcro di tale attività creativa, alla stregua di quanto accade per il fenomeno normativo, sulla scorta della considerazione della sentenza, appunto, come legge del caso particolare. Come si può vedere, tuttavia, e come lo stesso Caiani non ha mancato di osservare, entrambe le prospettive presentano i caratteri della parzialità dovuta al fatto che l’attività interpretativa, per quanto si è fin qui affermato, non è in sé né meramente dichiarativa, né meramente creativa per cui l’accentuare esclusivamente sulla creatività l’analisi del fenomeno ermeneutico non può che far emergere le aporie che si presentano su questa via. Per quanto concerne il secondo aspetto, quello che individua l’attività creativa nell’applicazione giudiziale, è facile notare che se si può accordare una qualche credibilità alla visione che riconosce alla sentenza la caratteristica di legge del caso particolare, o di “norma individuale”, come la definisce Kelsen,347 è tuttavia difficile limitare il fenomeno interpretativo a quello che avviene in sede giudiziale. Non si spiegherebbero, cioè, quelle che tradizionalmente sono state classificate come interpretazioni dottrinali o scientifiche. Non si spiegherebbe nemmeno, poi, il fenomeno già analizzato del conflitto delle interpretazioni, se non come un costante conflitto diremmo così “normativo” che giunge a scalfire lo stesso concetto di positività e quindi anche di validità normativa. Senza parlare, in 346 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 355. 347 Cfr. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. a cura di R. Treves, Milano, 1952, cap. XI. 134 aggiunta, della necessità di stabilire un confine tra la fisiologia e patologia della stessa creatività giudiziale.348 Respinta, quindi, per l’impostazione che si è data al concetto di interpretazione, l’ipotesi “giudiziale” della creatività ermeneutica rimane da analizzare il primo indirizzo, quello riferentesi al processo di “traduzione” insito nell’atto interpretativo della norma astratta in fattispecie concreta, momento in cui si rivelerebbe la caratteristica creativa e in cui - si ricordi - sarebbe possibile, giungere ad una distinzione tra il procedimento dell’interpretazione estensiva e quello dell’analogia. Ma se si riconosce carattere creativo nelle pieghe di questo processo che sembra avvicinarsi troppo a quello della sussunzione le osservazioni sono almeno due. Da un lato, per le analisi fin qui condotte sul fenomeno ermeneutico, si deve mantenere una certa distanza dall’adesione allo schema della sussunzione,349 contro il quale lo stesso Betti ebbe ad indirizzare la sua arguta critica, sostenendo350 che adottarlo fosse proprio dei “fanatici del positivismo giuridico e della certezza delle leggi” e non significasse che “seguire una concezione statica e antistorica del diritto positivo”. Dall’altro si può anche riconoscere il carattere di creatività al processo - sia esso qualificabile o meno nello schema della sussunzione - che collega il “caso” alla norma, ma allora questo non è che lo svolgersi normale dell’atto di interpretazione, che diventa integrativo della norma proprio perché, si potrebbe dire, interpretativo, e nella misura in cui la interpreta o, per dirla con le categorie bettiane, la attualizza, la intende nell’attualità. Ma allora se, nel senso qui delineato, l’integratività dell’interpretazione si spende nello stesso processo ermeneutico, 348 Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ., 1988, II, 168, nota 5; M.A. CATTANEO, Considerazioni sul significato dell’espressione “i giudici creano diritto”, Atti del VII congresso della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Milano, 1966, vol II, p. 256 ss. 349 Sulla critica all’applicazione del diritto come pura sussunzione vedi infra. 350 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 49. 135 cade anche l’impostazione che tentava di distinguere tra l’interpretazione estensiva e l’analogia sulla base della dichiaratività, o quanto meno della non creatività, dell’una e, al contrario, dell’integratività dell’altra, offrendo un ulteriore appoggio alla tesi dell’equiparazione tra estensione ed analogia, opposta a quella che vogliamo sostenere. Si può allora evidenziare l’impossibilità di stabilire un confine tra quella che si è definita come interpretazione “fondamentale” o naturale351 e l’interpretazione analogica. La prima consisterebbe in una “relazione tra la formula e il contenuto normativo”,352 porterebbe alla conoscenza di ciò che il dettato normativo immediatamente rappresenta e condurrebbe alla ricognizione tanto degli effetti giuridici implicati dalla norma quanto dei casi che condizionano tali effetti. L’interpretazione fondamentale avrebbe, pertanto, carattere per così dire “finito” data, appunto, la finitezza dei casi che nella ratio di una norma si possono dire contemplati. Al contrario l’interpretazione analogica sarebbe caratterizzata da una conoscenza solo indiretta di ciò che la formula normativa vale a rappresentare dato che arriverebbe a tale conoscenza non mediante un’operazione ricognitiva ma logica, in grado, tra l’altro, di estendersi in maniera “infinita”, data l’infinità dei casi che per la ratio di una norma si possono dire contemplati. Ma se, come si è venuto descrivendo, il processo interpretativo non si esaurisce in una mera ricognizione né, d’altro canto in una totale integrazione logica, si concorda anche sul fatto che è, quello ermeneutico, e in particolare quello afferente il procedimento analogico, un ragionamento di natura complessa. Si potrà discutere sul fatto che esso sia, come lo definisce Bobbio,353 un ragionamento simile a quello entimematico, tuttavia si dovrà 351 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 354; M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 642. 352 M. BOSCARELLI, op. loc. ult. cit. 353 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, parte II, cap II. 136 convenire che, respinte le partizioni cui si è fatto cenno, emerge la prepotenza di una sorta di “intuizione analogica”354 all’interno di ogni approccio ermeneutico, tanto da giungere a concordare con Höffding che ebbe a definire l’analogia come il Leitmotiv di ogni ricerca giuridica.355 Resta da capire il perché. 354 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 357. 355 H. HÖFFDING, Der Begriff der Analogie, Leipzig, 1924, citato da L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 357. 137 10.2.2. Da Carnelutti a Betti sulla distinzione auto-etero integrazione; ricorso ai principi e auto (o etero?) integrazione. Autopoiesi formale e materiale. L’adeguazione dell’intendere di Betti. La chiarificazione, l’adattamento. La norma si adegua automaticamente alle condizioni storiche evolvendosi con esse: si modifica il contenuto della norma. Inoltre il mutare dei rapporti sociali reagisce sull’originaria ratio iuris (Betti). La dottrina ha tradizionalmente distinto, ma con consapevolezza almeno a partire da Carnelutti,356 all’interno della categoria ermeneutica che delinea il procedimento integrativo i mezzi cosiddetti di “autointegrazione” da quelli di “eterointegrazione”. Fra i primi si sono compresi principalmente l’analogia e il ricorso ai principi generali dell’ordinamento, qualificandoli come “mezzi naturali di integrazione, [...] tratti dallo stesso ordinamento, o meglio dalla sua intrinseca razionale capacità di sviluppo”.357 Non avrebbe senso, per questi, nemmeno parlare di un rinvio da parte dell’ordinamento, data la naturalità del ricorso ad essi. Fra i secondi, al contrario, si sono compresi soprattutto la consuetudine e il ricorso a norme provenienti da ordinamenti giuridici diversi da quello vigente e per essi soltanto, perciò, avrebbe un senso la posizione di un rinvio, trattandosi, essenzialmente, di fonti di produzione diverse cui fare richiamo. Altrove si è parlato, al contrario, di tecniche di integrazione autopoietica,358 tra cui si comprende l’interpretazione estensiva, che 356 Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, pp. 86 ss. 357 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p.352. 358 Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56. 138 vedono il conflitto o la situazione sociale non contemplati dalla previsione normativa essere sottoposti, comunque, a un “principio di regolazione giuridica” e l’applicazione di un’estensione interpretativa come un’opera di “ridislocazione di tale conflitto o situazione da un sottoambito ad un altro”.359 Interessante in questo inquadramento è il fatto che tanto l’analogia quanto l’interpretazione estensiva vengono qualificate come forme di autopoiesi materiale,360 in contrapposizione a quella che viene definita autopoiesi formale e che qualifica la rinnovazione normativa, cioè l’adeguamento ad una nuova realtà sociale o ad una nuova esigenza di regolazione attraverso la posizione di una nuova norma. Le tecniche di autopoiesi materiale, al contrario, non vengono aggiungendo, secondo questa impostazione, nuove rationes a quelle già esistenti nel sistema giuridico, ma si limitano ad allargare quelle rationes già contemplate dal sistema. In tale senso costituirebbero una fonte di autoriproduzione, per via d’interpretazione, dell’ordinamento giuridico medesimo. Anche Betti riconosce alle partizioni di Carnelutti un qualche valore, soprattutto dove indica l’integrazione interpretativa, o meglio il nesso tra interpretazione e integrazione come un nesso di autointegrazione,361 tuttavia giunge a darne un taglio nuovo. La “ricognizione contemplativa del significato proprio della norma considerata nella sua astrattezza e generalità”362 non costituisce che un momento dell’attività dell’interprete, cioè il momento concernente quella che si è detta attività di “chiarificazione”. Da questa chiarificazione parte il nesso, detto di autointegrazione, con lo “sviluppo individualizzante”, negato dai formalisti e da coloro che assumono l’attività giudiziale e in particolare la sentenza come atto di volontà del giudice, il nesso, cioè, con l’attualizzazione e l’adeguazione al presente 359 Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, 56. 360 Cfr. M. BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 59. 361 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., par. 11. 362 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 50 ss. 139 interpretativo. Questo, che viene detto “sviluppo integrativo”363 opera, secondo Betti, mediante apprezzamenti o giudizi di valore, la cui formazione è compito del criterio o intento assiologico. La dimensione “autointegrativa”, pertanto, si sviluppa in quanto lo stesso giudizio di valore viene definito come il “riconoscimento di un valore che ci illumina e ci convince e che riscontriamo nel dato fenomenico: è non pura Bekenntnis ma Erkenntnis”,364 non tanto una dichiarazione quanto un processo conoscitivo, gnoseologico. Alla base del processo interpretativo vi è, secondo Betti, un affidamento della dichiarazione normativa sulla cooperazione del destinatario: essa pone in collaborazione l’interprete con lo spirito che appare come l’”autore della dichiarazione” e, in quanto collaborazione, l’interpretazione è necessariamente creazione.365 Il problema che si pone è, dunque, relativo alla natura di tale integrazione creativa: ha essa carattere di creazione originaria e indipendente, o derivata? Ovvero: è quella interpretativa una nomogenesi, una creazione libera, spontanea, e in quanto tale anche arbitraria, oppure è subordinata alla totalità del sistema giuridico come “organica concatenazione di norme e alle esigenze dell’ambiente sociale”?366 “L’interpretazione rimane sempre soggetta alle valutazioni immanenti e latenti nell’ordinamento giuridico inquadrato nell’ambiente storico e sociologico in cui vive”, scrive Betti,367 e questo conferisce un carattere subordinato e vincolato a quella che definisce interpretazione integrativa. È la stessa attualità, secondo Betti, a conferire il carattere creativo all’interpretazione, tanto che la 363 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit. Sul punto si veda anche il contributo di A. DE GENNARO, L’ermeneutica idealista. Filosofia politica neoidealistica italiana ed interpretazione, Napoli, 1993, che si sofferma sulla critica gnoseologia della giurisprudenza di Angelo Ermanno Cammarata, Sul pensiero di Widar Cesarini Sforza, sulla meta – interpretazione di Tullio Ascarelli, l’humus su cui germoglierà il pensiero dell’autore camerte. 364 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, loc. ult. cit. 365 E. BETTI, ibidem, p. 132 ss. 366 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 367 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 140 stessa norma ne risulta - contrariamente all’opinione di Sacco368 modificata. Occorre tuttavia distinguere, secondo quanto viene sostenendo il nostro autore, fra il piano della norma e quello della massima di decisione che emerge dall’interpretazione giudiziale. Il fatto che la sentenza, decidendo il caso particolare, venga delineando anche una massima di decisione non deve, infatti, confondere né con il fenomeno propriamente legislativo, come si è sopra evidenziato, né, tuttavia, con un’operazione meramente contabile, da 369 amministratore, come si è avuto modo di osservare. Betti segnala, perciò, la necessità di tenere inconfusi nell’interpretazione giudiziale quelli che definisce “il profilo ermeneutico di attività spirituale ricognitiva dal profilo giuridico di attività normativa”.370 Il primo, in quanto attività “spirituale” si manifesta sì, secondo Betti, come attività creativa, inventiva, ma con i caratteri della subordinazione, del vincolo a una “oggettività irriducibile”371 data dalla norma interpretanda all’interno del contesto giuridico in cui si trova inserita. 368 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 140. Vedi infra §. 1.2.1 370 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 371 E. BETTI, op. loc. ult. cit. Ci sembra che in questo modo Betti intenda ricucire tendenze opposte che avevano lacerato il dibattito giuridico europeo delle generazione a lui precedente. In Francia, per es. Mornet e Cruet affermano che l’interprete non è sempre vincolato alla lettera della legge, nè deve darle il contenuto voluto dal legislatore quando l’una e l’altro non corrispondono alle esigenze reali della vita moderna. D. MORNET, Du rôle et des droits de la jurisprudence en matière civile, Paris, 1904; J. CRUET, La vie du droit et l’impuissance des lois, Paris, 1908, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 186. Non si possono dimenticare posizioni estreme, come nella stessa Francia, per opera del celebre primo presidente del tribunale di Château-Thierry, il giudice Magnaud, che conduce il diritto libero ai suoi ultimi termini, in quanto, non curandosi affatto di disposizioni tassative di legge, quando contrastano col suo temperamento o con le sue idee politico-sociali nega ad esse qualunque valore, applicando, invece, un diritto che è perfettamente in antitesi con quello che la legislazione positiva ha riconosciuto. Così l’ottimo F. DEGNI, L’interpretazione della legge cit., p. 187. Si veda anche N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento cit., p. 140. Fra i giuristi tedeschi, si possono ricordare lo Stammler, che vuole che il giudice non sia schiavo della legge, ma, nei singoli 369 141 Emerge chiaramente, da questa impostazione, che precisa meglio i caratteri della creatività giudiziale e dell’attività ermeneutica, come ancora una volta si debba giungere a negare una distinzione tra i procedimenti di interpretazione estensiva e di analogia, se non altro sulla base della tradizionale partizione appellantesi alla presenza o meno del dato creativo e della forza di integrazione del precetto normativo fornita dal procedimento ermeneutico. Significativa è anche la sottolineatura che Betti fa in merito agli strumenti cosiddetti di eterointegrazione cui si è fatto più indietro cenno. L’esigenza di eterointegrazione si manifesta, secondo Betti372 negli “apprezzamenti secondo equità”, in un’ampia valutazione morale dei precetti normativi e in una sorta di “raddrizzamento”, di correzione dei medesimi alla luce di tali apprezzamenti. Questa operazione, tuttavia, non è condotta, secondo Betti, sulla scorta del mero senso giuridico del giudice bensì mediante l’uso degli “strumenti” di eterointegrazione tra cui emergono i principi generali del diritto. Ai principi generali significativamente Betti attribuisce, anzi, una forza di espansione non meramente logica, quanto assiologica. Per tale via giunge, dunque, a risolvere la vexata quaestio relativa all’inserimento del ricorso ai principi generali tra i mezzi di autointegrazione ovvero di eterointegrazione: il dato assiologico che casi, indaghi qual è il diritto giusto (gerechtes Recht), il diritto secondo giustizia, che ha esigenze del tutto diverse, in molti casi del tutto opposte, da quelle che, nella società moderna, il diritto dello Stato può soddisfare; lo Stampe, che, combattendo l’analogia e le costruzioni giuridiche, sostiene che, accanto al diritto statale, deve affermarsi e aver vigore il diritto libero, che corrisponde agli interessi reali della vita e che il giudice deve indagare liberamente, valutando, come farebbe il legislatore, i diversi interessi da soddisfare (interessenwägung), sino al punto che, in casi estremi, quando la legge non si trova d’accordo con le esigenze pratiche, il giudice può sentirsi autorizzato a disapplicarla. R. STAMMLER, Die Lehre von dem richtigen Rechte, Berlin - Leipzig 1902; E. STAMPE, Rechtsfindung durch Konstruktion, in Deutsche Iuristen-Zeitung, 1905, p. 417, citati in F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 189. 372 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 144. 142 li caratterizza li pone, perciò, sul confine tra l’una e l’altra categoria. Interpretare, secondo questa visione, non è, dunque, solamente tornare a conoscere una proposizione normativa, ma integrarla e realizzarla nella vita di relazione373 e in questa prospettiva, allora, si spende anche il canone dell’adeguazione dell’intendere374 cui sovente Betti fa cenno. È opportuno sottolineare ancora una volta, tuttavia, che data la razionalità di una norma, cioè individuata una correlazione tra il contenuto e la ratio legis, l’attualizzazione della norma non avviene, secondo l’impostazione bettiana, attraverso la posizione di una nuova norma, bensì è la stessa norma che automaticamente si adegua alle condizioni storiche evolvendosi con esse,375 cosicché lo stesso contenuto della norma viene ad essere mutato e, come lo stesso Betti scrive, “il mutarsi dei rapporti sociali reagisce [anche] sull’originaria ratio iuris”.376 Ma se questo adattamento non è altro che l’interpretazione evolutiva, l’antitesi interpretazione-integrazione può avere ancora una qualche validità solo nell’ambito dell’autopoiesi formale, cioè nella creazione di una nuova norma ad opera degli organi legislativi competenti e non nell’ambito della funzione ricognitiva. Nell’adattamento ricognitivo, che si avvale di quella che si è definita come intuizione analogica, viene a giocarsi l’attualizzazione medesima, cosicché viene confermata ancora una volta la natura interpretativa dell’analogia377- desumibile proprio dalla funzione ricognitiva - e l’apparente impossibilità di 373 G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 786. 374 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 276; E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 56 ss. 375 Ne dà questa interpretazione M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 645. 376 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 62. 377 Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 646. 143 distinguerla, per questa via, dal procedimento di interpretazione estensiva. 144 10.2.3. Attualità nella giurisprudenza sulla dichiarativitàcreatività. Il problema della “falsa applicazione” delle norme. La Corte costituzionale e la sua vocazione paralegislativa nel rapporto integrazione-creazione-interpretazione. La nomofilachia come diretta espressione del principio di uguaglianza (uniforme interpretazione della legge). Libera ricerca del diritto. Law in action, law in public action. Tesi: possibilità di intendere l’interpretazione estensiva e l’analogia come raccordo tra statute law e common law Le teorizzazioni in merito alla dichiaratività o creatività dei procedimenti interpretativi hanno, evidentemente, influenzato anche le decisioni giurisprudenziali nonostante il panorama giudiziale presenti una certa eterogeneità. Sicuramente prevalente è l’impostazione tradizionale, tesa a distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia sulla base proprio del carattere non integrativo della prima rispetto alla seconda. Si evidenzia, invece, più che per l’originalità della posizione, per il tipo di critiche cui ha dato luogo una sentenza della Cassazione civile del 1959, annotata da Laserra.378 La sentenza stabiliva l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva, contrariamente a quella analogica, in materia di leggi tributarie, consentendo la ricomprensione nelle norme concernenti benefici fiscali379 di tutti i casi a cui le norme stesse si potessero riferire, “nella lettera e nello spirito”. Laserra nota come la sentenza 378 Cassazione civile, I sezione, 9.8.1959 n. 2500, in Giur. it., 1961, I, 1, 101 e ss., con nota di G. LASERRA. 379 Nella fattispecie concreta si trattava di estendere benefici fiscali concessi all’Opera Nazionale Dopolavoro anche all’Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, succeduto a tutti gli effetti all’O.N.D, nonché ai Circoli Ricreativi Assistenza Lavoratori che, in base a sentenza, si sosteneva avere sostituito i dopolavoro comunali e aziendali. 145 nasconda tra le sue pieghe un’impostazione triadica in merito all’attività interpretativa. Da un lato sarebbe posta l’interpretazione dichiarativa o non elaborante, contrapposta, dall’altro, all’interpretazione analogica: tra queste starebbe un tertium genus dato dalla vera e propria interpretazione estensiva. Quest’ultima, poi, si differenzierebbe dall’interpretazione dichiarativa per una sua “maggiore latitudine di indagini e risultati”380 mentre, al tempo stesso, finirebbe per coincidervi in antitesi all’interpretazione analogica per essere questa soggetta - diversamente dall’interpretazione dichiarativa ed estensiva - a generalità indiscriminata di applicazione. Laserra critica questa tripartizione ricavabile dalla sentenza finendo, però, per riconoscere, al contrario, una bipartizione tra interpretazione dichiarativa o non elaborante, che resta nell’ambito della norma, e interpretazione elaborante, che esce dal “tema” della norma stessa, o, come la definisce, dalla suità normativa.381 Viene subito precisando, tuttavia, che, in realtà, la categoria dell’interpretazione estensiva tende a perdere rilevanza autonoma, dato che finisce per coincidere con l’analogia382 e che 380 Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it., 1961, I, 1, 102. 381 Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p. 103. 382 Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, cit., p., 103. Al contrario, la distinzione può rivelarsi utile in pratica. Lo stesso tema della nostra ricerca muove dall’osservazione di come molto spesso i giudici, laddove la normativa non sia suscettibile di applicazione analogica, ricorrono, per operare ugualmente l’estensione, all’interpretazione estensiva. Per es., in tema di assicurazione contro le malattie professionali, si dice che “le elencazioni contenute nelle indicate tabelle ( ex art. 3 del d. P. R. 30 giugno 1965 n. 1124) hanno carattere tassativo, ma ciò se vieta l’applicazione analogica delle relative previsioni (presunzione a favore dell’assicurato di eziologia professionale), non è di ostacolo ad un’interpretazione estensiva della medesima, con la conseguenza che la suddetta presunzione è invocabile anche per lavorazioni non espressamente previste nelle tabelle, ma da ritenersi in esse implicitamente incluse, alla stregua dell’identità dei loro connotati essenziali, ferma restando l’inapplicabilità della presunzione stessa per lavorazioni che presentino solo caratteri di mera somiglianza o prossimità con quelle tabellate. Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S. C., aveva escluso che potesse rientrare nella 146 l’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, finisce per non essere altro che l’interpretazione non delle mere parole della norma - ché, altrimenti, si ridurrebbe a interpretazione letterale - ma del “problema pratico” della formula legislativa. Laserra dichiara esplicitamente di rifarsi alle tesi di Betti, ma che cosa significhi, secondo la sua impostazione, venire interpretando codesto problema pratico della norma reswta tutto da chiarire. valutazione tabellata “prove di motori a scoppio” di cui all’allegato 4 del d. P. R. n. 1124 del 1965, nel testo sostituito dal d. P. R. n. 482 del 1975, l’attività di conducente di autobus di città con motore diesel. Cass. Civ. sez. lav., 15/4/1994, n. 3556. In tal senso, Consiglio di Stato sez. V, sent. 14/10/1992 n.987: “La tassatività dell’elencazione legislativa (lg. 28/1/1977 n. 10, art. 9) dei casi di concessione edilizia gratuita non esclude la possibilità di individuare una regola generalmente applicabile, attraverso un’interpretazione anche estensiva delle norme che escludono per certe opere la onerosità della concessione”. Per l’equiparazione, T.A.R. Lazio sez. II, sent. 20/12/1983 n. 1269: “Non è possibile un’interpretazione estensiva e/o analogica della normativa posta dall’art. 8 l. 25 marzo 1982 n. 94, che ha introdotto la procedura del silenzio-assenso in tema di concessione edilizia, stante il carattere derogatorio ed eccezionale di tali disposizioni rispetto all’intero sistema ordinamentale urbanistico-edilizio, che presuppone il rilascio di un esplicito formale atto di concessione per l’esecuzione di opere edilizie”. In senso contrario all’identificazione tra analogia e interpretazione estensiva, si veda Cass. Civ., sez. lav., sent. 18/3/1981 n. 1800: “Per le disposizioni di diritto singolare, è vietata (ex art. 14 Prel.) soltanto la interpretazione analogica, mentre è consentita quella estensiva; ma neppure a quest’ultima può farsi luogo se la ratio legis non persuada che il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati. (Il principio è stato affermato nella specie per escludere l’applicabilità -in via analogica o d’interpretazione estensiva- al rapporto di lavoro privato della legislazione in materia di pubblico impiego). Così anche Cass. pen., sez. V, sent. 8/1/1980 ove si afferma che “l’interpretazione estensiva, che non va confusa con l’estensione analogica, in via di principio vietata in materia penale (art. 14 Prel. e art. 1 c. p.), si ha quando l’ambito di applicazione di una norma penale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo all’intenzione del legislatore”. 147 Anche la famosa sentenza della Cassazione civile del 1949,383 commentata da Bobbio, afferma che il giudizio che si avvale dell’analogia non crea la norma giuridica ma “la trova nella legislazione positiva e se ne avvale per la somiglianza dei due casi che meritano un conforme regolamento”. Si avalla, cioè, la tesi secondo cui non è il carattere creativo o meno del procedimento a differenziare l’analogia dall’interpretazione estensiva anche se, tuttavia, rimane scoperto il fianco all’obiezione secondo cui non sarebbe la creazione, ma l’integrazione il carattere differenziatore. Significativa per delineare il percorso giurisprudenziale in merito alla dichiaratività o alla creatività dell’interpretazione e per chiarire anche meglio il punto lasciato scoperto dalla sentenza commentata da Bobbio rimane, comunque, la già citata sentenza della Cassazione penale del 1983384 che, ponendo l’accento sull’oggettivizzarsi della norma al momento della sua entrata in vigore, impone un’interpretazione attualizzante, escludendo, perciò, esplicitamente, in questa operazione, tanto l’interpretazione estensiva quanto l’analogia. Il fatto di dover interpretare la norma secondo il riferimento alla situazione esistente al momento della sua applicazione fa sì che la “nuova fattispecie” rientri direttamente nella previsione della norma, in particolare, come dice la sentenza, nel suo “significato letterale e logico” cosicché, come si è venuti esprimendo, è la stessa interpretazione a “modificare” la norma. Queste posizioni, che in parte riflettono il dibattito dottrinale intorno alla creatività giudiziale e alla sua ammissibilità, debbono essere tenute presenti nell’accostarsi alla problematica della “falsa applicazione” delle norme di diritto. È noto, infatti, come tra i motivi della ricorribilità in Cassazione vi sia la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, nel giudizio civile (art. 360 n. 3 c.p.c.), cui si avvicina l’erronea applicazione della legge penale nel giudizio penale (art. 606, lettera b)). L’analisi approfondita del significato di questi 383 Cassazione civile, sez. II, 14.7.1949 n. 1801 in Giur. it. 1951, I, I, 229232; vedi supra § 3.3.1 384 Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 in Giust. pen. 1983, II, 633; vedi amplius supra § 2.4.2. 148 articoli porterebbe troppo lontano rispetto al compito che ci siamo proposti. Non deve, tuttavia, essere perso di vista l’orizzonte entro cui, nel nostro ordinamento, si muove l’interpretazione giudiziale né si debbono dimenticare i risvolti processuali cui questa o quella interpretazione può dare luogo. Significativo è, perciò, notare come tradizionalmente con l’espressione “violazione di una norma” si sia indicata l’interpretazione non combaciante con il “vero contenuto” della norma mentre con la “falsa o erronea applicazione” si sia indicato il travisamento del fatto e la sua riconduzione a una norma anziché ad un’altra.385 Ciò significa che, al di là degli aspetti processualistici, si è avallato il concetto di sussunzione e, quindi, ci si è spostati sempre più vicini all’idea di interpretazione non elaborante in nome, probabilmente, della vagheggiata certezza della legge. Ma se la Cassazione è coinvolta nel procedimento interpretativo proprio perché a quest’organo si può ricorrere in caso di falsa interpretazione, non si deve dimenticare che il massimo grado di creatività giudiziale si spende proprio grazie ai “precedenti” stabiliti dalle sentenze della Cassazione. Storiche, in questo senso, sono due sentenza della stessa corte del 1983. Con la prima386 si stabilì il fondamentale principio secondo cui il giudice di merito attende all’obbligo di motivazione delle sentenze ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c. anche soltanto con il “mero riferimento alla giurisprudenza della Cassazione”. Con la seconda387 si completò dicendo che il giudice di merito, pur essendo libero di non adeguarsi alle decisioni di altri organi giudicanti e nemmeno della stessa Cassazione, tuttavia ha l’obbligo, in tale caso, di “addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e a fare venire meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato”. In pratica si stabilì che anche nel nostro ordinamento le interpretazioni della Cassazione hanno valore di 385 Cfr. S. SATTA- C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova 1994, p. 386 Cassazione civile, 13.5.1983 n. 3275 in Mass. Foro it., 1983. 387 Cassazione civile, 3.12.1983 n. 7248 in Mass. Foro it., 1983. 536. 149 precedenti con una sorta di presunzione di conformità iuris tantum: chi intenda discostarsene ha l’obbligo di dimostrare la fondatezza del rifiuto. Significativo è aggiungere, a questo proposito, che tale ultima sentenza andava contro una precedente sentenza del 1980388 che, essendo qualificabili come viziati i motivi della decisione solo in relazione alla concreta fattispecie, e non perché in contrasto con motivi addotti in “decisioni riguardanti fattispecie analoghe, simili, o addirittura identiche”, il giudice non era tenuto a dimostrare, nella motivazione della sua decisione, la “infondatezza o la non pertinenza della giurisprudenza eventualmente difforme”. Decidere per l’una o l’altra affermazione della Cassazione, come si può vedere, non è neutrale in merito al problema dell’interpretazione dato che significa anche dare credito o meno all’ipotesi di creatività giudiziale interpretativa ovvero di rincorrere un’ipotesi di référé legislatif - luogo dell’emarginazione per eccellenza dei rimedi cosiddetti di autointegrazione - che pareva ormai sepolta nelle pieghe della storia. Una svolta in grado di salvare la vitalità interpretativa e allo stesso tempo la perenne ansia di certezza giuridica sembra essere offerta dalla Corte costituzionale, organo sovente accusato di arrogarsi funzioni interpretative non proprie e, per questo, di avere addirittura assunto poteri paralegislativi.389 La sentenza del 1986390 chiarisce che la constatazione che la giurisprudenza in ordine all’interpretazione di una norma non sia consolidata “al punto da rappresentare diritto vivente” non toglie alla Corte il potere di esaminare la costituzionalità della norma lasciando aperta la possibilità di “altre interpretazioni” quando non sottoposte al vaglio di costituzionalità. Ossia, leggendo a contrariis, quando un’interpretazione è divenuta diritto vivente non c’è spazio per la posizione ermeneutica dell’organo della Consulta perché, 388 Cassazione civile, 17.3.1980 n. 1772 in Mass. Foro it., 1983. Sul fenomeno che è stato definito di supplenza legislativa ad opera dei giudici cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 211 e ss. 390 Corte Costituzionale, 3.3.1986 n. 42 in Giur. cost. 1986, I, 330. 389 150 quasi, è il diritto stesso ad avere dato di sé la propria interpretazione. È la Corte di Cassazione, lo dice una sentenza della Corte costituzionale,391 ad avere funzione di nomofilachia e ciò, se da un lato può costituire un’ammissione di supplenza legislativa da parte della Suprema Corte, dall’altro lascia anche aperto il campo a colpi di mano ermeneutici392 che scavalcano gli ordinari mezzi di integrazione normativa - come l’analogia e l’interpretazione estensiva - e giungono così, surrettiziamente, a introdurre orientamenti e interpretazioni. Una sentenza della Cassazione penale393 precisa come l’uniforme interpretazione della legge significhi, in realtà, uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, e quindi la funzione nomofilattica sia espressione di un principio costituzionalmente stabilito. Funzione, questa, affidata a ciascuna delle singole sezioni di Cassazione. Significativa, tuttavia, è la precisazione che segue: la pronuncia delle Sezioni Unite, cui si fa ricorso per porre fine a incertezze interpretative a seguito di contrasti giurisprudenziali, costituisce “una sorta di annuncio implicito di giurisprudenza futura determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale e per il cittadino in particolare”. In tali ipotesi, prosegue la sentenza, “la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori”. È evidente il rilievo delle affermazioni contenute in tale sentenza anche ai fini del nostro discorso: riconoscere alla pronuncia delle Sezioni Unite il valore di annuncio implicito di giurisprudenza futura tocca l’autonomia dell’interprete e viene anche ad assegnare alle pronunce della Suprema Corte un valore pari a quello di interpretazione autentica. Attribuire, poi, il crisma dell’idoneità a suscitare un legittimo affidamento negli “utenti della giustizia” a tali pronunce significa che si ammette che il cittadino-utente, lungi dal poter contare sui 391 392 Corte costituzionale 20.3.1985 n. 73 in Riv. amm. R.I. 1985, 738. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ. 1988, II, p. 180. 393 Cassazione penale sez. III, 23.2.1994 in Giust. pen. 1995, II, 159. 151 canoni dell’adeguazione dell’intendere, sul farsi dell’interpretazione, deve rimettersi, come ultima parola, alla Suprema Corte, la cui capacità di far coincidere l’evoluzione sociale con l’evoluzione ermeneutica è aprioristicamente data per certa. Assegnare, infine, al giudizio delle Sezioni Unite un peso dominante sugli altri valori giuridici ed ermeneutici non può non far discutere sul senso, allora, da attribuire ai procedimenti interpretativi dell’interpretazione estensiva e dell’analogia. Quale valore dare a questi strumenti se, comunque, il peso dominante è dato dalla decisione della Suprema Corte? Sembrerebbe doversi legittimamente, perciò, affermare che tali strumenti vengano operando solo laddove la Cassazione non sia giunta con una sua pronuncia. “Se una controversia non può essere decisa secondo una precisa disposizione” - come recita l’art. 12 non significherebbe altro, allora, che “se le Sezioni Unite della Cassazione non si sono ancora pronunciate”. Come si può intuire queste conclusioni, in realtà, provano troppo, cosicché quella della funzione nomofilattica non è che un ennesimo tentativo di rincorrere, per via del ricorso ad un organo superiore che abbia la parola definitiva sulle varie interpretazioni, la certezza e uniformità ermeneutica. Del resto la stessa contraddittorietà tra pronunce della stessa Cassazione, fenomeno non certo peregrino, non può che confermare che, se intesa secondo l’impostazione data dalla sentenza della Suprema Corte qui analizzata, il ruolo che si vuole attribuire a quest’organo si rivela come quello di un “custode troppo timido di una difficile unità della interpretazione”.394 Si potrebbe pensare che questo rinnegare il ruolo uniformante della Suprema Corte significhi dare credito alla Freie Rechtsfindung e avallare la discontinuità del diritto e nel diritto come regola. In verità nemmeno le teorie antiformalistiche della scuola del diritto libero hanno mai cercato di sostenere un potere dei giudici talmente svincolato dal dato normativo da esaltare la creatività 394 Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 184. 152 giurisprudenziale al punto da ammetterla non solo intra et praeter legem ma addirittura contra legem.395 “L’interesse principale dell’ermeneutica si dirige a conservare e ampliare l’intersoggettività”,396 scriveva Habermas, ad un “controllo di razionalità di tipo intersoggettivo”. La creatività giudiziale, pertanto, si spende sì come law in action, come tendenza a combaciare, sul piano teorico, con il dato evolutivo di un diritto in fieri, ma anche come law in public action, come sviluppo, cioè, delle istanze ermeneutiche date dal vivere sociale, da quella “comunità giuridica” cui già si è fatto cenno.397 Viste in questa prospettiva, pertanto, l’interpretazione estensiva e l’analogia potrebbero costituire un punto di raccordo tra statute law e common law grazie alla contiguità, cui darebbero luogo, tra l’allargamento per via analogica del senso della norma e il reasoning from case to case tipico della tradizione anglosassone. In realtà lo stesso Betti sembra mettere in guardia dall’equivoco di questo accostamento, sottolineando come il processo euristico volto a trovare il diritto nei precedenti non si debba qualificare come interpretazione. Betti chiarisce come esistano sì delle identità date dal comune approdo ad uno sviluppo analogico del precetto ma, tuttavia, sia necessario distinguere tra il processo interpretativo di testi legislativi e il procedimento euristico di ricerca di un principio da decisioni giurisprudenziali dotate di autorità. “Solo colà dove una decisione o una giurisprudenza uniforme non fa altro che fissare una regola o massima per un tipo definito di situazione di fatto”, aggiunge Betti, “il processo logico sembra comparabile alla tecnica di ritrovare una massima di decisione in un testo scritto”. 398 395 Cfr. G. MARINI, Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 171-172. 396 J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, in Teknik und Wissenschaft als Ideologie, Frankfurt, 1968, p. 158; citato da G. ZACCARIA, L’apporto dell’ermeneutica alla teoria contemporanea, in Riv. dir. civ. 1989, I, 348. 397 398 Vedi supra § 1.3.2. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 127 nota 91. 153 154 10.2.4. L’eccedenza assiologica delle norme e il consenso sociale alla base del rapporto tra interpretazione estensiva e analogia. Negazione di una neutralità assiologica; rifiuto dell’applicazione del diritto come pura sussunzione. Norma come rappresentazione e come valutazione secondo criteri assiologici di plausibilità e ragionevolezza in Betti. Spazio nelle norme per gli orizzonti di attese collettive e il consenso sociale Di fronte all’analisi fin qui condotta, passata attraverso la critica alla configurabilità di un sistema prossimo a quello anglosassone avvalentesi delle tecniche di sviluppo analogico, non si può non ricercare, respinte le ipotesi anzidette, un criterio tramite cui non solo distinguere gli strumenti dell’interpretazione estensiva e dell’analogia, ma anche rifuggire la completa arbitrarietà delle interpretazioni e delle applicazioni giudiziali. Non può non tornare, a questo punto, il discorso sul rapporto tra la norma e l’interprete e sulla cosiddetta neutralità dell’interprete. I tentativi di negare la necessaria neutralità dell’interprete sono, tuttavia, sovente caduti nell’eccesso opposto di avallare una giustizia politicizzata399 nella sua accezione più deteriore che va a scadere nell’arbitrio giudiziario. Si è addirittura teorizzato un diritto alternativo,400 definito da alcuni come un “diritto politicizzato al servizio di interessi di classe”401 confinante, come si può capire, con il diritto asservito all’ideologia. 399 Cfr.F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 207 e ss. 400 Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781; F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 209. 401 Cfr. L. MENGONI, Ancora sul metodo giuridico, in Riv. trim.dir civ., 1983, p. 321. 155 Per sostenere quest’idea si è anche fatto perno sul rifiuto della categoria - ormai bandita - della sussunzione, basato sulla crisi del concetto stesso di applicazione del diritto come procedimento sillogistico, come tecnica mediante cui sussumere, appunto, il caso concreto entro una fattispecie astratta.402 Betti riconosce l’esigenza di neutralità ermeneutica intendendola come un divieto imposto all’interprete di “risalire ad istanze metagiuridiche, etiche, religiose, sociali o economiche, secondo preferenze sue personali”403 e, al contrario, lo vincola alle “valutazioni normative che determinano la disciplina positiva dei rapporti e sono immanenti all’ordine giuridico”.404 Pone anche tra i canoni presupposti dell’intendere ermeneutico, o meglio gli “atteggiamenti metateoretici preliminari al processo 405 interpretativo” , l’abnegazione di sé dell’interprete che, pur dal sapore vagamente romantico, racchiude il rapporto dialettico tra la soggettività dell’interprete e l’oggettività della norma. Un tentativo di sfuggire all’alternativa viene cercato tramite l’approdo all’idea di una struttura precostituita del comprendere, di una precomprensione secondo il concetto proposto in maniera efficace soprattutto a partire dalle teorizzazioni di Esser.406 Su questa impostazione Betti entra in polemica con Gadamer che non riesce a convincerlo che “la precomprensione non è un concetto metodologico ma ontologico”407 e la rigetta apparendogli come una manifestazione di esasperato soggettivismo che conduce a una “perdita irreparabile dell’oggettività”.408 402 Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 781. 403 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 795. 404 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 405 E. BETTI, op. ult. cit., p. 269 ss. 406 Cfr. J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, trad. it. di S. Patti e G. Zaccaria col titolo Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983. 407 G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen (1960), III ed., 1972, tr. It. (sulla II ed., 1965) a cura di G. Vattimo, p. 484 nota 2. 408 L. MENGONI, La polemica di Betti contro Gadamer, in Quaderni fiorentini n. 7, 1978, p. 132. 156 Ad essa oppone nella sua metodologia ermeneutica la funzione normativa dell’interpretazione, recuperando la tematica del condizionamento storico dell’interprete e del suo ruolo di mediazione attraverso l’accentuazione dei canoni dell’attualità e dell’adeguazione dell’intendere e la presentazione del concetto di drammatizzazione da parte dell’interprete. Betti sostiene, infatti, che se l’interpretazione ha funzione normativa, di un intendere per agire, è necessaria da parte dell’interprete una drammatizzazione,409 un “tuffo nell’azione”,410 quella rappresentazione - la realization anglosassone - dei risvolti pratici e degli esiti dell’interpretazione, della realtà da interpretare secondo il delineato concetto di dogmatica. La dogmatica di Betti, tuttavia, è “rappresentazione concettuale del fenomeno giuridico nell’indirizzo di valutazioni normative”,411 non prescinde, cioè, dalle valutazioni immanenti al sistema e, quindi, dal dato assiologico, ma, anzi, riconosce l’immanenza nella norma da interpretare di un elemento “emozionale”, o più precisamente, “valutativo e assiologico.”412 Non è più sufficiente, cioè, il ricorso a canoni logici o gnoseologici di interpretazione, essendo necessario il ricorso a criteri assiologici quanto meno di “plausibilità e ragionevolezza”.413 Betti, ponendo l’accento sul dato assiologico come criterio principe dell’ermeneutica si pone anche al riparo dalla critica di aprire il varco ad una pericolosa discrezionalità giudiziale. Questa critica non è giustificata, spiega l’autore, giacché “l’apprezzamento interpretativo rimane pur sempre vincolato e subordinato alla linea 409 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 803 ss. Così la definisce G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 794. 411 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 813. 412 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 102 ss. 413 Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 794. 410 157 di coerenza logica e assiologica che si dimostra immanente all’ordine giuridico considerato nella sua organica totalità”.414 Nella “perenne dialettica tra eternità di valori e contingenza di situazioni storiche”415 Betti delinea, pertanto, una sorta di eccedenza di contenuto deontologico nei principi sottesi alle norme e, quindi, indirettamente, alle norme stesse cosicché l’interprete è chiamato a 414 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 822. E’ la premessa, che Donati pone come indiscutibile, che Pedrali-Noy nega: cioè che il dato della volontà legislativa si abbia solo nella volontà espressa nella norma, che la volontà legislativa risulti solo dalla sua materiale espressione, perchè essa non risulta dalla lettera, ma anche dallo spirito della legge. Se si toglie questa premessa, il ragionamento che fa Donati non può più reggere. Risorge invece il vero concetto del processo analogico, sia pure tradizionale, che Donati stesso espone in una nota (Cfr. D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910, p. 49); cioè il processo analogico non si fa in base ad una norma stabilita per il caso particolarmente considerato, ma ad una norma più ampia della norma indicata, comprendente ad un tempo il caso particolarmente considerato ed il caso non particolarmente considerato ad esso analogo. Ma questo per Donati significa svisare completamente il carattere dell’analogia, perchè se la volontà legislativa che si applica nella decisione per analogia è una volontà più ampia che si ricostruisce logicamente da una più ristretta dichiarata espressamente dal legislatore, allora vuol dire che l’analogia s’identifica con l’interpretazione logica estensiva. Tuttavia, secondo il Pedrali-Noy, non si ha affatto uno svisamento del concetto di analogia e non c’è nulla di male che questo concetto identifichi l’analogia con l’interpretazione logica, perchè l’analogia è appunto una forma di processo logico. Pedrali-Noy, infatti, non crede che l’analogia crei la norma, regolando ciò che dalla legge non è contemplato. Con essa si svela la vera estensione della legge, si arriva a comprendere che la norma arriva più in là di quanto a prima vista parrebbe e l’interprete non fa che dichiarare la legge, senza estenderla oltre i suoi naturali confini. Non vi è dunque nè creazione nè estensione da parte dell’interprete, ma si tratta solo, per mezzo di un processo logico, di arrivare a conoscere la portata della legge. Dato il concetto di analogia che ha Pedrali-Noy è chiaro che l’interprete di essa potrà sempre usufruire senza che il legislatore lo autorizzi e che l’art.3 disp. prel. non ha per scopo di concedere all’interprete di usare questo procedimento, ma di imporglielo. Cfr. P.L. PEDRALI-NOY, I vuoti del diritto, Bologna, 1911, p. 171. 415 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e ss. 158 cercare proprio i giudizi di valore416 immanenti alle proposizioni normative. Vi è, quindi, un implicito riconoscimento del diritto in quanto valore o, secondo la definizione di Caiani, del diritto in quanto “espressione dell’esigenza imprescindibile dello spirito umano a tradurre nelle forme della giuridicità un regolamento di rapporti interindividuali che sia ispirato ai valori dominanti nella coscienza comune, e tendenzialmente a quello supremo di giustizia.”417 Tale riconoscimento, tuttavia, non è una mera ricognizione delle valutazioni sottese alla norma, ma è un giudizio che si sviluppa dall’interno, e integra, talvolta rinnovandoli, i “giudizi di valore originari ispiratori della norma o dell’intero ordinamento.”418 Con queste precisazioni emerge che se è proprio il piano assiologico l’orizzonte entro cui condurre la ricerca ermeneutica, allora è su tale base che si dovrà esplicare anche l’interpretazione estensiva. Ma non potrà non essere pure quell’elemento “terzo” attraverso cui portare avanti lo sviluppo analogico che non sia mera discrezionalità: solo tramite un giudizio di valore nel diritto - più che sul diritto, come precisa Caiani419 - sarà, infatti, possibile fare ricorso, senza tema di applicazione arbitraria, allo strumento dell’analogia. Se, allora, è l’eccedenza assiologica delle norme il perno attorno a cui ruotano sia l’interpretazione estensiva che l’analogia, cadrebbe, però, anche la necessità e la possibilità di distinzione dei due procedimenti. Rimane, tuttavia, da considerare proprio quella linea di “coerenza assiologica” immanente al sistema e che consente di ricorrere agli strumenti ermeneutici al riparo dal soggettivismo. La 416 Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953. 417 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p. 49. 418 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p.53. 419 L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p.53. 159 fusione del dato assiologico e dell’attualità dell’interprete, infatti, danno luogo alla mediazione tra la necessità di un sistema stabile e l’elaborazione di nuovi “orizzonti di attese collettive”420 cosicché il dato assiologico viene a mutare di portata con il mutare del consenso sociale. L’interprete, cioè, lungi dall’indugiare in un soggettivismo esasperato, deve sì ricercare la valutazione originaria, immanente alla norma nell’ambiente sociale in cui fu emessa, ma anche l’eventuale maturazione di esiti sociali ulteriori421 in quella che efficacemente è stata definita da Dilthey una Wirkungszusammenhang, una “operante concatenazione produttiva”, un fenomeno di eterogenesi di significati e valutazioni che solo può assicurare un diritto non arbitrario, ma vivo. 420 Cfr. G. BENEDETTI in Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, p. 784. 421 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319-344. 160 11. L’ATTUALE DISCIPLINA DELLA INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE: L’ARTICOLO 12 DELLE PRELEGGI 11.1. I precedenti storici dell’articolo 12: soluzioni giurisprudenziali, legislative ed esperienze straniere 11.1.1. Intensio ed extensio; leges, auctoritates e rationes; argumentum a similibus; Codice Giustinianeo; Regie Costituzioni piemontesi; Codice estense 1771; Dispaccio di Ferdinando IV di Napoli 1774; Tribunal de Cassation; Référé législatif; Art. 4 Codice Napoleone; artt. 14 e 15 Statuto albertino; artt. 6 e 7 cc. austriaco; artt. 3 codice 1865; art. 22 leggi Città del Vaticano; art. 9 n. 1 Codice civile portoghese; art. 1 cc. svizzero; art. 2 disposizioni di attuazione c.c. svizzero Le radici del problema della distinzione tra l’interpretazione estensiva e l’analogia affondano nella storia del diritto più remota, anche se non sempre la discussione che ne è seguita ha presentato i caratteri e la portata di quella recente. Sovente, infatti, la materia è rimasta in un ambito di pura classificazione del diritto o, al contrario, si è spinta alla ricerca di una giustificazione teorica di poteri più o meno lati attribuiti agli organi giudicanti. Qui preme richiamare alcuni passi fondamentali della “storia dell’interpretazione giuridica” non tanto per fare una dossografia delle diverse posizioni, quanto piuttosto per individuare il punto ove si annida l’equivoco dell’indebita equiparazione tra analogia ed interpretazione estensiva. 161 A parte la riflessione sull’interpretazione giuridica condotta già in epoca romana422 fin dai primi trattati sull’interpretazione, risalenti al sedicesimo secolo, la dottrina aveva distinto tra intensio ed extensio, individuando la possibilità di comprendere la fattispecie concreta nelle parole, nella mens o nella ratio della fattispecie astratta come intensio, comprehensio o interpretatio intensiva423 e attribuendo solo all’extensio la qualifica di vera e propria interpretazione.424 Si è notato, cioè, fin dall’inizio una certa riluttanza a chiamare extensio la semplice deduzione dalla generalità della ratio alla specificità del caso, anche se inespresso,425 preferendo distinguere, perciò, l’interpretazione vera e propria dalla estensione. Per contro la riflessione sull’analogia, già oggetto di analisi a partire dalla teologia426 e filosofia classica427 attingeva fin dagli albori ai concetti di somiglianza e di proporzione, ponendo l’accento sulla struttura dello strumento dell’argumentum a similibus ad similia come elemento di distinzione dall’interpretazione estensiva. Anche l’argumentum a simili, tuttavia, veniva giustificato più in ragione dell’aequitas o di una ratio naturalis che per argomenti logici o di teoria ermeneutica. Se di pari passo con il concetto di diritto comune si sviluppava l’idea di un “ritrovamento” dello stesso diritto tramite il ricorso ad una triplice base costituita da leges, auctoritates e 422 Basti ricordare i frammenti 10 e 12 del Digesto “De legibus senatusque consultis et longa consuetudine”. Altri frammenti del Corpus giustinianeo saranno esaminati più analiticamente infra al § 5.4.1., non tanto per una ricostruzione filologica, quanto per trarre spunto di riflessione sui principi che governano la materia. 423 Cfr. BARTOLOMEO CEPOLLA, De interpretatione legis extensiva, 1557, citato da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. II. 424 Cfr. COSTANZO RUGGERO, Tractatus de iuris interpretatione, 1549, citato da N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 425 N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 426 A partire dalla riflessione sul rapporto analogico tra l’uomo e Dio matura il concetto di conoscenza analogica come forma di conoscenza propria della teologia. Cfr. § 6.1.1. 427 Per tutti ARISTOTELE, Metafisica, V libro. 162 rationes, veniva anche prendendo piede l’autorità di un diritto giurisprudenziale in cui l’analogia, nonostante venisse distinta dall’extensio legis, veniva riconosciuta come il mezzo più idoneo ad attuare una legittima estensione.428 L’analogia, insomma, serviva da escamotage attraverso cui il diritto giurisprudenziale veniva introducendo surrettiziamente, per opera anche della consuetudo iudicandi, nuovi concetti giuridici. In epoca recente si vengono sviluppando quelli che si possono definire come i precedenti storici dell’attuale articolo 12 delle preleggi e dei quali rimane in quest’ultimo, come si vedrà, una, talvolta considerevole, traccia. Sicuro riferimento di tutti gli sviluppi giuridici successivi è stato, per lungo tempo il Codex giustinianeo i cui concetti erano nati in un ambiente giuridico fortemente improntato alla casistica e in cui, pertanto, acquistava un valore particolare il “caso deciso dalla legge” con l’autorità di chi lo aveva pronunciato. Si possono, innanzitutto, riferire come precedenti dell’attuale articolo 12 delle vigenti preleggi le regie Costituzioni piemontesi del 1723 e del 1729429 che specificano il ricorso, nei casi non decisi, alle deliberazioni dei grandi Tribunali vietando il riferimento all’autorità dei dottori, lasciando, tuttavia, aperto il campo alle auctoritates, alle rationes, nell’accezione dell’appello alla ragion naturale o delle genti.430 Pure interessante, su questa linea, è il reale dispaccio del Re di Napoli Ferdinando IV del 1774 che prescrive che “quando non vi sia legge espressa per il caso, di cui si tratta, e si abbia da ricorrere alla interpretazione o estensione della legge [...] si faccia dal giudice in maniera che le due premesse dell’argomento siano sempre fondate sulle leggi espresse e letterali. E quando il caso sia nuovo o talmente dubbio che non possa decidersi colla legge, né con 428 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., cap. I. Regie Costituzioni piemontesi, 1723, libro III Della procedura, titolo XIX Delle sentenze; 1729, libro III, titolo XXVII; citati da G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 119. 430 Cfr. G. GORLA, op. loc. ult. cit. 429 163 l’argomento della legge” si ricorra direttamente all’interpretazione del Re.431 Documento interessante soprattutto perché vincola l’argomentazione estensiva ad identità di premesse e, in particolare, la fonda sulla letterale espressione della legge da estendere. L’argomentazione analogica, al contrario, è soppiantata dal diretto ricorso all’autorità del Re. Di impostazione simile è anche il Codice estense del 1771 che prevede il ricorso, nei casi dubbi, al Supremo Consiglio di giustizia e nei casi mancanti alle disposizioni del Gius comune.432 Il periodo rivoluzionario francese vede la creazione di due istituti giudiziari significativi: il Tribunal de Cassation e il référé legislatif. Il Tribunale è deputato all’annullamento di “ogni atto nel quale le forme fossero state violate e ogni decisione contenente una espressa contravvenzione alla legge” e, come risulta dalle discussioni nella sede dell’Assemblea che istituisce la Cassazione, vige il divieto dell’extensio del testo, dato che tra i vizi oggetto di Cassazione si può solo includere la violazione di un testo espresso sul caso o del casus legis.433 Il référé legislatif, invece, è istituito con il compito di esercitare una funzione dichiarativa dell’interpretazione. Quello cosiddetto obbligatorio impone al giudice di rivolgersi al Corpo Legislativo quando la stessa questione sia stata preceduta da due sentenze entrambe cassate, mentre quello facoltativo consente al giudice il ricorso al medesimo Corpo Legislativo toutes les fois qu’ils croiront nécessaire d’interpréter une loi, cioè quando manca sul caso un testo espresso o preciso di legge - quando, cioè, la legge ne décide pas le cas - o quando il testo di legge sia oscuro.434 Come si può vedere, perciò, sia il Tribunal de Cassation che il référé legislatif poggiano sui concetti di casus omissus, novus o 431 G. GORLA, op. ult. cit., p. 120. G. GORLA, op. ult. cit., p. 121. 433 G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 122 nota 20. 434 G. GORLA, op. ult. cit., p. 123. 432 164 dubius, in base, cioè, al casus legis e ai precedenti - sentenze o pareri - sul medesimo. Traccia dei quali è rimasta nella lettera del nostro articolo 12 dove parla di casi che possono o meno essere decisi secondo una precisa disposizione di legge. Forse perché scardina la tripartizione dei poteri, il référé legislatif ha, tuttavia, vita breve dato che il Code civil di Napoleone innova anche in questo settore abrogando l’istituto del référé e sancendo, al contrario, nel famoso articolo 4 il divieto per il giudice del non liquet. “Le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi comme coupable du deni de justice”, stabiliva il codice,435 superando il divieto illuministico dell’interpretazione, ma non specificando le regole in base alle quali il giudice è tenuto a giudicare. Implicitamente, perciò, il Codice Napoleone attribuisce ai giudici ampi poteri, dato che, come riferisce il Discours Préliminaire “il compito della legge è quello di fissare, attraverso ampie prospettive, le massime generali del diritto, di stabilire principi fecondi di conseguenze, e non di scendere nei dettagli delle questioni che possono nascere su ciascuna materia. Sta al magistrato e al giureconsulto, penetrato dello spirito generale delle leggi, di dirigerne l’applicazione”. Potere, quindi, di ampio ricorso all’analogia e di risalire, anche, in caso di “fatto assolutamente nuovo”, ai “principi del diritto naturale”, nonostante questi strumenti siano indicati come ausili dalla dottrina - sfociata poi nella rigorosa Scuola dell’Esegesi - ma non dal testo espresso del Codice. Contrariamente al Codice Napoleone, i paragrafi 6 e 7 del codice civile austriaco del 1811 e gli articoli 14 e 15 del codice albertino del 1838 prevedono esplicitamente le regole per l’interpretazione, cosicché si possono ritenere i diretti precedenti del nostro articolo 12 delle preleggi. Il paragrafo 6 dell’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch für die deutschen Erblande (ABGB) stabilisce, in modo praticamente identico al primo comma dell’attuale articolo 12, che 435 G. GORLA, op. ult. cit., p. 125. 165 “nell’applicare la legge non è lecito d’attribuirle altro senso che quello che si manifesta dal proprio significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla chiara intenzione del legislatore”.436 Identico anche l’articolo 14 del codice albertino. 436 G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 114. R. DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, vol. I, Milano, VII ed., 19341935, p.14-97, che considera l’analogia come un procedimento logico che risulta dalla diversità dei casi e dalla identità del principio che li governa, condividendo, a questo proposito, l’opinione del F. FILOMUSI -GUELFI (Enc. Giur., Napoli, 1907, p.52, che sostiene che in essa si procede per conseguenza logica da un caso previsto ad uno che non è tale, ma che è compreso in una norma generale che regola i due casi e che è presupposta nel caso previsto), in modo chiaro mette in evidenza la sostanziale differenza che passa tra l’analogia e la cosiddetta interpretazione logica estensiva e in questo contraddicendo proprio Donati, laddove quest’ultimo sostiene che, seguendo l’opinione tradizionale in materia di analogia, si giunge a non intravedere più tale differenza. Perchè l’interprete possa far ricorso all’analogia, deve infatti esservi nella legge una lacuna assoluta: cioè occorre che quel determinato caso il legislatore non abbia contemplato nè esplicitamente, nè implicitamente in un’altra disposizione che lo possa comprendere. Mentre l’interpretazione è diretta essenzialmente a spiegare, attraverso le parole della legge, il pensiero e la volontà del legislatore, e quella estensiva ha come scopo peculiare di ricercare nelle parole oscure o dubbie della legge quanto in esse solo apparentemente vi manca e si mira alla pura e semplice ricostruzione della volontà legislatrice, diversa è l’analogia, la quale non è diretta a ricostruire e a spiegare ciò che è incerto, ma quasi a creare, colmando quei vuoti che la legge scritta inevitabilmente presenta. Per la qual cosa, si è ritenuto da molti che l’analogia sia una vera e propria fonte di creazione del diritto (in tal senso, N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., p. 177-178). Così si cade in un’esagerazione: colmar le lacune della legge derivando le norme dalla legge stessa, non è creazione del diritto; la regola applicata per analogia è già esistente ed emana dal legislatore. Il procedimento, che mediante l’analogia fa l’interprete, si limita ad un’integrazione, che è qualcosa di più della pura e semplice interpretazione, ma non è creazione. (ulteriore problema qui si apre circa la possibilità di esistenza di un tertium genus, se c’è, tra interpretazione e creazione del diritto). Solo laddove c’è lacuna assoluta, c’è analogia, altrove si avrà semplicemente un’interpretazione estensiva. In effetti una distinzione esiste, come appunto nota il De Ruggiero, ma non sempre, nella pratica, è così netta e recisa, tanto che si parla sovente di interpretazione analogica. Nel senso della distinzione tra analogia e interpretazione logica estensiva, anche Cass. Civ. sez. lav., sent. 3/10/1991 n. 10304, ove si afferma che 166 Il paragrafo 7 dell’ABGB, invece, stabilisce che “qualora un caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili precisamente dalla legge decisi, ed ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo dubbioso il caso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e maturamente ponderate”.437 È sicuramente di rilievo l’affinità col secondo comma dell’attuale articolo 12, ma ancor di più rilevano le diversità, in particolare il riferimento al “senso naturale” della legge e ai principi di “diritto naturale” come criterio sussidiario di interpretazione, oggi spariti dalla dizione normativa, nonché la menzione dei “motivi” come criterio di appoggio dello strumento dell’analogia. Tutte indicazioni che spiegano un certo affannarsi della dottrina nel giustificare, ancora oggi, in base agli stessi criteri l’attuale disposizione legislativa. L’articolo 15 del codice albertino, invece, è ancora più vicino alla norma presente mantenendo solo il ricorso al “senso naturale della legge“, e ai “fondamenti di altre leggi analoghe”, prescrivendo, come criterio finale, il ricorso ai “principi generali di diritto, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso”.438 Di rilievo è anche il fatto che già l’articolo 17 del codice albertino ma, più esplicitamente, il paragrafo 12 del codice austriaco prevedesse che “le disposizioni date in casi particolari e le sentenze proferite dai tribunali non hanno mai forza di legge, e non possono estendersi ad altri casi o ad altre persone”.439 Viene cioè negata l’estensione delle norme eccezionali in virtù della mancanza, in queste, della necessaria “forza di legge” e, soprattutto, si impedisce l’applicazione di casi già decisi e delle sentenze che li hanno definiti senza passare per le norme che ne hanno ispirato la decisione: si estende, semmai, la norma, mai il caso. “l’interpretazione estensiva, limitandosi ad esplicare il contenuto della norma, senza nulla aggiungere alla portata della medesima, è consentita anche con riguardo a disposizioni eccezionali o di carattere tassativo”. 437 G. GORLA, op. loc. ult. cit. 438 G. GORLA, op. loc. ult. cit. 439 G. GORLA, op. ult. cit., nota 36 p. 129. 167 L’ultimo, e più diretto precedente dell’articolo 12 è, infine, l’articolo 3 delle disposizioni preliminari (“Disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale”) al codice civile del 1865,440 che l’attuale articolo riproduce quasi letteralmente, a parte la dizione “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” che nella precedente versione era “principi generali di diritto”.441 Significativo nell’articolo 3 del codice del 1865, così come nei suoi più diretti precedenti è il richiamo alla “intenzione del legislatore”, sul cui concetto si sono aperti ampi dibattiti dei quali si riferirà più avanti. Per il momento è interessante rilevare come anche in legislazioni straniere coeve alla nostra codificazione si sono sviluppati concetti simili a quelli che hanno animato il dibattito giuridico italiano. L’articolo 22 della legge sulle fonti di diritto oggettivo della Città del Vaticano, per esempio, ha posto l’accento sull’esigenza di iniziativa del giudice nell’individuazione della norma, desumendo da tale attività la implicita massima di decisione, come non manca di sottolineare lo stesso Betti.442 L’articolo prescrive, infatti, che il giudice, “tenuti presenti i precetti del diritto divino e del diritto naturale, nonché i principi generali del diritto canonico, decide applicando quel criterio che seguirebbe se fosse legislatore”. È questo un importante esempio di approdo al criterio ermeneutico volto alla ricostruzione della volontà del legislatore (o del presunto legislatore incarnato dal giudice) che, ciò nonostante, lascia aperto il campo all’interpretazione evolutiva. Prevedere questa figura di giudice-legislatore significa, infatti, approdare alla massima elasticità e apertura ermeneutica, tracimante, per la verità, 440 L’articolo 3, peraltro, è a sua volta il risultato delle discussioni precedenti l’emanazione del codice del 1865 avvenute sulla base degli articoli 12 e 13 del progetto Cassinis del 1860, degli articoli 14 e 15 del Codice Sardo e degli articoli 5 e 6 del progetto Miglietti del 1862, come riferisce N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap. 4. 441 Sul significato di questa precisazione vedi infra capitolo 6. 442 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 136 e ss. 168 nell’arbitrio giudiziale, tanto ampio è il criterio proposto del ricorso, oltre ai principi generali del diritto canonico, ai precetti del diritto divino e del diritto naturale. Significativo è anche l’articolo 9 n. 1 del Codice civile portoghese che dispone che “a interpretação não deve cingirse à letra da lei, mas reconstituir a partir dos textos o pensamento legislativo, tendo sobretudo em conta a unidade do sistema juridico, as circunstâncias em que a lei foi elaborada e as condições especìficas do tempo em que é aplicada”. In esso, come si vede, sono contenuti sia il riferimento al pensiero legislativo che ha motivato la norma - la ratio - con le circostanze del tempo dell’emanazione, sia le condizioni dell’applicazione al caso concreto - il che consente un’interpretazione evolutiva -, sia il concetto dell’unità del sistema giuridico, così come stabiliranno tante sentenze che autorizzano il criterio sistematico di interpretazione.443 Il più citato444 esempio di norma sull’interpretazione è, comunque, senz’altro l’articolo 1 del codice civile svizzero, redatto nel 1907 da Eugen Huber, vicino al giusliberismo, che stabilisce come “en l’absence d’un texte légal applicable, le juge prononce selon le droit coutumier, et, en l’absence d’un droit coutumier, suivant la doctrine et la jurisprudence. A défaut de ces sources, il appliquera les règles qu’il édicterait s’il avait à faire office de legislateur”. Di rilievo soprattutto perché, al pari dell’articolo 22 443 Fra tutte cfr. Consiglio di Stato, VI sez., 89/717. Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 640 nota 65. Lo stesso Legislatore, infatti, avverte queste nuove esigenze e abbandona il principio della completezza dell’ordinamento giuridico E nella relazione pubblicata dal ministro della giustizia e dell’interno, la ragione di quella disposizione è spiegata così: “La seule direction que la loi puisse alors lui fornir c’est qu’il ne doit pas statuer arbitrairement, sous l’influence de circostances momentanées, pitié, indignation, animosité personelle, mais agir comme si, faisant office de législateur, il avait à édicter une régle pour l’appliquer ensuite à l’éspéce qui lui est déférée. Il pronence en se fondant non sur une loi qui serait absolument compléte, mais sur le droit qui doit l’être, et il crée lui même la norme qu’il estimairet juste et sage, dans le cadre de l’ordre juridique existant”. Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 198. 444 169 delle leggi della Città del Vaticano, autorizza il concetto del giudice-legislatore come criterio sussidiario di interpretazione, dopo avere consentito il ricorso al diritto comune in caso di assenza di norma applicabile. Da notare, tra l’altro, che l’articolo 2 delle disposizioni di attuazione del codice civile svizzero prevede l’immediata entrata in vigore delle norme che “tutelano l’ordine pubblico e la morale sociale”, ma dichiara inapplicabili le norme riconosciute come incompatibili con i suddetti parametri “secondo le valutazioni del nuovo diritto”.445 Questa che Betti definisce la “riserva dell’ordine pubblico intertemporale” avalla ancora una volta, come si può vedere, il concetto di interpretazione evolutiva e conferma la validità di una ricerca ermeneutica volta al contenuto assiologico delle norme. Come si può vedere, infine, ciò che accomuna queste esperienze legislative straniere, ma soprattutto l’articolo 22 delle leggi della Città del Vaticano e dell’articolo 1 del codice civile svizzero è la esclusione della possibilità del ricorso all’analogia, sussistendo altri strumenti espressamente previsti come criteri sussidiari. Così come si è osservato,446 pertanto, laddove non ci sia una norma che la vieti - come il nostro articolo 14 delle preleggi - o una norma che prescriva di ricorrere ad altri mezzi - come nelle citate esperienze straniere - l’impiego dell’analogia rientra nell’ordinario processo di interpretazione e ciò lungi dal costituire un’altra conferma dell’impossibilità di distinguerla dall’interpretazione estensiva, manifesta l’ennesima esigenza di fondarne il criterio discretivo. 445 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 110 e ss. 446 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 640. 170 11.2. Analisi dell’attuale articolo 12 11.2.1. Riferibilità dell’art. 12 all’interpretazione della legge ovvero all’applicazione dei giudici. Richiamo dell’interpretazione in funzione normativa di Betti. Esistenza o meno di un senso ”proprio” delle parole. L’intenzione del legislatore (rinvio). Significato della “precisa disposizione di legge”; problema dei combinati disposti. I casi e i tempi “considerati” dell’art. 14. Conviene, a questo punto, analizzare più da vicino l’articolo 12447 delle nostre disposizioni preliminari e cercare di ritrovare, attraverso le parole del legislatore, qualche indicazione per l’oggetto della nostra trattazione. Un primo spunto di riflessione è dato dall’incipit dell’articolo 12, dove si fa riferimento alla “applicazione della legge”, diversamente da quanto è indicato nella rubrica, che, al contrario, reca l’indicazione “interpretazione della legge”. Le norme dell’articolo 12 sono dettate per l’interpretazione della legge o per l’applicazione che debbono farne i giudici? A leggere la rubrica e la stessa collocazione dell’articolo tra le Disposizioni sulla legge in generale e non all’interno di statuizioni 447 Si riporta, per memoria, il contenuto dell’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale. “Interpretazione della legge. Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.” 171 espressamente processualistiche sembrerebbe farsi riferimento alle regole concernenti l’interprete in genere, sia questi il giudice o qualsiasi altro soggetto (privati, organi dello Stato, enti pubblici...).448 In realtà sia le prime parole del primo comma, sia tutto il secondo comma parlano di “applicazione” e di “casi decisi”, evidenziando l’intento di una norma rivolta a definire il modo in cui decidere le controversie, ruolo, apparentemente, riservato agli organi giudicanti, se non si considerasse il peso dei precedenti per i giuristi in generale, sia negli ordinamenti di civil, non meno che in quelli di common law. Insomma più che un interpretare per conoscere, un interpretare per decidere. Non un’interpretazione, per dirla con Betti, storica, “volta a rievocare nella sua autonomia [...] il senso, in sé conchiuso, della forma rappresentativa”,449 ma operativa. Anche il giurista, per la verità, deve porsi una questione storica, scrive Betti, questione cui viene a capo, allo scopo di “penetrare più a fondo i problemi di convivenza risolti dal diritto”450 avvalendosi dello strumentario dogmatico, di “tipi e categorie che stanno tra loro in logica correlazione e coerenza”.451 Il giurista, tuttavia, non può arrestarsi a rievocare il senso originario della norma, perché la stessa legge non è, come il nostro autore efficacemente la descrive, che una “impalcatura, destinata a rianimarsi e ad illuminarsi da un lato al contatto con la vita sociale, dall’altro nella luce della tradizione”.452 Il giurista deve “fare un passo avanti”.453 Ecco, allora, l’interpretazione in funzione normativa o direttiva della condotta, correlata sì con la costruzione dogmatica e con la qualificazione giuridica, ma altresì con l’applicazione. 448 G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., 1969, p. 113. 449 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28. 450 E. BETTI, Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr., XXXIII, 1957, p. 319. 451 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 452 E. BETTI, op. loc. ult. cit. 453 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 28 ss. 172 Anche se Betti è meno drastico di Gorla454 nel riferire l’articolo 12 esclusivamente ad un intendere per operare, per decidere controversie, nondimeno sottolinea come nell’interpretazione giuridica vadano messe a raffronto “l’interpretazione del giurista con indirizzo teoretico, storico o comparativo e l’interpretazione con indirizzo pratico, in funzione direttiva della condotta”.455 Chiaramente di fronte alla formulazione di una “teoria generale dell’interpretazione”, come quella che Betti fa, non poteva non stridere la dura constatazione di un’indicazione normativa - quale l’attuale articolo 12 - più tesa a “risolvere controversie” che a raggiungere un approdo ermeneutico. Non può sfuggire, tuttavia, l’osservazione che viene dall’analisi che s’è fatta456 sulla storia dei precedenti dell’articolo 12. Il riferimento alla decisione di controversie e la destinazione dell’articolo non ad un interprete qualsiasi ma al giudice non può non essere rilevata come esistente proprio a partire da tali precedenti: basterà pensare, per tutti, all’articolo 1 del codice civile svizzero rivolto esplicitamente alla categoria dei giudici. Tuttavia vi è da chiedersi se questa partizione netta, pur teoricamente visibile, tra la prescrizione di norme per la decisione di controversie e quella di regole generali per l’interpretazione giuridica abbia un fondamento. E la questione non è una pura sottigliezza di astrazione. Ammettere o negare la possibilità di una coincidenza a livello teorico a fronte di una assoluta distinzione tra il procedimento di interpretazione estensiva e quello di analogia dal punto di vista applicativo, davanti ai casi concreti, cioè, può avere, 454 Sul contrasto con Gorla sull’interpretazione in funzione normativa riferisce lo stesso E. BETTI, Attualità di una teoria generale dell’interpretazione, in Ann. Camerino, XXXIII, 1967, 95-111. 455 E. BETTI, op. loc. ult cit. Ci pare di vedere qui un riferimento (inconsapevole) alla alla bipartizione aristotelica tra teoria e prassi, o alla tripartizione conseguente alla distinzione tra prassi e poiesi (Et. Nic., II, 1, 1103 a b; II, 6, 1106 a; VII, 3, 1146 b - 1147 a), su cui cfr. infra § 5.1.1 Ad ogni modo, qui interessa mettere in evidenza la distinzione tra l'operatività e la pratica nell'accezione aristotelica del termine. 456 Cfr. § 4.1. 173 come si può capire, un rilievo assai diverso, come è emerso fin dalla prima pagina di questo scritto. Ritengo con Ascarelli, proprio su questa constatazione, contrariamente alla rigida partizione di Gorla e secondo il modello ermeneutico di Betti - che le modalità dell’applicazione normativa e le regole dell’interpretazione giuridica siano parte di un “unico e inscindibile problema, là dove la conoscenza giuridica non è prospettabile mai separata dal fine pratico dell’applicazione e non si considera completa se distinta dall’impatto con il caso concreto, con il fatto storico da regolamentare”.457 Chiarito il senso globale dell’articolo 12 si può notare come l’interpretazione enunciata sia in primo luogo quella letterale, rinvenibile nella previsione del “senso fatto palese dal significato proprio delle parole”. In realtà vi è da chiedersi che cosa sia codesto “senso proprio” delle parole della legge dato che, come è evidente, proprio sulla “proprietà” del significato delle espressioni di legge si hanno multiformi punti di vista. Si è già analizzato il rapporto tra interpretazione e linguaggio.458 Come si è avuto modo di indicare, la dottrina più moderna considera “frutto di pregiudizi filosofici la credenza secondo cui le parole di una disposizione di legge abbiano un senso 'proprio' se viste nella loro connessione”:459 in realtà qualsiasi enunciato risulta ambiguo, soprattutto nel momento in cui questo assume, come nel caso in questione, una funzione precettiva, in cui 457 T. ASCARELLI, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, p. 90. Si tratta dell’aspirazione (forse inconsapevole) dell’irrequieto e tormentato giurista di cogliere il problema metodologico del diritto, che opera nella prassi, ma non si riduce a questa, che vive di teoria, ma abbisogna del riscontro empirico; è cioè sospeso tra cielo e terra, un filosofico ircocervo, come ha messo bene in evidenza nel suo documentato studio F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo, Napoli, 1999. 458 Cfr. § 3.1. 459 B. TROISI, Interpretazione della legge e dialettica, in Legge, giudici, giuristi. Atti del Convegno tenuto a Cagliari nei giorni 18-21 maggio 1981, Milano, 1982, p. 324. 174 diventa significativo uscire o meno dalle maglie della lettera della legge. Questo problema confina, come si può vedere, con quello della chiarezza normativa che si è già affrontato,460 tanto che alcuni autori461 attribuiscono al fatto che il testo abbia un senso “naturale”, che esprima un giudizio “sensato”, l’inutilità di dar luogo a ragionamenti di carattere logico, circa la coerenza o incoerenza nel sistema della lettera della legge, come pure di dare luogo a ricerche “estrinseche di carattere ontologico (intenzione del legislatore), teleologico ecc.”462 Del resto, abbiamo sentito dire da Rolando Quadri, “si può considerare chiara anche una disposizione formulata con parole improprie quando il discorso non faccia sorgere dubbi”.463 Come si può vedere, perciò, il criterio letterale del senso “proprio” delle parole sfocia nel criterio della razionalità e dell’interpretazione sistematica, dato che, comunque, per attribuire con certezza un significato come “proprio” alle parole utilizzate è necessario analizzare il contesto in cui sono inserite. Significativa è a questo proposito la sentenza della Cassazione del 1987464 che stabilisce come il criterio del significato letterale - il quale, precisa, costituisce “norma fondamentale a tutela della certezza del diritto, e mezzo preminente per l’interpretazione di una legge” - postula, in realtà, l’assoluta univocità del significato delle parole adoperate dal legislatore. Tale univocità può, secondo la sentenza in esame, ritenersi insita nell’uso di un termine giuridico, specie con riferimento all’interpretazione di norme del codice - si trattava di norme del codice civile - caratterizzato dalla precisione della terminologia giuridica, oppure nell’uso di un termine tecnico. Non altrettanto può affermarsi per le parole “tratte dal linguaggio 460 Cfr. § 2.2. R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1974, p. 240 ss. 462 R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale cit, p. 240. 463 R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, cit. p. 244. Sul punto, perspicuo N. IRTI, testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 Codice civile, Padova, 1996; per diversi profili sullo stesso tema, U. PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, III ed., Padova, 2001. 464 Cassazione civile 31.3.1987, n. 3097, in Giust. civ. 1987, I, 1944. 461 175 comune, il cui significato sia plurivalente o soggetto a mutamenti nel tempo”. Il significato “proprio” delle parole, pertanto, stando alla sentenza della Cassazione, sarebbe un criterio valevole solo per termini tecnici sulla cui convenzionalità non vi siano disaccordi. Per ogni altro termine, se ne deduce, la dizione di questa prima parte dell’articolo 12 si rivela inutile perché prescrive, comunque, il ricorso ai criteri sussidiari. Criteri, questi ultimi, costituiti dalla “intenzione del legislatore” e da quelli previsti dal secondo comma dell’articolo 12. Per quanto concerne l’intenzione del legislatore se ne parlerà più diffusamente al paragrafo 4.3.1.. Tuttavia è importante, qui, sottolineare il valore della congiunzione465 che, secondo la dizione del citato articolo, lega il ricorso al criterio in parola - l’intenzione del legislatore - con il ricorso al criterio letterale: quella cesura, segnata dalla virgola, cui segue la congiunzione, infatti, può significare alternatività dei due criteri, subordinazione, indipendenza. Viste le considerazioni fatte in merito alla validità del criterio letterale ritengo, tuttavia, più plausibile accogliere la concezione che impone, comunque, di ricorrere al secondo criterio, sancendo l’inutilità del primo. Per quanto riguarda l’espressione “secondo la connessione di esse”, poi, concordo con l’opinione di Bobbio466 che tacciava l’articolo - si trattava, allora, del vecchio articolo 3 delle disposizioni preliminari ma, come si è già detto, era per questa parte identico all’attuale articolo 12 - di dire in questa parte cose “ovvie e banali”. Che cosa significa, infatti, “secondo la connessione di esse” se non qualcosa di ovvio ed evidentemente superfluo? Bobbio fa notare che se il legislatore ha ritenuto di precisare la necessità di interpretare secondo la connessione delle parole, avrebbe, del pari, potuto precisare la necessità di interpretarle 465 “... dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”; così l’attuale articolo 12 dip. prel. 466 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. 3. 176 secondo l’ordine di stesura, cioè da sinistra a destra.467 L’evidenza delle provocatorie osservazioni di Bobbio consente di non soffermarsi oltre sul problema. Per quanto concerne, invece, il secondo comma vi si fa riferimento ad “una precisa disposizione” e si indica esplicitamente la sussidiarietà, rispetto a questa, del ricorso ai criteri successivamente indicati. La “precisione” di cui parla l’articolo è da taluni468 intesa come l’esistenza di una norma “espressa” ma appare evidente che, riscontrata la superfluità del primo comma dell’articolo 12, almeno nelle considerazioni che se ne sono fatte, prevedere i criteri sussidiari dell’analogia e del ricorso ai principi solo colà dove non esista una norma espressa regolante la fattispecie concreta è fuorviante. Stando alla rubrica dell’articolo, infatti, assegnare il compito dell’interpretazione solo negli spazi lasciati vuoti dall’espressa previsione legislativa, solo, cioè, applicata ai criteri sussidiari, non può che contrastare con la concezione ermeneutica fin qui presentata. Del resto, poi, dato che l’articolo parla di decidibilità “della controversia con una precisa disposizione” non può essere tralasciata la constatazione del fatto che, normalmente, una controversia, o meglio una fattispecie concreta, è regolata non tanto da una singola disposizione ma da una serie di due o più norme, secondo la tecnica dei “combinati disposti”. In tali casi che, per la verità, sono la maggioranza - data anche la congerie legislativa diventa difficile distinguere quale delle disposizioni combinate sia prevalente rispetto alle altre, quale, cioè, possa qualificarsi come “precisa disposizione”.469 Partendo dai “casi da decidere”, e non tanto dalle norme da astrattamente interpretare, cioè, si finisce per 467 468 N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952, I, 107 e ss. 469 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010. 177 perdere di vista i confini tra casus decisus, casus dubius e casus omissus.470 Non si deve pensare, tuttavia, che si debba cedere il passo alla soggettività estrema o all’arbitrio interpretativo. Paradossalmente il criterio cosiddetto letterale, che potrebbe a rigore essere escluso per una certa assurdità di applicazione, si potrebbe, in realtà, rivelare il più consono al complesso di valori sotteso al sistema giuridico. Ne dà un efficace esempio Perlingeri,471 che riporta il caso del divieto di ingresso ai minori nei cinema. Nota l’autore che, alla lettera della legge, il divieto dovrebbe estendersi anche ai neonati tenuti in braccio dai genitori che assistono alla proiezione, “minori” i quali, evidentemente, essendo incapaci di rendersi conto dell’accaduto, non si possono ritenere colpiti dal divieto né passibili di tutela. Tuttavia, fa notare Perlingeri, l’interpretazione letterale fino in fondo (esclusione dall’ingresso anche del neonato) potrebbe essere “la soluzione maggiormente rispondente alla logica ed ai valori del sistema imperniato sul rispetto della persona umana”. 472 470 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1010. 471 Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica, cit, p. 1011. 472 Cfr. P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica, cit. p. 1012. La questione rende conto di quanto già avvertiva Luigi Caiani, Il giurista positivista, osserva Caiani, tende a rinchiudere in un certo senso “il problema interpretativo in termini strettamente giuridico-dogmatici, onde difenderlo dalle impurezze e dalle incertezze connesse ai problemi tecnici e filosofici dell’interpretazione, e così garantire in sostanza la scientificità, cioè l’univocità e l’esattezza del risultato interpretativo”. E si tratta di un tentativo più o meno implicito in gran parte dell’opinione giuridico-positiva. Cfr. L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica cit., p. 182-183. Ancor più paradossale appare la dichiarazione di Scarpelli, quando nota come nel positivismo giuridico la positività del diritto è in funzione appunto della scietificità: “non si fa una scienza del diritto come scienza del diritto positivo perchè interessa conoscere scientificamente il diritto positivo e quindi se ne fa la scienza, ma si fa la scienza del diritto come scienza del diritto positivo perchè interessa fare la scienza del diritto e, trovando nel diritto positivo l’oggetto che la rende possibile, le si assegna appunto questo oggetto”. Cfr. U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965, p. 40. 178 Si rende, come si vede, necessario il ricorso alla logica del sistema ed all’interpretazione assiologica il che, evidentemente, getta seri dubbi sull’utilità dell’articolo in analisi. 179 11.2.2. Possibilità di concepire il capoverso dell’art. 12, in quanto prescrive l’analogia, come teoreticamente superfluo e irrilevante; come contenente tutti i criteri ermeneutici della legge: sia l’interpretazione estensiva che l’interpretazione analogica. L’art. 14 come non dettante alcun criterio di esegesi legislativa. L’interpretazione assiologica come superamento dell’interpretazione letterale e criterio base di ogni interpretazione. Sull’utilità dell’articolo 12 - all’epoca articolo 3 del codice del 1865 - si interroga Bobbio,473 analizzandone la natura. L’articolo in parola è norma giuridica? Contro i sostenitori della tesi secondo cui esso non sarebbe una regola di condotta ma una regola logica, Bobbio obietta che l’articolo in primo luogo si presenta sotto forma di comando, che già lo fa ricondurre alla categoria delle norme giuridiche; in secondo luogo, poi, se può essere vero che le regole logiche e le massime di esperienza si osservano senza bisogno di imperativistica imposizione, è anche vero che la contrarietà a tali regole, previste dall’articolo, non è tollerata “come stravaganza” ma perseguita “come violazione”. Di qui la natura giuridica, sul presopposto di matrice kelseniana ripreso dal giusfilosofo torinese, della compresenza di precetto e sanzione, quest’ultima considerata il tratto caratterizzante la giuridicità. Ciò nonostante, tuttavia, l’articolo 3 è, per Bobbio, un duplicato inutile, dato che “nella prima parte dice cose ovvie e banali, nella seconda parte cose oscure e imprecisabili”.474 Ma in questo modo il riconosciuto caposcuola infligge il colpo mortale all’analitica e all’ermeneutica: se ha appena affermato norma giuridica l’articolo in esame non può qualificarlo inutile ed 473 474 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. II cap. 3. N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 180 incomprensibile senza far cadere il protocollo analitico positivista per il quale ogni norma deve contenere uno o più disposizioni e che queste debbono avere un senso, ricostruibile per scomposizione analitica. Né vale, per fare chiarezza, il ricorso all’articolo 14.475 Anche tale norma, infatti, tradizionalmente deputata a prescrivere e regolare il divieto di interpretazione analogica, fa riferimento a “casi” e a “tempi” considerati nelle leggi eccezionali e penali, elementi tutt’altro che chiari e inequivoci. Che cosa sono i “casi e i tempi considerati” nelle norme? Vi è forse l’autorizzazione al mero ricorso all’applicazione letterale? Ma non necessita, anche questa, di un’operazione di interpretazione? L’articolo 14 prevede solo il divieto di interpretazione analogica, secondo la lettura che se ne è tradizionalmente data, ma non spiega in che cosa essa consista, né come debba essere applicata, dato che presuppone che sia l’articolo 12 a dare contezza di tali criteri ermeneutici. L’indagine sui lavori preparatori dell’articolo 14 non è, in questo senso, illuminante, dato che nella sua relazione il Guardasigilli (n. 4) spiega che “poiché la norma (inizialmente art. 4 ed oggi art. 12) non riguarda l’interpretazione estensiva [... si è] sostituito “considerati” ad “espressi”, potendo quest’ultima parola far pensare che si debba aver riguardo solamente ai casi menzionati espressamente”.476 Storica nel definire la funzione degli articoli 12 e 14 è la sentenza della Cassazione civile n. 4373 del 1989477 che sancisce come l’articolo 12 contenga “tutti i criteri ermeneutici della legge ed in particolare sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già 475 Si ricorda, per memoria, l’articolo 14: “Applicazione delle leggi penali ed eccezionali. Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. 476 Relazione del Guardasigilli, citata in Giust. civ. 1989, fasc. 10. 477 Cassazione civile, sez. lav., 25.10.1989 n. 4373, in Giust. civ. Mass. 1989, fasc. 10. 181 identici), sia quello dell’interpretazione analogica (“analogia legis”), mentre l’articolo 14 non detti “alcun criterio di esegesi legislativa”, limitandosi a stabilire che le leggi penali ed eccezionali “non si applicano (in via di interpretazione analogica) oltre i casi ed i tempi in esse considerati”. Se i casi “considerati” non sono i casi “espressi” significa, dunque, che nell’articolo 14 non si vieta l’interpretazione, prescritta dall’articolo 12, semplicemente si impedisce che questa trasbordi oltre la sua funzione. Funzione che, tuttavia, dovrebbe essere delineata sulla scorta dell’articolo 12. Si è già stabilito, tuttavia, che il primo comma della norma rinvia ad un processo di interpretazione ulteriore rispetto a quelli indicati dalla lettera dell’articolo. Né il secondo comma chiarisce come si deve condurre l’interpretazione analogica, quali criteri, cioè, si devono ricercare nell’individuare “i casi simili” e le “materie analoghe”, a quali canoni si debba appellare la ricerca interpretativa. Significativo, allora, diventa un passaggio della relazione della Commissione Reale per la preparazione del codice, citata dalla menzionata sentenza n. 4373 del 1989. “Certo che con essa [la disposizione dell’articolo 12] non sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica, l’interpretazione delle leggi dà luogo”, indica la Relazione, “tuttavia l’opera giudiziaria è un lavorio continuo d’interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni. La scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che possono servire a guidare convenientemente l’interprete, ma nessuna di esse può avere valore di norma assoluta, per cui ciò che è essenziale è che l’interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della giustizia”.478 478 Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M 182 il Re imperatore, Roma, 1939, pag. 9, n.ri 2 e 3, ripresa altresì da Cass. civ., 25.10.1989 n. 4373. In senso contrario a Donati e a Rotondi riguardo al ricorso alla norma generale esclusiva, si esprime Solmi, il quale sostiene che il problema delle lacune non può essere guardato che come un lato del problema generale dell’interpretazione della legge, per cui solo quando si sia determinato fin dove si possa giungere con l’analogia e coi principii generali del diritto, si potrà dire se veramente vi sono punti in cui cessa la possibilità di ricorso all’analogia e in cui si dia luogo a lacune. Donati sostiene che, in ogni ordinamento giuridico, perchè sia ammessa l’analogia, sia necessario un apposito riconoscimento legislativo, Solmi invece che l’analogia sia mezzo necessario d’interpretazione del diritto. Donati fonda il suo ragionamento su due dati: la presenza della norma generale all’infuori delle norme espresse e la constatazione che quello che il legislatore ha voluto per un caso, non può non averlo voluto anche per un caso simile, ma leggermente diverso, a meno che esplicitamente lo dichiari. Tenendo presente che per il Solmi la norma generale esclusiva rappresenta il riconoscimento, in realtà, dell’inadeguatezza del diritto ad un caso concreto, è evidente che ad essa si dovrà ricorrere il meno possibile e solo quando non vi sia altro modo di trovare una norma più adeguata. Non può quindi essere che il legislatore abbia inteso impedire che, dal palese significato di una norma, non si possa indurre la regula iuris per un caso in tutto simile, benchè non identico, a quello che gli era dinanzi. Ricorrendo all’analogia, l’interprete fa un’opera di pensiero, che è necessaria allo spirito umano: egli non esce dalla materia dell’ordinamento giuridico, ma per mezzo di questa scopre con tutta certezza la effettiva e certa volontà del legislatore, nei casi analoghi da lui considerati. Così si spiega, secondo Solmi, come la legge sia costretta espressamente a proibire il ricorso all’analogia nelle materie di diritto pubblico, dove voglia impedire i possibili arbitri della P.A.(questo rispetto all’art. 4.); e perciò il cod. civ. germanico ha potuto tacere la disposizione che ammette l’analogia, senza timore di veder escluso questo fecondo mezzo d’interpretazione del diritto. Soltanto non si deve credere che l’analogia sia diretta a determinare una volontà legislativa più ampia, ricostruita logicamente da una più ristretta. Si tratta, invece, di una volontà del tutto simile a quella espressa, logicamente indotta dalla volontà espressa, ed adattata ad un caso strettamente affine a quello previsto. Ma allora non si tratta di creazione, seppur “vincolata”? Cfr. A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico in Riv. dir. comm., 1910, p. 487, per la citazione, p. 493. Quindi, per Solmi, esclusa la norma generale, è legittimo, salvo che risulti il contrario (art. 4), il ricorso all’analogia senza che sia necessaria un’esplicita volontà del legislatore in tal senso. Su quest’ultimo punto, risulta quindi concorde con Rotondi. Quel che è interessante, secondo noi, è la diversa valenza che da questi due autori viene attribuita all’art. 4. Rotondi lo interpreta come norma che dà prevalenza all’argumentum a contrario rispetto a quello a simili, almeno in certe materie; nel resto, si è visto, avviene l’inverso. Solmi, invece, non guarda 183 È il complesso di valori sotteso al sistema - lo “spirito di verità e giustizia” di cui romanticamente parla la Relazione - che, dunque, costituisce l’unico vero criterio cui ricorrere per interpretare la legge. Criterio, questo, che accomuna l’interpretazione estensiva e l’analogia, rendendo, in apparenza, superflua ogni distinzione. Ma per questa via, per “spirito di verità e di giustizia”, non si dovrebbe distinguere più alcunché nel mondo del diritto, atteso che a tali criteri ogni istituto dichiara di rifarsi. L’articolo 14, in questa luce, non avrebbe, allora, altro significato che quello (invero impossibile) di vietare l’introduzione per via d’interpretazione di nuovi valori nel sistema, di inibile lo spostamento, surrettizio, di quell’equilibrio assiologico che è insito in ogni ricerca ermeneutica. all’art. 4 come norma sancente l’imperio dell’argomentum a contrario, ma come norma che limita il ricorso all’argomentum a simili, che, a suo parere, è l’unico possibile. 184 11.3. La ricerca e la distinzione sulla base della ratio legis 11.3.1. Valore dei lavori preparatori e dei progetti di riforma nell’interpretazione. Il convincimento interpretativo. Art. 12 e ricorso ai principi costituzionalizzati: possibilità di una doppia fonte interpretativa. Intenzione del legislatore e ratio legis. Problema della ratio legis come un doppione della norma. Ratio come scopo e come fondamento. Differenza tra razionalità della norma e sentimento di giustizia. Ratio legis e ragion sufficiente della esistenza e della verità della norma. Scopo della norma e ratio legis. L’elemento della ratio nella giurisprudenza. La ricerca del dato assiologico contenuto nella norma non è, tuttavia, operazione lontana da contrasti e pluralità di vedute. Un criterio cui sovente si fa ricorso per giustificare e sostenere una determinata interpretazione è quello che si appella ai lavori preparatori della norma oggetto di analisi ermeneutica. Analizzando le scelte del legislatore - rectius, dei legislatori - e le spesso opposte posizioni che si sono confrontate in sede parlamentare si ritiene possibile, infatti, risalire ai valori - ai principi? alla ratio? - che irrorano la norma in esame. Numerose sentenze della Cassazione hanno affrontato il problema del ricorso ai lavori preparatori e anche ai progetti di riforma legislativi. Per questi ultimi,479 in particolare, il confronto 479 Sul valore dei progetti di riforma agli effetti dell’interpretazione della legge in vigore si era pronunciata in senso nettamente contrario la sentenza delle Sezioni Unite 17.1.1936, in Foro it. 1936, I, 455. Di diverso avviso la sentenza della Corte d’Appello di Roma del 10.1.1939 in Foro it., 1939, I, 673 che ritiene 185 tra le modifiche proposte e discusse e il testo originario, l’analisi dello “spirito” delle riforme, è stato considerato utile per addivenire all’individuazione dei valori sottesi. Tuttavia nella maggior parte di tali sentenze la Cassazione ha riconosciuto ai lavori preparatori unicamente il tradizionale valore sussidiario, o anche valore discretivo, ma soltanto quando l’attività di applicazione normativa sia cronologicamente vicina a quella promulgativa e il “contesto politico, economico e sociale del tempo dell’applicazione della legge sia simile o eguale a quello del tempo in cui la legge fu promulgata”.480 Come si debba fare tale equiparazione non è spiegato, ma il passaggio è indicativo per la tesi che andiamo sostenendo: il riferimento, cioè, all’inpterpretazione teleologica intesa quale individuazione dello scopo della norma, ovvero a quale problema individuato dal legislatore voglia essere risposta la norma, verso quale obbiettivo era (o doveva essere) indirizzata. Il limite del ricorso ai lavori preparatori - da cui la sussidiarietà del criterio - è individuata dalla Cassazione481 nell’impossibilità per la volontà da essi risultante di sovrapporsi alla “volontà obiettiva della legge”, quale emerge, secondo una sentenza della Suprema Corte, “dal significato proprio delle parole e dalla connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”,482 riproducendo -in sostanza- le ambiguità dell’art. 12. La Cassazione insiste nell’appello all’intenzione del legislatore soprattutto in tema di lavori preparatori, arrivando a distinguere tra voluntas legis, la volontà oggettiva della norma, e voluntas legislatoris, la volontà dei singoli partecipanti al processo formativo della norma,483 ammettendo, così l’esistenza di una lecita l’interpretazione secondo progetti di riforma di una legge se compiuta allorché la legge è stata emanata ancorché non entrata in vigore e altresì se la nuova legge non era ancora stata emanata quando lo sia, anche se non ancora in vigore, al tempo della sentenza. 480 Così Cassazione civile 1.3.1971 n. 507. 481 Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276. 482 Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276. 483 Cassazione civile 8.6.1979 n. 3276. 186 “eccedenza assiologica” - che definisce in termini di “volontà” della norma, da considerare criterio prevalente sulla effettiva, concreta volontà di chi materialmente volle la legge. Negando la possibilità di desumere tale medesima voluntas legis dai lavori preparatori di una legge diversa che pure adotti espressioni identiche la Cassazione484 conferma, poi, la netta distinzione tra le due “volontà” che di comune hanno, per la verità, solo il nome. Altro campione è la sentenza della Cassazione penale 485 che fa riferimento alle osservazioni e riflessioni sulle leggi e sui regolamenti contenute nella stessa motivazione del giudizio. La sentenza chiarisce come queste osservazioni non costituiscano “semplice fonte di ispirazione nell’interpretazione delle norme” ma facciano, invece, parte integrante del procedimento interpretativo se, “nonostante la loro collocazione preliminare alla motivazione, il giudice dimostra di tenerne conto nel suo convincimento interpretativo”. Questa chiarificazione è di rilievo perché consente, come corollario, l’impugnazione della sentenza medesima per inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni sulla legge in generale -gli articoli 12 e 14, in particolare- vale a dire per errata interpretazione, quando tali osservazioni e riflessioni “si pongano contro le espressioni letterali delle norme o ritengano tutelati interessi esorbitanti dal contenuto delle medesime”. In sostanza la sentenza indica come fonti d’interpretazione non soltanto le norme in sé, ma anche le riflessioni sulle norme: l’interpretazione, cioè, diventa essa stessa fonte di interpretazione. Ridimensionato il valore del ricorso ai lavori preparatori e alla mens legislatoris come dato a cui riferire l’interpretazione, si è tentata la via dei principi costituzionalizzati e della coerenza costituzionale. Rinviando al capitolo 6 l’analisi del ricorso ai principi, non può non porsi come problematico il rapporto tra l’articolo 12 e la 484 Cassazione civile n. 2533/1970. 485 Cassazione penale sez. III, 11.1.1980, in Giust. pen. 1981, III, 21. 187 Carta costituzionale, non fosse altro per il fatto che cronologicamente l’emanazione di questa ha seguito quella, precedente, del codice. È evidente, infatti, che se l’articolo 12, così come è stato formulato risente della precedenza temporale rispetto alla Costituzione, ciò nonostante è impensabile supporre che l’applicazione dei principi costituzionali sia solo sussidiaria rispetto al criterio letterale e agli altri indicati dall’articolo 12. Si altererebbe, altrimenti, la gerarchia delle fonti attribuendo all’articolo 12 idoneità ad impedire l’applicazione delle norme costituzionali.486 Sono innumerevoli le sentenze dirette a privilegiare l’interpretazione secondo Costituzione (o adeguatrice): addirittura si indica all’interprete di giungere ad una lettura della norma stessa che, “nel rispetto dei tradizionali canoni ermeneutici”, consenta di intenderla in armonia con la Carta costituzionale,487 attribuendo a tale operazione il carattere di “momento costitutivo normale di ogni interpretazione”.488 La vigenza di una legalità costituzionale impone, dunque, un’interpretazione alla luce degli interessi e dei valori costituzionalmente rilevanti, non relegabili, tuttavia, solo all’ultima parte del secondo comma dell’articolo 12. I principi costituzionali non sono una fonte normativa concorrente ma alimentano quell’interpretazione che viene ad essere per definizione logicosistematica e teleologico-assiologica.489 Tra i criteri di interpretazione di cui già si è fatto cenno vi è, infine, quello della “intenzione del legislatore” al quale si riferisce l’ultima parte dell’articolo 12. 486 P. PERLINGERI, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, p. 101. 487 Cassazione civile 3.2.1986 n. 661 in Foro it., 1986, I, 1898. 488 Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in PESCATORE-RUPERTO (a cura di), Codice civile annotato con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e delle giurisdizioni amministrative superiori, cit., p. 34. 489 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica in Rassegna dir. civ., 1985, p. 1012 e ss. 188 È evidente la concezione volontaristica sottesa all’indicazione della norma: si rincorre ancora l’idea di un legislatore personificato, senza avvedersi, al contrario, del fatto che questa è persona fittizia ma inutile.490 Concezione che, come detto, trova la sua consacrazione dell’articolo 1 del codice civile svizzero dove si incarica l’interprete di decidere “secondo la regola che adotterebbe come legislatore”.491 Del resto questa che appare una considerazione ovvia rispetto ad una concezione ormai superata dall’attuale elaborazione giuridica è, al contrario, una impostazione che fa tuttora parte della cultura giuridica moderna. La stessa distinzione tra interpretazione estensiva e analogica, pertanto, si è ritrovata in quella tra ricerca del pensiero del legislatore insito nella norma e ricerca di quello che sarebbe stato il pensiero del legislatore se vi avesse pensato.492 L’analogia, cioè, è sovente costruita come l’individuazione della volontà presunta del legislatore: il che, evidentemente non può che palesarsi come un artificio della dottrina per mascherare, dietro questa entità - la volontà di un legislatore - l’elemento che realmente presiede alle ricerche ermeneutiche. Si è anche tentato di distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia sulla base di un ipotetico diverso fondamento: la prima poggerebbe sulla volontà del legislatore, la seconda sulla somiglianza dei casi. A parte la constatazione493 che si prendono in considerazione, in questo modo, due punti di vista diversi - il fondamento, nell’un caso, e il procedimento nell’altro - è già emersa l’artificiosità e l’ambiguità del riferimento ad un legislatore con una volontà tangibile al pari della volontà contrattuale. In effetti l’unica realtà afferrabile, più che quella di un legislatore con questa o quella volontà - o intenzione, come recita 490 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. 3. 491 Cfr. § 4.1. N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 493 Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, 492 cap. 4. 189 l’articolo 12 - è quella che può essere indicata come la figura di un legislatore ragionevole e moderno così come lo concepisce l’interprete, di un legislatore che esprime, cioè, i criteri di ragionevolezza, sistematicità e attualità secondo i canoni dell’interprete. Il che, però, vale a dire che l’unica realtà afferrabile, più che quella di un artificioso legislatore, è quella dell’interprete medesimo. Come indica Betti nella sua critica al dogma della volontà legislativa494 compito dell’interprete è di rendere esplicito il “senso della legge”, non di ricreare una “volontà della legge”. Volontà che già dovrebbe essere negata come concetto solo a constatarne l’aporia di fronte al fenomeno della consuetudine, istituto in cui non può che stridere l’accostamento del concetto di volontà con quello di spontaneità insito nell’idea dell’opinio iuris seu necessitatis. Volontà, poi, che proprio grazie al compito dell’interprete, viene ad essere spersonalizzata, al massimo ridotta a “ipostasi o finzione di una 'volontà collettiva'”. Dato che il legislatore si rivela non essere altro che “l’insieme degli interessi della comunità che nella legge hanno trovato protezione” e la sua “intenzione” non altro che lo “scopo pratico che la legge si propone di conseguire”,495 è evidentemente fuorviante ricercare una intenzione del legislatore in un parallelismo con la volontà individuale - in questa sorta di volontà collettiva che “non trova riscontro nella realtà sociale più di quanto vi trovi riscontro una coscienza collettiva.”496 Ed anche qui, ci sembra, ritroviamo un tassello della costruzione che andiamo sostenendo: non la ricerca di una volontà, ma la ricerca di un obbiettivo. Si tratta, a ben vedere, della struttura propria della direttiva che tradizionalmente costituisce il nerbo dell’ordinamento giuridico comunitario; una disposizione, cioè, che indica lo scopo da raggiungere, lasciando un certo margine di libertà nella scelta delle vie da seguire per arrivare alla destinazione prefissata. Respinto il concetto di volontà del legislatore, pertanto, questo è soppiantato dal concetto di ratio iuris, dove l’indagine 494 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., cap. XI. 496 E. BETTI, op. ult. cit., p. 261 e ss. 495 190 ermeneutica va a ricercare, a seconda di come la si intenda, lo scopo della norma ovvero il suo fondamento. Nella ratio come scopo non vi è la ricerca della mera occasio legis, come fa la critica aderente al formalismo kelseniano,497 bensì la ricerca della causa finale della norma, da ammettere come dato fenomenologico, da rinvenire mediante criteri teleologici di interpretazione. Nella ratio come fondamento, invece, vi è la ricerca del fondamento logico e assiologico della norma tramite cui la norma medesima si conforma alle esigenze sociali.498 Quello della ratio, è stato utilizzato su queste basi non soltanto come criterio ermeneutica, ma anche come elemento discretivo tra lo strumento dell’interpretazione estensiva e quello dell’analogia. Mediante quello che Betti definisce499 “l’artificio con maggiore risalto” nelle teorizzazioni della dottrina, si è, infatti, intesa l’interpretazione estensiva come basata sul dogma della volontà, contrariamente all’analogia, basata su un argomentare dalla parità di ratio tra un caso non disciplinato e una norma regolante casi o materie simili. In questo modo, tuttavia, si è disconosciuto il fatto che la ricerca dell’eadem ratio sta alla base anche dell’interpretazione estensiva nel momento in cui si spinge a trovare il fondamento dell’estensione secondo la razionalità della norma. Del resto, poi, anche l’analogia esige un apprezzamento della ratio della norma come apprezzamento della teleologia in essa immanente, come giudizio di valore500 e quindi nemmeno su questo terreno è possibile negare l’equiparazione tra i due strumenti ermeneutici. Almeno secondo la posizione di Betti. La ricerca della ratio insita nella norma, tuttavia, potrebbe apparire come la ricerca di una sorta di norma nella norma, di 497 Cfr. E. BETTI, op. ult. cit., p. 275 e ss. E. BETTI, op. loc. ult. cit., p. 169 e ss. 499 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 169 e 498 ss. 500 G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 1541. 191 doppione, quindi, della norma stessa.501 Per contro l’insistere sulla ricerca del senso della legge, della razionalità ad essa intrinseca, si scontra con la constatazione502 espressa dal brocardo dura lex sed lex: nonostante una legge appaia irrationabilis, infatti, la sua coercitività sembrerebbe imporne il rispetto, lontano da ogni interpretazione che, sotto la maschera dell’evolutività, rischierebbe di trasformarsi in un’interpretazione - per i formalisti - politica. La razionalità della legge, al contrario, viene fatta coincidere con il senso di giustizia,503 esigenza storicamente condizionata e accertata dall’interprete con criteri obbiettivi, fondamento di ogni intuizione analogica ma, prima ancora, ermeneutica. Ma in tal modo determinata essa è anche la “ragion sufficiente” della norma così come la definisce Bobbio,504 tanto che se è vero che è “id propter quod lex lata est, et sine quo lata non esset”, accade anche che “cessante ratione legis, cessata est ipsa lex”. Affermazioni tanto condivisibili quanto gravi, soprattutto in una cultura giuridica come la nostra, più propensa all’opzione formalistica che a quella dell’equità come nei Paesi di common law. Tanto che si è subito avvertito il pericolo, insito nel criterio della ratio, costituito da una tentazione verso le soluzioni arbitrarie e una minaccia al dogma della certezza.505 Bobbio distingue tra ragione sufficiente dell’esistenza della norma e ragione sufficiente della sua verità: la prima, che individua 501 Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 601. 502 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica e assiologica, cit., p. 992, avvallando così la contraddizione di Bobbio: cfr. supra n. 474. 503 Così R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 763. 504 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap. 2. 505 Ancora R. SACCO, Alcune novità in materia di interpretazione, cit., p .763. 192 come fatto storico, è la causa della norma, mentre la seconda, che è un giudizio, ne forma il fondamento.506 La ragione sufficiente della norma, la “ragione per cui essa è quello che è (nihil est sine ratione cur potius sit quom non sit)”507 e per cui un effetto è tale in rapporto ad un certo caso, non sarebbe data da una razionalità come astratta ragione, ma come ragione immanente, secondo Bobbio508 come “storicità” tramite cui si risale alla volontà. Addirittura il chiaro autore arriva a dire che la volontà della legge e nella legge è per lo più ignota, e quando è nota lo è attraverso la ragione, tanto che se ci fosse una volontà, nota, non coincidente con la ragione della legge sarebbe della ragione e non della volontà che si dovrebbe tenere conto.509 Ma codesta razionalità è concepibile, a questo livello, anche come adeguatezza della norma rispetto allo scopo, il che equivale a dire che, proprio in virtù dello scopo, la norma è posta a contatto con l’esperienza sociale e con quelle istanze che la giustificano nella sua storica attualità,510 circostanze in grado di offrire un criterio fondamentale per la conoscenza del suo contenuto. Se, allora, razionalità è adeguatezza allo scopo ciò significa anche ripudiare ogni concezione formalistica e concettualistica della legge per accoglierne invece una concezione teleologica.511 Scopo e ratio della norma si avvicinano, pertanto, fino a identificarsi.512 506 La distinzione era già stata rilevata da C. NEGRONI, Dell’interpretazione, Roma, 1878, p. 83. 507 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 165. 508 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II cap. 4. 509 N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 510 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 635. 511 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 634. 512 Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 107; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 166; L. SCARANO, Il problema dei mezzi nell’interpretazione della legge penale, in Riv. it. dir. pen., 1952, p. 164. 193 Ma nel definire l’analogia come lo strumento mediante cui si trascende il contenuto di una norma espressa per applicare una norma inespressa implicita nel sistema,513 rinvenibile aliunde proprio sulla base di una comune ratio, non ci si discosta dal definire l’interpretazione estensiva. Questa, comunque, è un estendere in virtù di una ratio rinvenuta per analogia: perciò se a caratterizzare entrambi i procedimenti è tale comune intuizione analogica, basata sulla ratio, non vi è, di nuovo, ragione di distinguerli. Ciò che fin qui si è data per scontata è, tuttavia, proprio l’equiparazione tra la “ragion sufficiente” della norma e la sua ratio e così, nel parlare di analogia, tra scopo o fondamento di una norma ed elemento autorizzante l’equiparazione. L’apriorismo si è dato proprio non discutendo la riconducibilità dell’idea di ratio entro i concetti di una logica formale:514 si è tralasciato di considerare, cioè, che il giudizio che consente tale equiparazione appartiene non soltanto ai giudizi logici o di fatto, ma anche e soprattutto ai giudizi di valore. È quindi sul dato assiologico, sull’elemento valutativo insito nella scelta della norma e del principio da applicare, che trovano fondamento i processi di estensione e di analogia e su tali basi, prima ancora che su elementi di logica formale, che se ne dovrà ricercare la distinzione. La giurisprudenza ricorre sovente all’elemento della ratio, soprattutto per giustificare applicazioni - analogiche o estensive più “audaci”, come per avallare l’introduzione di nuove interpretazioni facendole rientrare nel contenuto delle norme. Spesso, anzi, viene addirittura negata l’applicazione dell’analogia o dell’interpretazione estensiva perché si comprende una certa interpretazione entro la ratio della norma così che, si dice, non vi è nemmeno bisogno di ricorrere a tali strumenti ermeneutici. Prendono l’identità di ratio come elemento di paragone tra due istituti, o due materie o casi, e quindi come dato che autorizza o 513 Per tutti G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1945, p. 84. Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 364. 514 194 nega l’applicazione analogica, numerose sentenze,515 tra cui rilevante è quella della Cassazione del 1981516 che vieta non solo l’interpretazione analogica, ma anche quella estensiva nel caso di disposizioni di diritto singolare, laddove la ratio legis non persuada che “il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati”. Vi si fa riferimento, cioè, ad una ratio in grado di persuadere sulla ratio, ad una razionalità o ragionevolezza che autorizza un’interpretazione anche esorbitante l’apparenza, forse quest’ultima coincidente con la letteralità. Interessante è anche il rilievo della sentenza della Cassazione del 1990517 che, sempre nell’ambito di norme di diritto eccezionale o singolare, ne esclude, invece, sia l’applicazione analogica che l’interpretazione estensiva con riferimento a situazioni che, sebbene similari a quelle contemplate espressamente, “esorbitano dall’ambito di operatività della norma stessa, individuato alla stregua della ratio legis”. La ratio qui è l’elemento che serve ad individuare l’ambito di operatività, il “confine” della disposizione di legge. Emerge, allora, come sia ancora lontana dalla nostra tradizione giudiziale, come si è potuto constatare, la concezione della ratio come anima della norma e come elemento assiologico in grado di sostenerne una corretta ermeneutica, almeno nelle dichiarazioni esplicite, contrariamente alla dottrina che, invece, su questi punti ha da tempo avviato le sue riflessioni. 515 Cfr. Cassazione penale sez. I, 10.11,1993 in Foro it. 1995, II, 558; Cassazione penale sez. I, 12.1,1993 in Cass. pen. 1993, 6, 79; Cassazione civile sez. I, 19.4.1991 n. 4234 in Foro it. 1991, I, 3114; Consiglio Stato sez. V, 26.10.1990 n. 731 in Foro amm. 1990, fasc. 10. 516 Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800 in Giust. civ. Mass. 1981, fasc. 3. 517 Cassazione civile, sez. lav., 2.2.1990 n. 689 in Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 2. 195 12. LE DISTINZIONE SOLUZIONI AL PROBLEMA DELLA 12.1. Premessa logica: ragionamento per analogia nella logica in generale e nel diritto in particolare 12.1.1. L’analogia nella riflessione teologica e filosofica. L’analogia nella logica: le proposizioni. Ragionamento sottinteso: induttivo, deduttivo, sussuntivo. Ragionamento per analogia come di probabilità (storicamente condizionato), non di certezza. Critica alla completa equiparazione tra analogia nella logica generale e nella logia giuridica. Esistenza di un termine medio che non è nella legge ma è nel diritto, come un giudizio di valore, non logico in senso stretto. Prima ancora di essere utilizzato come strumento di interpretazione giuridica quello dell’analogia ha costituito uno dei termini del ragionamento nella logica e, forse prima ancora, nella teologia. Si è già accennato come per quest’ultima l’analogia sia, anzi, stata considerata un’importante - talora l’unica - forma attraverso cui si è ritenuto che l’uomo possa attingere alla conoscenza del trascendente. Tutta la tradizione di pensiero occidentale, quindi, si può dire segnata, secondo un apparente e dirompente ossimoro, dall’intuizione analogica,518 non solo a partire dalla speculazione filosofica, ma anche in ambito di speculazione teologica. 518 L’apparente antiteticità dei termini non deve trarre in inganno. Potrebbe sembrare, infatti, impossibile una coesistenza dell’elemento di rigorosa logicità fornito da un procedimento come quello analogico con il dato, empiricamente alogico - o almeno che mette tra parentesi il discorso logico - dell’intuizione. In 196 Nella stessa concettualizzazione biblica519 dell’uomo si può riconoscere, pertanto, il nucleo essenziale della struttura di verità parlare di intuizione analogica non è affatto contraddittorio se si parte da un’accezione di analogia come quella che si viene delineando. Ciò che rende, in ambito giuridico, l’analogia così intesa vicina all’intuizione è, infatti, il superamento del dato letterale della norma per passare, sul piano assiologico, al collegamento con il sistema giuridico di riferimento. L’attualizzazione della norma e la sua interpretazione secondo la “vivente attualità”, dunque, avviene per un procedimento che approda al dato assiologico con un “salto”, oltre la stretta positività normativa, assimilabile a quello di un’intuizione. Questo non significa, tuttavia, che l’interpretazione analogica sia qualcosa di abbandonato ad una sorta di fluttuare tra le illuminazioni emozionali dell’interprete. La forza di gravità di questa “intuizione” è, comunque, la sua rigorosità, e il suo legame non tanto alla soggettività dell’ermeneuta quanto al dato dell’orizzonte assiologico cui dà accesso. Anche rimanendo su un piano non strettamente giuridico, comunque, si può sottolineare il fatto che, a ben vedere, persino la conoscenza intuitiva, per quanto scevra di ragionamento, non possa prescindere dall’approdo a risultati analogici e come, per converso, la conoscenza analogica non possa non avvalersi di procedimenti intuitivi. Interessanti a questo riguardo sono anche le considerazioni di Husserl nelle Ricerche logiche, II vol., a proposito dell’intuizione empirica, rivolta all’oggetto individuale, e dell’intuizione categoriale, che, partendo dall’oggetto empirico e in connessione con esso, coglie l’oggetto generale. Quest’ultimo tipo di intuizione raggiunge il mondo delle essenze o delle idee, e a queste Husserl si rivolge come ad “ontologie regionali”, regioni in cui l’essere si articola e si differenzia. Mi sembra che si possa cogliere un certo parallelismo tra l’idea di intuizione analogica e l’analisi del filosofo tedesco cui si è fatto cenno. Si può accennare qui al fatto che un’interessante analisi sull’intuizione e sulla sua portata gnoseologica fu approfondito da diversi autori, tra cui H. Bergson (Introduzione alla metafisica, 1903) e attraverso le idee di quelli che furono definiti “intuizionisti”, in particolare della cd. scuola del senso comune, per i quali alla base dell’agire etico stava l’intuizione, come capacità di cogliere principi razionali oltre la conoscenza empirica e come strumento per conoscere in modo prerazionale (“affettivo”, diranno Hartmann e Scheler) i valori morali. Su questo carattere “affettivo” della conoscenza, peraltro, indugia lo stesso Betti (Di una teoria generale dell’interpretazione, p. 41 ss) dove abbozza il discorso a proposito della cd. spiritualità dell’interprete, di cui si è già discorso al cap. 1. Permane, ad ogni modo, come si può constatare, una pesante ipoteca della conoscenza analogica su tutta il pensiero occidentale. 519 Cfr. Gn, 1, 26: “E Dio disse: ”Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, [...].” 197 conoscenza analogica: l’uomo è fatto a “immagine e somiglianza” di Dio, cosicché conoscendo l’uomo è possibile conoscere Dio nonostante i due termini non siano identici (o forse proprio per quello). L’uomo conosce Dio, insegna la tradizione biblica, per analogia con l’esperienza che fa di se stesso:520 questa impostazione rimane viva nella gnoseologia occidentale, che continuerà a riferirsi allo strumento dell’analogia come al mezzo in grado di mettere in relazione gli “enti” consentendo una sorta di superamento della “datità”521 a fronte dell’accesso all’”ulteriorità”. 520 L’immagine di Dio nel creato non è l’uomo individualmente considerato, ma l’uomo in quanto umanità. Secondo l’interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa (De hominis opificio 140C) per procedimento d’analogia è possibile conoscere di Dio anzitutto l’unicità: poiché l’immagine è unica, anche l’archetipo sarà uno. Tuttavia è possibile conoscere, sempre secondo Gregorio (Contra Eunomion, 256), solo ciò che è intorno a Dio, a causa della pochezza della intelligenza umana. “Poiché ci sfugge la natura della nostra intelligenza che è ad immagine del Creatore, ciò dimostra in maniera perfetta la somiglianza con Colui che la domina, esprimendo attraverso il mistero che è in lei la natura inconoscibile”. Interessante notare che la duplice definizione “immagine e somiglianza”, variamente interpretata, è intesa dall’autore citato come un rapporto di reciproca implicazione ma di non coincidenza. Per Gregorio, anzi, nella ragione risiede l’immagine, nel nous, ed è causa efficiente della somiglianza, che si acquista attraverso il gioco della libera volontà. Non sarà superfluo, ad ogni modo, sottolineare l’opportunità di una lettura non in termini di essenza ma di rappresentazione, di specularità del racconto esameronale; il che non toglie, tuttavia, l’influsso che la struttura di conoscenza analogica, nel passo contenuta, ha esercitato sul pensiero occidentale. 521 L’analogia, cioè, è il mezzo attraverso cui la realtà, che appare come un dato, consente di accedere alla trascendenza, a quell’”ulteriore” che emerge dalla relazione tra gli “enti”. Davanti all’insufficienza del “dato” della conoscenza soccorre, cioè, l’analogia. Stabilire un’analogia tra due “enti”, allora, significa oltrepassarne i confini di conoscibilità per aumentare, al contrario, le possibilità di conoscenza. Che cosa rivela la relazione tra i due enti? Se è una relazione di analogia significa non solo che c’è del diverso e c’è del comune tra questi enti, ma anche che il loro legame rimanda ad un assetto - di “valori”, o di “essenza” che oltrepassa il primitivo dato conoscitivo e forma una sorta di inter-essenza, come tale ulteriore. 198 Siffatta “analogia degli enti” fu sviluppata in ambito teologico soprattutto dal tomismo,522 favorendo questo “prestito” delle nozioni trascendentali da una realtà all’altra - umana e divina, naturale e soprannaturale - sulla scorta della loro avvicinabilità. D'altronde vale la pena sottolineare come la stessa matrice del tomismo, Aristotele,523 utilizzò i concetti di “somiglianza” per indicare non qualunque concordanza di due termini, ma la concordanza di due termini sotto l’aspetto della qualità.524 I dialettici parleranno di similitudo e diranno che “nihil aliud est, quam rerum differentium eadem qualitas”.525 E dunque, se ogni forma di conoscenza avviene per “riconoscimento” per identità e differenza dell’ignoto comparato con il già noto, allora ogni forma di conoscenza è mutuata sull’analogia. Anzi, l’analogia costituisce il paradigma stesso della conoscenza in generale e, quindi, anche del ragionamento giuridico. Siamo al nodo del problema: la difficoltà nel distinguere analogia da interpretazione estensiva si annida nella circostanza (nulla di più) che quest’ultima (come ogni forma di conoscenza) partecipa della struttura euristica per identità e differenza o per confronto tra “diverso” e “comune”.526 522 Ma fu respinta da autori come Duns Scoto e Occam, che rivendicarono, invece, l’univocità degli enti. Fra i contemporanei anche Barth nega l’esistenza di similitudini tra Dio e il mondo, respingendo anzi ogni discorso analogico in sede teologica. Cfr, in questo senso F. BOTTIN, La scienza degli Occamisti, Rimini, 1982, specialmente p. 87. Altresì, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia del medioevo (1987), trad. it. Bari, 1990, specialmente, p. 61 e ss., 105 e ss. 523 Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, libro V, citato anche da N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. I. 524 Per la verità i concetti sono enunciati con diversa significanza anche dalla speculazione platonica. Cfr. PLATONE, Il Sofista, 235 e), ed. a cura di Arangio-Ruiz, Bari, 1951. Cfr. supra n. 4. 525 N. BOBBIO, op. loc. ult. cit., che tralascia, tuttavia, ampi momenti della riflessione classica su cui infra. 526 Seppure rimanga affermata nel linguaggio corrente la dizione principio per identità e differenza, la dottrina più attenta già da qualche decennio ha messo in luce come questa dicitura risulti impropria. Infatti, il confronto dialettico non potrebbe darsi “per identità”, poiché, in ossequio alla confutazione platonica del sofista attorno alla quadripartizione dell’essere (uno - molti, quieto – in moto) due 199 termini “identici” non potrebbero sussistere, in quanto sarebbero la medesima cosa. Per questo l’indagine dovrebbe avvenire solo per “comunanza e diversità”, cioè raggruppando e dividendo gli oggetti da conoscere per ciò che gli accomuna e per ciò che li diversifica. In verità, a ben vedere, la “comunanza” dei due oggetti a confronto può darsi solo tramite un procedimento analitico che, sezionandoli, individui i profili “identici” tra i due termini che, per questo aspetto, diventano “comuni”. Come possono dirsi “comuni” due oggetti di indagine, se non legati da spetti che sono tra loro “identici”? La comunanza non può che essere data dalla corrispondenza dell’oggetto con il suo archetipo. Ciò che rende due termini “comuni” non può che essere l’identità, cioè l’esatta sovrapponibilità di uno o più dei loro aspetti, che poi questi aspetti si presentino già distinti dal fatto di accedere a due termini diversi, fa si che gli oggetti di indagine siano due e non uno. Altresì, il procedimento della dialettica classica deve essere completato con il principio, anch’esso di origine platonica, di non contraddizione e terzo escluso, ponendo la ricerca in termini di alternativa dualista e identificando il termine di indagine in un dato tempo, giacché il fluire del “divenire” consente a Socrate (per mantenere il noto esempio) di essere prima seduto e poi in piedi, giacché solo nello stesso tempo egli non può essere in piedi e seduto. Così come, l’alternativa tra identità e differenza può esplicare la sua efficacia euristica solo se mantenuta nei termini dell’alternativa, giacché l’introduzione di un tertium genus sposta il termine di indagine compromettendo il confronto. Per questo motivo, pur mantenendo la consapevolezza della diversità che distingue “identità” da “comunanza” (e proprio a questa condizione) non riteniamo di dover mutare la terminologia di quello che è orami conosciuto come principio per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso. Tra le molte monografie tedesche, per il ruolo che hanno avuto ed ancora hanno nella storia del pensiero, cfr. E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877; IDEM, Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894; R. STINTZING, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880; E. LANDSBERG, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1898; più recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre. Zugleich eine Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940; F. MÜLLER, Juristische Methodik, Berlin, 1976; nonché il più diffuso K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. In Francia, oltre ai capitoli dedicati al metodo nelle opere di Gény, di Eisenmann, Batiffol e Villey cfr. particolarmente, P. AMSELEK, Méthode phénoménologique et théorie du droit, Paris, 1964, p. 24 e ss. Per un'esplicita professione di applicazione del metodo di identità e differenza e del principio di non contraddizione e del terzo escluso, in un ampio capitolo introduttivo di carattere metodologico, ad imitazione delle migliori monografie germaniche, cfr. la rilevante opera di G. 200 Il concetto di analogia, nato per gemmazione dall’intuizione platonica, riceve nuova linfa innestandosi nelle costruzioni della matematica che attingevano all’idea di proporzione, tanto che ancora oggi l’elaborazione sull’analogia oscilla sovente tra il significato, in termini matematici, di “proporzione” e quello, più generico e in termini logici, di “comparazione”.527 La struttura logica dell’analogia ha, dunque, sempre fatto riferimento al concetto di “comunanza” tra due termini: la stessa derivazione greca del termine ( indica la relazione di identità, similitudine, tra due elementi o discorsi. E da qui, a partire dall’analisi delle proposizioni matematiche (e logiche), si è dipanato il percorso logico attraverso cui storicamente è andato ad operare lo strumento analogico. Si rende indispensabile, a questo punto, soffermarsi brevemente su tale percorso, al fine di chiarire quel ragionamento logico che, successivamente, verrà tradotto in termini giuridici. Dato un predicato afferente un soggetto si è giunti ad attribuire lo stesso predicato ad un diverso soggetto in base alla relazione logica di similitudine tra i due. In simboli, utilizzando il linguaggio proprio delle proposizioni matematiche e logiche, modernamente si è indicato questo procedimento analogico mediante le espressioni “q è p”, dove q è il soggetto e p il predicato, per indicare l’attribuzione di un predicato ad un soggetto; “s è p”, dove s è il diverso soggetto, per indicare l’assegnazione dello stesso predicato ad un diverso soggetto; “s è simile a q” , per indicare il BRUNETTI, Il dogma della completezza dell'ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p. 27. Cfr. altresì W. SAUER, Juristische Methodenlehre, cit. p. 327 e ss., p. 441 e ss., nonché 560 e seg. La rilevanza (anche) giuridica del principio di non contraddizione, inteso come condizione per il significato di ogni altro discorso, viene evidenziata da E. BERTI, Il principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica, memoria presentata dal socio effettivo Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti (Venezia), serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966. 527 Ci ricorda il detto di M. T. CICERONE nel Timaeus, “Id optime adsequitur, quae Graece latine comparatio proportiove dici potest”, N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. V. 201 passaggio di predicato sulla scorta della relazione e ragione sottostante di similitudine. Di per sé, si è detto,528 tale ragionamento non offre alcuna garanzia di validità, dato che per rendere credibile il passaggio del predicato “p” dalla proposizione “q” alla proposizione “s” è necessario che “p” sia la ragione sufficiente di q e di s. Il predicato “p” deve, cioè, poter sostenere sia il soggetto “q” che il soggetto “s”. Si è, allora, detto che, per dare credibilità al passaggio tra “q” e “s” si rende opportuno introdurre un nuovo elemento nel ragionamento, simboleggiato con “m”, che rappresenta il fondamento di validità della proposizione “s è p”. Da qui, poi, si è reso, in questo modo, possibile la transitività tra “q” e “s”, dato che si è allargato il discorso logico sfruttando il “ponte” dell’elemento “m”, passando attraverso la sequenza “q è p”; “q è m”; “s è m”; “s è p”. A questo punto, però, introdotto il concetto di un “m” in grado di spiegare in modo plausibile il passaggio tra “q” e “s”, si è resa necessaria una giustificazione di tale “m”, supposto esistente per giocoforza logico, ma implicante una sostenibilità almeno sufficiente. Si possono, su questo punto, rinvenire quanto meno due ordini di giustificazioni.529 Da un lato si è spiegato questo termine medio “m” come una relazione del tipo fondamento a conseguenza: “m” sarebbe il genere di cui “p” è il predicato, tale per cui si renderebbe possibile dire “tutti gli m sono p” e farne il fondamento di validità del ragionamento. In questo caso, perciò, il procedimento per analogia si è avvalso della logica deduttiva, cosicché il passaggio da “q è p” alla proposizione “s è p” è scaturito da una deduzione sulla proposizione generale “tutti gli m sono p”. Dall’altro lato si è individuato questo “m” come una relazione del tipo causa ad effetto: sarebbe, in forza di ciò, possibile dire “m è la causa di p” e farne, a sua volta, il fondamento di validità del 528 529 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 81 e ss. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 97 e ss. 202 ragionamento. In questo secondo caso, come si può notare, il procedimento per analogia si caratterizza, invece, come induttivo, sulla base dell’osservazione empirica che “m è la causa di p”. Traducendo tutto questo dal piano strettamente logico al piano giuridico si arriva ad affermare che è applicabile una certa disciplina giuridica prevista per un caso - contemplato - ad un caso che non è contemplato nella lettera della legge per il fatto di riconoscere una relazione di somiglianza - o la ragione comune? tra i due casi.530 Ma proprio su questo punto si innescano i contrasti, sull’individuazione di quel quid in grado di consentire il passaggio logico dal caso contemplato alla disciplina del caso non contemplato, da “q”, “a”, “s”. Non solo. La difficoltà nel distinguere l’analogia dall’interpretazione estensiva consegue alla difficoltà nell’individuare il confine di quel “q” e la comprensività di quel “m”, nonché la effettiva distinguibilità tra “q” e “s”. Difficoltà insormontabile ove si insista nell’indugiare (ecco il limite!) nell’allargamento dei “soggetti” per accomunarli tutti sotto lo stesso “predicato”, si pretenda cioè di risolvere e giustificare il passaggio dal caso contemplato “q” al caso non contemplato “s” mediante un allargamento del concetto di “q”, tale per cui vi si finisca per includere lo stesso “s”. Come, infatti, delineare i confini di “q” e decidere, per ipotesi, che, contrariamente a quanto è possibile fare con “s”, non vi rientra l’ipotesi “t”, totalmente estranea alla comprensività di “q”? Per accedere ad una risposta il più possibile univoca si rende, allora, necessaria l’analisi della struttura dell’analogia sulla scorta delle sollecitazioni che vengono dalla riflessione logica, nonché del fondamento - politico, giuridico e logico - dello stesso procedimento. Si è accennato alla configurabilità del procedimento per analogia come ragionamento deduttivo, ma anche, secondo altra accezione, induttivo. 530 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 624. 203 Per quanto riguarda l’induzione la riflessione logica e dottrinale non si è curata troppo di distinguerla sia dall’interpretazione che dall’analogia. Comunemente si è intesa, perciò, l’induzione come una fase del procedimento analogico, tramite cui dal precetto si evince il principio, dalla norma la ratio. In quest’ottica531 l’induzione diventa quasi un procedimento autonomo, che può vivere anche indipendentemente dall’analogia, e non più, pertanto, come una sua fase. L’induzione, infatti, si può ritrovare in quei procedimenti, cui si è più indietro dato rilievo,532 di ricerca dello “spirito del sistema” propri, piuttosto, dell’interpretazione in quanto tale533 e della norma. Non si è mancato, tuttavia, di osservare che, mentre l’induzione si struttura come una ricerca eminentemente oggettiva,534 la ricerca dello spirito si fonda su un ritrovamento delle “valutazioni immanenti e latenti” nella legge le quali, nel momento in cui costituiscono la ratio iuris di norme già formulate, possono essere adoperate come base o “addentellato da cui ricavare e rendere esplicite le massime adatte alla decisione cercata”,535 come sottolinea lo stesso Betti. Induzione e ricerca dello spirito vengono perciò, con queste puntualizzazioni, differenziandosi. Ciò significa che si viene attenuando anche la portata dell’avvicinamento dell’analogia all’induzione, almeno in senso stretto, e così che, sul piano logico, sarà necessario spingere altrove l’analisi dello strumento analogico. Si è cercata, allora, un’affinità tra l’analogia e la deduzione, tentando di costruire, cioè, il procedimento analogico come un fenomeno deduttivo: la situazione particolare prevista dalla legge, da estendersi al caso simile, si è individuata come esemplificativa, e 531 Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p.295. 532 Cfr. § 4.3 533 La colloca in questi termini L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 295 nota 283, o ammette che si parli, piuttosto, di “astrazione” o “generalizzazione”. 534 Lo sottolinea E. EHRLICH, Juristische Logik, Tübingen, 1925, p. 258. 535 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit. p. 31. 204 non tassativa,536 cosicché si è resa possibile la concretizzazione dei principi in soluzioni, e si è dato vita, così, alla vera e propria applicazione. Non solo. Si potrebbe qualificare come deduttivo anche il procedimento attraverso cui si sono trasformati e combinati i principi per produrne di nuovi, in una sorta, diremmo, di “deduzione di alto livello”. Come si può vedere si sono fusi e confusi in un unico elemento, quello deduttivo, più procedimenti e, inoltre, anche in questo caso, se si può riconoscere una componente deduttiva nel procedimento analogico, non è altrettanto sostenibile la perfetta coincidenza tra la deduzione e l’analogia. La deduzione, come per l’induzione, è stata ritenuta sussistere, infatti, anche autonomamente da un discorso analogico. Si è allora parlato, a proposito dell’analogia, di induzione imperfetta,537 e di deduzione temperata538 nel tentativo di conciliare i due procedimenti logici con le caratteristiche dello strumento ermeneutico e con le conseguenze che comporta l’applicazione al fenomeno giuridico di detti procedimenti. A ben vedere sia quest’ultima posizione, sia quella che la precede sono affette dal medesimo vizio di derivazione scolastica, cioè –rispettivamente- la fiducia nella deduzione come fondamento della conoscenza, sulla base del sillogismo aristotelico, oppure la costruzione speculare fondata sull’induzione di derivazione empirica in forza della critica alle capacità euristiche della deduzione dacché predicatus inest subjecto. In questo senso l’analogia viene di volta in volta ricostruita da quello che è ritenuto il punto di partenza: la deduzione o l’induzione. Ci si deve chiedere se non debba avvenire l’opposto: se il procedimento originario della conoscenza (addirittura il “sistema di funzionamento” della nostra mente) è il movimento 536 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II., cap. II. 537 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 624. 538 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 297. 205 dialettico per identità e differenza, allora sono induzione deduzione a dover essere plasmati sulla struttura dell’analogia. E proprio a questo sembrano condurre i tentativi di conficcare questa in quelle. Il margine di incertezza della induzione così come della deduzione sembra essere dovuto alla necessità, in ambito giuridico, di postulare, in ogni caso, la ragionevolezza del legislatore o comunque del sistema giuridico nel suo complesso. Perché, in tutti i casi, per deduzione o per induzione, l’applicazione della norma rimarrebbe sempre incerta? Per la necessità di postulare, sempre la ragionevolezza dell’interprete: senza questa non ci sarebbe, infatti, mai deduzione o induzione veramente “sicura”. Senza dire, poi, del fatto che, per quanto concerne il discorso induttivo, un margine di incertezza sarebbe dato dall’impossibilità di risolvere del tutto quella critica giusliberista che nega la giuridicità dei principi ricavati per induzione. Premesso ciò, pertanto, l’induzione sarebbe imperfetta, perché applicata all’analogia si caratterizzerebbe solo come giudizio di probabilità e non di certezza: imperfetta in quanto probabile ma non certa, come invece richiederebbero i canoni di un procedimento logico puro. Tradotto in termini giuridici avvalersi di un’induzione imperfetta significherebbe, allora, pensare come applicabile una norma sulla base della somiglianza con un’altra disciplina, ritenendo quella disciplina, non prevista per il caso non regolato, come altamente probabile.539 L’incertezza connessa alla deduzione, poi, tale per cui si è parlato, appunto, di déduction tempérée, sarebbe data anche da un altro fattore. Si renderebbe sempre necessario, infatti, come procedimento a posteriori ma anche in fieri dell’interpretazione, dare luogo a una verifica, da parte dell’interprete, di tipo assiologico sui risultati dell’interpretazione medesima, “temperandone”, dunque, gli esiti. E ciò al fine di evitare, appunto, l’irrazionalità della deduzione in relazione al sistema, o al contesto, o a fronte di 539 Sull’applicabilità dei criteri probabilistici all’analogia vedi infra. 206 un’avvenuta evoluzione del caso rispetto ai principi che disciplinano la fattispecie simile. In entrambe le ipotesi, pertanto, la necessità di un controllo che presto si rivela di tipo assiologico - sui risultati dell’interpretazione diremmo così “logica”, impedisce la completa assimilazione non solo dell’analogia, ma anche della stessa interpretazione tra i procedimenti mutuabili dalla logica in senso stretto e tradizionale. Per la medesima ragione, e a fortiori, è da respingere l’idea di sussunzione quale ragionamento sottinteso al procedimento di analogia, come si è già avuto modo di approfondire.540 Rigettata, almeno su queste basi, la stretta logica del sillogismo giuridico - e giudiziario - si è anche sostenuto che la cosiddetta inferenza analogica null’altro sia se non, appunto un ragionamento di probabilità e non di certezza. Probabile nel senso di storicamente condizionato, proprio perché l’analogia si applica come un giudizio di valore e non come un giudizio logico o di fatto.541 Il giudizio analogico, infatti, richiede di accertare non tanto la causa di un evento naturale, o i presupposti strettamente logici di un’argomentazione: esso implica il rinvenimento del “motivo storico” della norma, che non si identifica, evidentemente, con le mere motivazioni politiche del legislatore, ma implica, comunque, una serie successiva di scelte, tra cui quella della norma da applicare, del procedimento analogico con cui giustificarne l’applicazione, della giustificazione teleologica implicita nella valutazione del rapporto caso-disciplina. La probabilità insita nel procedimento analogico, pertanto, non è altro che quel “salto assiologico” che ogni interpretazione 540 Sulla sussunzione cfr. § 3.2.1, dove si sono prese le distanze dallo schema della sussunzione, contro cui si scagliò lo stesso Betti, riconoscendo peraltro il carattere di creatività del processo che collega il caso alla norma, ma non più che come svolgimento normale dell’atto di interpretazione. 541 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 364; L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953, p. 14 e ss. 207 richiede, ma allora, ancora una volta, nemmeno sul piano logico si può giungere ad una netta differenziazione tra l’analogia e l’interpretazione in quanto tale e, a maggior ragione, in quanto estensiva. Si è anche cercato di sostenere il carattere logico dell’analogia individuando in essa un procedimento mediante cui una parte della norma, in special modo la conseguenza giuridica, viene ricondotta a una fattispecie astratta che si sostiene non essere espressamente regolata.542 L’analogia, definita, secondo quest’impostazione, come Niveauschluss, come deduzione di livello, sarebbe una sorta di inferenza dove non si ha modificazione, appunto, del livello di generalità: il passaggio avviene da una norma generale ad un’altra norma generale. Il problema cruciale, comunque, rimane sempre quello dell’affidabilità dell’estensione della disciplina che l’applicazione analogica - o estensiva - comporta. Alcuni autori hanno negato, perciò, la configurabilità dell’analogia come un procedimento di probabilità543 avvalendosi della critica secondo cui parlare di probabilità di una norma è, per definizione, un nonsenso.544 Ciò che può essere certo o, al contrario, probabile - si è detto - non è tanto un ragionamento logico, il quale può solo essere formalmente valido o meno, quanto piuttosto le conseguenze di quel ragionamento, ove consista in un giudizio di fatto che possa dirsi, pertanto, “empiricamente vero o falso”. Il ragionamento per analogia, quindi, non può essere probabile o certo, ma semmai valido o meno. Solo a patto, però, di riferirsi a un’entità che possa essere reputata vera o falsa. Ma la norma non può mai ricondursi ad uno schema di vero-falso in questi termini strettamente logici, per cui il ragionamento per analogia su una norma non può seguire queste categorie di certezzaprobabilità.545 Peraltro, la validità o la probabilità, per vero, 542 Ne fa parola L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 322. 543 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 89. 544 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323. 545 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 323. 208 presuppongono l’univocità di senso o di ratio, che è l’oggetto della discussione: sicché la posizione in esame sembra incorrere in una petizione di principio. Ciò che lascia perplessi in tutto questo argomentare è comunque il tentativo di incasellare entro precise categorie logiche o meglio logicistiche - il processo interpretativo e, pur negandolo esplicitamente, il cedere di continuo alla tentazione di avvicinare la logica giuridica a quella scientifica, o meglio di far coincidere i criteri e i ragionamenti del diritto con quelli della logica formale. È questo indugiare nel logicismo giuridico che, illudendo che sia possibile trarre dalla legge nuovo diritto mediante operazioni puramente logiche, fa perdere di vista il fatto che il ragionamento ermeneutico, e quindi la scelta tra i metodi interpretativi, non può avvenire sulla base di considerazioni meramente logiche o tecniche, ma deve, alla fine, per forza essere condotta sulla base di giudizi di valore capaci di trovare consenso e aderenza storica più di qualsiasi inferenza logica.546 Per lo stesso Bobbio è da negarsi, pertanto, una completa equiparabilità del ragionamento per analogia nella logica e nel diritto547 e da riconoscersi, al contrario, una sostanziale complessità di esso, proprio in virtù della componente assiologica, tale per cui è anche possibile ipotizzarlo come ragionamento entimematico come lo definisce Bobbio548 - che procede da premesse verosimili per arrivare a conclusioni non assolutamente certe. Ammettendo, così, che la logica giuridica può anche non coincidere con quella formale si arriva ad ammettere l’analogia giuridica come ragionamento che procede per probabilità. La proposizione assunta come universale, allora, poiché si potrà rivelare come solo tendenziale o, pur formalmente 546 Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del legislatore. Relazione al 17. Congresso della Societa Italiana di Filosofia Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998. 547 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363. 548 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. II, cap. I. 209 ineccepibile, inadatta alla “imprevedibile e inesauribile creatività del reale” andrà costantemente verificata alla luce proprio del dato assiologico.549 E poiché la razionalità del sistema non è un dato ma, semmai, un prodotto,550 l’analogia finisce per essere null’altro che un procedimento di attribuzione di valore che ricerca il “termine medio”, quella “m” delle proposizioni logiche, non nella legge, ma nel diritto,551 non nella sfera razionale, ma in quella etica. È chiaro, però, che ciò si verifica solo laddove legge e diritto siano supposti come distinti e non coincidenti, sul presupposto che la legge non sia che una delle fonti dell’ordinamento giuridico.552 Non bisogna dimenticare, infatti, che non tutta la letteratura giuridica sull’antichissimo tema del rapporto tra legge e diritto si è risolta a favore di una distinzione tra i due concetti: anzi, si potrebbe dire che anche in tempi moderni è proseguita sul dramma di Antigone questa tensione, vero motore di ogni problematica giuridica. Da un lato, perciò, si sono schierati i sostenitori della tesi che vede coincidere legge e diritto: “tutto il diritto è nella legge e tutta la legge è diritto” potrebbe essere il loro manifesto. Ma contro questi postulati legalisti, riuniti attorno ad un’idea giuspositivista e normativista, si schierano quanti riconoscono, invece, la non esaustività della legge rispetto alla vastità del diritto. Anzi, il legislatore finirebbe sempre per emanare norme già “vecchie”, superate dal cosiddetto “diritto sociale”,553 per l’intrinseca incapacità della legge di “afferrare la vita e la storia”, 554 fuggevoli dalla rigidità degli schemi giuridici. Malgrado le storiche riflessioni sulla distinzione tra leges e jura non bisogna dimenticare, ad ogni modo, che, comunque, nel 549 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 624; N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 99. 550 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325. 551 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, cit., p. 324. 552 Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel diritto privato. (Appunto critico), Estratto da Archivio Giuridico, vol XCIV, Fasc. 2, p. 7. 553 Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 10. 554 Cfr. T. ASCARELLI, Il problema delle lacune, cit., p. 13. 210 nostro ordinamento il diritto ha pur sempre, almeno in senso lato, derivazione statale e che, quindi, la legge, anche se non esaurisce tutto il diritto, ne è pur sempre l’aspetto più eminente e più tipico:555 del resto porre eccessivamente l’accento sul diritto, piuttosto che sulla legge, rischierebbe di far cadere nella trappola opposta a quella in cui si imbattono i legalisti, cioè di abbandonare il fenomeno giuridico al mero gioco delle forze, ossia alla legge del più forte. Il che, poi, non è altro che la negazione stessa della giuridicità. “Law, in short, begins to grow as soon as society begins to grow; it is not invented and imposed ab extra at any specific stage of development”, scrive Allen.556 Pare, invece, più corretto sostenere che non tutta l’esperienza giuridica si esaurisca nella legge - ché, altrimenti, si arriverebbe alla stasi giuridica, alla negazione di un “diritto vivente” - ma che essa non possa prescinderne. Solo in questo modo, avendo delineato l’intreccio tra legge e diritto, senza determinarne la confusione, è possibile, allora, investire l’analogia del carattere di strumento di grado di attribuire valore, di fare un salto assiologico, tramite una ricerca che passa per la legge per attingere, alla fine, al diritto e, anzi, ne costituisce proprio l’originale trait d’union. Ma un ultimo profilo merita di essre qui considerato, in vista del momento ricostruittivo demandato alla fine di questo lavoro. E si tratta della obiezioni al procedimento per identità e differenza cui si ipira la nostra indagine e su cui è plasmato, lo si è visto, il procedimento analogico. La critica più radicale al procedimento per genere e specie, proviene dal kantismo, ove si afferma che l’aggregazione dei termini in comparazione presuppone già quel criterio di distinzione che si afferma essere il prodotto della ricerca. In altri termini, per collocare gli oggetti dell’indagine nelle diverse categorie nelle differenti caselle di un genere e di una specie, il ricercatore 555 G. FASSÒ, voce Legge (teoria generale) in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Milano, 1973, p. 792. 556 C.K. ALLEN, Law in the making, 7th ed., Oxford, 1964, p. 6. 211 dovrebbe già avere in mente, in via necessariamente preventiva, dunque, un criterio discretivo che gli consenta di sceverare operando quella classificazione di cui si è detto. In questo senso si riconosce l’eredità prettamente kantiana delle categorie, cioè di quella griglia a priori che costituisce il punto di forza ma anche il limite della speculazione del Maestro di Königsberg, già denunciata dagli allievi, giacché si sottrae alla problematicità del criticismo il punto di partenza, cioè proprio il carattere a priori delle categorie. Singolare destino, per chi voleva fondare un nuovo metodo speculativo libero da incrostazioni metafisiche, quello di veder dichiarata forte l’assonanza tra le categorie a priori e le idee platoniche. La stessa critica, infatti, potrebbe essere mossa alla dialettica classica, affermando che anche in tale prospettiva la distinzione dei termini oggetto di indagine può avvenire solo tramite la rimembranza delle idee che ha il soggetto conoscente e che proietta sull’oggetto di indagine, classificando per genere e specie. In questo modo, viene facile il parallelo tra le idee, bollate come metafisica, fuori dalla verifica empirica, e le categorie kantiane, parimenti fuori dall’esperienza sensibile e dalla verifica, programmaticamente assunte come a priori. In questa prospettiva, anche in Platone, come in Kant (e, per altro verso, secondo la tradizione empiristica inglese), il procedimento conoscitivo avverrebbe grazie alla memoria di archetipi noti e quindi sarebbe privo di capacita critica originaria, poiché alla fine della classificazione avremmo in mano quello sapevamo già, proprio quel concetto che ha costituito il metro con cui abbiamo potuto svolgere la classificazione. Così come senza le categorie non ci si può orientare, parimenti togliendo le idee non vi sarebbe più alcun riferimento con il quale accorpare, dividere, cioè classificare gli oggetti del conoscere; di più, la svolta idealistica sarebbe già in nuce nelle premesse platoniche, dacché il riconoscimento delle cose starebbe tutto nella rimembranza del soggetto conoscente; consentendo così il breve passo per il quale si afferma che è il soggetto (con il suo pensiero) a dare esistenza alle cose. Tuttavia, a ben vedere, per riconoscere il “diverso” ed il “comune” fra due termini si possono enucleare gli elementi specifici di ciascuno senza 212 fare riferimento a categorie pregresse, vuoi dell’esperienza, vuoi reperite aliunde.557 In altri termini, la forza euristica del procedimento che riteniamo programmaticamente di adottare emerge dalla considerazione che per esso non è necessario il confronto tra l’oggetto di indagine ed un secondo termine di paragone, di difficile, problematica (ancorché spesso non problematizzata) individuazione; al contrario, la comparazione avviene tra i due (o più) termini di indagine, in confronto tra di loro, senza la necessità di richiamare ciò che è fuori da quell’indagine nella sua puntualità, sia idea metafisica, sia categoria a priori. E così, ancora, il confronto può essere tra un oggetto fisico ed un termine astratto: ciò che caratterizza l’indagine è proprio il confronto tra entrambi i termini; non si tratta di un oggetto che dev’essere conosciuto mediante la sovrapposizione di categorie prefissate, bensì di due oggetti, entrambi sottoposti a conoscenza o a (ri)conoscimento, sicché anche il termine di confronto (le categorie kantiane, per capirci) è soggetto a nuova conoscenza ed a eventuale modificazione in ragione del confronto con un altro oggetto. Operazione impossibile per un criticista, come per ogni scienziato che intenda esplorare un oggetto fruendo del suo bagaglio di categorie, in quanto tali date per non modificabili, almeno all’interno della singola operazione conoscitiva, poiché questa è la funzione delle categorie, quella cioè di fungere da piano di riscontro, da misura, da immobile criterio di paragone. Ed è questo limite, invalicabile per lo scienziato, che non si pone come ostacolo al dialettico. Con la conseguenza che norma e principio di cui essa vuol essere specificazione diventano entrambi oggetto di indagine, non tentativo di sussunzione dell’una nell’altro. Ma su questo, infra al § 7.2. 557 E con questa espressione ricomprendiamo ogni momento non riconducibile all’esperienza intesa qui come luogo privilegiato degli orientamenti empiristi, accomunando le speculazioni che vanno dall’adduzione di Peirce alle categorie subliminali di Poincaré, alla ricerca della “qualità”. 213 12.1.2. Segue. Analogia come argomento a contrario: indeducibilità di una regola generale a contrariis da una norma eccezionale. Analogia e paradigma, proiezione e proporzionalità. Fondamento logico e politico dell’analogia. Ipotizzabilità della eguaglianza e della giustizia distributiva come fondamento dell’analogia e della interpretazione estensiva. I giuristi medioevali usavano distinguere, nelle partizioni dottrinali, l’interpretazione detta comprensiva da quella detta estensiva e all’interno di quest’ultima includevano, tra gli altri strumenti, l’argomentare per analogia, o argumentum a simili, e il cosiddetto argumentum a contrario.558 L’alternativa tra analogia e argomento a contrario, in particolare, ha diviso i giuristi che hanno sovente visto nell’opzione tra l’uno o l’altro strumento non soltanto la soluzione al problema delle lacune, ma anche una precisa scelta di campo sul fronte della delimitazione nella estensione interpretativa e della correlata autonomia di movimento da parte dell’interprete. In ogni norma, si è detto, sono contenute due norme generali implicite: una, detta generale inclusiva, che stabilisce che tutti i comportamenti giuridicamente simili a quello regolato si devono intendere come inclusi nella qualificazione normativa; un’altra, detta generale esclusiva, per cui - procedendo mediante l’argomento a contrario - tutti i comportamenti dissimili da quelli regolati debbono avere una disciplina opposta a quella qualificata dalla norma.559 558 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.I, cap. II. 559 Tra gli altri N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p. 604. Ma la formulazione più compiuta della teoria della norma generale esclusiva si deve a E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p. 214 Argomentare a contrario, allora, significa escludere l’estensione e l’analogic, ritenendo tutti i casi non espressamente contemplati come esclusi. Significa, cioè, come è stato detto, considerare le differenze, tra i casi regolati e quelli non regolati, come essenziali. Il problema che, però, a questo punto si sono posti i giuristi è proprio sulla effettività e sulla consistenza di tale alternativa tra analogia e argomento a contrario. Ogni proposizione giuridica, infatti, si è osservato,560 consente, dal punto di vista logico, di avvalersi di entrambi gli strumenti ermeneutici: addirittura vi è stato chi ha parlato,561 per la scelta tra l’uno o l’altro di Pandektlotterie, per indicare in modo pittoresco l’assoluta indifferenza per l’uno o per l’altro. Ma se l’argomentare a contrario o per analogia è assolutamente un’operazione non controllabile logicamente, assimilabile addirittura all’alternativa di una lotteria, ciò significa 17 e ss., la cui tesi sarà ripresa in Italia con originali varianti da D. D ONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910. Cfr. altresì, K. BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892, le cui tesi saranno riprese in Italia da S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18, p. I, p. 190, nonché IDEM, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena, 1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950, p. 371 e ss; ma si veda anche A. SOLMI, Sulle lacune dell’ordinamento giuridico, in Riv. dir. comm., 1910, p. 492; A. ASQUINI, La natura dei fatti come fonte del diritto, Modena, 1921, p. 10. Per le critiche a tali concezioni, cfr. A. L EVI, Contributi ad una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova, 1914, p. 383; F. FERRARA, Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225, nota 1; G. B RUNETTI, Il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p.27; M. ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, p. 34; E. BETTI, Metodica e didattica secondo E. Zitelmann, in Riv. Int. Fil. Dir., 1925, p. 49 ss.; Id., Teoria generale dell’interpretazione (1955), II ed., Milano, 1990, p. 839, nota n. 2. Cfr., altresì, A. FRANCO, Problema della coerenza e della completezza dell’ordinamento, Torino, 1988. 560 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 299 e ss.; IDEM, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 95 e ss.; vi sono citati come autori che sostengono questa tesi, tra gli altri, Jung, Gény, Heck, Jsay, Rümelin, Brütt. 561 E. FUCHS, Die Gemenischädlichkeit der konstruktiven Jurisprudenz, Karlsruhe-Brun, 1909, p. 55. 215 che occorre decidere non su basi logiche - per l’inclusione o l’esclusione dalla qualificazione giuridica prevista dell’elemento non previsto - dato che la scelta è logicamente non motivabile nel senso di “tecnicamente indifferente”. Differisce solo, e significativamente, sul piano di un giudizio di valore, per cui se la scelta tra l’argomento a contrario e l’analogia è del tutto arbitraria dal punto di vista logico, sul piano ermeneutico implica una scelta assiologica qualificante. Non si può, allora, per questa via continuare a sostenere che l’analogia opera nello spazio lasciato tecnicamente libero dall’argomentazione a contrario, perchè la scelta della stessa analogia si pone come scelta non logico-formale, cosicché la portata delle stesse proposizioni legali viene ad essere modificata dall’uso dello strumento ermeneutico: si fa dire alla legge qualcosa che essa, per definizione, certamente non ha detto, in netta opposizione al formalismo della Buchstabenjurisprudenz, ma in piena coerenza con il canone dell’attualità dell’intendere e dell’evolutività interpretativa. Ma ciò significa abbandonare la scelta tra l’argomentare a contrario o per analogia e inserire, invece, di buon diritto, il procedimento analogico tra gli ordinari procedimenti di interpretazione. In latri termini, si può concludere che l’argomentum a contrariis costituisca una sorta di procedimento analogico a rovescio: l’affermazione dimostra la sua rilevanza per la conseguenza che non sarà possibile dedurre una regola generale procedendo a contrario da una disposizione eccezionale. Un tentativo di distinguere, in qualche modo, l’analogia si è tentato tramite l’utilizzo dei concetti di paradigma e proiezione. A partire dal aristotelico, assunto nel suo significato tecnico dalla logica per indicare l’argomentazione fondata su un esempio, la dottrina si è avvalsa, infatti, del concetto di paradigma per assumere la funzione paradigmatica delle norme. Nell’interpretazione, pertanto, si giungerebbe alla disciplina dei casi non contemplati per trasposizione dal particolare al particolare, dall’esempio al caso. 216 A parte coloro che hanno voluto vedere nel paradigma lo svolgimento della struttura analogica562 appare non condivisibile il tentativo di utilizzare tale concetto per scardinare la funzione dell’analogia: basti l’obiezione che, se tale procedimento logico quello da particolare a particolare - può essere configurabile nella logica, non si può superare, comunque, il fatto che in ambito giuridico la proposizione normativa non si caratterizza come una qualsiasi proposizione ma è intrinsecamente dotata di imperatività e quindi di generalità e astrattezza. Non si potrà, perciò, mai considerare la norma giuridica come un esempio di disciplina, per cui nemmeno si potrà accedere ad un’idea di interpretazione come di applicazione di un procedimento paradigmatico. Del concetto di proiezione, invece, si sono valsi alcuni autori per distinguere da questo sia l’analogia che la sussunzione. Wurzel563 parla di proiezione come di “applicazione del concetto di una norma giuridica senza modificazioni a fenomeni che originariamente non vi erano stati rappresentati o almeno non lo erano in modo dimostrabile” e, collocandola in posizione intermedia tra l’analogia e la sussunzione, ne segnala l’influenza ad opera di elementi extralegali come l’esperienza e addirittura gli affetti. Ma non mi pare che questo concetto differisca di molto dai canoni dell’adeguazione dell’intendere e della corrispondenza o consonanza ermeneutica di cui parla Betti564 in base ai quali l’interprete deve “sforzarsi di mettere la propria vivente attualità in intima adesione e armonia” con quello che definisce “l’incitamento che gli proviene dall’oggetto”, cioè la norma stessa, imponendogli di conservare e, anzi, valorizzare la sua soggettività e allo stesso tempo gli sviluppi a cui è, dall’ambiente ermeneutico, sollecitato. 562 Per una ricostruzione puntuale delle posizioni dei diversi autori, rinvio all’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 324, nota 21. 563 Lo cita N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. I, cap. VI. 564 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 20 e ss. 217 Si è, dunque, analizzato il discorso del fondamento logico dell’analogia e della sua “legge di validità”, nonché della sua giuridicità. È emersa, comunque, la politicità del fondamento dell’analogia565 anche se su questo punto si dibatte una pluralità di posizioni. Converge, tuttavia, parte della dottrina nell’individuare alla base dell’analogia un principio di universalizzabilità566 e la connessa questione dell’uguale trattamento. È l’uguaglianza il valore e il criterio su cui poggia l’analogia, ossia una “uguale valutazione di circostanze di fatto ritenute giuridicamente simili”.567 L’analogia è proporzionalità, almeno in uno dei significati aristotelici568 e ciò, in ambito giuridico, si traduce nell’idea di giustizia, e in particolare di giustizia distributiva. In quest’ottica, pertanto, il discorso sull’analogia si può inserire in un più ampio approccio al vasto problema della giustizia, intesa sia nel senso di tensione alla certezza, sia di approdo all’equità: sempre, comunque, il valore a cui l’analogia attinge è quello di una fondamentale esigenza di “giusta uguaglianza”, nonostante ciò non possa rimanere sul mero piano etico ma debba essere riconosciuto e tradotto sul piano del diritto positivo. Non basta, cioè, un vago ideale di giustizia dell’interprete per conferire legittimità al ragionamento analogico e, comunque, ad ogni approdo ermeneutico.569 Ciò nonostante, però, per quanto si è venuti dicendo, si può ribadire che la forza, oltre che il fondamento, 565 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 361. 566 Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico. Sul fondamento ermeneutico del procedimento analogico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1546. 567 K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, cit. p. 132. Si cercherà al § 7.2.1. di sgiogliere l’ambiguità del termine “eguaglianza” in questo contesto, ancorando l’analogia (e, più in generale, l’interpretazione della norma) ai due elementi di tèlos e ratio. 568 Cfr. l’informato studio di L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325, nota 21. 569 Cfr. G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 1550. 218 dell’analogia è di natura concettualmente politica, ossia non tanto o non soltanto logica, quanto piuttosto quella squisitamente assiologica di un “procedimento razionale di attribuzione di valore”.570 Su queste basi, tuttavia, non poggia senza inconciliabilità, a ben guardare, l’interpretazione estensiva, nemmeno ove il superamento della letteralità cui l’estensione dà luogo si costituisce e si giustifica in termini di giustizia, cosicché ancora una volta verrebbe a profilandosi una ragione per eavvicinarsi concettualmente alla distinzione tra il procedimento ermeneutico di estensione e quello di analogia, cioè alla tesi che andiamo sostenendo. 570 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 325. 219 12.2. L’analogia legis e l’interpretazione estensiva 12.2.1. Distinzioni tradizionali: qualitativa e quantitativa, particolare e generale (ragionamento a sineddoche). Distinguibilità in base al presupposto, agli effetti, alla funzione (Betti e Bobbio). Impossibilità di distinguere una interpretazione ordinaria e una analogica posto che il criterio di ragionamento è quello analogico. La tesione che conduce ad equiparare l’intepretazione estensiva all’analogia sottende il carattere “analogico” dell’interpretazione estensiva -come di ogni altro procedimento conoscitivo in genere- ché la nostra mente sembra poter conoscere solo tramite apparentamenti tra ignoto e noto, tra “diverso” e “comune”. Si è cioè già sottolineato che ogni forma di conoscenza – logica- è debitrice della struttura analogica, sicché non bisogna lasciarsi condizionare da “quel po’ di analogia” che si trova in ogni procedimento euristico, in ogni ragionamento, che si riduce in sostanza ad una serie di equivalenze. Di più: per identità e differenza (e solo per identità e differenza = analogia) si può distinguere tra analogia ed intepretazione estensiva. Si è già fatto cenno alla distinzione tradizionale tra interpretazione estensiva e analogia sul piano sia qualitativo che, diremmo così, quantitativo. Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo della distinzione si sono già affrontate le classificazioni sul piano della diversità di struttura logica e di natura giuridica dei risultati dell’applicazione dell’uno o dell’altro strumento ermeneutico e si sono già indicati gli argomenti a favore dell’insostenibilità della distinzione.571 571 Cfr. §. 2.3.2. 220 Anche con riferimento a una differenziazione su una base più strettamente quantitativa, poi, la dottrina ne ha già da tempo indicato l’insufficienza, non potendosi, sostanzialmente, sostenere come criterio discretivo tra estensione interpretativa e applicazione analogica l’arbitrario confine determinato dalla minore o maggiore ampiezza dell’”allargamento” dalla norma al caso, o meglio di quella ipotesi normativa che si reputa implicita nella regola da interpretare e che, mediante l’applicazione di questo o quello strumento ermeneutico, si viene ad esplicitare.572 Agli stessi fondamenti si appellano anche quelle analisi che si soffermano sulla struttura analogica e ne sottolineano, in antitesi a quella dell’interpretazione estensiva, la tensione verso la ricerca di una norma generale: nell’analogia si passerebbe da una norma che regola il caso particolare alla norma - principio? - più generale, per ridiscendere, poi, di nuovo alla norma del caso particolare. Al contrario nell’interpretazione estensiva si passerebbe direttamente dalla regola del caso particolare alla regola - sempre particolare - del caso non previsto. A questa impostazione che si avvale di una costruzione definibile, col linguaggio della retorica, di sineddoche analogica, sono tuttavia sollevabili almeno due ordini di obiezioni. Anche ammesso che l’analogia possa passare dalla specie al genere, dalla parte al tutto, come per sineddoche, resta infatti, comunque, da un lato da chiarire il confine, in ambito giuridico, tra norma “particolare” e norma “generale”, dall’altro da giustificare l’esclusione di questo passaggio dal particolare al generale nell’interpretazione estensiva e, quindi, il fondamento di legittimità dell’allargamento dell’ipotesi normativa al caso pur sempre non esplicitamente previsto. Costituisce un indice che questi argomenti non siano però decisivi la difficoltà della giurisprudenza che indugia ancora su tali posizioni, ribadendo la distinzione tra i due criteri proprio su queste basi. 572 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 353. 221 Ne è un esempio la sentenza della Cassazione civile n. 5777 del 1990573 che, in materia di clausole vessatorie, ha stabilito un criterio discretivo netto tra interpretazione estensiva e analogia, dichiarando come l’analogia consista in un “processo intellettivo che, attraverso norme particolari, consente di determinare la ratio, il principio informatore da cui derivano per poi stabilire se in questi rientri anche il caso non preveduto”. Il ricorso all’analogia viene fatto discendere dall’esigenza di regolare un caso non preveduto dalla norma mediante il riferimento alla disciplina di un caso “con lo stesso fondamento razionale”, appunto analogo. Al contrario la sentenza indica il ricorso all’interpretazione estensiva “solo allorché il caso non previsto sia uguale a quello disciplinato e debba, quindi, essere considerato implicitamente compreso nella norma”. Ma come si vede, il fondamento della distinzione è analogico. Emerge chiaramente l’impostazione bipartita della sentenza e il sottile confine che, tuttavia, segna la differenza tra l’interpretazione estensiva e l’analogia con questo approccio. Da un lato, infatti, si fa riferimento ad un caso identico, implicitamente incluso nella norma, dall’altro ad un caso analogo, con il medesimo fondamento razionale. Come, però, si determini la differenza tra questa identità e l’analogia, tra il fondamento razionale e la considerazione implicita non è affatto chiarito. Sottesa, come si può capire, è ancora una volta l’idea di una distinzione qualitativo-quantitativa, volta a cercare in una maggiore o minore ampiezza di significato, in un distaccarsi più o meno dalla letteralità della norma, l’incerta barriera tra i due strumenti ermeneutici. E sotto le mentite spoglie della diversità logica e giuridica può celarsi, in verità, l’autonomia dell’interprete che risulta, comunque, l’arbitro della decisione di far rientrare una interpretazione in questo o in quell’ambito. Più onestamente un’ autrice574 ha fatto osservare come la differenza tra interpretazione estensiva e analogia possa essere 573 Cassazione civile, sezioni unite, 14.6.1990 n. 5777, in Giust. civile 1991, I, 79. 574 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p. 327. 222 identificata, a questo proposito, nell’attitudine dell’interpretazione estensiva a qualificarsi come “analogia facile”, ritenuta o pretestuosamente fatta passare per accettabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza; al contrario l’analogia sarebbe un’estensione che necessita di giustificazione. Il che, evidentemente, equivale a negare l’effettività di ogni distinzione, se si dimentica il procedimento analogico che è servito per conoscere analogia ed interpretazione estensiva. Sui tentativi di distinguere interpretazione estensiva e analogia in base al presupposto, agli effetti e alla funzione si sono soffermati criticamente sia Bobbio575 che, più tardi, lo stesso Betti576 per approdare entrambi, comunque, alla conclusione che non esista differenza tra i due procedimenti. La distinzione in base al presupposto si è avvalsa del concetto di volontà del legislatore, rinvenuta come effettiva nell’interpretazione estensiva e, al contrario, qualificata come mancante nell’analogia: da qui la diversità di presupposti. Ma, come già sottolineato affrontando il tema della volontà effettiva o presunta del legislatore577 ciò che rende possibile l’estensione “non è la volontà né effettiva né presunta, ma la ragione della legge”578 cosicché, la volontà viene ad essere per lo più ignota, o al più conoscibile solo attraverso la ragione. E se pur può essere suggestiva l’immagine attribuita a Federico II di Prussia secondo cui “basterebbe un tratto di penna del legislatore per mandare al macero intere biblioteche giuridiche”,579 è pur vero che, comunque, anche quel tratto di penna necessita a sua volta di essere riletto ermeneuticamente, per cui nemmeno questa presunta volontà 575 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II cap. 576 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 277 e IV. ss. 577 Cfr. § 2.3.1. E. BETTI, op. ult. cit., p. 278. 579 Lo riferisce E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 572. Incerta è tuttavia l’attribuzione del detto ripreso da molti al grande sovrano Hohenzollern. 578 223 esplicita è in grado di cancellare lo sforzo raziocinante dell’interprete. Eliminata la volontà, in questi termini, è presto soppressa anche la presunta differenza di presupposti tra i due procedimenti, almeno così intesa. I tentativi di distinguere in base agli effetti e alla funzione non si rivelano più efficaci. Per i primi la differenza si è voluta condurre sul piano dell’estensione di una norma già esistente nel caso di interpretazione estensiva e, per contro, di formulazione di una norma nuova nel caso di analogia. A parte l’obiezione che anche nell’analogia non si tratta di elaborare una norma “nuova” ma di rinvenire una massima di decisione sulla base di una comune ratio iuris,580 si nota che la struttura è la stessa tra i due procedimenti, per cui in entrambi si arriva a integrare il precetto nel senso di rendere esplicito ciò che era implicito nella norma. Quanto alla diversità di funzione, poi, l’osservazione secondo cui l’interpretazione estensiva estende le parole della legge mentre l’analogia ne estende il pensiero si rivela povera, constatato che se il “pensiero della legge” corrisponde alla sua intrinseca logicità, alla sua idea, questa non si estende ma, semmai, si sviluppa, si integra, si vivifica: ad estendersi - sottolinea Betti581 - è la portata, e con essa la formula della legge, non l’intrinseca logicità della legge. Smantellata anche questa distinzione Bobbio,582 da una parte, e Betti,583 dall’altra, concludono per l’inesistenza di ogni differenziazione tra i due procedimenti e in particolare Betti584 segnala come esigenza sottesa, questa volta, ad entrambi i processi, quella di spiritualizzare la logica del diritto e il procedere, per 580 581 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 172. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 280. 582 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.143 e 583 E. BETTI, op. loc. ult. cit. E. BETTI, op. loc. ult. cit. ss. 584 224 ambedue, perciò, secondo un argomentare dal carattere essenzialmente teleologico. A questo punto, tuttavia, si prospetta un’ulteriore questione: esiste differenza tra un’interpretazione, diremmo così, ordinaria e l’interpretazione analogico - estensiva, ipotizzate come coincidenti? E come escludere la contraddizione pratica da cui ha preso le mosse questa indagine? Per Betti585 l’analogia ha l’ufficio di porre, anzichè norme giuridiche, “massime di decisione”, ossia precetti per il caso concreto, e ciò in virtù della caratteristica di ogni interpretazione in funzione normativa, che, nella concezione bettiana, ha il compito di conoscere per agire, e quindi si rivolge immediatamente al caso concreto. Ciò, tuttavia, rischia di essere fuorviante, se non altro per il fatto che in questo modo si viene negando una certa funzione normativa della stessa analogia.586 E se è pur vero che nel momento applicativo della legge, interpretata analogicamente, ciò che si rinviene è una “massima di decisione”, questa assume valenza ermeneutica ulteriore rispetto alla fattispecie concreta, proprio in virtù dell’intuizione normativa che la sostiene. Contrariamente a chi587 nega che l’argomentare per interpretazione estensiva significhi rinvenire, comunque, la ratio implicita, o meglio il valore sotteso alla norma, mi sembra possibile, invece, sostenere che ogni interpretazione finisce per argomentare in questo modo, ad onta delle accuse di teleologismo,588 e che pertanto anche nell’interpretazione cosiddetta ordinaria sia rinvenibile un criterio di ragionamento analogico. Concordo, perciò, con Grosso che, commentando una sentenza della Corte Costituzionale589 in materia di leggi di 585 E. BETTI, op. ult. cit., p. 42. Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 644 nota 78. 587 Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 639 nota 58. 588 Cfr. M. BOSCARELLI, op. ult. cit., p. 638. 586 589 Corte costituzionale 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss. 225 pubblica sicurezza, introduce il concetto secondo cui l’analogia non porta all’allargamento dell’area di operatività di una disposizione mediante l’ingresso di una figura non contemplata. L’analogia, piuttosto, permette di constatare, rispetto a situazioni simili a quella formalizzata nella norma, la validità della disciplina ipotizzata, peraltro già vincolante sebbene esplicitata solo per relationem. Ciò mi sembra implichi evidentemente il riconoscimento dell’ordinarietà insita nella logica dell’analogia, così come l’ammissione dell’approccio analogico che è implicito in ogni interpretazione ordinaria. Su questa linea, peraltro, si era già inserito l’autore del commento alla sentenza della Cassazione civile del 1959,590 ponendo in luce l’equivoco, insito nella dottrina e nella stessa giurisprudenza, tra analogia, interpretazione estensiva e interpretazione lata o non elaborante. Laserra sottolinea come, mentre la dottrina, e la stessa sentenza in analisi, continuino a porre l’interpretazione estensiva come tertium genus tra interpretazione lata e analogia, di fatto questa contrapposizione non abbia senso. L’interpretazione dichiarativa, o non elaborante, o ordinaria, infatti, non può ridursi ad un mero legame alla lettera della legge, avendo essa stessa per oggetto non tanto le parole del legislatore, quanto il problema pratico della formula legislativa,591 cosicché si finisce per concludere che nemmeno l’interpretazione estensiva sfugge all’alternativa tra “rientrare nell’ambito del problema pratico di una formula legislativa o di superare questo problema.”592 Ma ciò significa, per Laserra, anche dedurne che l’interpretazione estensiva coincide con l’interpretazione lata ovvero con l’analogia, vale a dire che l’interpretazione estensiva in quanto tale non esiste. 590 Cassazione civile, I sez., 8.8.1959 n. 2500 in Giur. it. 1961, I, 1, 101 e ss., con nota di G. La serra. 591 Così anche E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 22 e ss; 163 e ss. 592 Cfr. G. LASERRA, Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it., 1961, I, 1, p. 104. 226 Pur condividendo l’analisi di Laserra sulla non terzietà dell’interpretazione estensiva tra l’analogia e l’interpretazione lata rimane, comunque, da giustificare la differenza tra questi ultimi due termini. Differenza che, come si è sostenuto, verrebbe a cadere laddove si riconosca la natura analogica di ogni accesso ermeneutico nel momento stesso in cui va a ricercare un’ulteriorità rispetto alla formula della legge che è data dalla ratio o dal valore che vi sono impliciti. A meno di non voler realmente concludere con Bobbio che “non è il procedimento a disposizione del giudice che determina il risultato, ma il risultato cui si vuol giungere che determina la regola che viene di volta in volta adottata”,593 cosicché la qualificazione come analogica dell’interpretazione estensiva o viceversa sarebbe del tutto indifferente ponendosi il più delle volte come giustificazione a posteriori di una scelta operata. Ma questa disincantata professione di pragmatismo giustifica l’indifferenza e l’irrilevanza di ogni attività ermeneutica, scaduta a paludamento dei capricci del giudice. 593 N. BOBBIO, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogia, in Giur. it. 1968, I, 1 c. 701. 227 12.2.2. Il senso della norma e la necessità normativa. Relazione tra norma e teleologia, validità e fini. Norma come Sollen e ammissibilità o meno di un discorso analogico che prescinda da un atto di posizione. Sollen e Sein: la cd. legge di Hume e le critiche alle interpretazioni che ne sono discese. Il problema dell’efficacia. Applicabilità o meno dei principi di non contraddizione e inferenza alla struttura normativa. La ragionevolezza come condizione del volere normativo. Si è già affrontato il discorso a proposito dell’analogia nella logica e nel diritto594 e si è accennato alle analisi condotte in termini di validità-invalidità, verità-falisità, certezza-probabilità. La questione che si affaccia a questo punto è la seguente: che cosa “rinviene” l’analogia? Un enunciato - lo si consideri nuovo, rinnovato, creato, dichiarato, rivivificato, ... - in termini descrittivi o prescrittivi, di essere o di dover essere (sempre che tale distinzione non sia fuorviante)? E ancora: sono applicabili all’analogia i principi di inferenza e di non contraddizione, alla stregua di un sillogismo logico, o si tratta di una questione, in questo ambito, priva di senso? Per tentare di risolvere le molte implicazioni connesse ai temi enunciati sarà necessario fare un passo indietro, fino ad arrivare alle domande intorno al concetto di norma e soprattutto a riguardo del senso stesso della norma: ad un problema di filosofia del diritto. Senza addentrarsi nelle spire delle analisi normativistiche o decisionistiche595 potrà essere utile partire assumendo la norma come espressione di un dover essere, concepibile, tuttavia, come un termine semplice, elementare, primigenio, ovvero come implicante 594 Cfr. § 5.1.1. Cfr. A. G. CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, 1968, p. 3 e ss. 595 228 il riferimento a caratteri non puramente normativi ma intenzionali, relativi al perseguimento di fini.596 Non possono non tornare alla mente le riflessioni kelseniane sul senso della norma597 come un Sollen, come un atto di volontà diretto ad un comportamento altrui, come una necessità normativa, distinto dal Müssen, contenuto di una regola relativa all’essere (Seins-Regel), che si qualifica come necessità causale, come relazione tra causa ed effetto, la stessa che identifica la relazione tra fine e mezzo, la necessità, appunto, teleologica.598 In questo quadro si ricorderà come Kelsen distingua a sua volta l’atto di posizione della norma, come essere (Sein), dal senso dell’atto medesimo, dalla norma stessa, che si pone come un Sollen. Come un Sollen, un dovere, si badi bene, non come un Soll Sein, come un dover essere: la norma esprime, cioè, più ancora che “qualcosa deve essere”, che qualcosa “deve”. Così mentre entro un contesto di necessità causale se all’antecedente non segue il conseguente si può dire che la legge è falsa - o, nel caso contrario, vera -, in un contesto di necessità normativa si deve dire che la legge è infranta e che, del resto, la validità normativa è data dall’atto di volontà che la pone e di cui la norma stessa è il senso. Ma allora, partendo da questa impostazione, che connessione può esserci tra norma e teleologia, tra validità e fini, e, a cascata, tra positività e interpretazione normativa? Se la norma è espressione di un dovere, la cui validità dipende esclusivamente dall’atto che la pone, come ammettere un discorso interpretativo e, soprattutto analogico il quale, per quanto si è detto, sembra prescindere da - e soccorrere proprio laddove manca - un esplicito atto di posizione normativa? Il tema dell’interpretazione e della necessità di qualificarla in termini di Sollen, Müssen o Sein, non può, a questo punto, 596 Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990, p. 5. 597 In particolare H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, (ed. post.) Wien, 1979, cap. 2. 598 Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990, p. 23. 229 prescindere da una considerazione a proposito della relazione esistente tra questi concetti, e in particolare a riguardo di quello, che sembra essere diventato un assioma, della presunta inderivabilità logica del dover essere dall’essere: è la cosiddetta “legge di Hume”, contenuta, a detta di coloro che se ne sono avvalsi, nel famoso “Isought paragraph”. “Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti”, scriveva Hume nel paragrafo citato, “un’osservazione che può forse risultare di una certa importanza. In tutti i sistemi di morale in cui finora mi sono imbattuto ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo consueto, e afferma l’esistenza di Dio o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi, tutto a un tratto, scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è-non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o non deve. Si tratta di un cambiamento impercettibile ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente diverse. [...] La distinzione tra vizio e virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra oggetti e non viene percepita mediante la ragione”.599 Poiché da questo passo si sono tratte conseguenze in ordine all’assoluta separatezza tra essere e dover essere, nonché alla reciproca inderivabilità - conclusioni dalle quali non sono avulse nemmeno le analisi kelseniane - è opportuno sottolineare come sia possibile ventilare l’ipotesi che le interpretazioni dell’is-ought paragraph siano spesso andate ben oltre l’originaria intenzione dell’autore scozzese. Di modo che, si può prospettare, in realtà, si sarebbero tratti esiti concettuali giustificandoli sulla scorta di un 599 D. HUME, Trattato sulla natura umana, (1739-40), tr. it. ed. Laterza, 1971, p. 496-497. 230 assioma non discusso, a ben guardare, nemmeno dallo stesso Hume.600 Hume non crea un solco tra fatti e valori, ma sottolinea la necessità di considerare l’essere prima di erigere qualsiasi forma di dover essere.601 Ma allora da dove deriva la sua validità la norma? Il “deve” non deriva, per Hume, ma anche per tutta una vasta tradizione di pensiero giuridico che arriva fino ai giorni nostri immediatamente dal dato di fatto, ma dalla normatività insita in quella convenzione che sta alla base della norma stessa, convenzione che non solo ha tradotto l’interesse individuale in un interesse generale, ma lo ha anche reso obbligatorio: è l’idea, che Kelsen svilupperà ampiamente, della Grundnorm, “principio in grado di assicurare l’unità logica interna di un insieme di norme”602 proprio perchè ne statuisce la cogenza. È proprio sulla validità della norma fondamentale, sulla validità del dovere, che si arenano tanto l’analisi di Kelsen quanto l’interpretazione che si è data della legge di Hume: la Grundnorm, 600 Tra le interpretazioni più rappresentative dell’is-ought paragraph si possono qui ricordare quella che ne ha visto una distinzione tra essere e dover essere, negando conclusioni normative da premesse descrittive - un dover essere da un essere - a cui si è obiettato non avere, Hume, elaborato che una scienza della natura umana, di stampo eminentemente teoretico, ben lungi dall’averne tratto delle applicazioni pratiche. L’interpretazione che ne ha dedotto l’autonomia della morale e la non riducibilità del dover essere all’essere è stata, invece, confutata sottolineando come Hume non credesse a tale autonomia, ma anzi, intendesse la morale come un procedimento artificiale con una rilevante componente razionale, capace di compiere distinzioni solo a posteriori: il che, del resto, non significa negare l’intrinseca diversità tra essere e dover essere. Un’ulteriore interpretazione ne ha tratto, infine, addirittura l’inesistenza del dovere, e quindi la non obbligatorietà della morale. In verità si può concludere che la legge di Hume è inapplicabile tanto alla morale quanto al diritto, dato che, così come l’ha enunciata l’autore scozzese, è riferita alla parte speculativa, più che pratica dell’analisi giuridica. Queste intuizioni sono state sviluppate da C. BARONI, Essere e dover essere alla luce della cd. legge di Hume, Tesi di laurea in Filosofia del diritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Padova, a.a.199596, pp. 123 e ss. 601 Cfr. C. BARONI, op. loc. ult. cit. 602 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 158. 231 infatti, è in grado di organizzare la cogenza, l’operatività e l’efficacia delle norme esistenti, ma rivela tutta la sua ambiguità proprio laddove non spiega la ragione per cui è necessario obbedire alla stessa norma fondamentale, e, a cascata, a tutte le norme che in essa traggono validità.603 L’analisi sul perché di quel Sollen - sia o meno lecita la posizione di una domanda sul warum (Warum soll etwas) conduce, allora al discorso sul fine della posizione delle norme. Kelsen sostiene che solo l’atto di posizione della norma può avere un fine, poiché è un essere, non la norma che è un dovere,604 per cui rimane del tutto inaccettabile un’interpretazione, teleologica, della norma in quanto tale. Ma allora si pongono numerosi problemi: se la posizione della norma è un atto di volontà, che senso può avere, in questa concezione, se non quello di una volontà di volontà? E ancora: davvero il Sollen non è diretto verso un Sein? E se la norma non è un fine ma un mezzo per raggiungere un fine, chi vuole il mezzo non vuole, per ciò stesso, anche il fine? Ancora una volta è l’interpretazione a far uscire dal vicolo cieco in cui, altrimenti, parrebbe di ritrovarsi. L’interpretazione del senso della norma, indispensabile quanto meno per “capirne il comando” - impone il riconoscimento di una connessione tra la norma e l’asserzione che ne costituisce il senso, tra il pensiero e la volontà.605 Così se può essere sostenibile, in astratto, come vera un’interpretazione humeana del tipo “ciò che è non può essere dovuto, proprio perchè è, e ciò che è dovuto non può essere, proprio perché è dovuto” da un lato rimane da risolvere l’impasse di che senso possa avere che qualcosa sia dovuto senza che sia dovuto che esso sia,606 dall’altro il problema ermeneutico fondamentale solleva 603 Suggestiva, su questo ampio tema, la nota L’ambiguità della “Grundnorm” di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 147 e ss. 604 Cfr. H. KELESEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., cap. 2. 605 Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità cit., p87. 606 Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 118. 232 il dubbio di come si determini che qualcosa è veramente dovuto senza sapere che cosa è - a meno di non attenersi alla mera letteralità - senza riconoscere anche al Sollen una qualche direzione verso il Sein. Perciò, a ben guardare, se non si vuole far sì che il destinatario della norma non sappia riconoscerne il comando, è necessario dotarsi di strumenti in grado di ricavarlo, ricucendo, si potrebbe dire, lo strappo tra Sollen e Sein: e, significativamente, questo “rammendo giuridico” non è necessitato né da un problema di verità o non verità della norma - perchè, su questo piano, si potrebbe obiettare che le proposizioni prescrittive non sono né vere né false607 - né di validità o invalidità608 - dato che non viene, per questo, meno la validità formale della norma, sussistendo quella della norma fondamentale - ma da un problema di efficacia. Un’obiezione, però, potrebbe, a questo punto, essere sollevata: quella, sostenuta da Kelsen,609 della non applicabilità del principio di non contraddizione e della regola dell’inferenza alle norme, né direttamente, né indirettamente. Da ciò deriverebbe il fatto che un eventuale conflitto tra norme non infirmerebbe la loro appartenenza all’ordinamento e, soprattutto, che non sarebbe logicamente derivabile la validità di una norma dalla validità di una o più norme superiori o collaterali.610 Questo, evidentemente, metterebbe fuori gioco l’intero discorso sull’analogia poiché tra un dover essere e un altro dover essere (o, meglio, tra due “doveri”, entrambi validamente sussistenti) non potrebbe sostenersi alcun rapporto analogico611 proprio in ragione della non applicabilità del 607 Per dirla con Aristotele, sono discorso semantico, significante, non apofantico, vero o falso; cfr. ARISTOTELE, De interpretatione, 17a. 608 Affronta il tema dell’impossibilità, per gli enunciati deontici, di essere intesi come giudizi di validità R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990, p. 60 e ss. 609 Cfr. H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, cit., capp. 57-61. 610 B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 232 e ss. 611 Kelsen non nega la possibilità di rapporti logici fra norme, anzi esplicitamente lo ammette considerato che una norma, pur non essendo un 233 sillogismo logico alle norme, essendo norme solo e soltanto quelle poste,612 e in ragione del fatto che non sussisterebbe correlazione tra la verità di un’asserzione613 e la validità di una norma, né tra la verità di un’asserzione e l’osservanza della norma.614 Il problema irrisolto, però, rimane comunque quello dell’efficacia, proprio a cagione di questa non correlatività tra validità e osservanza, nonché, sulla stessa lunghezza d’onda, rimane il problema della staticità dell’ordinamento se inteso esclusivamente come positivamente fondato. Il pericolo avvistato da chi contrasta questa obiezione derivante, a ben guardare, più dal dato empirico che da quello logico - è sempre quello della “naturalistic fallacy”, della fallacia naturalistica, che consiste nella deduzione immediata del Sollen dal Sein: il pericolo che si teme è quello di tornare ad invocare, per salvare il rapporto tra Sollen e Sein, tra validità ed efficacia, un ormai ritenuto sepolto (ma –paradossalmente- sempre temuto) diritto naturale.615 L’ostacolo si supera se si pone mente al fatto che, dal punto di vista dell’efficacia, l’espressione di un volere non può che essere quella di un volere possibile, almeno ragionevolmente, pena l’impossibilità di osservare quel volere. Non è sufficiente, cioè, la posizione di un dovere, ma occorre quella di un dovere almeno normalmente “ragionevole”. concetto, contiene concetti, elementi tra cui sono ammissibili relazioni logiche. Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 233. 612 Tale non applicabilità, in verità, si potrebbe qualificare come una tautologia, posto che la validità di due proposizioni contraddittorie nonostante tale loro contraddittorietà deriva dalla sufficienza, per l’esistenza - compresa in un concetto ampio di validità - di una norma, della sua mera esistenza. Così A. G. CONTE, Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, 1968, p. 21. 613 Per Kelsen un’asserzione è il senso (Sinn), o il contenuto di senso (Sinngehalt) di un atto di pensiero, mentre una norma è il senso, o il contenuto di senso di una atto di volontà. Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990, p.51. 614 Cfr. B. CELANO, Dover essere e intenzionalità, cit., p. 82. 615 Lucido, nell’individuare la radice delle difficoltà moderne del diritto naurale, F.GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 171, Un oggetto misterioso: il diritto naturale. 234 Ma è qui che si inserisce il cuneo che porta alla rottura della costruzione. Porre un dovere ragionevole significa distruggere il dogma della norma come puro Sollen e, al contrario, avvicinarla decisamente almeno ad un Soll Sein, se non proprio ad un Sein. Ma cosi si introduce un giudizio di valore che dà validità alla norma (anche) in base al suo contenuto, guardando al télos. Ecco, allora, che, scardinate le premesse sul senso della norma, è possibile intravederne, in lontananza, quello che si è indicato come orizzonte assiologico. Su questa base, perciò, si può richiamare l’analogia, fuori dal timore di inapplicabilità, come ponte, se non tra l’essere e il dover essere, almeno tra il dovere e il dover essere. L’interpretazione stessa, anzi, fondata com’è sul criterio di ragionevolezza, è il passante attraverso cui è possibile attingere al senso della norma senza per questo minarne la validità positiva.616 Ma allora, per quanto si è detto, tanto vale negarne, anche da quest’angolo visuale, ogni differenziazione con l’analogia, per riconoscere, al contrario, in ragione anche di queste peculiarità, la caratteristica essenzialmente analogica di ogni approccio ermeneutico. Tuttavia, sarebbe conclusione affrettata: l’analogia procede per identità e differenza, così come l’interpretazione estensiva e, più in generale, ogni forma di conoscenza. Se l’equiparazione è in forza di questo elemento, ogni forma di ragionamento è analogia. Ed è superfluo rimarcare che essa partecipa di ognuna, ma non si esaurisce in alcuna. 616 Scrive G.H. VON WRIGHT in Is and Ought, London, 1963, p. 72: “In an important sense, we could say the purpose of norms is to “bridge the gap” between Is and Ought, although not in the sense of establishing a deductive bound of entailment between the two”. 235 12.3. Sulla necessità di una norma autorizzatrice 12.3.1. Ipotizzabilità della tesi negativa sul condizionamento del legittimo impiego dell’analogia all’esistenza di una norma che lo prescriva. Posizione di Betti. L’analogia e il contenuto delle norme. La previsione di norme sull’interpretazione all’interno di altre norme (gli “altri casi simili”). Consuetudine e analogia. Ipotizzabilità di un ordinamento giuridico senza norma di autorizzazione al ricorso analogico. Il problema dell’ordinamento giuridico internazionale. Tra virtualità e realtà. Il dibattito sull’ordinarietà o meno dell’applicazione analogica e sulla normalità del procedimento proprio dell’analogia come di ogni dinamica ermeneutica ha portato la riflessione sull’indagine in merito alla necessità o meno di una norma che prescriva l’analogia per autorizzarne l’applicazione. Se, dunque, si ritiene che l’analogia sia nulla più che l’applicazione da parte del giudice di una norma si deve escludere la necessità di una esplicita regola che ne autorizzi l’impiego; esigenza avvertita da chi ritiene, al contrario, che con l’analogia il giudice ponga una disciplina per il caso singolo, segnalandosi come necessaria, in questo caso, una norma generale che ne sancisca la legittimità.617 Chi, peraltro, nega la necessità di un’esplicita norma autorizzatrice fa, poi, ricorso per giustificare l’applicazione analogica all’ipotesi volontaristica di una presunta volontà conforme del legislatore - che avrebbe regolato il caso nello stesso 617 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 627. 236 modo se lo avesse esplicitamente preveduto - oppure ad una norma implicita ma inespressa dal sistema - che legittima il ricorso analogico -, ovvero ancora ad una norma consuetudinaria. Per quanto riguarda i sostenitori di quest’ultima tesi618 vi è da rilevare che sovente essi si rinvengono tra gli autori tedeschi, a ragione dell’assenza nell’ordinamento germanico di una regola sullo stampo del nostro articolo 12 e che, pertanto, l’appello alla consuetudine non potrebbe essere giustificato altrimenti. Si è già analizzato l’articolo 12 e la critica che si è formata attorno ad esso. Il fatto che il fondamento dell’analogia sia rinvenuto nella razionalità,619 più che in una norma autorizzatrice fa, pertanto, non solo esplicitamente superare la prescrizione dell’articolo 12 medesimo, ma anche approdare a qualcosa di simile al diritto naturale come elemento in grado di autorizzare questo genere di interpretazione. Diritto naturale nel senso, come dice Bobbio, di ragione nel diritto, di razionalità, ma ancora di più: una intima attitudine alla regolarità, al darsi delle regole e rispettarle, propria della tradizione classica del diritto. Il problema è, semmai, di rinvenire ancora uno spazio per l’analogia anche al di là del riferimento alla ratio, e in particolare nei casi in cui il riferimento all’analogia figura per esplicita volontà del legislatore, ma non in una norma generale come quella del tipo dell’articolo 12, quanto in una norma particolare come quando la legge estende la sua disciplina ad una serie di casi tassativamente previsti ed aggiunge, in fine, la locuzione “e in ogni altro caso analogo.”620 Partendo dalla domanda implicita sulla sufficienza di una norma sull’interpretazione per escludere, comunque, tutti i dubbi 618 Tra cui si annoverano WRIGHT G.H. e L. ENNECCERUS, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, I, Marburg, 1928, p. 110 e ss; A. von TUHR, Der allgemeine Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, I, Leipzig, 1910, p. 41; E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903 p. 26. 619 Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II cap. 3. 620 Cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1987, p. 47 e ss. 237 ermeneutici e analizzando la funzione dell’analogia - individuata oltre che in una autointegrazione dell’ordine giuridico, anche di un “intendere nella sua intima coerenza la norma”621- pure Betti conclude per la non necessità di un’apposita autorizzazione all’analogia: essa sarebbe legittima sempre che non sia vietata. Quella che viene esplicitamente disciplinata, pertanto, non è l’autorizzazione all’applicazione analogica, ma quell’attività che è necessario impiegare per formare il convincimento, ossia il “procedimento da tenere per raggiungere l’intelligenza del quid iuris”622 che consente l’accesso alla verità normativa. È da negare, quindi, la posizione di chi individua il contenuto della norma accertato mediante l’analogia come una scissione logica della fattispecie prevista in tante fattispecie quanti sono i casi non previsti,623 scissione operata, appunto dalla norma autorizzatrice, così come la posizione di chi conferisce a tale ultima norma il potere di allargare il contenuto di quella da interpretare, che altrimenti sarebbe più ristretto.624 Tuttavia, si consideri l’analogia come uno strumento per accertare il contenuto di una norma,625 ovvero se ne giustifichi l’impiego per ossequio alla ragione insita nel diritto - come fanno Bobbio626 e Betti627 - rimane la superfluità, quanto ai risultati, di una norma generale autorizzatrice. Per quanto riguarda, invece, il problema della previsione esplicita di una norma sull’interpretazione non in via generale ma, al contrario, all’interno di una norma specifica e come regola di 621 622 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 248 e ss. 623 Così A. BURDESE e M. GALLO, Ipotesi normativa e interpretazione del diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 371. 624 Così R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947, p. 15 e ss. 625 Come fa M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 639. 626 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 123. 627 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 70 e ss. 238 chiusura dopo l’elencazione di casi tassativi, sono numerosissime le sentenze in materia. Paradigmatica, a questo proposito, è ancora la sentenza della Corte costituzionale del 1961628in merito all’interpretazione dell’articolo 121 delle leggi di pubblica sicurezza. La norma, che sancisce il divieto di esercitare mestieri ambulanti senza previa iscrizione in un registro apposito presso l’autorità locale di pubblica sicurezza, contiene un elenco di mestieri - ambulanti - che fa rientrare nella fattispecie normativa, e conclude con la dicitura “e mestieri analoghi”. Stante il carattere penale delle leggi di pubblica sicurezza la questione oggetto di sentenza sorge perché l’ammissione di una interpretazione analogica della legge penale esplicitamente prevista dall’articolo in parola con l’espressione “analoghi” - cozzerebbe non solo contro l’articolo 14 delle preleggi, ma anche contro gli stessi articoli 1 del codice penale e anche 25 comma secondo della Costituzione che prevedono l’irretroattività della legge penale e, per il principio del nulla poena sine lege, il divieto di analogia in ambito penale. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale per superare l’impasse è quella di escludere che le diciture di chiusura (“e mestieri analoghi”, “e casi simili”, “ed altri analoghi”, o altre equivalenti) ad elenchi di fattispecie, come nel caso in questione, possano autorizzare l’interpretazione analogica e di concludere, al contrario, che si tratti di “ordinario procedimento di interpretazione, anche se diretto ad operare l’inserzione di un caso in una fattispecie molto ampia e di non agevole delimitazione”. È questo, evidentemente, un escamotage della Consulta per sfuggire alla trappola dell’articolo 14 e degli articoli 1 c.p. e 25 Cost. che lascia, tuttavia, aperto il problema. Non può non essere rilevato, infatti, che il procedimento per cui si individuano “casi analoghi” a quelli elencati non sembra differire da quello normalmente impiegato per rinvenire i “casi simili” e le “materie analoghe” sulla scorta di una norma generale alla stregua dell’articolo 12 delle preleggi. Quanto meno, perciò, 628 Corte costituzionale, 27.5.1961 n. 27, in Giur. it. 1961, I, 1, 1043 e ss. 239 questa operazione dovrebbe essere inserita in una particolare accezione di interpretazione ordinaria, ulteriore rispetto al normale inquadramento di un caso in una fattispecie astratta.629 Ma ciò conduce, inevitabilmente fuori dalla proponibilità di una convergenza sul concetto di interpretazione ordinaria stessa, il che avvalora la tesi che assegna ad ogni interpretazione gli elementi del ragionamento analogico, come ormai abbiamo detto più volte. Per superare il problema, che comunque rimane, del divieto di analogia in ambito penale si è proposta, poi, un’ulteriore qualificazione, invero formalistica: la previsione di diciture come quella che, in materia penale, estende a “casi analoghi” una data disciplina incriminatrice significherebbe una deroga al generale divieto di estensione analogica, cosicché si verrebbe giustificando la previsione in casi come l’articolo 121 del T.u.l.p.s. senza ammetterne l’incostituzionalità. Del resto l’uso incondizionato dell’analogia, laddove si ritenga che essa dia luogo non a ragionamento di certezza630 ma di probabilità, potrebbe rivelarsi estremamente a rischio proprio in ambito penale, dove potrebbe scalfire il fondamentale principio di stretta legalità. Facendo appello, invece, alle tesi di chi, come Betti, individua nell’analogia non tanto la creazione di una norma nuova, quanto piuttosto il rinvenimento di una proposizione linguistica e concettuale già presente nel tema della norma,631 l’intenderla nella sua intima coerenza e allo stesso tempo il vivificarla in un “incessante ripensamento”,632 si può concludere che anche diciture come quella dell’articolo 121 del T.u.l.p.s. non fanno che 629 Cfr. C. F. GROSSO, L’art. 121 delle leggi di pubblica sicurezza e il divieto di analogia in diritto penale, in Giur. it. 1961, I, 1, 1046. 630 Sostengono la tesi dell’analogia come ragionamento di certezza N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.97 e ss; M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 634; contrario, invece è L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 363 e ss. 631 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit. p. 70 e ss. 632 E. BETTI, op. ult. cit., p. 140 ss. 240 riferimento, a loro volta, a “casi [e tempi] considerati” come prevede l’articolo 14 delle preleggi, e quindi non contrastano con il principio di stretta legalità perché, pur se in forma generica, i casi rinvenuti analogicamente in realtà già si trovano nell’attualità della norma. Rimane, a questo punto, l’interrogativo sul senso da dare, comunque, al divieto sancito dall’articolo 14, ma sul punto si approfondirà nel prossimo paragrafo. Ciò che qui è interessante anticipare è proprio la riflessione in merito all’interpretazione analogica esplicitamente prevista in norme incriminatrici, come nel caso dell’articolo 121 T.u.l.p.s.. Caso significativo proprio perchè oggetto di una recente sentenza del T.a.r. Liguria633 che, sulla stessa materia, si è espresso per un’interpretazione adeguatrice634 della norma ritenendo che per far scattare il divieto - nella fattispecie si trattava di includere tra i “mestieri analoghi” a quello, espresso, di “ciarlatano” l’esercizio della cartomanzia, dell’occultismo e della parapsicologia a mezzo della televisione - sia necessario interpretare la norma obiettivamente “alla luce dei nostri giorni”, apparendo “francamente impossibile” applicare automaticamente la qualifica data dalla norma incriminatrice (“ciarlatano”) a tutte le categorie elencate e non potendosi ritenere, perciò, incluse quelle in questione (“maghi e cartomanti”). Nemmeno le norme incriminatrici, pertanto, sfuggono all’interpretazione adeguatrice e la previsione di spazi apparentemente liberi dalle maglie del diritto, come l’allargamento di una disciplina a “casi analoghi”, testimonia quanto meno un’elasticità ermeneutica delle norme penali non inferiore a quella delle altre norme. Sull’analogia nel caso di elenchi tassativi di fattispecie un’ultima osservazione può essere fatta: la giurisprudenza tende, in questi casi, a escludere sia l’interpretazione estensiva che 633 T.A.R. Liguria, sez. II, 15.1.1997-14.2.1997 n. 37 in Guida al diritto 5.4.1997 n. 13. 634 Cfr. M. CLARICH, Con un’interpretazione moderna della legge salta l’equiparazione tra maghi e “ciarlatani”, in Guida al diritto 5.4.1997 n. 3, p. 71. 241 l’analogia,635 autorizzando, al contrario, una sorta di interpretazione letterale. Significativo è il fatto che l’elencazione specifica di casi è considerata un’implicita volontà di esclusione dei casi non menzionati, talvolta con l’esplicita cautela contro la violazione del principio costituzionale di uguaglianza. La giurisprudenza, e con essa il legislatore sembrano, cioè, ancora tesi nello sforzo di certezza e obiettività, cercate rincorrendo una specificità normativa contro gli arbitri dell’interprete: salvo, poi, cadere nella trappola delle deroghe o della pletora legislativa. Contro l’idea di certezza ermeneutica cozza anche il tema del rapporto tra analogia e consuetudine. Si è già accennato alla soluzione data da una parte della dottrina, soprattutto tedesca, al problema della norma autorizzatrice dell’analogia ricorrendo all’idea di una norma consuetudinaria facente funzioni di norma legittimante il procedimento analogico. Tuttavia il tema richiama, altresì, quello dell’interpretazione delle stesse norme consuetudinarie e dell’ammissibilità di un ragionamento analogico anche in questa materia. Senza allargare troppo il discorso sarà qui sufficiente accennare all’interrogativo che si pone lo stesso Betti636 in ordine all’ammissibilità di un’interpretazione analogica di norme consuetudinarie, chiedendosi se il criterio di valutazione della “necessità sociale”, o ratio iuris possa ricorrere anche in nuove situazioni di fatto rinvenute analogicamente, o per similarità con ipotesi regolate dalla consuetudine. Anche se la risposta che l’autore si dà è per la proponibilità della questione ma per una soluzione “non necessariamente risolta in senso positivo”,637 tuttavia, per le considerazioni che si sono fatte 635 Cfr. Cassazione civile, sez. lav., 9.5.1983 n. 3168, in Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 5; Cassazione civile, sez. lav., 27.10.1986 n. 6294, in Riv. infort. e mal. prof. 1987, II, 23; Comm. centrale imposte sez. IX, 16.3.1994 n. 733, in Giur. imp. 1994, 533. 636 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 276 ss. 637 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 331 e ss. 242 sulla natura dell’analogia non mi sembra che il ragionamento da farsi su norme consuetudinarie sia diverso da quello che consente di ricavare una norma a simili. E ciò sia nell’interpretare una norma consuetudinaria, sia, viceversa, nell’avvalersi di norme consuetudinarie come regole da cui ricavare “casi simili o materie analoghe”. Prima di concludere il discorso sulla necessità di una norma autorizzante il ricorso all’analogia converrà accennare ad un ultimo argomento: quello sull’ipotizzabilità di ordinamenti giuridici senza norme di autorizzazione al ricorso analogico e, in particolare, al problema dell’ordinamento giuridico internazionale. Si è già menzionato l’ordinamento giuridico tedesco come esempio di assenza di norme del genere indicato. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico internazionale nella sua attuale fase di sviluppo manca, evidentemente, una regola in grado di determinare a priori gli strumenti per colmare eventuali lacune ma, più direttamente, per interpretare tutte le possibili norme regolanti i conflitti interstatuali. A questo proposito vi è stato chi ha autorevolmente sostenuto638 addirittura la necessità da parte del giudice o dell’arbitro internazionale di emettere un giudizio di non liquet e quindi di rifiutare ogni decisione. In questa sede non si può, evidentemente approfondire la natura dell’ordinamento giuridico internazionale. Mi pare, però, di poter dire che è possibile rinvenire nella maggior parte degli ordinamenti statuali moderni una regola, scritta o non scritta, che si ispira all’idea di un’interpretazione secondo quanto si è fin qui esposto. Accogliendo, pertanto, il concetto di un’analogia non tanto creativa, quanto piuttosto attualizzante e vivificante le norme, non è indispensabile nemmeno in un ordinamento come quello internazionale la esplicita previsione di una norma che autorizzi il ricorso a questo strumento ermeneutico. Semmai il problema si pone in merito alla ricerca di quel quid, di quei valori sottostanti le norme su cui, nel caso 638 N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, Torino., 1963, p. 423. 243 dell’ordinamento internazionale, si può dubitare non tanto in ragione della consistenza, quanto in ragione dell’univocità e universalità.639 Peraltro, la norma autorizzatrice dell’interpretazione è l’ultimo problema dell’ordinamento internazionale dei nostri tempi. In ogni caso, se per analogia intendiamo il procedimento per identità e differenza, esso non dev’essere autorizzato, semplicmente perché così funziona la nostra mente ed è in forza di questo che si identifica la fattispecie concreta con quella astratta. L’analogia dev’essere qualcosa di più del semplice procedimento per identità e differenza e la distinzione dev’essere ricercata nello scopo della norma, nel ruolo che occupa all’interno dell’ordinamento. Ma è bene muovere dai limiti positivi della analogia legis per coglierne appieno la portata. 639 Cfr. per questi approfondimenti il capitolo seguente. 244 12.4. I limiti dell’analogia legis 12.4.1. Fondamento politico, logico, giuridico del divieto di analogia in rapporto alle norme penali e eccezionali. Estensibilità e valore del divieto. Posizioni della dottrina sui limiti della norma penale. Il concetto di norma eccezionale. Fluidità del rapporto storico tra regola ed eccezione (le eccezioni sono progressivamente diventate regole). Esistenza o meno di altri limiti oltre quelli dell’art. 14. Norme eccezionali e principio di eguaglianza: l’articolo 14 disp. prel. in rapporto all’articolo 3 Costituzione. Il problema dei privilegi legali nel credito. L’articolo 14 delle preleggi stabilisce che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Questa regola, come detto, è stata tradizionalmente interpretata quale divieto esplicito di analogia per le leggi eccezionali e per quelle penali, o almeno per quelle incriminatrici, o odiosae. Regola, peraltro, che storicamente ha proprio segnato il confine tra interpretazione estensiva e analogia, laddove la dottrina ha finito per indulgere all’estensione ermeneutica, in opposizione ad una stretta letteralità, sulle norme penali ed eccezionali giustificandola come interpretazione e negando, per contro, l’applicazione ad esse dell’analogia. Non tutta la dottrina, tuttavia, sembra essere concorde sulla natura di divieto costituita dall’articolo 14. Carnelutti,640 per esempio, ha sostenuto come l’articolo 14 non vieti l’applicazione 640 Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 90 e ss. 245 analogica, ma il suo significato, al contrario, consista nel fatto che le leggi penali e quelle eccezionali non possono servire alla ricostruzione di un principio. Posizione illuminante soprattutto se si considera che nell’articolo in parola si individua un “procedimento analogico a rovescio”641 e tale per cui tutti i casi diversi da quelli previsti dalle leggi penali e eccezionali si dovrebbero, in base ad esso, reputare contrari. Il che consentirebbe non solo di conciliare l’articolo 14 con il principio di stretta legalità della pena, ma anche di giustificarne la stessa esistenza, altrimenti da ritenersi superflua posto che, comunque, l’applicazione analogica non sarebbe, nemmeno nelle materie indicate, vietata. Alla concezione proposta da Carnelutti si è già risposto al § 5.1.2., dimostrandone la petizione di principio nel ricercare una norma generale a contrariis da una norma eccezionale. Né è condivisibile l’individuazione di un comportamento lecito a contrariis da una norma incriminatrice speciale. La circostanza che l’articolo 628 c.p. punisca chi, al fine di trarne un ingiusto profitto, sottrae la cosa mobile atrui con violenza alla persona o minaccia, non autorizza la sottrazione in assenza di violenza o minaccia, dacché cadrebbe sotto l’ipotesi dell’articolo 624 stesso codice; ma ugualmente a contrariis, da quest’ultima disposizione non si può dedurre la legittimità di una sottrazione della cosa mobile altrui avvenuta non al fine di trarne profitto. Tutt’al più si può affermare che non si è in presenza di furto, ma questo è quanto è ammissibile in base ad una lettura diretta o rovesciata (non vale qui distinguere) dell’articolo 624 c.p. Conviene soffermarsi, viste le oscillazioni della dottrina, sul fondamento del divieto sancito dall’articolo 14, anche in ordine alla ipotizzata non necessità di un’esplicita norma autorizzatrice che prescriva l’applicazione analogica: di fronte a questo assunto, infatti, è naturale interrogarsi sul valore di una prescrizione per così dire negativa, che impedisca, cioè, l’utilizzo di uno strumento che si assume non necessitare di autorizzazione espressa. Dal punto di vista logico-giuridico nulla impedisce, per la verità, di ipotizzare una norma come quella dell’articolo 14 così 641 Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, loc. cit. 246 come tradizionalmente è stata intesa, cioè come una prescrizione di non fare, perfettamente legittima. Il problema, semmai, è di ordine politico, o meglio di politica legislativa: che cosa fa prescrivere il divieto di analogia per le norme penali ed eccezionali? Abitualmente la soluzione al quesito è stata trovata nell’assegnare un carattere di “privilegio”642 all’interno delle norme eccezionali, nel fatto che esse perderebbero il carattere di generalità e di astrattezza, cosicché l’estensione analogica finirebbe per estendere la ragione di privilegio, e non la ragione di principio, trattandosi, appunto, di norme a fattispecie cosiddetta esclusiva.643 Per le norme penali, invece, il principio guida del divieto di analogia si è rinvenuto, come detto, nel principio di stretta legalità e di riserva a favore della legge, nonché di certezza del diritto. A queste considerazioni si è, tuttavia, obiettato che le medesime esigenze di certezza e di legalità sono rinvenibili anche in altre norme644 e, anzi, in ogni categoria normativa, oltre al fatto che il timore di incertezza collegato allo strumento dell’analogia applicato alle leggi penali deriva più da un’idea distorta dello strumento in questione che dai contenuti dello stesso, più da un “abuso del potere interpretativo”645 che dai risultati di un possibile uso. Il problema sorge, tuttavia, per le norme penali cosiddette scriminanti o favorevoli per le quali parte della dottrina ha escluso il divieto di analogia, limitando quest’ultimo, perciò, alle sole norme cosiddette incriminatrici. Il fondamento di una diversa disciplina è stato rinvenuto, a questo proposito, nel principio di libertà tale per cui il favor legislativo è, comunque, per l’esclusione della punibilità o della colpevolezza, come del resto suggerisce un’interpretazione teleologica dell’articolo 14.646 642 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 170 ss. M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus 1941, p. 67. 644 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. XIV. 645 N. BOBBIO, op. loc. ult. cit. 646 Cfr. G. BETTIOL, Diritto penale, Palermo, 1955, p. 110 e ss. 643 247 Dal punto di vista logico la ragione dell’esclusione delle scriminanti dal divieto di analogia è stato individuato anche in maniera diversa. Assegnando alle norme penali un carattere di eccezionalità, Rocco647 osserva come le norme negative dei precetti penali, quali si possono qualificare le scriminanti, verrebbero ad essere eccezioni delle eccezioni, cioè deroghe alle norme penali, di per sé eccezionali: sarebbero, pertanto, norme di diritto comune, e come tali estensibili per analogia. Alcuni autori648 hanno, poi, ipotizzato l’esistenza di scriminanti inespresse nelle norme penali consistenti non tanto in deroghe normative, in regole rinvenute per mezzo d’analogia, quanto piuttosto in veri e propri limiti taciti alla norma penale che, insieme alle disposizioni espresse, concorderebbero a qualificare l’interesse tutelato. Tuttavia, come si è osservato,649 anche tali limiti taciti devono essere ritrovati in qualche modo nella norma, siano pure essi impliciti, e ciò non può che avvenire per mezzo di un processo di interpretazione che, come visto, assume comunque caratteri non dissimili da quelli dell’analogia. Da notare che in questa materia la giurisprudenza si è dimostrata contraria alla ricerca da parte del giudice di “cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’utilizzo dell’analogia iuris”,650 più che altro, tuttavia, per una dichiarata fiducia nel legislatore, con le sue “espresse codificazioni”, più che nel giudice interprete. Contro l’opinione di chi ammetteva l’interpretazione per analogia di tutte le norme in bonam partem - per tutti Carrara, che nel suo programma notava come “per analogia non si può estendere la pena da caso a caso, per analogia si deve estendere da caso a caso 647 Ne fa menzione N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, cap. XIV. 648 Famoso, a questo proposito, il testo di P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Palermo, 1947. 649 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 373. 650 Cassazione penale, sez. VI, 2.4.1993, in Giust. pen. 1994, II, 317. 248 la scusa”651 - emerge la tesi secondo cui la scelta tra l’ammissione o l’esclusione del divieto per le scriminanti non sarebbe altro che una scelta politica,652 assegnata - tenendo conto del grado di evoluzione giuridica di concetti come quello di garanzia cui è informato il sistema penalistico - alla discrezionalità dell’interprete e al condizionamento storico in cui si trova immerso. Personalmente ritengo di dover aderire, per quanto si è fin qui detto, a questa ipotesi, suffragata, peraltro, dalla constatazione empirica che non può nascondersi l’uso strumentale che si è fatto dell’idea di analogia per le scriminanti e di interpretazione estensiva per le norme penali incriminatrici, teso, in realtà, a giustificare l’introduzione di nuovi concetti normativi al passo con gli adattamenti sociali e, quindi, a coprire una effettiva elusione del considerato divieto costituito dall’articolo 14. Operazione, come si può vedere, che non si fatica a qualificare come eminentemente politica. Ma allora il limite dell’articolo 14 deve pur avere una giustificazione o si deve ritenere inutile e superfluo come è stato ritenuto l’articolo 12? Per quanto si è osservato mi pare di poter dire che anche senza l’articolo 14 le norme eccezionali non dovevano essere applicate oltre i casi in esse considerati: ne sarebbe derivata, altrimenti, un’analogia esorbitante i suoi contenuti e non rispondente alla sua verità. Anche per le norme penali, tuttavia, è possibile fare lo stesso ragionamento. Il limite all’estensione dei casi disciplinati dalla norma penale, infatti, non è rinvenibile tanto in una regola come l’articolo 14, quanto piuttosto è già implicitamente incluso tra i principi informatori del nostro sistema giuridico, e anche esplicitamente sancito da articoli come l’1 del c. p. e il 25 della Costituzione. 651 F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale: del delitto, della pena, (1859-70) Bologna, 1993, n. 890, citato anche da F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale - parte generale, XI ed., Milano, 1989, p. 75 e ss. 652 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 372 e ss. 249 Ritenere inclusi, per via di interpretazione estensiva o di analogia, nella norma penale anche casi che esorbitano dal suo stretto contenuto - e il confine non può che essere determinato dall’interprete con la sua storicità e la sua attualità - mi pare debba significare, perciò, non tanto un andare contro l’articolo 14, quanto piuttosto contro la stessa ratio della norma penale e contro ogni corretta interpretazione, si voglia classificarla come estensiva o analogica. Rimangono, a questo punto, da fare alcune considerazioni in merito alle norme eccezionali. Come norma di diritto eccezionale è stata qualificata, storicamente, quella norma che non si può dedurre dal sistema, e per questo non può essere sottoposta a uno sviluppo logico, ponendosi come elemento extrarazionale.653 Non può sfuggire, tuttavia, come anche la norma eccezionale debba necessariamente avere una sua intrinseca razionalità, il che la differenzia dalla norma arbitraria. Quale rapporto, allora, tra la razionalità di questa norma e l’extrarazionalità rispetto al sistema? Questione, questa, che non è semplicemente un’argomentazione teorica, ma implica evidentemente ripercussioni sulla possibilità e sulle modalità di interpretare analogicamente le norme incluse in questa categoria. L’elemento problematico nelle norme di diritto eccezionale da non confondersi con il privilegio, individuato nella norma valevole per singole persone654 - è, dunque, “la collisione o la deroga rispetto ai principi fondamentali di carattere politicovalutativo dell’ordinamento giuridico”.655 Problema che sovente la dottrina ha superato trasformando il diritto eccezionale in diritto speciale - si pensi al caso del diritto commerciale - e superando, per questa via, il divieto. 653 Cfr. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.II, cap. V. 654 N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p.170. Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, p. 369. 655 250 Le riflessioni sulla politicità del fondamento del divieto per le norme penali si possono, pertanto, avallare anche per le norme eccezionali, con una precisazione. La qualifica di eccezionale rivela, in verità, una portata di relatività logica e “condizionalità storica”656 tale per cui il passaggio dalla norma eccezionale a quella, per così dire, comune avviene, più che per trasformazioni logico-giuridiche, per una continua evoluzione politica e sociale del tessuto su cui questa va ad operare. È un processo “fatale”657che ha fatto la storia del diritto, storia di “eccezioni che si trasformano in regole, di novità che si trasformano in normalità”.658 Essendo del tutto relativa la distinzione tra norma eccezionale e norma comune, pertanto, emerge chiaramente che solo l’interprete può, alla luce della sua attualità, stabilire il confine del suo sforzo ermeneutico, applicando sì anche lo strumento analogico, ove l’evoluzione delle fattispecie lo richieda, ma sempre entro l’orizzonte assiologico su cui fa perno il sistema e da cui, pena l’arbitrarietà del risultato, non si deve mai discostare. Su questa linea anche una sentenza della Cassazione civile del 659 1981 la quale, pur premettendo che per le disposizioni di diritto singolare è vietata l’interpretazione analogica mentre è consentita quella estensiva, secondo i canoni dottrinali tradizionali, aggiunge che neppure all’interpretazione estensiva può farsi luogo se la “ratio legis” non persuada che “il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati”. Il principio, affermato, nel caso di specie, per escludere l’applicabilità della legislazione in materia di pubblico impiego al rapporto di lavoro privato, evidenzia come, in ogni caso, necessiti un’interpretazione per rinvenire un valore in base al quale applicare l’estensione. Valore che, nel caso in sentenza, è rinvenuto in una 656 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 181 e ss. 657 La felice espressione è di L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 370. 658 Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 659 Cassazione civile, sez. lav., 28.3.1981 n. 1800, in Giust. civ. Mass. 1981, fasc. 3. 251 ipotetica volontà del legislatore ma che, per quanto si è detto, può essere tranquillamente identificato con l’orizzonte assiologico in cui si muovono le norme in questione. Per quanto si è detto a me non sembra di poter dire che l’unico vero limite dell’analogia - e quindi anche dell’interpretazione estensiva - sia un limite assiologico.660 Per questa via, infatti, l’interprete potrebbe, alla luce dei valori che rileva dal complesso sociale e giuridico, segnare i confini dell’interpretazione, confini che nessuna norma potrebbe mai stabilire definitivamente, neanche sotto l’illusione di un ritorno alla presunta certezza di una Buchstabenjurisprudenz. "La volontà del principe è legge, pertanto, in virtù della legge regia che istituì la volontà del principe, il popolo trasferì in lui il suo impero e la sua volontà".661 Da qui i privilegi sono stati considerati come norme di favore in vantaggio di posizioni di preminenza da proteggere, che il legislatore, soltanto perché tale, ha il diritto di introdurre, prescindendo dalla disparità potenziale di trattamento che il ius singulare introduce, sia nei confronti dei cittadini tra loro, sia tra i cittadini e la legge. Il ius singulare è quello che viene introdotto dall'autorità del legislatore contro le norme ordinarie della ragione, in vista dell'utilità.662 Di conseguenza, la giurisprudenza pretoria: "non si possono seguire le regole del diritto là ove esse sono state introdotte contro la ragione del diritto stesso",663 ed è questa l'origine e la ratio della norma di cui allo art. 14 delle preleggi, che vieta l'analogia delle leggi penali, per via interpretativa, nonché di quelle eccezionali o, comunque, derogatorie. Le norme eccezionali, pertanto, sono, in generale, secondo la loro stessa origine, o di carattere corporativo, come quelle, numerosissime che, in passato, affliggevano il diritto commerciale, ovvero discriminatorie, in senso classista, come quelle che esentavano od alleviano del pagamento dei tributi in vantaggio di potentati di ogni specie, o primaziali, 660 Cfr. contra L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p.328. 661 ULPIANO, D. I, 4, I. 662 PAOLO, D. I, 3; 16. 663 GIULIANO, D. I, 3, 15. 252 secondo la concezione, ad esempio, che si aveva, sino ad un tempo recente, della famiglia e dei diritti dei genitori, anche iure successionis, nei confronti dei figli, ovvero del consiglio di famiglia nei confronti degli orfani minorenni e delle vedove. Basta por mente, però all'attività svolta dalla Corte costituzionale, per aver la prova che quel residuo di norme ingiuste che ancora sopravvivono nella nostra legislazione, e di quelle novissime che, inavvertitamente, sfuggono ancor oggi alla percezione del legislatore, vengono fulminate tutte d'incostituzionalità, ex art. 3 cost., che rappresenta nella nostra legislazione l'archetipo stesso del concetto di giustizia realizzato nel divenire giuridico. Indicativa anche la concezione che il legislatore stesso ha avuto delle norme eccezionali, secondo i requisiti essenziali che esso ne ha stabilito così come risulta dalla relazione della commissione parlamentare estesa a commento dell'art. 4 del progetto preliminare del codice civile: "si è osservato, in definitiva, che occorre salvaguardare il principio che la legge eccezionale deve avere applicazione eccezionale, dev'esser, cioè, limitata sia nel tempo che nell'estensione, escluso ogni criterio di analogia".664 Il discorso ci porta allora all’Assemblea costituente ed alla definizione del principio di uguaglianza, come criterio che presiede e giustifica le norme eccezionali. Ne era emersa una prima stesura che ne aveva indicato le linee fondamentali nei termini seguenti: "1) la radice spirituale e religiosa dell'uomo è la base sulla quale soltanto è possibile costruire solidamente l'edificio dei diritti naturali, sacri ed imprescrittibili"; 2) "per dare solidità intrinseca a tali diritti la dichiarazione deve procedere anche ad un'affermazione relativa alla natura spirituale e trascendente della persona". I correlatori nominati, quindi, procedettero collegialmente alla stesura dell'art. 1 nei termini seguenti: "La presente costituzione, al fine di assicurare l'autonomia e le dignità della persona umana e di promuovere a un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica 664 Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M il Re imperatore, Roma, 1939, p. 8. 253 e spirituale in cui le persone devono completarsi a vicenda, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell'uomo, sia come singolo che come appartenente alle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona". Il preambolo suddetto, però, fu poi abbandonato, non già perché la commissione, e l'assemblea, nel suo complesso, vi furono contrari, ma perché nella seduta del 9 settembre 1946 si preferì non seguire quel metodo di compilazione per non caricare di ideologia eccessiva la nuova Carta costituzionale, e far sì, per contro, che i principi già espressi trasparissero dai singoli precetti piuttosto che da definizioni teoretiche di difficile acquisizione cognitiva dalla generalità dei cittadini: "assicurare una Costituzione accessibile a tutti, una Costituzione che possa essere compresa dal professore di diritto e, in pari tempo dal pastore sardo, dall'impiegato d'ordine e dalla donna di casa."665 Il giusnaturalismo, pertanto, ispiratore della nostra Carta costituzionale, è l'unico canone ermeneutico di diritto non scritto (nòmos agrafòs) che è lecito applicare per l'interpretazione delle norme allorquando si vuol ricercare la loro ratio. Le norme suddette, quindi, per essere giuste, devono essere riguardate: in ordine all'autore, sub species legitima potestatis di colui che le ha dettate; in ordine al fine, nella misura in cui esse sono state ordinate al bene comune, così come richiamato e definito nel corso dei lavori preparatori della costituzione: unde homines vivere possit et unde bene vivant; in ordine alla forma, intesa come trascendenza dall'esperienza sensibile all'intelligibile (potenza contrapposta ad atto), sotto il profilo in cui impongono oneri uguali a coloro che devono osservarle. La disciplina dei privilegi, pertanto, non fa trattamento uguale, secondo il criterio formalistico, a meriti diseguali, ma parifica persone e beni in una commisurazione plurima e composita di singole posizioni soggettive da riguardare e di beni della vita da attribuire, e realizza quella giustizia perfetta, sotto l'aspetto 665 Per originali osservazioni sul principio di uguaglianza nella Carta, cfr. C. PINELLI, Titano, l’uguaglianza ed un nuovo tipo di “additiva di principio”, in Giur. cost., 1993, p. 1792 e ss. 254 retributivo, che viene chiamata geometrica.666 Essa, inoltre, realizza la giustizia commutativa, quale regolatrice di rapporti sinallagmatici, perché commisura impersonalmente e quantitativamente il credito ed il debito bella realizzazione proporzionalistica in cui entrambi possono trovare soddisfazione, onde realizza in tal modo la giustizia che viene chiamata aritmetica.667 Da qui l'esemplificazione della giustizia, anche in segno grafico, come un numero elevato al quadrato,668 quale riassunzione composita delle sue caratteristiche geometriche ed aritmetiche, espressioni, entrambe, di relazioni egualitarie e di corrispondenza d'istanze opposte e confliggenti, onde la giustizia è l'uguale, perché rende lo stesso per lo stesso.669 La giustizia aritmetica, in particolare, che viene in risalto maggiore in tema di attribuzione dei beni materiali, come, per l'appunto, la disciplina dei privilegi, tende a far sì che ciascuno dei creditori sia soddisfatto paritariamente rispetto agli altri concorrenti, di modo che nessun d'essi riceva nulla di più e nulla di meno di quanto è possibile attribuirgli in concreto, onde la giustizia commutativa rappresenta il punto ottimale tra il danno ed il guadagno. Tale concezione della giustizia, come constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi,670 mette in rilievo che il significato abbia in concreto, l'espressione ius suum, quale sia, in sostanza, il dictamen practicum che consente di ravvisare la giustizia nei casi singoli. Il legislatore, nella fattispecie dei crediti concorsuali, l'ha ben fatto consistere nella proporzionalità susseguente dei diritti da comparare, ritenendo più meritevoli di soddisfazione quelli che precedono nella graduatoria da lui stabilita, con presunzione iuris et de iure di giustizia, che di essi vien fatta, e meno privilegiati quelli che ha 666 gheometriché analoghia: ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, V, 7, 1131 b, 667 aritmetiché analoghia: ARISTOTELE, Etica cit., V, 7, 1131 b, 25; 1132 II, 20. a, 10. 668 ARISTOTELE, metafisica; I, 5, 985 b, 29. ARISTOTELE, etica a Nicomaco; V, 8, 1132 b, 21, nonché, IDEM, grande etica, I, 34, 1194 a, 28. 670 ULPIANO, D. I, I, 10. 669 255 posto in seguito. Mai, quindi, come nel caso della disciplina dei privilegi, si evidenzia ex se l'esattezza del principio: ubi societatis ibi ius,671 poiché dove vi è pluralità concorsuale vi è bisogno di regole proporzionalistiche in termini di parità e di eguaglianza sociale ed economica. La consuetudinarietà delle leggi, infatti, è, di per se, indice di giustizia realizzata, perché il comune consenso prestato ad esse ab antiquo è segno indefettibile della rispondenza di esse alla retta ragione ed al senso di eguaglianza personale e reale che è insito nella natura degli uomini. Anche a tal principio etico-giuridico è stato recepito dalla nostra tradizione giusnaturalista in termini, inizialmente, di giurisprudenza pretoria, e, poi, di legge in senso formale e sostanziale, dalle costituzioni imperiali: "non devono esser cambiate mai quelle leggi che hanno ottenuto sempre un'interpretazione uniforme in ogni tempo;672 "la diuturna consuetudine ha forza di legge in mancanza di legge scritta,673 e da qui il secondo tratto di legge giusta, per essere osservata sempre, e soltanto in un secondo tempo trasfusi nell'edictum tralaticium, come regole di giustizia indubitate, e, quindi, nell'edictum perpetuum e nelle costituzioni imperiali sino ai vigenti codici europei; "nell'interpretare le leggi si deve avere riguardo, anzi tutto, al diritto che fino a quel tempo è stato vigente, perché la consuetudine è per esse un ottimo criterio ermeneutico",674 e da qui la caratteristica ulteriore di essere legge perequativa, perché introdotta ab immemorabile tra le regole del diritto ed interpretata sempre in modo uniforme; "nell'istituire leggi nuove deve apparire evidente l'utilità di esse prima di discostarsi da quelle che per lungo tempo sono state ritenute giuste",675 La legislazione, pertanto, deve realizzare quel diritto positivo che è ritenuto per antonomasia come espressione stessa della retta ragione e, quindi, come derivazione diretta della legge naturale, che è partecipazione stessa alla legge eterna, secondo la fantasiosa (ma significativa) etimologia del 671 ARISTOTELE, grande etica, VIII, II, 1159 b, 26. PAOLO D. I, 3, 23. 673 ULPIANO, D. I, 3, 33. 674 CALLISTRATO, D. I, 3, 37. 675 ULPIANO, D. I, 4, 2. 672 256 termine "diritto": i primi padri delle nazioni gentili, ch'erano giusti per la creduta pietà di osservare gli auspici, e che credevano divini i comandi di Giove dal quale appo i latini era chiamato Ious, ne fu anticamente detto il "ius", onde la giustizia appo tutte le nazioni s'insegna naturalmente con la pietà".676 Al di là dell’imprecisa,677 ma efficace, etimologia di Vico, se ne può dedurre che le disposizioni sui privilegi, come norme ordinarie di diritto comune (oggi detto civile), sono suscettibili sia d'interpretazione estensiva che analogica, ed a tal riguardo soccorre l'origine di legge positiva stessa dei privilegi di cui agli artt. 2753 e 2754 cc, che costituiscono un complemento del sistema previdenziale, che è oggi un corpus legislativo di carattere ordinario e generale, perché scaturente direttamente dai precetti di cui agli artt. 1 e 38 cost., onde di esso non è più il caso di parlare come di un ius singulare. Dev'esser rilevato, che l'articolo 14 delle preleggi si limita soltanto a disporre che le leggi penali e quelle eccezionali, o che derogano ad altre leggi, non sono suscettibili d'interpretazione analogica, ma non spiega in che cosa questa consista, ne come debba essere applicata, perché suppone che tali criteri ermeneutici siano già conosciuti dall'interprete, perché enunziati nel precedente art. 12. Di tanto ne danno certezza gli stessi lavori preparatori dell'art. 14, là dove la relazione del Guardasigilli678 lascia comprendere inequivocabilmente che i concetti d'interpretazione analogica ed estensiva sono già stati acquisiti cognitivamente in una norma precedente: "poiché la norma (inizialmente art. 4 ed oggi art. 12) non riguarda l'interpretazione estensiva ho ritenuto più appropriato chiarire che le leggi formanti eccezioni a regole generale non si applicano anziché non si estendono, e sempre al fine di ottenere maggiore chiarezza, ho sostituito considerati ad espressi, 676 GB. VICO, La scienza nuova, introduzione, (1730 – 1744) nell’edizione curata da Fausto Nicolini, Bari 1931 e 1953. 677 Per un’accurata etimologia di jus, cfr. F. GENTILE, Il giuramento. Conversazione tenuta agli Allievi del 170 Corso Ufficiali dell’Accademia Militare di Modena, Modena, 1989. 678 Cfr. supra, n. 4. 257 potendo quest'ultima parola far pensare che si debba aver riguardo solamente ai casi menzionati espressamente". La relazione al re, del pari, (n 4) dà la certezza che il concetto d'interpretazione analogica sia stato anch'esso già acquisito nel codice: "d'altro canto le leggi che restringono il contenuto e l'esercizio dei diritti subiettivi sono necessariamente leggi eccezionali, in quanto si contrappongono alle leggi generali che determinano il contenuto e l'esercizio dei diritti, e quindi non possono applicarsi analogicamente, secondo il principio già enunciato nell'art. 4. Consegue, pertanto, che la norma che indica quale sia l'interpretazione analogica è quella dell'art. 12, 2 comma, delle preleggi, che dispone che: "se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili e materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi dell'ordinamento giuridico dello Stato". La "materia analoga" presuppone che si faccia ricorso a discipline d'istituti diversi che possano avere soltanto qualche punto in comune col caso da disciplinare, o nei presupposti legislativi, o negli effetti pratici. La giurisprudenza al riguardo, non lascia adito a dubbi: "il ricorso alla analogia è consentito per regolare un caso non preveduto dalla legge con la disciplina prevista per un caso analogo, che abbia, cioè, lo stesso fondamento razionale, e consiste in un processo logico per risalire dalle norme espresse particolari, al principio generale che le governa.679 La giurisprudenza sull'interpretazione estensiva, a sua volta, puntualizza, con differenziazione apposita, in cosa essa consista: "fondamento dell'analogia non è la presunzione della volontà del legislatore, ma il principio dell'eguaglianza giuridica: presupposto che il rapporto non è contemplato, sebbene diverso da quello che è, abbia con questo somiglianza.680 La conferma che, nel caso presente, si tratti d'interpretazione estensiva e che questa riguardi casi simili e non identici, si ha dai lavori preparatori e, primieramente, dalla relazione della commissione reale (pag. 9) sull'art. 3 (oggi 12), che 679 680 Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 2404 del 23.11.1965. Cfr., per tutte, inizialmente, sent. n. 1801 del 14.7.1949. 258 reca le considerazioni seguenti: questa disposizione serve a stabilire nettamente che l'interpretazione non dev'esser altro, che la ricostruzione del pensiero del legislatore, ed è diretta a evitare il pericolo d'interpretazioni più o meno cervellotiche; certo che con essa non sono eliminate le difficoltà cui, nella pratica, l'interpretazione delle leggi dà luogo, tuttavia l'opera giudiziaria è un lavorio continuo d'interpretazione delle leggi, e sarebbe vana la fatica del legislatore che pretendesse di risolvere con regole generali le difficoltà numerose che si presentano praticamente e che per la loro molteplicità e per la loro varietà sfuggono alle sue previsioni; la scienza può dare e dà, effettivamente, regole appropriate che possono servire a guidare convenientemente l'interprete, ma nessuna di esse può aver valore di norma assoluta, per cui ciò che è essenziale è che l'interprete sia intelligente ed onesto e che ricerchi il senso della legge animato dal solo spirito della verità e della giustizia; "se i codici più recenti non contengono norme sull'interpretazione della legge, quasi tutti contengono norme per supplire al silenzio della legge, perché essa può presentare mancanze, sia per la visione incompleta delle varie contingenze da parte del legislatore, sia perché il progresso segna continuamente rapporti sempre nuovi e più complessi; in caso di lacuna della legge, è certo che il giudice deve compiere la sua opera, onde il codice di Napoleone sanciva nell'art. 4 che il giudice non poteva rifiutarsi di giudicare sotto il pretesto del silenzio o dell'oscurità o dell'insufficienza della legge, altrimenti sarebbe stato passibile di pene per il rifiuto di giustizia"; "tutti i codici più recenti contengono una disposizione a questo proposito, ed essi riproducono, in generale, e spesso letteralmente, quella contenuta nel capoverso dell'art. 3 (oggi 12) del nostro titolo preliminare, e, in realtà, non si può negar che essa sia redatta in modo da appagare le ragionevoli esigenze della dottrina e da servire convenientemente alla pratica giudiziaria". Da tale nomofilachia compiuta dal legislatore stesso discende che l'interpretazione es analogica delle leggi è il criterio generale ed ordinario dell'ermeneutica giuridica, perché le leggi sono facilmente insufficienti o lacunose non già per la loro formulazione claudicante od oscura, ma per l'evolversi rapido delle 259 situazioni reali con riguardo alla produzione ed alla disponibilità dei beni della vita ed ai rapporti che a quelli si riferiscono e che l'influenzano, e tale è da ritenersi il sistema previdenziale vigente che non consente soste interpretative o remore legislative dei valori umani, onde impone alla giurisdizione di adeguare il sistema generale già esistente ai casi più disparati con criterio direttivo coerente col sistema già posto ed il più possibile uniforme. In tal senso, peraltro, è concorde la nostra stessa tradizione giuridica, onde la ratio del legislatore si rivela come la conferma di un sistema già sperimentato con favore nel tempo, e da tali precendenti essa acquista maggior forza di convinzione e maggior certezza di applicazione circa l'estensione della legge a quei pochi casi non disciplinati precisamente o non previsti addirittura: "le leggi, come sostiene Teofrasto, devono esser dettate per quei casi che accadono più frequentemente e non già per quelli che avvengono rarissimamente";681 "non devono esser poste leggi per quei casi che possono accadere soltanto qualche volta";682 "le leggi devono riguardare i casi più frequenti e facili ad accadere e non già quelli che sorgono rarissime volte";683 "le leggi ed i senatoconsulti non possono essere concepiti in modo che concernano tutti i casi possibili, ma è sufficiente che provvedano a quelli che di più frequente accadono".684 Dev'esser tratta, pertanto, una prima conclusione al riguardo, ed affermare che l'interpretazione analogica delle leggi è, istituzionalmente, attività quotidiana della giurisdizione, senza la quale non sarebbe possibile render giustizia a tutti i cittadini secondo un criterio mirato e proporzionale di attribuzione di diritti o di obblighi. La relazione della commissione parlamentare, a sua volta, (pag, 728) che seguì quella della commissione reale, fu ancor più puntuale in tema d'ermeneutica legislativa, perché pose in evidenza la differenza tra il primo ed il secondo comma dell'art. 12 evidenziando il senso relativamente costrittivo del primo precetto, rispetto alla maggior libertà che il 681 POMPONIO, D. I, 3, 3. CELSO, D. I, 3, 4. 683 CELSO, D. I, 3, 5. 684 GIULIANO, D. I, 3, 10. 682 260 secondo accordava al giudice per i casi non disciplinati: "si è considerato che le de parti di questo articolo hanno due funzioni precise: la prima guida e frena l'interpretazione, stabilendo che deve farsi in base alla lettera della legge e l'intenzione del legislatore, l'altra dà, invece, una certa libertà all'interprete. "La commissione, pertanto,... non ha creduto che si possa precisare, come qualche commissario avrebbe voluto, cosa debba prevalere l'interpretazione di una norma nel caso di contrasto tra la lettera e lo spirito di essa, ed ha ritenuto che la soluzione della questione debba esser lasciata alla dottrina, mentre, indubbiamente, se il magistrato riconosce che nella formulazione della legge vi è un errore, egli non può dare la prevalenza allo spirito della disposizione. Risulta confermato, quindi, dall'autorità stessa del legislatore, che quel che deve prevalere in caso di norma incerta, o lacunosa è la ratio legis, considerata secondo lo spirito che anima il provvedimento legislativo, il dictamen practicum che con esso si vuol conseguire, la disciplina che si vuole introdurre in vista di un ampliamento della sfera dei diritti dei cittadini ovvero della restrizione di questi in funzione di un maggior bene comune. Di tanto, il pensiero del legislatore, peraltro, è sorretto ancora una volta dall'esperienza collaudata della nostra tradizione giuridica, che è, sotto tale aspetto, ancor più illuminante con riguardo all'esattezza della soluzione data alla tematica in esame: "non tutti i casi particolari possono essere compresi nelle disposizioni di legge o nei senatoconsulti, ma allorquando il senso di esse è in qualche modo manifesto, il magistrato può estenderlo a cause simili, e rendere in tal modo giustizia";685 "allorquando, come sostiene Pedio, una legge viene promulgata per disciplinare una determinata materia, è questa un'occasione favorevole per applicarla a quei casi analoghi che tendono alla medesima utilità, mediante l'attività interpretativa ovvero l'applicazione analogica";686 "Le leggi devono essere interpretate benignamente, in modo, però, che venga conservata a loro volontà";687 "la ragione del diritto e la benigna equità non 685 GIULIANO, D. I, 3, 12. ULPIANO, D. I, 3, 13. 687 CELSO, D. I, 3, 18. 686 261 tollerano che quanto viene introdotto salutarmente per l'utilità degli uomini, si rivolga in loro pregiudizio a causa di 'un'interpretazione severamente restrittiva",688 e da qui l'avvertenza fatta da Cicerone ai giurisperiti di non essere mai formalisti o restrittivi nell'interpretazione delle leggi al fine di evitare di dimostrarsi "di naso chiuso, emuctae nares". La sentenza di Modestino è quella che evidenzia meglio il vizio d'interpretazione in cui abitualmente incorrono le corti, perché esse si precludono ogni via ermeneutica e si è ristretto soltanto nell'interpretazione letterale della locuzione, con la conseguenza di non aver potuto cogliere tale espressione nella sua vera ragion d'essere, secondo l'intenzione del legislatore.689 688 MODESTINO, D, I, 3, 25. “Deve concludersi, pertanto affermando: 1) che le norme del codice civile di cui agli articoli 2753 e 2754 non costituiscono un ius singulare; 2) che esse, per contro, sono norme di legge ordinaria; 3) che esse sono tali anche con riguardo alla loro origine previdenziale; 4) che esse creano una par condicio tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi in ordine alla tutela dei diritti previdenziali riconosciuti ad essi ex legge; 5) che le norme suddette sono, di conseguenza, suscettibili d'interpretazione sia estensiva che analogica; 6) che, nella specie, dovevano esser fatte oggetto d'interpretazione analogica; 7) che tutti i criteri ermeneutici delle leggi sono dettate dall'art. 12 delle preleggi; 8) che l'art. 14 delle preleggi non è fonte d'esegesi legislativa, ma norma che disciplina l'applicazione delle leggi penali od eccezionali.” Così Cassazione civile, Sez. Lavoro, n. 7494 del 24/07/90. 689 262 13. L’ANALOGIA IURIS E I PRINCIPI GENERALI 13.1. Analogia legis e analogia iuris 13.1.1. Il problema dell’esistenza o meno di una scala gerarchica tra i criteri di interpretazione (interpretazione estensiva, analogia legis, analogia iuris). Critica alla distinzione qualitativa o sulla base dell’esistenza di un rapporto particolare-particolare (analogia legis) o particolare-generale (analogia iuris). Negazione della distinzione analogia legis-analogia iuris sulla base del fatto che metterebbero capo a un principio comune (norma inespressa) di ampiezza diversa. Ipotizzabilità di una coincidenza tra analogia legis e principi. Si è già accennato all’inserimento del ricorso ai principi generali dell’ordinamento in coda ai canoni legislativi per l’interpretazione della legge previsti dall’articolo 12. Il secondo comma dell’articolo in parola, come noto, dispone infatti che, “se il caso rimane ancora dubbio” - dopo la menzione del ricorso a “casi simili o materie analoghe” - “si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico”. Si è anche fatto cenno alla variazione,690 rispetto al precedente articolo 3 del codice civile del 1865 della dicitura “principi generali 690 Cfr. par. 4.1.1. “Devesi preliminarmente osservare che l'art. 12 delle preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione, stabilisce, anzitutto, che, nell'applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso se non quello fatto palese: a) dal "significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" (criterio cosiddetto di interpretazione letterale); b) dalla "intenzione del legislatore" (criterio cosiddetto di interpretazione teleologica). L'interprete, in forza dei suddetti criteri, deve acquistare la conoscenza della determinazione legislativa, tenendo presente come, nei diversi sistemi giuridici, alcune proporzioni siano ripetute e conclamate con costanza: una di queste è la regola (evidenziata dal citato art. 12) per cui, nel procedere all'interpretazione della 263 dell’ordinamento giuridico dello Stato”: l’antecedente codice riportava, infatti, l’espressione “principi generali di diritto”. Interessante, per capire la logica sottostante il concetto espresso dall’articolo, è rileggere la relazione a Sua Maestà il Re Imperatore, stilata in occasione del nuovo codice del 1942 (il cui primo libro, com’è noto, è entrato in vigore già nel 1939). “La specificazione introdotta nel progetto definitivo”, scrive il relatore, “a proposito dei principi generali del diritto, nel senso che tali principii debbono essere ricercati entro la sfera del sistema legislativo vigente, ha incontrato il pieno favore della Commissione parlamentare. Nondimeno, in luogo della formula «principii generali di diritto vigente», che avrebbe potuto apparire limitativa dell’opera dell’interprete, ho ritenuto preferibile l’altra, « principii generali dell’ordinamento giuridico dello Stato », nella quale il termine «ordinamento» risulta comprensivo, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche legge, occorre attenersi innanzitutto e principalmente al lato letterale. La legge va, dunque, interpretata alla lettera; e questo criterio impone al giudice di attenersi strettamente al diritto posto con la legge dello Stato. Anche se il criterio di interpretazione teleologica tende a questo risultato: le parole sono solo il mezzo attraverso il quale si esprime "l'intenzione del legislatore"; e come tali vanno interpretate, ma non fino al punto di attribuire alla norma un senso diverso da quello che, dal contesto della legge, risulta corrispondere alla finalità che la norma si propone (tradizionalmente definita anche come ratio legis); tuttavia, l'interpretazione secondo la ratio legis deve essere giudicata eccezionale. Il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 1983 n. 1482; Cass. 2 marzo 1983 n. 1557; Cass. 27 ottobre 1983 n. 6363; Cass. 7 aprile 1985 n. 2454; v. anche: Cons. St. Sez. V 15 giugno 1992 n. 555). All'intenzione del legislatore può darsi rilievo soltanto nell'ipotesi - eccezionale - che l'effetto giuridico risultante dalla formulazione normativa sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico - giuridico proprio delle espressioni che lo strutturano, solo perchè ritiene che l'effetto giuridico risultante sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (Cass. 6 agosto 1984 n. 4631). L'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.” Così Cassazione Civile Sez. Lavoro n. 3495 del 13/04/96. 264 dell’orientamento politico legislativo statuale e della tradizione scientifica nazionale con esso concordante”.691 La variazione dall’una all’altra dicitura è interessante non solo perché il tentativo è verso la precisazione di codesti principi generali, rendendoli qualcosa di più vicino al diritto vigente, ma anche perché, raffrontando i progetti di riforma dell’articolo rigettati con quello poi adottato emerge la volontà di dare peso non unicamente al complesso di norme esistenti, ma anche alla “tradizione scientifica nazionale”, all’elaborazione giuridica e quindi a quei principi rinvenuti non solo per diretta discendenza dai precetti ma anche per via ermeneutica. Prima di addentrarci, però, ad analizzare il significato e la portata dei principi generali nel nostro ordinamento - il che sarà fatto, anche se per sommi capi, nel paragrafo successivo - è utile indagare sul rapporto tra questi e gli altri criteri ermeneutici previsti dall’articolo 12. Si è già detto, parlando dei limiti all’analogia legis, che ritenere eccezionale o meno una norma dipende da un’interpretazione sistematica ed assiologica e che in questa operazione è coinvolta una valutazione qualitativa rispetto ai valori - e ai principi - che emergono dal dinamismo sociale e giuridico. Ciò implica, evidentemente, un ricorso a elementi che trascendono o sono impliciti - la norma nella sua letteralità. Ma non è solo l’analogia legis a fare da passante per il ricorso ai principi generali. Anche nell’ordinaria attività interpretativa, infatti, si è detto che il criterio per estendere la lettera della legge adattandola alla concretezza dell’esperienza deve essere quello del ricorso a valori sottesi alle norme stesse, cosicché anche senza passare per l’analogia si può, come si vede, fare ricorso ai principi. Tradizionalmente, invece, si è inteso il rapporto tra interpretazione estensiva, analogia e ricorso ai principi generali 691 Cfr. Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M il Re imperatore, Roma, 1939; nonché Corte d’Appello di Roma, sent. 10.1.1939, in Foro it., I, c. 677. 265 come una successione progressivamente sempre più ampia di criteri ermeneutici, come una serie di cerchi concentrici con al centro l’espressione formale della norma e all’esterno la concezione ideologico-valoriale che sostiene il sistema giuridico. Anche la stessa dizione dell’articolo 12 sembra rifarsi a questa idea, laddove parla di caso che rimane ancora dubbio, presupponendo, pertanto, una precedente applicazione di criteri ermeneutici diversi da quello, che appare come sussidiario, del ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Ciò che, tuttavia, non convince di questa gerarchia dei criteri ermeneutici è il fatto che, comunque, il processo interpretativo in se stesso comporta, come si è detto, la ricerca di questi principi, se non altro per poter legittimare il ricorso al criterio analogico: i principi generali, pertanto, non affiorano solo come extrema ratio, ma, al contrario, sono il naturale approdo di ogni autentica ermeneutica, sicché non ha ragione di esistere la scala gerarchica così come è stata tradizionalmente individuata nell’articolo 12. Contraria a questa impostazione è, tuttavia, parte della dottrina, incline piuttosto a individuare nell’analogia juris, ipotizzata come coincidente con il ricorso ai principi generali, uno strumento di “ulteriore astrazione” rispetto ai termini della descrizione normativa, per risolvere “ulteriori conflitti e situazioni sociali [...] irriducibili a tali termini”.692 In generale, perciò, quella dell’analogia juris è vista come una diversa forma di autointegrazione per sostituire i termini della fattispecie normativa, anche non dipendenti da un inquadramento sistematico, con termini più generali, in un rapporto, pertanto, che va dal particolare - il caso della norma - al generale - il principio così come l’analogia legis era vista, rispetto alla fattispecie normativa, come uno strumento che stabiliva con essa un rapporto da particolare - anche qui il caso della norma - a particolare - il caso “analogo” rinvenuto, appunto, per analogia. 692 .Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 53. 266 Conviene, a questo punto, fare un passo indietro e soffermarsi sul significato di questa analogia juris che, come visto, viene confondendosi con l’idea del ricorso ai principi generali dell’ordinamento, dato che il termine è caduto in disuso.693 Storicamente l’espressione analogia juris precedette, nell’uso, quella di analogia legis, indicando il concetto aristotelico di proporzione, il procedimento per ricavare soluzioni per i casi non previsti dall’armonia del sistema.694 Così da metodo per comporre le contraddizioni all’interno del sistema giuridico l’analogia juris progressivamente passò a significare l’intero sistema razionale del diritto, nella sua connessione organica, e nel suo principio logico di costruzione.695 Proprio a partire dall’origine del termine qualche autore ha sottolineato l’assoluta differenza esistente tra il rapporto analogia legis-interpretazione estensiva, aventi la stessa struttura logica, e quello analogia legis-analogia juris, aventi rapporto diverso, e precisamente quello di sussunzione tra la specie e il genere.696 Tuttavia si è anche obiettato come pure l’analogia legis stabilisca, dal punto di vista logico, un rapporto tra un particolare e un universale,697 dato che, come si è ampiamente evidenziato, nella ricerca della ratio, o del valore implicito nella norma si deve, giocoforza, passare dalla particolarità della norma all’universalità del principio. Il processo di astrazione non solo logica, ma teleologica e assiologica che il passaggio dalla fattispecie prevista alla fattispecie non prevista richiede non differisce, pertanto, dalla indagine sui principi generali dell’ordinamento. 693 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p.605. 694 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p. 605. 695 L. GIANFORMAGGIO, voce Analogia in Digesto civile, I, 1987, p.321. 696 N. BOBBIO, voce Analogia in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1957, p. 605. 697 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 358. 267 Anche Carnelutti dà contezza del procedimento analogico come di quello in cui “si risale mediante una semplificazione del comando espresso, dalla cui fattispecie si elimina un numero maggiore o minore di caratteri, a un comando inespresso più ampio e comprensivo al quale, in quanto per via di specificazione il comando espresso ne è generato, si dà il nome di principio”,698 pur se nella sua analisi l’analogia legis si differenzia dall’analogia juris per un criterio quantitativo, dato dalla maggiore ampiezza e generalità del comando cui il ricorso ai principi generali darebbe luogo. E, per la verità, questo sottolineare la diversa ampiezza del principio comune rinvenuto con l’analogia legis ovvero con l’analogia juris è condiviso da buona parte della dottrina, tra cui lo stesso Betti699: con l’analogia si metterebbe capo all’applicazione di un “principio”, inteso come proposizione normativa inespressa, cui si giungerebbe per astrazione logica da una o più norme espresse. Senonché altri autori700 fanno osservare che con il procedimento analogico si perviene, in realtà, all’applicazione di una norma espressa, poiché ad essere inespressa è solo la ratio legis, elemento sì comune, da cui traggono origine le argomentazioni, ma che non ha carattere normativo. Ad essere applicati, quindi, non sono mai né il principio né la ratio, direttamente, ma sempre si applica una norma rinvenuta per via di interpretazione. È perciò impossibile distinguere l’analogia legis dall’analogia juris sulla base del fatto che danno luogo all’applicazione di un principio comune di portata diversa, e allo stesso tempo è da accogliere, pertanto, in base alle osservazioni che si sono fatte sull’analogia, l’ipotesi di una coincidenza tra i due procedimenti, o comunque della irrilevanza pratica701 di una distinzione. 698 Cfr. F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 87. 699 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 69. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 648. 701 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia in Enciclopedia del diritto, cit., p. 359. 700 268 Di contrario avviso sembra essere parte della giurisprudenza, che utilizza la distinzione come escamotage per superare il presunto divieto di analogia, giustificando un’estensione interpretativa “audace” con l’analogia juris. Così fa, ad esempio, una sentenza del Consiglio di Stato del 1985702 che, attesa la tassatività delle forme processuali, ritiene non 702 Consiglio di Stato, adun. plenaria, 20.2.1985 n. 2, in Giur. agr. 1986, 117. Ma anche la Corte di cassazione ha avuto modo di statuire che “…secondo i principi generali del nostro ordinamento processuale, mentre l'art. 91 cpc è applicabile estensivamente anche nelle ipotesi in cui è prevista la forma dell'ordinanza che contiene una statuizione definitiva idonea ad incidere su un diritto sostanziale delle parti (artt. 350 e 375 cpc), dall'altro esso non è applicabile fuori delle ipotesi che non prevedono la chiusura di un procedimento con sentenza definitiva. Le tesi fin qui esposte hanno tutte un tratto comune che le unifica nella loro ratio e le contrappone, nello stesso tempo, a quelle della seconda tendenza giurisprudenziale di cui verrà detto subito. Esse sono ancorate tutte al principio aprioristico, che, nel caso in esame, assume vero e proprio valore di categoria giuridica, assoluta di per sè, come principio, ed indefettibile come applicazione, che la locuzione "sentenza che chiude il processo" debba essere intesa in senso restrittivo, secondo il significato fatto palese dalla parole, per cui, sotto l'aspetto letterale, essa non può significare altro che il provvedimento che definisce il processo ordinario di cognizione, inteso come strumento di sintesi che rappresenta, sempre e comunque, l'individuazione della legge al caso concreto, e, quindi, la definizione, a cognizione piena, della confliggenza di diritti soggettivi perfetti tra contendenti sottoposti al medesimo ordinamento giuridico. L'art. 91 cpc, pertanto, diminuito, così da principio generale del nostro ordinamento processuale a norma finalizzata alla complementarità della formulazione del giudizio racchiuso nel documento qualificato come "sentenza", non esprime più il suo valore universalistico di civiltà giuridica e di giustizia, che sovviene in expensis alle necessità di chi subisce un confronto dialettico di qualsiasi genere in sede giurisdizionale, e non risponde più, quindi, all'imperativo categorico di eliminare le lacrimae rerum costituite dagli esborsi inevitabili sopportati per proporre l'exceptio in litem improbam, ma si concretizza in una forma processuale, rigida, per definizione, e riduttiva, per valore giuridico, che lascia priva di tutela giurisdizionale una molteplicità di casi, come quello in esame, riguardante per l'appunto la tutela risarcitoria in sumptibus dei resistenti riusciti vittoriosi nei procedimenti cautelari. Tale valore minimale attribuito alla norma di cui all'art. 91 cpc si pone in antinomia non soltanto col criterio di giustizia commutativa che impone di ristorare il reus absolutus delle spese di lite sopportate, ma contrasta anche con la nostra stessa tradizione giuridica senza alcuna spiegazione plausibile, e di essa 269 applicabile in materia l’analogia legis, bensì l’analogia juris, col ricorso ai principi - processuali - generali. Giustificazione che, tuttavia, non significa altro, a ben guardare, che parrebbe un’analogia legis particolarmente arrischiata, e niente più, se non si accoglie la tesi –che a noi sembra preferibile- per cui l’analogia legis astrae dalla norma il principio (o ratio) ricercandolo poi tra le norme espresse quelle che partecipano della medesima ratio ed individuando così il caso analogo. All’opposto, l’analogia juris non trovando una norma che contenga la stessa ratio e portata, la produce sostituendosi al legislatore. bisogna tener conto allorquando, è necessario ricorrervi per riassumere i principi generali del nostro ordinamento giuridico, essendo essa criterio comprimario di ermeneutica legislativa, ex art. 12, 2 comma delle preleggi, secondo la ratio stessa che di tale norma ne dà la relazione al re (n. 12): "ho ritenuto preferibile la formula principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, che risulta comprensiva, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche dell'orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica nazionale (diritto romano, comune, ecc.)". La formulazione degli artt. 91 e 96 cpc si pone nel solco di quella che fu, in un primo tempo, la giurisprudenza pretoria e, successivamente, la legislazione imperiale. I punti salienti della tradizione romanistica con riguardo al thema decidendum in esame, sono tre: 1) il principio che il pagamento delle spese del giudizio non è soltanto la conseguenza della malafede (temeritas) della parte soccombente, ma l'attuazione del principio obiettivo della causalità, onde chi ha cagionato una spesa, indipendentemente dall'elemento subiettivo che l'ha animato, è obbligata a risarcire l'altra parte dell'onere economico impostale; 2) che l'obbligo del pagamento delle spese (expensae), sia dirette che indirette (sumpta), non è connesso esclusivamente all'accertamento di merito che conclude il giudizio, ancorchè la pronunzia della sentenza definitiva ne sia il sistema normale; 3) che la pronunzia di condanna alle spese può esser pronunziata anche con interlocutio nel corso del giudizio, anzichè con sententia e, quindi, prescindendo dalla soccombenza della parte in punto di merito.” Così Cassazione Civile Sez. Unite n. 2631 del 30/05/89. 270 13.2. I principi generali dell’ordinamento: tra norme e fonti di norme. 13.2.1. Concetto di principio. Posizione di Betti: i principi generali non si identificano con norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative. Eccedenza assiologica dei principi generali. Il diritto naturale vigente. Principi comuni e principi fondamentali; rapporto con i principi costituzionali. Principi di civiltà giuridica e della vita comunitaria. Analogia e criterio degli interessi. Insostenibilità della distinzione interpretazione estensiva/analogia sulla base della ricerca e applicazione di un “principio” giuridico. L’analisi dei problemi connessi ai principi generali dell’ordinamento meriterebbe un’intera trattazione a sé e, del resto, la letteratura in materia è, come noto, vastissima. Sembra, tuttavia, opportuno, soffermarsi anche su questo aspetto connesso all’interpretazione per dare, quanto meno, l’idea degli sbocchi cui il ragionamento fin qui condotto può dare spazio. Non sarà possibile, evidentemente, esaurire l’indagine all’interno del presente lavoro: ciò che interessa far emergere è, comunque, come le implicazioni connesse al complesso rapporto tra l’analogia e l’interpretazione estensiva sfocino anche nelle pieghe del delicato e cruciale tema dei principi del diritto. Ciò premesso la dizione dell’articolo 12 - che parla di “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” - e la già menzionata variazione rispetto alla precedente versione del codice del 1865 - che si riferiva, più scarnamente, ai “principi generali del diritto” - non può non interrogare, in primo luogo, proprio sul concetto giuridico di principio. 271 Già la constatazione della diversità linguistica tra le espressioni contenute negli articoli dei due codici citati rinvia a quella che è una diversità concettuale: la prevalenza, alla fine di un vivace dibattito, del pensiero positivistico su quello giusnaturalistico, sostenuto al tempo della redazione del codice del 1942 da Giorgio Del Vecchio, che proponeva la coincidenza e l’immedesimazione dei “principi generali del diritto” col diritto naturale.703 L’”ulteriorità”, comunque insita nell’idea di questo ritorno, attraverso i principi, al diritto naturale sembra respirarsi ancora soprattutto di fronte a chi, indugiando nell’immagine delle lacune del sistema giuridico, considera i principi come norme capaci di “mettere una toppa”704 di fronte a documenti legislativi non chiari. “Se il diritto positivo aveva dei vuoti”, scrive criticamente Bobbio705 a proposito di questo aspergere di “diritto naturale” i principi dell’ordinamento, “chi avesse guardato attraverso quei vuoti avrebbe visto comparire il diritto naturale”. I principi: norme o fonti di norme? Sulla capacità normativa dei principi si sono spesi ampi dibattiti della dottrina: dalla concezione che ne ha visto la qualificazione come norme su norme706 a quella che ne ha fatto norme di secondo grado,707 dall’idea di norme “superiori”708 a 703 S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496. 704 A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 183. 705 N. BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, 1963, p. 423. 706 N. BOBBIO, voce Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, 1966, XIII. 707 G.R. CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970, ora in R. GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94. 708 S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit., p. 498. 272 quella di leggi universali, o universalmente valide, contrapposte alle mere leggi generali contenute negli ordinamenti.709 Lo stesso legislatore, che spesso fa uso del termine “principio”, sembra ricorrervi in maniera polisensa: alcune volte per indicare semplicemente una disposizione generale, talaltre per riferirsi alle finalità della legge - alla cosiddetta mens -, altre ancora per segnalare il valore che intende tutelare.710 In epoca recente Dworkin711 ha proposto un’ulteriore distinzione, entrata anche nella nostra riflessione giuridica, tra norme e principi, tra rules e principles, considerando i “diritti”, e con essi i principi, come standards di giudizio non riguardanti aspetti contingenti, ma rispondenti ad esigenze in qualche modo legate alla giustizia, alla correttezza, alla tutela dei cittadini.712 Questo assegnare ai principi il ruolo e la dimensione, mancante alle norme, del “peso” o dell’”importanza”713 rischia, tuttavia, di passare sotto silenzio il fatto che anche le norme, dal canto loro, esercitano un’importante influenza sui principi, contribuendo alla loro definizione, e che, comunque, resta del tutto indefinito il grado di generalità necessario perché una norma possa cessare di essere norma e cominciare ad essere principio.714 Cosicché nemmeno la dicotomia norme-principi sembra soddisfare: ciò che è condiviso è, sicuramente, che i principi - al di là delle discussioni su che cosa siano - contribuiscono all’interpretazione delle norme per un’eccedenza assiologica che li 709 V. Per la pace perpetua. Progetto filosofico, sez. I, in I KANT, Scritti politici, a cura di Bobbio, Firpo, Mathieu, Torino, 1956, p. 290. 710 G. ALPA, I principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano, 1993, p. 33 e ss. 711 Cfr. § 2.2.1. 712 A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162. 713 A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p. 162. 714 A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles, cit., p. 169. 273 caratterizza715 e che consente loro di superare, in qualche modo, la rigida e ristretta dimensione normativa. Valenza interpretativa, e non tanto correttiva, quella dei principi, perché quest’ultima presupporrebbe, altrimenti, una necessaria sovraordinazione del principio alla norma: il che può avvenire solo accedendo ad un concetto di principio come norma di “rango superiore” a quello della norma da correggere.716 Ma vi è di più: come efficacemente è stato detto, i principi costituiscono la “koiné moderna dei giuristi appartenenti a ordinamenti differenti [...]. Essi assolvono oggi alla funzione un tempo assolta dal diritto romano: tendono alla comunicazione (se non alla omologazione) degli ordinamenti giuridici diversi per tradizione e per storia interna”.717 715 Cfr. V. FROSINI, Sull’interpretazione dei principi generali del diritto, in Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853. 716 G. OPPO, Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civile, 1991, I, p. 492. 717 G. ALPA, I principi generali, cit., p. 175. Ben più audace la corte di Cassazione, ove afferma che “A tal fine, doveva venire in rilievo l'istituto della "presupposizione", sul fondamento del quale la dottrina è tutt'ora molto discorde, ma che la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto come principio generale dell'ordinamento (sent. 17 ottobre 1947, n. 1619; 29 luglio 1948, n. 1281; 6 maggio 1949, n. 1143; 16 gennaio 1951, n. 97; 25 giugno 1952, n. 1883; 17 settembre 1970, n. 1512; 10 aprile 1973, n. 1028; 19 aprile 1974, n. 1080; 5 luglio 1974, n. 1954; 10 dicembre 1976, n. 4601; 8 agosto 1978, n. 3864; 24 gennaio 1980, n. 588; 22 settembre 1981, n. 5168), talora ritenendovelo introdotto in modo espresso e in via generale dalla norma dell'art. 1467 cod. civ., con la quale il legislatore ha espressamente sancito la rilevanza delle straordinarie e imprevedibili circostanze, sopravvenute ad alterare l'originaria economia contrattuale (sent. 9 maggio 1981, n. 3074; 17 maggio 1976, n. 1738; 24 gennaio 1974, n. 191; 3 ottobre 1972, n. 2828; 6 luglio 1971, n. 2104). Ora, secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza, si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto, comune a entrambi i contratti, il cui avverarsi (o il cui venir meno) sia del tutto indipendente dalla loro volontà e che abbia i caratteri dell'obiettività e della certezza, pur in mancanza di un espresso riferimento possa ritenersi tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, in modo da costituire il presupposto condizionante il negozio (c.d. condizione non sviluppata o inespressa). Ed è stato ritenuto, sulla scia di una parte della dottrina sul tema che il negozio fondato sulla presupposizione possa essere dichiarato nullo per difetto di causa ove, nel 274 Koiné che si ritrova proprio a partire da e attorno alla perenne dialettica tra l’eternità dei valori e la contingenza delle situazioni momento della sua conclusione, l'evento presupposto già difettasse nella realtà fenomenica; ovvero risoluto ex tunc quando, invece, venga meno nel corso di esecuzione del contratto, nel qual caso invero l'evento, riferendosi a vicende successive al valido sorgere del vincolo contrattuale, darebbe luogo allo scioglimento di questo per causa non imputabile ai contraenti (v. citata sentenza n. 5168 del 1981). Un rapporto giuridico così anomalo, in quanto non solo impone una controprestazione al creditore dell'onere, ma, per quanto riguarda il lato passivo, non rimane esterno al diritto reale cui è collegato, bensì sostanzialmente ne esaurisce (in perpetuo) i poteri di godimento normalmente attribuiti al titolare (rapporto che tuttavia questa corte, in forza del giudicato, deve considerare come configuranti un diritto reale), non può trovare regolamentazione se non nei principi generali del diritto, in difetto di altri istituti giuridici dai quali mutare, sia pure con i dovuti adattamenti, la disciplina giuridica per il caso concreto (art. 12, 2 comma, ult. parte della disp. sulla legge in generale). La corte però non ha indagato - come si diceva - se, esclusa esattamente tale diretta applicazione, il rapporto, per il fatto di non potere trovare una diretta regolamentazione nello ordinamento, a causa della sua dimostrata anomalia, non dovesse trovare disciplina nei principi generali dell'ordinamento. Quei principi del resto dei quali lo stesso art. 1467 c.c., per unanime consenso, è esso stesso - come sopra si è detto - espressione. Si riconosce infatti che detto articolo non è che la applicazione, sia pure entro determinati limiti e nel solo campo dei rapporti obbligatori, del principio della presupposizione, cioè del principio che dà rilievo alle circostanze presupposte non manifestate, riassumibili nell'espressione rebus sic stantibus, che condizionano ogni assetto di interessi concordato tra gli interessati, principio che a sua volta è il portato di insopprimibili esigenze di equità. L'impugnata sentenza va cassata e la causa rinviata ad altra Sezione della stessa corte d'appello di Napoli, la quale procederà a nuovo esame della controversia applicando il seguente principio di diritto: "Il giudice chiamato a decidere una controversia relativa ad un rapporto giuridico anomalo, che non trovi disciplina nell'ordinamento, deve fare ricorso ai principi generali dell'ordinamento stesso, a norma dell'art. 12 disp. prel. al c.c. Fra questi principi generali nel campo dei rapporti patrimoniali vi è quello che si racchiude nella espressione rebus sic stantibus, cui si ispira l'art. 1467 cod. civ., in forza del quale un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto"”. Così Cassazione Civile Sez. II, n. 6584 del 11/11/86. 275 storiche, grazie a quella che anche Betti definisce l’eccedenza di contenuto deontologico o assiologico dei principi.718 “Nei principi”, scrive il maestro dell’interpretazione, “operano una virtualità e una forza di espansione non di indole dogmatica e logica, ma valutativa e assiologica”,719 cosicché viene ad essere proprio il dato assiologico quello che consente questa operazione di inquadramento dell’ordine giuridico nell’ethos sociale, e con essa la possibilità di intesa ermeneutica intertemporale e collettiva nel mondo giuridico. Ciò che, tuttavia, interessa osservare, ai fini della presente analisi, a proposito del discorso sui principi generali è proprio il loro ruolo ermeneutico, accanto, o parallelamente, o intrinsecamente ai procedimenti interpretativi ordinari di analogia e di estensione. “I principi generali”, scriveva Betti, “non si identificano con norme inespresse, ma sono somme valutazioni normative”.720 Tale caratteristica dei principi, siffattamente intesi, questa capacità teoretico-esplicativa, diremmo così noetica,721 prima che normativa, viene in rilievo proprio nel momento in cui l’interprete risolve quella che si presenta come incognita normativa, e giustifica la sua interpretazione - in nome, appunto, dei principi - attraverso il ricorso ad una empirica esigenza di razionalità, andando ben oltre le soluzioni legislative determinate dalle valutazioni dei principi ma, anzi, trascendendo il diritto positivo.722 Qualcuno, tuttavia, ha distinto i principi generali veri e propri, indicati dall’articolo 12, da quelli che sono stati identificati come postulati concorrenti a formare il cosiddetto “spirito del sistema”,723 cioè direttive per il legislatore ricavabili per induzione dalle norme 718 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 310 e ss. 719 E. BETTI, op. loc. ult. cit. E. BETTI, op. loc. ult. cit. 721 Cfr. S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit., p. 503. 722 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 52. 723 M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 653. 720 276 positive, e valenti come sussidi ermeneutici. Ciò, però, non deve trarre in inganno, facendo ritenere che i principi sottesi al sistema siano semplicemente un’ispirazione ideale, cui fare ricorso in caso di lacune normative assolute, appellandosi ad una vaga idea di giustizia e di garanzia. Esiste, infatti, un vincolo di solidarietà assiologica724 che va oltre lo stesso concetto di coerenza, poiché, al di là della conciliabilità tra le diverse norme dell’ordinamento, si esprime in quello che è stato definito il “diritto naturale vigente”: “non già il senso di un astratto o ideale diritto naturale che è stato reso positivo, bensì un diritto positivo che risulta naturale perché prodotto in conformità alla natura specifica dell’uomo, alla sua struttura ontologica”.725 Tradizionalmente la dottrina ha collocato accanto a questi, definiti come principi comuni, in grado di collocare entro un ordine sistematico tutto il quadro normativo vigente - e grazie a cui l’interpretazione secondo i principi si viene a confondere con l’interpretazione sistematica, e viceversa - i cosiddetti principi fondamentali, che sarebbero caratterizzati, rispetto ai primi, per una più elevata “idealità assiologica”.726 Così, si è detto, mentre i principi comuni - e l’interpretazione secondo questi - esprimerebbero la coscienza sociale, e quindi giuridica, di una comunità, i principi fondamentali, anch’essi regole di diritto positivo, sarebbero proiettati verso il superamento del livello medio della vita sociale e il miglioramento della sua qualità, costituendo addirittura una sorta di “escatologia mondana”.727 724 A. FALZEA, I principi generali del diritto, in Riv. dir. civ, 1991, I, p. 467. 725 S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, cit., p. 509, La posizione, pienamente condivisibile, si innesta in quell’approccio che fa riferimento a Capograssi e al concetto di “esperienza giuridica” da lui propugnato, oggi saldamente sostenuto, con innovazioni originali, dal gruppo di lavoro all’insegna del L’Ircocervo, su cui http://www.filosofiadeldiritto.it 726 A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., p. 469. 727 A. FALZEA, I principi generali del diritto, cit., 469. 277 Non può non balzare alla mente il tema dei principi costituzionali, se non altro per il fatto che proprio la Costituzione vigente inquadra i primi dodici articoli entro la categoria dei “principi fondamentali” anche se, come è stato sottolineato, l’evidenziazione di direttive superiori del sistema normativo non si deve ricondurre in via esclusiva all’avvento del costituzionalismo moderno.728 Le sentenze che si rifanno alla prevalenza, allora, dei “principi costituzionali” sono numerosissime, tutte, per lo più, tese a ribadire la necessità di scegliere l’interpretazione, fra più, maggiormente aderente ai canoni costituzionali (cosiddetta interpretazione adeguatrice), considerata quest’ultima, anzi, come momento costitutivo normale di ogni interpretazione.729 Principi che, tuttavia, vengono sovente acquistando rilevanza accanto ad altri principi, più che altro per giustificare estensioni ermeneutiche volte, appunto, ad adeguare una disciplina ad un mutato sentire sociale. Così l’importante sentenza della Corte costituzionale n. 427 del 1989730pone tra i suoi motivi, come ragione di estensione ermeneutica delle garanzie per il lavoratore, accanto alle “innegabili esigenze di parità di trattamento”, secondo il principio costituzionale di uguaglianza, anche i “principi di civiltà giuridica”, dimostrando di appellarsi a tali principi, senza peraltro indicare da dove trarli.731 È legittimo estendere le “garanzie procedimentali” - nella fattispecie si trattava della contestazione preventiva dell’addebito e della necessaria audizione del lavoratore incolpato nel caso di 728 A. FALZEA, op. loc. ult. cit., dove l’autore cita, come esempio risalente, il codice di Hammurabi, sulla stele di Susa, nel cui epilogo sono contenute le grandi direttrici in base a cui improntare l’amministrazione della giustizia. 729 Corte costituzionale 14.7.1988 n. 823 in Gazzetta Ufficiale 7.9.1988 n. 36, non diversamente da Cons. Stato, sez. V, 18.1.1988 n. 8 in Giur. it. 1988, III, I, 175. 730 Corte costituzionale, 25.7.1989 n. 427, in Foro it. 1989, I, 2685. 731 Cfr. G. GORLA, I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12 delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it., 1992, V, 95. 278 licenziamenti disciplinari, da estendere anche alle imprese con meno di sedici dipendenti - in base a tali “principi di civiltà giuridica” e quindi porre, per via d’interpretazione, nel nulla una norma732 di diritto positivo in nome dell’adeguamento a tale “civiltà giuridica”? Quale civiltà giuridica? Solo quella italiana? L’esperienza ormai pluridecennale dell’inserimento del nostro ordinamento entro un sistema giuridico comunitario ha fatto sì che si venissero delineando anche veri e propri principi generali dell’ordinamento comunitario. Tuttavia proprio da questa verifica si è trovata conferma del fatto che tali principi e criteri, per quanto sottoposti a controllo di razionalità e logicità, non sono vincolati a imperativi provenienti dai singoli ordinamenti alla stessa stregua di quanto prevede il nostro articolo 12.733 In sostanza è il sostrato etico che sorregge l’ordinamento sociale e giuridico, costituente un sistema di valori, e quindi un insieme di principi, a giustificare la ricerca ermeneutica di una comunità - anche pluristatuale - fondata sul diritto. Ciò, tuttavia, non deve far cadere in una ingenua fiducia nella possibilità di fare del ricorso ai principi una specie di osso di Cuvier -che sosteneva la possibilità di ricostruire l’intera struttura di un animale preistorico a partire dal rinvenimento di un solo osso- per l’ossatura giuridica nazionale e internazionale. Soccorre, allora, quella bettiana dogmatica giuridica di cui si è parlato all’inizio, come di rappresentazione della realtà. Solo in questa chiave si potrà, dunque, contro il pericolo che concezioni assiologiche differenti possano condurre a decisioni divergenti nell’uno o nell’altro ambiente giuridico,734 concedere la qualificazione che Betti dà della giurisprudenza: come di organo non solo deputato a identificare e elaborare i principi generali del 732 Nel caso di specie la sentenza in esame dichiarò l’incostituzionalità dei commi 2 e 3 dell’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori. 733 Cfr. A. TRABUCCHI, Regole di diritto e principii generali del diritto nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. civile, 1991, I, p. 520. 734 E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 856. 279 diritto, ma anche, in forza di ciò, costituente la coscienza sociale del tempo. È evidente la sottile linea su cui queste posizioni fanno correre la ricerca interpretativa: l’oscillazione più pericolosa è, senza dubbio, quella di un incontrollabile soggettivismo ermeneutico capace di togliere ogni validità alla stessa positività normativa. È proprio l’analisi dello strumento interpretativo dato dall’analogia che permette, allora, di comprendere la percorribilità, al di fuori di ogni arbitrio, di questa astrazione o amplificazione non solo logica, ma teleologica e assiologica, delle norme e di trovare, pertanto, una visibile e condivisibile “ragione normativa”735 anche nell’altrimenti evanescente e sfuggevole ricorso ai principi. Può accadere che il principio applicabile ad un caso, non regolato da una norma esplicita, sia così generale da risultare generico e da richiedere, pertanto, un’opera dell’interprete che risulta creativa alla stregua di quella di un legislatore? Se si ammette che ciò possa accadere significa che si riconosce da un lato una difficoltà notevole a passare, anche ordinariamente, dal piano dei principi generali a quello della disciplina concreta dei casi, e dall’altro che, comunque, è necessario trovare una soluzione - se non altro per il divieto, per il giudice, di non liquet - a tale eventualità, peraltro non del tutto remota. La dottrina,736 a questo proposito, è giunta fino a riconoscere l’esistenza di un quarto mezzo di interpretazione, da utilizzare proprio quando né l’interpretazione diretta, né l’estensione analogica, né il ricorso ai principi siano in grado di rinvenire una disciplina per il caso in esame: soccorrerebbe allora il criterio degli interessi in conflitto che, senza scadere nell’equivoco in cui sono caduti alcuni fautori della giurisprudenza degli interessi, scivolando nella scuola del diritto libero, si proporrebbe di rinvenire, come 735 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 359. 736 Cfr. D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della legge, in Foro it. 1949, IV, p. 9. 280 ratio ermeneutica, l’interesse prevalente, tenuto conto di tutto il sistema e delle esigenze che esso comporta.737 L’emergere di questo criterio degli interessi, tuttavia, non può non far sorgere la questione della compatibilità con gli altri criteri di interpretazione, in particolare con l’analogia: se vi fosse contrasto tra il criterio degli interessi e la regolamentazione del caso data da una norma analoga, quale si dovrebbe ritenere prevalente?738 A me sembra che, come è stato sottolineato, se una norma “analoga” effettivamente disciplina una materia in modo differente rispetto a quanto suggerirebbe il criterio degli interessi ciò significa che, in realtà, dal complesso del sistema risulta che l’ordinamento, attraverso quella specifica norma, ha già compiuto una scelta assiologica e ha ritenuto prevalente, evidentemente, un complesso diverso di interessi. Il compito dell’interprete, ciò nonostante, si giocherà ugualmente da un lato nell’indagine della natura di quella norma “analoga” in relazione a tutto il resto del sistema: se risulterà che si tratta di una disciplina isolata potrà, così, trarne ragione per discostarsene, cioè per concludere che il caso effettivamente “analogo” è disciplinato da una norma eccezionale. Dall’altro lato, infine, l’interprete sarà tenuto a ritrovare sì le valutazioni immanenti e latenti nella legge, ma senza scordare che come Betti insegnava- “il mutarsi dei rapporti sociali nel tempo reagisce sull’originaria ratio iuris e matura un esito ulteriore, nel senso di additare il criterio di analogia per comporre il conflitto fra altre categorie di interessi all’infuori di quelle previste”.739 Da questa necessariamente veloce panoramica sui principi generali emerge come appaia insostenibile tentare una distinzione tra l’interpretazione estensiva e l’analogia basandosi sul principio sottostante le norme: esso è il criterio cui fa riferimento ogni 737 D. RUBINO, La valutazione degli interessi nell’interpretazione della legge, cit., p. 6. 738 La questione è posta da D. RUBINO, op. ult. cit., p. 10. 739 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 31 e ss. 281 operazione ermeneutica.740 La constatazione della “forza di espansione logica (logische Expanzionskraft) della legge” fa sì che, comunque, ciò cui l’interprete deve accedere sia il dato assiologico contenuto nelle norme, per cui indugiare nel definire741 l’interpretazione estensiva come “risultanza tecnica” dell’interpretazione in quanto tale e, al contrario, l’analogia come atto che “innova nel mondo giuridico una proposizione giuridica per l’indinanzi non esistente o non formulata” si rivela privo di consistenza. Occorre mantenere ferma la consapevolezza dell’habitus “analogico” della nostra mente e non confondere il procedimento della conoscenza con le forme di interpretazione (cfr. supra). È illuminante, perciò, l’insegnamento di Capograssi742 che considerava come ogni atto interpretativo sia, in realtà, ricerca di uno o più principi, nel senso che per comprendere il significato di una norma, qualunque sia il fine che l’interprete si pone, occorre riportarla all’unità del sistema, attraverso un lavoro costante di deduzione e induzione che costituisce la trama mentale di ogni ermeneutica.743 Ha tutt’oggi senso, quindi, soffermarsi ancora sulle categorie dell’interpretazione estensiva e dell’analogia come processi differenziati per un progressivo allargamento verso i principi, pur tenendo presente, come osservava Caiani,744 che è proprio il rilievo che assume la ricerca e l’applicazione del principio che consente di scorgere la profonda unità del momento interpretativo e integrativo nel processo dell’applicazione del diritto ed è il ragionamento per analogia, o meglio l’intuizione analogica, che meglio esprime la più profonda natura - nonché il fascino - dell’attività di ogni giurista. 740 Cfr. M. BOSCARELLI, L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 652 e ss., in particolare nota 116. 741 Cfr. M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1941, II, p. 528 e ss. 742 G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Roma, 1937, p. 103 e ss. 743 Cfr. L. CAIANI, voce Analogia: b) teoria generale, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958., p. 357. 744 Cfr. L. CAIANI, op. loc. ult. cit. 282 14. NUOVE PROSPETTIVE SUL RAPPORTO TRA INTERPRETAZIONE ESTENSIVA E ANALOGIA 14.1. Dalla discrezionalità alla fuzzy logic applicata al pensiero giuridico 14.1.1. Le clausole generali e gli standards valutativi come tentativo di superare la distinzione. L’uso dei cd. concetti-valvola. Avvicinamento al sistema di common law tramite la categoria della discrezionalità interpretativa. La core-penumbra theory già anticipata da Betti. Principi della logica a più valori. Ipotizzabilità di un sistema giuridico “sfumato”. Sostenibilità dell’intendere analogia e interpretazione estensiva come applicazioni fuzzy. Il tema dell’interpretazione estensiva e dell’analogia giuridica e lo studio del rapporto esistente tra queste due tradizionali partizioni nella categoria degli strumenti ermeneutici conduce, in epoca recentissima, a nuove aperture e nuovi sbocchi su cui vale la pena, prima di avviarsi alla conclusione, di soffermarsi per qualche considerazione di metodo. Il pensiero giuridico odierno sempre più frequentemente viene confrontandosi con l’utilizzo, accanto ai collaudati (per quanto insoddisfacenti) modelli interpretativi, di criteri in grado di consentire all’ermeneuta un discreto margine di adattamento nel sempre problematico rapporto tra fattispecie astratta e fattispecie concreta.745 In particolare il mutare via via più veloce delle situazioni sociali, e il presentarsi di sempre nuovi casi, bisognevoli di una disciplina che non riesce a stare al passo con la rapidità dei 745 Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 32 ed., Padova, 1991, p. 43. 283 cambiamenti, nonché un alto tasso di instabilità assiologica complice anche la imperante tentazione di un certo sincretismo nei valori giuridici - hanno fatto sì che i giudici abbiano sempre più frequentemente ricercato un appiglio nella definizione di criteri generali di riferimento, quali, appunto, le cosiddette clausole generali dell’ordinamento. Si è data vita, così, a queste regole generali che, anziché riferirsi a singoli comportamenti e in maniera definitiva e assoluta, sono costruite come imperativi generici, oltre che generali, di regolamento secondo valori giuridici quali la buona fede, il buon costume, l’ordine pubblico, l’equo pareggiamento fra le parti contrapposte, l’onestà, la correttezza.746 Ad esse si è fatto riferimento anche come a disposizioni di legge “elastiche” sulle quali si è subito posto un problema di controllo di legittimità,747 per evitare il rischio, ovviamente, di fare delle norme di legge un’opzione, ma attorno alle quali si è anche creata l’idea che esse costituiscano, comunque, degli standards valutativi,748 quando non ermeneutici, degli imperativi metagiuridici e sociali in grado, tuttavia, di far leggere quella coscienza comune che l’interprete è chiamato ad esprimere. Addirittura alcuno749 ha parlato, a proposito di queste clausole generali, di elementi in grado di recepire l’aequitas, il diritto naturale, e di trasformarli in diritto positivo. Certamente la formulazione normativa per mezzo di tali clausole, ha mutato radicalmente la stessa tecnica legislativa,750 cosicché l’uso di queste vere e proprie valvole - da cui il termine di 746 Cfr. V. PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 89. 747 Cfr. C. ROSSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983. 748 Cfr. A. FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., 1987, I, p., 198. 749 J. ESSER, Wege der Rechtsgewinnung, Tübingen, 1990, p. 54. 750 P. PERLINGERI, L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rass. dir. civ., 1985, p. 995. 284 “clausole-valvola”751 - di adeguamento del sistema giuridico al mutare della vita sociale ha fatto sì che si sia sentita come più rara l’ipotesi di autentiche lacune nel sistema. D’altro canto, tuttavia, la generalità insita in queste clausole ha portato ad un sempre maggior potenziamento del ruolo dell’interprete, relativizzando, per contro, il testo di legge.752 Non solo. Queste clausole hanno di molto accentuato, a ben guardare, l’intuizione analogica insita in ogni interpretazione, dato che la loro stessa struttura si è venuta delineando come concettualmente orientata non ad un’applicazione letterale ma ad un’esplicazione,753 appunto, analogica, contribuendo, con ciò, a far concludere (erroneamente), ancora una volta, per l’impossibilità di una distinzione tra l’analogia e l’interpretazione estensiva così come si sono tradizionalmente intese. L’idea dei cosiddetti concetti-valvola (Ventilbegriffe) ha, tuttavia, anche sviluppato il dibattito attorno a questi che sono stati visti come “mandati in bianco” all’interprete (o Blankette, come sono stati efficacemente definiti),754 come “norme di scopo”755 capaci di costituire addirittura un’alternativa cognitiva alla tecnica della fattispecie,756 dibattito che è sfociato in quello sulla discrezionalità giudiziaria ed ermeneutica. Senza addentrarsi in questa materia, che porterebbe lontani dal tema in oggetto, gioverà, tuttavia, sottolineare come, almeno nella concezione bettiana, discrezionalità e interpretazione non coincidono ma, anzi, vi è la necessità di differenziare i due termini. 751 Cfr. E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, a cura di Giuliano Cfrifò, 2 voll. Milano, 1990, p. 856. 752 G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 1543. 753 G. ZACCARIA, op. loc. ult. cit. 754 Cfr. P. HECK, Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz, Tübingen, 1914, p. 314. 755 Cfr. L. PERFETTI, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori nell’interpretazione, in Jus, 1993. 756 Cfr. M. BARCELLONA, L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, par. 4. 285 Nonostante l’interpretazione in funzione normativa non si esaurisca in una mera ricognizione del significato proprio della norma nella sua astrattezza e generalità ma, al contrario, dia luogo ad un’ulteriorità che le permette di integrare lo stesso precetto, questa operazione, nell’analisi dell’autore camerte,757 non sconfina mai nella discrezionalità, e tanto meno nell’arbitrio, poiché l’interpretazione siffattamente intesa è sorretta da una solida concezione dogmatica - intesa, come si è precisato, quale rappresentazione della realtà - cosicché l’interpretazione, e con essa tutte le estensioni analogiche che vi si riconnettono, lungi dall’essere discrezionale, finisce, in questa impostazione addirittura per risultare vincolata.758 L’avvicinamento alla categoria della discrezionalità ha, però, anche un altro effetto: quello di stabilire un punto di contatto tra il nostro sistema giuridico e quelli di common law, soprattutto laddove si accentua la capacità ad un tempo evolutiva e vincolante, quindi certa, dell’interpretazione, in parallelo all’uso - anglosassone - della tecnica dei precedenti giudiziari. La capacità osmotica dell’intuizione analogica di stabilire un costante movimento tra un diritto prevedibile e un diritto perennemente adeguato fa, dunque, sì che il nostro diritto trovi dei punti di contatto - pur con la necessità di tenere distinte le due tradizioni giuridiche e tenendo presente la critica, già citata, di Betti759 ad un troppo facile avvicinamento - col sistema anglosassone a partire dall’idea-finzione di un giudice che “rinviene”, e non crea, il diritto nella realtà e della ratio decidendi come elemento in grado di dare continuità al diritto senza renderlo 757 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 149 e 758 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 157 e ss. ss. 759 Cfr. § 4.2.3. 286 arbitrario, della ragionevolezza come attributo di ogni vincolatività ermeneutica.760 Questo processo di rinvenimento-adattamento è spesso, per la verità, sconfinato nella già sottolineata761 enfasi sulla vaghezza e indeterminatezza del linguaggio normativo, sovente contrapposte alla ricchezza e creatività della prassi applicativa, processo che ha spesso riportato ad un problema di linguaggio quello che andava affrontato anche come problema squisitamente ermeneutico. Da queste premesse si è così fatta strada l’idea che i concetti anche normativi - si presentino come elementi intuitivamente “visibili” nella loro essenzialità, ma avvolti da una specie di nebbia semantica che avvolge questa visibilità. È quella che si è definita la core-penumbra theory762, dove, attorno al nucleo chiaro di ogni definizione normativa, si è individuata una penombra concettuale che impedisce di trattare con concetti dai contorni ben determinati. Mi pare di poter dire, tuttavia, che se il merito di questa impostazione è di avere messo in luce il dato empirico della indeterminatezza dei confini tra un concetto e l’altro, tra una definizione normativa e le sue effettive possibilità di estensione, non si è, al contrario, sottolineato a sufficienza quello che, invece, era già stato messo bene in luce dallo stesso Betti,763 e cioè che molta della penumbra è cagionata non solo da un problema di necessaria indeterminatezza nel linguaggio, ma proprio dalla vivente attualità dell’interprete, chiamato, attraverso l’estensione e l’analogia, a mettere la sua contemporaneità in intima adesione e armonia con quell’incitamento che gli proviene dalla norma e dal caso cui applicarla. Chiarito ciò è possibile, a questo punto, fare accenno ai nuovi sviluppi che, su quest’ultima linea, si vengono muovendo nel 760 Com’è noto, già Lord Mansfield osservava nel 1762 che “the reason of cases makes law, not the letter of a particular precedent”. Cfr. G. P. FLETCHER, Basic concept of legal tought, Oxford, 1996, p. 96. 761 Cfr. § 3.1.1. 762 L. PERFETTI Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori nell’interpretazione, cit. 763 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 24 ss. 287 pensiero contemporaneo e giuridico a partire dalle sollecitazioni date dalla logica applicata al linguaggio informatico, ossia alle implicazioni della fuzzy logic e del fuzzy pensiero sulla riflessione e, in particolare, sull’ermeneutica giuridica. È possibile sostituire il giudice con un computer? La domanda, che potrebbe sembrare banale o didascalica, nasconde, in realtà, il problema, dibattuto in tutti i tempi dell’evoluzione giuridica, del sempre conteso rapporto tra la regola e l’interprete, tra la lettera e lo spirito della legge. L’avvento dell’era informatica non ha fatto altro, in questo campo, che porre l’accento sulla tesi, già positivista, dell’assoluta fiducia nelle regole e nella loro precisione. La logica informatica, come noto, funziona come logica a due valori - vero o falso - e sulla legge aristotelica del terzo escluso; così qualunque congegno elettronico “ragiona”, nella sua più povera essenzialità, come un controllo binario: o bianco o nero, o acceso o spento. Le proposizioni vaghe o che implichino giudizi di valore non sono ammesse. È facile immaginare, perciò, come solo in un’ottica di formalismo puro si sia ragionevolmente potuto pensare di sostituire il giudice con il computer, l’interprete con un programma informatico. Quale idea di regola giuridica si è applicata? Partendo da un concetto di norma giuridica come di uno schema entro cui incasellare la realtà - che può rientrare o non rientrare nella previsione, tertium non datur - si è, così, cercata una semplificazione ermeneutica. L’analogia, allora, non si è intesa che come un passaggio logico da un sistema di riferimento ad un altro, come una ricerca, nell’universo normativo, di una regola giuridica avente almeno un elemento - logico - in comune con il caso da disciplinare e l’interpretazione estensiva, per contro, come la ricerca di tutte le possibili inferenze implicite nella norma da applicare, e nulla più. L’impasse della logica giuridica binaria, tuttavia, è arrivato ben presto di fronte allo scontro sul tema dei principi e alla necessità di adattamento e continua riattualizzazione delle regole. 288 Per quanto preciso e dettagliato sia il “programma di soluzione”, la previsione di tutti i casi e di tutti i modi per deciderli - tecnicamente, per quanto “esperto” sia il sistema - il tallone d’Achille di questo fantomatico giudice-informatico si manifesta non solo nel rischio dell’iniquità, che sempre si può annidare in ogni automatismo, e quindi nella difficoltà di controllo dei risultati dell’applicazione, ma anche, nel caso di lacune - che non si possono, in quest’ottica formalistica, che pensare come esistenti nell’impossibilità di risalire a un principio, ad una ratio, ad un valore capace di muovere una decisione adatta alla contemporaneità anche al di là delle norme scritte. Proprio da queste difficoltà ha cercato di muoversi quella logica nuova, la fuzzy logic, che ha investito, come si diceva, non solo le applicazioni tecnologiche ma anche il pensiero giuridico.764 È del 1937765 l’articolo di Max Black,766 comparso su “Philosophy of Science”, che affrontava il tema della logica a più valori e dei sistemi “vaghi”, ma solo degli anni sessanta l’avvento degli studi sulla logica “sfumata” (o, appunto, fuzzy logic) ad opera di Lotfi Zadeh, della Berkeley University, che introdusse sistemi capaci di interpretare l’insopprimibile indeterminatezza del linguaggio e dei concetti. La Fuzzy logic, basata sul buon senso e su giudizi di valore scaturenti dall’incertezza si è sviluppata ben presto in sistemi informatici capaci di “ragionare” in maniera non più rigida ma elastica, sfumata, e anche all’interno di parziali contraddizioni, dove cioè la realtà da sottoporre a disciplina non sia totalmente vera ovvero totalmente falsa, ma si possa presentare come parzialmente vera e, allo stesso tempo, parzialmente falsa. 764 Cfr. P.G. MONATERI, Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, p. 588 e ss. 765 Già negli anni Venti, tuttavia, il logico polacco Jan Lukasiewicz enunciò una logica fatta di valori di verità frazionari, di valenza intermedia tra l’uno e lo zero, tra il vero e il falso della logica binaria. Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA, Logica “sfumata”, in Le Scienze n. 301, 1993, p. 53. 766 Cfr. B. KOSKO e S. ISAKA, op. loc. ult. cit. 289 Dall’esplosione informatica il passaggio al fuzzy pensiero e al fuzzy pensiero giuridico non è stato lungo. La necessità di decidere su una realtà transeunte, all’interno di contraddizioni sempre in agguato e, soprattutto, di fare appello, il più delle volte, a regole di ragione (meglio, di non definita “ragionevolezza”), ha fatto sì che il contatto tra il problema tipico dell’ermeneutica giuridica più pura trovasse approdo entro questa concezione, nuova nella formulazione, ma dai contenuti cui la scienza giuridica era da tempo approdata. “La parte vitale, durevole della legge”, scriveva Roscoe Pound,767 “è nei principi - i punti di partenza del ragionamento non nelle regole. I principi rimangono relativamente costanti o si sviluppano lungo linee costanti. Le regole hanno vita relativamente breve. Non si sviluppano; vengono abrogate e sostituite da altre regole”. A partire da quest’idea - complice anche la sottolineatura data dalle teorie di Dworkin sulla differenziazione tra regole e principi768 - il pensiero giuridico si è spostato sempre più attorno ad un’idea di giudice alle prese con sistemi fuzzy, a logica sfumata, e di legge come di quell’insieme delle affermazioni morali fuzzy rese efficaci dallo Stato.769 Nella vecchia logica binaria il parallelo poteva essere tra una proposizione informatica del tipo “se x allora y” e una proposizione giuridica del tipo “se il caso x allora la norma y”; nella logica fuzzy, invece, la proposizione informatica diventa “se x è a, oppure b, o a e b, in base all’esperienza di x e al valore di y, allora y”, e quella giuridica “se il caso x, con le caratteristiche di a, ma inquadrabile anche in b, secondo la ragionevolezza e sull’esperienza e attualità della norma y, allora y”. 767 Cfr. R. POUND, Why Law Day, in Harvard Law School Bulletin,1958, vol X, 3, citato da B. KOSKO, Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Milano, 1995, p. 210. 768 Cfr. A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., p. 159 e ss. 769 B. KOSKO, op. ult. cit., p. 302. 290 Ciò che differenzia questa impostazione da quella suaccennata della core penumbra theory mi sembra possa essere il fatto che la logica fuzzy, da mera descrizione del dato empirico della indeterminatezza dei contorni dei concetti giuridici, si propone anche come metodo di soluzione, suggerendo, attraverso un processo chiamato di defuzzification, di uscire dalla sfumatura per giungere ad una - e solo una - decisione. Il sistema a logica fuzzy, pertanto, non è altro che la dichiarazione in termini logici di ciò che, normalmente, un corretto ermeneuta dichiara di fare; il che non è un complimento per l’ermeneuta. Così, dato un caso e un sistema di regole, se ne fa un approccio “aperto” dove il principio di estensione si avvale della esperienza e della tradizione precedente, ma anche delle esigenze di vivente attualità, senza timore di far convivere risultati anche parzialmente contraddittori, ma sempre avendo di mira il modello sotteso a tutto il funzionamento, quello cioè di una ragionevolezza animata dalla tensione assiologica, unica in grado di garantire attualità e, al contempo, certezza. In quest’ottica l’approccio fuzzy, mettendo in luce gli aspetti equivoci e contraddittori dei sistemi giuridici e la possibilità di gestirli, al di fuori di un’ottica binaria, entro un’alternativa “sfumata”, conferma l’idea di quella intuizione analogica che è Leitmotiv di ogni ricerca di ermeneutica giuridica, e della possibilità di tracciare un confine netto tra l’interpretazione estensiva e l’analogia. Proprio la “sfumatura” che - lo rivelano le applicazioni fuzzy può essere gestita con certezza, fuori da ogni indeterminatezza, impedisce, perciò, di dare, con l’interpretazione estensiva, un limite alla forza di espansione logica, teleologica e assiologica delle norme e fa sì che l’attualità possa penetrare, pur dentro il canone della totalità e della coerenza ermeneutica,770 mediante la continua, osmotica, elaborazione dell’interprete. 770 E. BETTI, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., p. 15 ss. Ma a ben vedere, identico sforzo faceva Ernst Zitelmann ritenendo necessaria, perchè l’analogia sia ammissibile, una norma generale che l’ammetta, pur considerando, però, la norma stessa come necessariamente implicita 291 Interprete che diviene un artefice in grado di attuare, grazie al balzo analogico che lo stacca dalla “datità” testuale, negli spazi liberi delle “sfumature” normative, quell’intendere ermeneutico che è sì un contendere, ma a patto che sia, prima di tutto, un intendersi.771 nell’ordinamento giuridico (E. ZITELMANN, Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p. 26), “Potrebbe avvenire che il giudice (nel caso non previsto), invece di applicare la norma generale negativa, volesse dichiarare l’esistenza dell’obbligazione, in quanto ciò gli sembrasse giusto (“weil er das für gerecht hält”): ebbene, se egli lo fa, propriamente non colma una lacuna, ma, per questo caso, muta la norma generale negativa nel suo contrario, ossia fa ad essa una nuova eccezione (“so füllt er in Wahrheit nicht eine Lücke aus, sondern er ändert jenen allgemeinen negativen Satz für diesen Fall in sein Gegenteil um, er macht eine neue Ausnahme von ihm”). Egli, in molti casi, ha la facoltà di farlo (“darf er das”); e ciò gli riuscirà più facilmente laddove si trovi già nella legge un disposto per un caso simile, giacchè egli estenderà per analogia questa disposizione al caso non previsto. Metaforicamente, dove era già un’isola, cioè terra, si avrà un accrescimento della terra, a scapito, s’intende, dell’estensione del mare libero.” Non si colma una lacuna, perchè la soluzione del caso ci sarebbe già nella legge, tuttavia si deroga alla stessa, nel deviare da essa adottando una soluzione diversa da quella, che dalla medesima risulterebbe. Mediante l’analogia si attua quindi una nuova deroga alla norma generale e, in questo, sicuramente, Donati segue Zitelmann. Per quest’ultimo, con l’analogia, il giudice non può creare il diritto, ma decide in conformità del diritto esistente(“dem vorhandenen Recht gemäss... entscheiden”). In conclusione, egli dice che deve ammettersi l’esistenza di una norma giuridica generale (“es muss einen allgemeinen Rechtssatz geben”), con questo contenuto: “è diritto ciò che qui nella legge è espresso (“was hier im Gesetz steht”) con certe mutazioni o modificazioni (“mit gewissen Aenderungen”), che risultano per via del procedimento analogico o per altra via”. Una tal norma generale era espressa nel primo Progetto di Codice civile per l’Impero germanico: fu poi cancellata, ma soltanto, dice Zitelmann, perchè si ritenne che non ci fosse bisogno di esprimerla (“aber doch nur, weil sie sich von selbst verstehe”). L’autore allude all’art. 1 del Progetto, il quale, a somiglianza del nostro art. 3 Prel. (oggi art. 12 disp. prel.), in mancanza di una disposizione di legge relativa ad un dato caso, stabiliva l’applicabilità delle disposizioni che regolano casi simili e dei principi generali del diritto. Come si vede, a differenza di Donati, Zitelmann ritiene che la norma legittimante l’analogia possa ben essere non espressamente dichiarata. 771 Sul punto, cfr. F. GENTILE, Politicità e positività nell'opera del legislatore. Relazione al 17. Congresso della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998. 292 293 7.2. Ipotesi ricostruttive e prospettive operative 7.2.1. Lettura usuale e lettura “capovolta” dell’articolo 12 disp. prel. La norma come risposta ad un problema percepito dal legislatore. La norma come attuazione di un principio (costituzionale o non) dell’ordinamento. Tèlos o scopo della norma; ratio o ragion d’essere della norma. Segue: il problema del criterio che rende ragione dell’ordine. Problema analogo, scopo analogo ed interpretazione analogica della norma. La norma eccezionale come compressione di un principio dell’ordinamento. Compressione del principio e costituzionalità della norma eccezionale. L’estensione della norma eccezionale. Il problema del favor della norma eccezionale. Concorrenza di principi e concorrenza di norme attuative di principi concorrenti. Rilevata già all’inizio di questo lavoro l’intrinseca contraddittorietà dell’equiparazione tra analogia ed interpretazione estensiva, occorre affrontare il tema più arduo, cioè quello di individuare un criterio, un metron che consenta di distinguere la prima dalla seconda. Infatti, quand’anche si sia dimostrata l’insostenibilità dell’equiparazione, il nostro lavoro non è finito, dovendosi affiancare alla pars destruens la pars construens; anche perché occorre parare l’obiezione di chi volesse affermare ancora una volta l’equiparazione dei due procedimenti ermeneutici che andiamo distinguendo, sostenendo che l’affaticarsi attorno ai vizi dell’equiparazione a nulla vale se non si è in grado di fornirne una distinzione; anzi, che proprio l’incapacità di delineare una distinzione tra i due termini è prova della loro sostanziale equiparazione, a dispetto degli enunciati del legislatore e degli sforzi da noi fin qui condotti. Non per ossequio al positivismo, ma per pura strategia retorica, muoviamo l’ipotesi ricostruttiva di una distinzione tra analogia ed interpretazione estensiva proprio dall’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale. 294 Come si è visto sopra al § 4.2, l’articolo in esame, ad una prima lettura sembra esaurire il tema in tre possibilità, a loro volta sempre meno articolate: 1) una serie di tre criteri, il successivo specificazione dell’altro: l’interpretazione giuridica avviene ricercando 1a) il senso fatto proprio dalle parole, 1b) secondo la loro connessione, 1c) secondo l’intenzione del legislatore. Solo in caso di insufficienza di questi a rendere chiarezza, interviene in subordine il riferimento 2a) ai casi simili o 2b) alle materie analoghe; ed in ulteriore subordine sussidiariamente si indica di guardare 3) ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Già altri hanno messo in evidenza come la lettura “diretta” dell’articolo 12 produca un aumento esponenziale delle variabili interpretative mano a mano che si procede: il criterio letterale del significato proprio dalle parole si somma e si moltiplica in base al criterio logico sistematico della loro connessione, per assurgere ad un numero difficilmente dominabile di variabili ove si immetta anche l’intenzione del legislatore. Criterio letterale, logico, sistematico, concettuale, evolutivo, interagiscono tra di loro aumentando i significati scientificamente sostenibili di una disposizione normativa. Vi è chi calcolato una media di 72 significati accettabili.772 Il senso fatto palese dalla parole è mutevole quanto il contesto in cui si inserisce: con un esempio molto semplice, la disposizione 772 Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 57, con l’ulteriore provocazione che ogni disposizione così interpretata può valere di fronte ad un caso nuovo sia per analogia sia argomentando a contrario, portando quindi a 72 x 2 = 144 i diversi usi possibili delle proposizione normativa. Sul punto Alexy rileva come sulla quantità dei canoni ermeneutica, sul loro ordine gerarchico, valore non vi sia accordo alcuno, pur discutendosi fin dai tempi di Savigny. Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die Theorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung, Frankfurt (a M.), 1978, di cui segnalo la traduzione italiana a cura di Massimo La Torre, Milano, 1998; una sintesi del suo pensiero in IDEM, voce Interpretazione giuridica, in Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, Roma, 1996, p. 64-71, nonché R. ALEXY – A. PECZENIK, The Concept of Coherence and its Significance for Discursive Rationality, in Ratio juris, 1990, p. 130 – 147. 295 “mi porti una pasta” può voler dire “mi porti una brioche” se siamo al bar alle nove del mattino; ma può voler dire “mi serva un piatto di maccheroni” se siamo al ristorante e qualche ora più tardi. Seguendo questa strada è evidente che spesso una controversia “non può essere decisa con una precisa disposizione” e si apre la porta a quello che in cibernetica si chiama default, noto alla tradizione come criterio subordinato e sussidiario. Entra in gioco cioè l’analogia; con l’effetto però di portare ulteriore moltiplicazione. E si deve così ricorrere all’ultima chance dei principi generali dell’ordinamento giuridico, che sono però così ampi, proprio per loro natura, da essere concepiti come fonti norme (e come tali sottratti all’interpretazione), con la conseguenza che per un principio cui richiamarsi spesso se ne trova uno o più d’uno utili per sostenere sofisticamente il contrario. In buona sostanza, l’applicazione paziente e progressiva dell’articolo 12 porterebbe ad ampliare e generalizzare la portata della norma, anziché individuarne l’applicabilità al caso concreto che occupa l’interprete in quel momento. Da qualche tempo è stata allora proposta la lettura “rovesciata” dell’articolo 12, cioè quella che consente di dare un significato proprio alle parole solo partendo dai principi generali, per guardare ai casi simili, quindi all’intenzione del legislatore, al contesto delle disposizioni e quindi al senso della singola norma. La costruzione –a volte consapevolmente, ma spesso, meno- ha trovato un suo seguito tra i pratici. Fino a qui, un racconto già noto. Ma una prima obiezione potrebbe venire proprio da quella prospettiva positiva da cui abbiamo preso le mosse. Non sarebbe violazione proprio dell’articolo 12 la sua lettura “rovesciata”? Quale norma autorizza il capovolgimento di una gerarchia di criteri chiaramente esposta nell’articolo 12? Com’è possibile fare ricorso in prima battuta ai principi generali quando questi possono intervenire solo in terzo luogo ed in accertato difetto di tutte le precedenti chiavi ermeneutiche? Procedendo in questo modo non si concreta un error in iudicando per falsa interpretazione della norma, eventualmente motivo autonomo di ricorso in 296 Cassazione?773 Anche l’articolo 12, in quanto norma di legge segue i criteri interpretativi previsti dallo stesso articolo 12 ed occorre allora rendere conto della scelta di muovere dai principi per giungere al senso fatto proprio dalle parole, anziché partire da questo in prima battuta, lasciando per ultimo l’eventuale ricorso ai principi. Ora a noi sembra che la legittimità costituzionale di una norma si misuri proprio sulla sua portata nell’attuare (o limitare) un principio. Anzi che questa sia proprio la ragion d’essere della norma, tanto che a questo significato vogliamo riservare in prosieguo il termine ratio, distinguendolo dallo scopo o tèlos, con l’intento specifico di preservarci dalle ambiguità riscontrate sopra al § 4.3.1. Proprio da quest’osservazione, si dipana una proposta di distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia che renda anche conto della lettura “capovolta” dell’articolo 12 alla quale riteniamo di aderire. Il problema che ci occupa dev’essere affrontato incamminandoci su di un sentiero già aperto da altri, quello dell’interpretazione teleologica, che un’esplorazione più coraggiosa può dimostrare ancora ricco di utili conseguenze. Riprendendo un atteggiamento proprio della riflessione classica, occorre pensare alla ragion d’essere della norma da 773 Ricordiamo che il vigente art. 360 del codice di procedura civile, al n. 3 prevede come motivo di ricorso per cassazione la “violazione o falsa applicazione di norma di diritto”. Grazie a questa disposizione si sostanzia la funzione nomofilattica della Cassazione che indica la corretta interpretazione delle norme, tra razionale e ragionevole, su cui cfr. A. AARNIO, The Rational as Reasonable, Dordrecht, 1987, specialmente p. 54. Sul principio di ragionevolezza come criterio adeguatore dell’interpretazione ma anche come princpio guida del legislatore, risulta interessante porre a confronto gli scritti -separati da vent’annidi due grandi del diritto pubblico italiano: A.M. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto e società, 1975, p. 561 e ss; e C. ROSSANO, “Ragionevolezza” e fattispecie di eguaglianza, in AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 169 e ss. 297 interpretarsi. Ora, la norma nasce –o dovrebbe nascere (ma per il momento non vale distinguere tra is ed ough)- come risposta del legislatore ad un problema percepito nella società. In altri termini, secondo l’insegnamento tradizionale, la comunità a fini generali, o comunità politica, ha come compito il perseguimento del bene comune, di quel bene che se non è esclusivo di alcuno è proprio di ciascuno. Chi, per diversi modi, è chiamato a fissare le regole della comunità è in realtà chiamato ad individuare il problemi che ostacolano il percorso della comunità. La norma vuole essere la risposta (più o meno riuscita) ad un problema percepito. Si può allora dire, riprendendo Platone, che lo spessore politico del governante si misura nell’attitudine di individuare i problemi della comunità; e possiamo aggiungere che il suo spessore giuridico si misura sulla capacità di tradurre in norme la soluzione di quei problemi. Affrontare la norma è per prima cosa chiedersi di quale problema essa vuol essere la risposta. Si tratta cioè di applicare alle norme il procedimento elentico (èlenkos) consigliato dagli antichi, alla ricerca di quella che è la ragion d’essere dell’oggetto di indagine: per quale motivo è stata formulata quella norma? Quali esigenze hanno indotto la sua adozione? Il solo tentativo di risposta a queste domande aiuta a cogliere la ratio della norma, intesa appunto come ragion d’essere della norma, come aristotelica causa della sua esistenza. In modo speculare si individua anche il tèlos della norma, il suo scopo, la risposta che si è voluta dare al problema. Capito cioè quale problema aveva indotto la nascita della norma, occorre fare il passo successivo e chiedersi come la norma vuol far fronte a quel problema, quale è il suo scopo, il suo obbiettivo, il suo fine: il tèlos. Si è collocata allora la norma in un ordine, tra un prius ed un posterius, in un embrione di sistema,774 tra quella che è la sua 774 A questo punto il discorso dovrebbe affrontare il problema dell’ordine e del sistema, per parlare dell’ordinamento giuridico. Sennonché una trattazione che volesse almeno dar conto delle principali questioni supera l’economia di questo lavoro, per diventare oggetto di un ponderoso studio a parte. Molti sono i contributi sul punto della dottrina meno recente, ma tesa alla ricerca del principio: 298 provenienza e quella che è la sua direzione. E proprio tra prius e posterius, tra problema di cui vuol essere risposta e/o attuazione di un principio (ratio) e obbiettivo con cui si vuol risolvere quel problema (tèlos) la norma comincia a svelarsi, cominciando già a scartare tutti quei significati che pur potendo appartenere linguisticamente al senso palese della parola, giuridicamente sarebbero inidonei a risolvere il problema, quando non addirittura fuorvianti. Si consente così anche di ovviare al lapusus calami del legislatore, che magari usa come sinonimi i termini “bimensile” e “bimestrale”. Procedendo ancora, la norma si pone come perseguimento di un obbiettivo che serve ad ovviare o risolvere il problema da cui ha avuto scaturigine l’intervento del legislatore. Parallelamente, nella risposta ai problemi, l’attività del legislatore non è libera nel senso moderno del termine775, ma è guidata dall’attuazione dei principi da quelli di B. BRUGI, L’analogia di diritto e il cosiddetto giudice legislatore, in Dir. Comm., 1916, I, p. 262-75; G. DEL VECCHIO, Sui principi generali del diritto, Archivio Giuridico LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in Studi sul diritto, vol. I, Milano 1958, p. 207-270; V. MICELI, I principi generali di diritto, in Riv. dir. civ., 1923, p. 23-42; V. RAGUSA, L’araba fenice, ovvero dei principi generali del diritto, Roma, 1924; M. ROTONDI, Equità e principi generali del diritto, in Riv. dir. civ., 1924, p. 266-275; E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in Riv. dir. comm., 1940, I, p. 217-223; G. LAZZARO, L’interpretazione sistematica della legge, Torino, 1965, M. MAZZIOTTI DI CELSO, Lezioni di diritto costituzionale, parte I, Milano, 1993, p. 25 - 27, che definisce l’ordinamento quel complesso coerente di norme che organizzano una determinata società. Critico su quest’ultima costruzione “weberiana”, D. CASTELLANO, La verità della politica, Napoli, 2002, p. 26. Da ultimo lo studio di V. VELLUZZI, Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, 2002, che, riprendendo quest’ultimo studio, compila e sintetizza con prudenza le diverse posizioni, senza tuttavia proporre un criterio che elevi l’insieme a sistema. Individua con lucidità la chiave di volta del problema nella distinzione tra ordinatio ed ordinatum F. GENTILE, Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. 775 Si tratta della prospettiva malamente definita antropocentrica che sostituisce all’uomo vocato alla socialità delle tradizione classica, l’individuo che si pretende l’unico, quindi consumatore di tutti i beni di cui è in grado di appropriarsi, negatore “dell’altro” e quindi del diritto che sull’alterità si fonda. L’esaltazione del dogma della libertà, anche sotto le miti spoglie tematizzate da 299 generali, spesso (anche se non sempre) precipitati nella carta costituzionale. Vi sono cioè eventi della realtà che richiedono il repentino intervento del legislatore, così come vi è un’attività, che potremmo dire ordinaria, ove il legislatore è chiamato ad esplicitare e dare attuazione ai disposti costituzionali, adottando disposizioni che rimuovano gli ostacoli alla piena esplicazione dei principi o ne costituiscano strumento attuativo; in tale ipotesi, il problema di cui la norma ambisce essere soluzione è l’attuazione o la specificazione di un principio fondamentale, per esempio: come rispondo all’esigenza di garantire la libertà dell’insegnamento (art. 33 Cost.)? Tuttavia, in un caso come nell’altro, l’opera del legislatore si concreta nell’esplicitare principi generali cogliendone aspetti peculiari. Anche nel primo caso, infatti, la posizione del problema deve avvenire nel quadro dei principi: è la prima operazione grazie alla quale ogni problema può essere ricondotto fin da subito in termini giuridici. Peraltro la seconda eventualità è più frequente della prima, nel senso che l’attività legislativa è quasi interamente assorbita dalla necessità di esplicitare principi. A ben vedere, infatti, il più delle volte, il problema che una norma è chiamata a risolvere consiste nell’attuazione di un principio generale dell’ordinamento, magari precipitato anche nella Carta fondamentale. In altri termini la ragion d’essere e lo scopo del legislatore consistono proprio nell’esplicitare un principio costituzionale, disegnandone la disciplina operativa con disposizioni di immediata e più diretta operatività. La tutela della salute, la funzione sociale della proprietà, il principio di capacità contributiva, pur immediatamente efficaci, necessitano di norme che, in attuazione di quei principi indichino direttamente ai cittadini o all’amministrazione i comportamenti da tenere in determinate fattispecie. Per esempio, ambiscono a sviluppare il principio Kant, sradica il singolo dal ruolo che ha nell’ordine delle cose, por porlo infelicemente fuori dall’ordine, cone le tristi conseguenze –spesso non percepite dai giuristi- su cui si rinvia a D. CASTELLANO, La libertà soggettiva, Napoli, 1984, specialmente p. 87 e ss; nonché IDEM, La razionalità della politica, Napoli, 1993, p. 57; IDEM, L’ordine della politica, Napoli, 1997; IDEM, La verità della politica, Napoli, 2002, specialmente p. 69, 92 e 154. 300 costituzionale della tutela della salute, in ossequio al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, introdotto con legge n. 833/78, rivisto con i D.lgs. n.552/92, 517/93 e 229/99. Quest’operazione di ricerca del problema e dello scopo, della ratio e del tèlos della norma assicura fin da subito la conformità dell’interpretazione ai disposti costituzionali, come raccomanda la Corte,776 oppure ne evidenzia la contrarietà, avvertendo subito l’interprete che non può assegnare grande affidamento su quel disposto, verosimilmente destinato a cadere. Ma è anche il primo passo di un procedimento ermeneutico che muove dai principi per giungere a definire il significato delle parole, proprio secondo quella lettura “capovolta” dell’articolo 12 sommariamente illustrata sopra. Lettura “capovolta” che trova allora la sua legittimazione anche positiva, oltre che logica, nella necessità di condurre le operazioni ermeneutiche in aderenza ai principi costituzionali. Se si vuole, la stessa costituzionalità dell’articolo 12 impone la sua lettura “capovolta”, onde evitare che l’applicazione diretta del senso linguistico delle parole produca l’incostituzionalità della norma interpretanda in conseguenza di un errore grammaticale del legislatore che altera, per esempio, il 776 Com’è noto, in più occasioni, fin dall’inizio del suo magistero, la Corte costituzionale ha avuto modo di ricordare che fra più interpretazioni possibili, si deve espungere quella che porterebbe all’incostituzionalità della norma, favorendo quella che meglio tiene conto dei principi, espressi ed inespressi, della Costituzione, in modo da risolvere le questioni di nomofilachia in via interpretativa, riservando al giudice delle leggi quei contrasti che non possono essere risolti in altro modo se non espungendo in via diretta una norma, ovvero manipolandone il testo con sentenze additive o interpretative di accoglimento o di rigetto. Cfr. C. cost. 23.6.1953, n. 3, in Giur. cost., 1956, p. 568; 2.7.1956, n. 8, in Giur. cost., 1956, p. 602; 26.1.1957, n. 24, in Giur. cost., 1957, p. 373. Sul punto, fra i molti, B. CARAVITA DI TORITTO, La modifica dell’efficacia temporale delle sentenze della Corte costituzionale: limiti pratici e teorici, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 243; altresì, N. ZANON, La Corte, il legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all’”ultima parola” al cospetto delle decisioni d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1998, p. 3169; altresì, M. BARBERIS, L’evoluzione nel diritto, Torino, 1998. 301 principio di eguaglianza: il “bimensile” – “bimestrale” di cui si è detto. Colto il problema rilevato dal legislatore, cui vuol far fronte la norma, in attuazione di un principio, occorre fare il passo successivo ed individuare, come la norma intenda rispondere al problema, quale sia il suo scopo, il suo fine, il suo tèlos: in sostanza quale è il bene verso cui si dirige, il valore che intende proteggere. Se ne deduce una sorta di primogenitura del criterio teleologico, cioè del bene protetto dalla norma, che da tempo ha trovato ampio credito nella dottrina penalistica. Il riferimento al bene tutelato dalla norma è infatti ulteriore piano di riscontro della conformità ai principi (e quindi anche della costituzionalità) della norma, che potrebbe avvenire nel modo seguente. È da premettere che specialmente in area germanica si è parlato di interpretazione teleologica oggettiva e soggettiva,777 laddove quest’ultima si riduce, a ben vedere, all’intenzione del legislatore, mentre la prima fa riferimento ad una volontà sganciata dai soggetti che hanno concorso alla sua produzione. Siffatte concezioni dell’interpretazione teleologica ci sembrano riduttive e non rendono ragione delle potenzialità del criterio. Occorre allora collegarlo con quanto si è venuto sostenendo fin ad ora. Se la norma è la soluzione voluta dal legislatore per un problema che ha individuato, la norma di pone in attuazione di un principio e come suo scopo mira a perseguire o tutelare un certo bene particolare. Questo è cioè che è stato voluto (in concreto) dal legislatore nel momento genetico delle norma, ovvero ciò che avrebbe dovuto essere voluto dal legislatore in attuazione di questo o quel principio costituzionale.778 Sta 777 Cfr. R. ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation: die Theorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung, Frankfurt (a M.), 1978, p. 190 e ss.; nonché K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. Per un’acurata ricostruzione del pensiero di Alexy rinvio a G. BONGIOVANNI, Teorie costituzionalistiche del diritto. Morale, diritto e interpretazione in R. Alexy e R. Dworkin, Bologna 2000. 778 In senso più ampio, si veda la “seria e divertita” monografia di M. BERTOLISSI, Identità e crisi dello Stato costituzionale in Italia, Padova, 2002, 302 insomma all’interprete individuare quello che era o avrebbe dovuto essere la risposta a quel problema. Attività politica, si dirà. E sia, poiché questa è in fondo ciò che ineludibilmente è anche chiamato a fare l’interprete, studioso, patrono o giudice, nella consapevolezza che il diritto non è mera tèkne, ma un arte, propria della filosofia pratica aristotelica. Alla corte costituzionale, infine, valutare se una certa norma si configura come vera attuazione di un principio, senza violarne altri, giudicando sulle suggestioni che l’interprete, con le diverse procedure previste, le sottopone.779 Possiamo allora sintetizzare così: la ratio della norma è un problema percepito dal legislatore che ostacola il perseguimento del bene della comunità e/o l’esplicazione di un principio fondamentale in risposta ad un problema; il suo scopo o tèlos è il perseguimento di quell’obbiettivo o la tutela di quel bene che consente il superamento del problema originario. Per fare degli esempi, la risposta al problema della disoccupazione viene individuato in una norma che riduca la pressione fiscale delle imprese, che trova la sua ratio nell’art. 35 Costituzione sul diritto al lavoro e nell’art. 53 sul principio di capacità contributiva; lo scopo o tèlos è la creazioni di nuovi posti di lavoro. Siamo allora venuti ad definire una ratio ed un tèlos che caratterizzano un disposizione normativa,780 cioè due elementi non specialmente p. 1 e 311, nonché p. 206, dove, a proposito della Corte dei conti, parla espressamente di “sindacato sull’eccesso di potere legislativo”. Cfr. altresì G. ALPA – A. GUARNIERI – P.G. MONATERI – A. PASCUZZI – R. SACCO, Le fonti non scritte e l’interpretazione, in R. Sacco (a cura di), Trattato di diritto civile, Torino, 1999. 779 Per il ruolo latu sensu politico della Corte costituzionale, nella creazione e sviluppo di nuove forme di sentenze (additive, interpretative di rigetto e di accoglimento, manipolative, fino alle sostitutive), si veda l’analisi lucida ed elegante di L. A. MAZZAROLLI, Il giudice delle leggi tra predeterminazione costituzionale e creatività, Padova, 2000, specialmente pag. 55 e ss. Con taglio diverso, l’interpretazione e declinazione ideologica dei principi costituzionali da parte della Corte sono annotate negli scritti dell’ultimo ventennio da P.G. GRASSO, Costituzione e secolarizzazione, Padova, 2002, specialmente p. 255. 780 Pur avendo chiaro l’insegnamento di Benvenuti che, meglio di altri, distingue proposizione normativa da norma, i termini sono da noi trattati come sinonimi. Propugnatore della distinzione tra disposizione normativa e norma è 303 volatili -a differenza del significato fatto palese dalle parole usate dal legislatore- che consentono di porre in relazione una norma con le altre, confrontandole per ciò che hanno in comune e per ciò che hanno di diverso, secondo il principio di identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso.781 Cioè quel procedimento conoscitivo, come detto sopra, che fa dell’analogia, della possibilità di intessere una relazione tra tue termini, il proprio motore di ricerca. Non solo. Viene così a trovare giustificazione la lettura “rovesciata” dell’articolo 12 della preleggi, dacché la stessa ricerca del senso proprio delle parole non può che passare attraverso la comprensione del principio che sta a monte, del problema di cui la norma ambisce ad essere soluzione. Si tratta di ricostruire quanto più precisamente quel contesto solo entro il quale il testo ha un significato fatto palese dalle parole. E solo così si capirà se “una pasta” significa una brioche o un piatto di maccheroni. In altre parole, non vi è formalistica violazione dell’articolo 12 della preleggi, poiché per dare un significato palese alle parole, non si può che guardare al contesto e questo è dato (anche) tramite un procedimento elentico, che consenta di capire di quale problema quella norma vuol essere risposta. Solo per tale scopo si muove dai principi generali, affinando progressivamente la norma nel cogliere oggi in Italia Riccardo Guastini, il quale però è stato condotto ad introdurre indirettamente un terzo elemento tra disposizioni e norme sulla scorta della distinzione tra proposizioni normative non interpretate e proposizioni frutto di prima interpretazione. Cfr. da ultimo R. GUASTINI, Realismo ed antirealismo nella teoria dell’interpretazione, in Ragion pratica, 17, 2001, p. 43-52, che corregge la formulazione da lui stesso resa in IDEM, Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, accogliendo implicitamente la critica mossagli da P. BECCHI, Enunciati, significati, norme. Argomenti per una critica dell’ideologia neoscettica, in P. Comanducci – R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, Torino, 2000, p. 1 – 17. Per altro verso, cfr. A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso della discrezionalità legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano, 1988, p. 71 e ss. 781 Abbiamo già avuto modo di illustrare perché riteniamo preferibile questa dizione del procedimento conoscitivo enucleato da Platone e sistemato da Aristotele consegnandolo alla storia del pensiero. Cfr. supra, al § 5.1.1. 304 quale era o avrebbe dovuto essere l’intenzione del legislatore per risolvere quel determinato problema in attuazione o nel rispetto di quel determinato principio. Infine, ci sembra che venga superata la difficoltà della volontà del legislatore; e possiamo così sciogliere un debito contratto al principio di questo capitolo. Qual’era o avrebbe dovuto essere la volontà del legislatore? Spetta all’interprete ricostruirla,782 aprendo però subito alle difficoltà su volontà storica od effettiva, legislatore odierno o quello che dei tempi in cui la norma ha preso vita. Noi crediamo utile parlare di volontà presunta del legislatore,783 superando situazioni, paradossali quanto accadute, sullo stato mentale del legislatore,784 spesso in tutt’altro affaccendato.785 È 782 Com’è noto, minima rilevanza è tradizionalmente accordata ai lavori preparatori e comunque a criteri testuali, muovendo dal presupposto logico che la volontà sia sempre e solo ricavabile dal testo; in questo modo si esclude a priori la possibilità di una volontà simulata del legislatore, estendendo il criterio civilistico dell’irrilevanza dei motivi nella formazione della volontà. In realtà, diciamo nella nota successiva, questi elementi possono e debbono essere recuperati quali indizi, eventualmente precisi e concordanti, per presupporre la volontà del legislatore, superando il formalismo positivista, pur rimanendo nel solco della tradizione giuridica. Già profetico L. PALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim dir, pub., 1956, p. 993; in altro senso, V. VILLA, L’intenzione del legislatore nell’art. 12 delle disposizioni preliminari, in F. VIOLA - M. URSO, Interpretazione ed applicazione del diritto tra scienza e politica, Palermo, 1974, p. 125 – 138. 783 Non presupposta, cioè una volontà ipoteticamente assunta per poter dedurre “scientificamente” ma in realtà del tutto apoditticamente le conclusioni interpretative utili nel singolo caso. La volontà di cui parliamo è presunta, nel senso giuridico del termine, cioè provata per indizi e ritenuta valida fino a prova contraria. Secondo quanto anticipato alla nota precedente, gli indizi sono allora i lavori preparatori, la relazione di presentazione, il dibattito parlamentare. Cfr. sul punto A. PIZZORUSSO, Il controllo sull’uso della discrezionalità legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano, 1988, p. 71 e ss.; R. PINARDI, La Corte, i giudici e il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993. Infine, la suggestiva monografia di R. BIFULCO, La responsabilità dello Stato per atti legislativi, Padova, 1999, specialmente p. 237 e ss. 784 Si ricorderà il redente fatto che ha colpito la stessa Camera alta a Westminster, ove un suo giovane componente aveva l’abitudine di fumare 305 dunque più conveniente ricercare quella che è stata o avrebbe dovuto essere stata la volontà del legislatore di fronte a quel tale problema ed in attuazione di quel certo principio. Si dirà che in tal modo si soggettivizza la volontà del legislatore facendola dipendere dall’interprete. La dipendenza dall’interpretate non sarebbe comunque una novità, giacché tutti i criteri fin ora enucleati cripticamente portano in questa direzione. Al contrario con la tesi qui sostenuta, la volontà si oggettivizza, sottraendola (questo sì) alle contingenze del legislatore,786 procedendo alla ricostruzione tramite prodotti non provenienti dai monopoli. Viene però da chiedersi l’effetto di siffatto fumo passivo in aula, che –ricordiamolo- ha anche funzioni giurisdizionali in ultima istanza. Sovvengono le dissacranti osservazioni di Bentham (su cui F. ZANUSO, Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico – giuridico di Jeremy Bentham, Padova, 1989) e del suo allievo J. AUSTIN, Lectures on Jurisprudence or The Philosophy of Positive Law, London, 1879. 785 Il divieto dell’uso del cellulare in aula è l’ultimo tentativo in ordine di tempo adottato da Camera e Senato per evitare interferenze nel voto dall’esterno e mantenere l’attenzione dei parlamentari sui lavori, nel momento in cui esercitano la funzione di “rappresentanti” della nazione. Per quest’aspetto sia consentito rinviare a M. M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova, 2000, p. 434. 786 Per un verso G. ZACCARIA, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990, p. 47, rileva come anche due prospettive pressoché contrapposte nei metodi, quali l’Ecole de l’éxegèse e la Begriffenjurisprudenz, concepiscano l’interpretazione come attività “conoscitiva di un oggetto già determinato”, pur se, aggiungiamo, si tratti di un ricorrente tentativo di riferire ad altra e sopraordinata entità quello che è solo il prodotto di una propria attività più o meno scientificamente fondata, riprendendo una consuetudine inaugurata dagli aruspici e prima ancora. Più approfonditamente M. A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966, p. 158-164, in cui l’autore chiarifica la diversa origine culturale delle due teoriche, rilevandone nel contempo le affinità soprattutto nel metodo. La diversità, comunque, delle due scuole rimane del tutto evidente: la Begriffsjurisprudenz ebbe la sua origine nella Scuola Storica del diritto, corrente giuridica essenzialmente anti-giusnaturalistica, anti-illuministica, antirivoluzionaria, anti-codicistica. Savigny esalta l’aspetto tecnico del diritto dato dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ricusando il primato della legge, punto fermo della Scuola dell’Esegesi. È interessante rilevare, anche se incidentalmente, come la logica di partenza della Scuola Storica fosse il Volksgeist. E se tale momento politico risulta chiaro negli intenti di Savigny, quindi esaltando lo spirito sottile dell’empiria rivolta all’interpretazione 306 dell’essere, non si comprende come gli esiti di tale dottrina abbiano svuotato tale programma. Il voler ricondurre la realtà sull’elemento tecnico del diritto nell’elevazione del ruolo dello scienziato del diritto, spezza l’assunto di partenza. Non è logico giustificare il concetto scientifico, il cui fondamento è il giudizio ipotetico-convenzionale-operativo, in base al Volksgeist che fonda le sue radici su basi sociali e concretamente naturali. L’ossimoro appare evidente. Non meraviglia quindi lo stallo che tale movimento ebbe negli anni a venire su questo punto e il conseguente frequente affiancamento con la Scuola dell’Esegesi con cui, all’origine, nulla aveva in comune. Per la consueta puntualità, si veda anche P. BECCHI, La polemica sulla codificazione fra Thibaut e Savigny. Significato e limiti di una chiave interpretativa, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Milano, 1987, p. 376 ss. Senza negare l’apporto dell’interprete, pur condotto secondo criteri otnologicamente fondati, a noi preme mantenere la consapevolezza della distinzione felicemente espressa da Gény tra donné et construit, con tutte le relative difficoltà del definire il donné. Nella sua opera, Gény “contrapponeva alla pedissequa esegesi dei testi legislativi la libre recherche scientifique, attraverso la quale il giurista avrebbe dovuto ricavare la regola giuridica direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è cosa troppo complessa e mobile -scriveva Gény- perché un individuo o un’assemblea , ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d’un sol colpo i precetti in modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica»”. Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 140. Per non cadere in contraddizione bisognerebbe ritenere, come non stentano a fare altri all’interno della corrente antiformalista, che l’intenzione di chi ha formato la legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria. E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo principio è così forte che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacché trovandosi la prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che, la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”Cfr. F. 307 GENY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p. 230, n. 98 e 238-239, n. 99. Ancora, nella teoria di Gény, si muove, osserva Degni, dal principio che il diritto debba soddisfare, innanzitutto, alle necessità della vita sociale. (Ecco la connessione tra diritto e realtà, che abbiamo visto sostenuta da Tullio Ascarelli, supra §2.1.) Affermato questo principio, se ne devono ammettere tutte le conseguenze (non come fa invece Gény), e la volontà del legislatore, per quanto chiara nel regolamento di taluni rapporti ed istituti giuridici, non può essere mantenuta, quando si rivela inadeguata alle esigenze del loro ordinamento. Affermare che la legge debba essere interpretata, come ogni altro atto della volontà umana, sempre nello stesso senso, cioè quello che ad essa ha attribuito il suo autore, senza tener conto delle circostanze posteriori che ne hanno potuto modificare la portata e gli scopi, significa disconoscere la fecondità del principio, che si pone a base del sistema, significa negare l’evoluzione del diritto nell’ordinamento di quei rapporti su cui si è fermata la volontà del legislatore. Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 207. Si tratta, dunque, della critica che il Degni muove a Gény, che, da un lato lascia nel dominio della legge ciò che deriva da essa, rispettando, perciò, l’intenzione del legislatore (diritto come volontà), dall’altro, rigettando la finzione che la legge debba in sè contenere la disciplina di tutti i rapporti, e combattendo l’abuso delle astrazioni logiche, riconosce, accanto alla legge, altre fonti parallele di diritto che, nascendo spontaneamente dalla natura delle cose, debbano regolare, per sè stesse, tutte le nuove manifestazioni della vita sociale. Si è visto, quindi, come Gény certo consideri la legge atto di volontà del legislatore, per lo meno laddove essa dispone. Eppure quest’autore accetta anche il principio che il diritto debba soddisfare alle necessità della vita sociale. Si è posta in luce, quindi, la stridente contraddizione che deriva nella sua teoria dall’accettazione di quel principio e contemporaneamente dell’assoluto rispetto, laddove espressa, della volontà del legislatore. E da osservare comunque che, ove non provveda il legislatore, sovviene la volontà dell’interprete, ma si tratta di interprete legittimato, il giudice, e pertanto la sua volontà è legge solo perchè “autorizzata”: non si esce, dunque, con la critica di Gény al legalismo e formalismo, dalla concezione positivistica. Per non cadere in contraddizione, nota Degni, bisognerebbe ritenere, come non stentano a fare altri all’interno della corrente, che l’intenzione di chi ha formato la legge non può essere che un elemento dell’interpretazione di questa, la quale, non derivando dalla volontà di un individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione del diritto, che il legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi l’ha emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita propria. E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo inflessibile da quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le condizioni della vita sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del diritto, non può cristallizzarsi nelle formule legislative, ma deve elaborarsi nella dinamica del diritto. Questo principio è così vero che finisce per imporsi allo stesso Gény, il quale non può 308 il problema (oggettivo) ed il principio generale (oggettivo) per dare un senso compiuto (e costituzionale) alla norma. Infine, così inquadrata, mediante tèlos e ratio, la norma trova un suo posto nell’ordine che proprio tramite tèloi e rationes si viene edificando: emerge cioè quel sistema ordinato di norme che è l’ordinamento giuridico.787 Tramite la propria ragion d’essere ed il non riconoscere che, in qualche caso, l’interpretazione della legge debba variare col tempo della sua applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze economiche che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le condizioni, siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacchè trovandosi la prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali, si può dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto nel senso che, la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti inapplicabile a uno stato di cose, assolutamente differente da quello che il legislatore aveva in vista.”, cfr. F. GÉNY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1900, p. 238-239, n. 99. Evidentemente Gény, per rimanere coerente al principio informatore del suo metodo, è stato condotto a questa affermazione, la quale, in verità, pare, come giustamente ha osservato il Degni, inconciliabile coll’altro principio, secondo cui l’intenzione del legislatore dovrebbe sempre essere rispettata. Per meglio riassumere la posizione di quest’autore, si ricordi che egli si pone dallo stesso punto di vista del metodo giuridico tradizionale, ma se ne allontana sostanzialmente in ciò, che, mentre quello, coi mezzi che gli forniscono la logica interna e gli elementi esteriori, che hanno influito sulla formazione delle leggi, ed avvalendosi del sistema delle costruzioni giuridiche, mira a ricercare la volontà del legislatore, anche nell’ordinamento di quei rapporti che, in realtà, eccedono tale volontà, egli, invece, si ferma alla volontà concreta e reale che la legge racchiude. L’interprete, insomma, deve inchinarsi ad essa, ma, quando si tratta di rapporti che effettivamente il legislatore non ha contemplati, s’impone la necessità di riconoscere nell’interprete un’attività più larga che,indipendentemente dalla legge, che, a questo riguardo, non esiste, gli permetta di determinarne l’ordinamento giuridico, di ricercare qual è il nuovo diritto e dichiararlo. Accanto alla legge scritta, e in sostituzione di essa, perciò, egli ammette altre fonti di diritto positivo. Si ricordi la posizione di Gény, che se riconosce la necessità che il diritto debba soddisfare alle esigenze della vita sociale, d’altro canto vuole il rispetto assoluto della volontà della legge che definisce una volontà che emana da un uomo o da un gruppo di uomini condensata in una formula. Cfr. F. GENY, Méthode d’interprétation en droit privé positif cit., p. 230, n. 98. 787 Interessante confrontare le divere prospettive di N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino., 1960, e di F. GENTILE, Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. 309 proprio scopo le norme trovano un loro ordine, operando in coattività.788 Infatti, il duplice elemento discretivo, del principio costituzionale (o dei principi costituzionali) di cui ambisce essere attuazione e del bene che intende tutelare, quale risposta ad un problema individuato dal legislatore, consentono al giurista di por mano a quell’operazione di mettere ordine, già felicemente indicata789 come ordinatio per distinguerla dal suo prodotto, l’ordinatum. E non si deve mancar di sottolineare come delle due, la prima costituisca il vero nerbo dell’ordinamento giuridico: non tanto l’insieme affastellato delle norme, quanto la capacità di riconoscere ragion d’essere e scopo di ognuna eleva l’ammassato indistinto a sistema ordinato, fornendo al marinaio-giurista gli strumenti per navigarvi proficuamente, piuttosto che stordirlo con nozioni, nel tentativo di fargli vedere tutto il mare. Abbiamo ripetuto a sazietà come l’analogia costituisca una manifestazione particolarmente prossima a quello che si ritiene il 788 Mi vedo costretto ad adottare questa versione grafica per sottolineare la duplice valenza delle norme riunite a sistema, nel senso di norme che agiscono l’una per mezzo delle altre, sia nel senso che, proprio per questo, sono coattive nel senso di cogenti. L’assonanza rammenta un tema kelseniano, enunciato più volte ed in diverse forme dal più famoso neokantiano Marburgo. Tuttavia, l’idea che il diritto non sia altro che un insieme di imperativi per cui la violazione di uno si ponga come condizione per l’applicazione di un altro, emerge già chiara quando ancora la dogmatica tedesca non aveva raggiunto l’organicismo di Laband e Jellinek. Emblematico come Thon apra la sua opera affermando perentoriamente “das gesammte Recht einer Gemeinschaft ist nichts als ein Complex von Imperativen”, “L’intero diritto di una società non è altro che un complesso di imperativi”, sicché la violazione degli uni sia condizione di efficacia per l’applicazione degli altri. Così A. THON, Rechtsnorm und subjectives Recht. Untersuchungen zur allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878, p. 8, con grassetto nel testo. Lo speciale sistema di co-attività delineato da Thon trova forse la sua radice teoretica in K. BINDING, Die Normen, vol I, Leipzig, 1872. Cfr. altresì A. RAVÀ, Il diritto come norma tecnica, Cagliari, 1911, p.71. 789 Come già ricordato più volte supra, la distinzione si deve a F. GENTILE, Ordinamento giuridico: tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001. L’accento sull’operazione del mettere ordine, come riconoscimento dell’esistenza di un ordine, è posto anche dal poco noto L. VON BERTALANFFY, General system theory: foundations, development, applications, New York, 1968, di cui segnalo una traduzione italiana, Milano 1971, rivista nel 1983. 310 procedimento archetipico della nostra mente, dico il movimento dialettico che procede nella conoscenza operando tra due termini per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso: è quello che abbiamo chiamato l’ipoteca analogica. Ora, proprio questo consente di operare con l’analogia legis, senza cadere nelle ambiguità che hanno finito per rendere inviso quando non provocatorio questo strumento, in realtà necessario sia in prospettiva positivista che antipositivista. Invero, procedere per analogia senza aver chiaro quale sia il criterio discretivo tra le norme conduce a ritener applicabili questa o quella in ragione di un mutevole, inconscio, sguardo a questo o quell’aspetto delle norme. Al contrario, minor arbitrio sembra assicurare il riferimento a quelli che abbiamo individuato come gli elementi caratteristici di una norma: di quella principio vuol essere specificazione e verso quale bene si dirige in risposta di quale problema. Si potrebbe allora sintetizzare che “problema analogo, norma analoga”. Più precisamente la norma “analoga” da applicare si desume guardando la sua ratio ed il suo tèlos, cioè ricercando quella norma che –ad un indagine dialettica per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso- più forti presenti i legami di principio e di scopo con il caso che si deve risolvere. Solo ove si individui identico principio da specificare e identità di bene da proteggere per risolvere il problema che ha originato la fattispecie si potrà dire di aver elementi tali da poter sostenere con qualche buon argomento, anche in sede processuale, l’applicabilità della norma così individuata al caso occorso. Abbiamo così anche distinto l’analogia legis dalla analogia juris: nella prima i termini da ricercare sono due ratio et tèlos; nella seconda, non essendovi un’esplicita norma per casi analoghi, non è stato percepito il problema o non vi è stato tentativo di darne riposta con una norma fornita di un suo scopo; e pertanto si deve ricercare il principio generale di cui la soluzione della fattispecie concreta sarà attuazione. Si noti, poi che il procedimento per l’analogia appena descritto appare uno sviluppo logico e naturale del procedimento di interpretazione della legge, riassunto all’inizio di questo capitolo. 311 Resta ora la parte più difficile, la distinzione tra la strada appena tracciata per l’analogia da una strada per l’interpretazione estensiva. Ed anche in questo caso, vogliamo cercare dialetticamente la caratteristica della norma eccezionale. Norme eccezionali, sono evidentemente norme che fanno eccezione a regola generale, si parte quindi da una definizione in negativo che presuppone prima l’accertamento della norma generale. Il criterio non quantitativo, ma qualitativo come compressione di un principio: a ben guardare le norme eccezionali sono in numero maggiore delle norme generali, proprio perché queste ultime -valendo per la maggior parte dei casi- coprono la maggior parte delle fattispecie possibili. Al contrario, la norma eccezionale copre casi più ridotti e, quindi, mentre per fissare una regola occorre una sola norma generale, per porvi dei limiti necessitano una o più norme eccezionali. Ancora, se il criterio fosse solamente qualitativo, occorrerebbe tenere la somma algebrica di tutte le norme che dispongono in un senso e di tutte quelle che indicano una prescrizione contraria; con la conseguenza che per la frenetica attività del legislatore una norma potrebbe trovarsi “in maggioranza” o “in minoranza” e passare così da generale ad eccezionale e viceversa, mutando il regime di regole d’interpretazione cui è soggetta. Come si è anticipato la ragion d’essere della norma eccezionale riposa sulla necessità di porre un limite ad un principio esplicato in una o più norme generali, a tutela di un altro principio per salvaguardare un bene specifico. La norma eccezionale sorge dalla necessità di contemperare i principi o di porli in gerarchia ordinata. Il problema si sposta allora all’ordine dei principi, cui non si applica però l’articolo 12: per quanto controversa sia la loro natura appare chiaro che non si tratta di norme ma di fonti di norme.790 In ogni caso, però, anche la mera operazione del porre 790 Si veda A. BELVEDERE, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Politica del diritto, 1988, p. 631 – 653. Oltre ai contributi più risalenti, citati alla nota 774, la difficoltà nel collocare i principi è testimoniata dagli scritti di S. COTTA, I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 496; N. BOBBIO, voce 312 ordine si presenta più facile, minore essendo il numero delle variabili; inoltre, sotto il profilo sostanziale, si può contare su un consenso diffuso nell’ordine generale dei principi: nel dare la precedenza alla persona sui beni, al lavoro sulla proprietà passiva, seppure già l’armonia si rompe quando si fanno concorrere per esempio la libertà personale con l’interesse della comunità. La provocazione ci aiuta a capire che la scelta è ancora una volta politica nel senso forte del termine, cioè rappresenta il grado di consapevolezza di una comunità in un certo momento.791 Alla sensibilità politica del legislatore ed al controllo della Corte costituzionale, dunque, l’ordine di attuazione normativa dei principi, che è ordine nei principi. Tuttavia, il problema cui una norma è chiamata a rispondere può essere anche un’altra norma, alla quale appare necessario porre dei limiti, spesso solo in un secondo momento rispetto alla data di entrata in vigore; una norma che salvaguardi delle peculiarità sottraendole alla regola generale: una norma eccezionale. Il prius – norma generale ed il posterius – scopo della norma eccezionale Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, 1963, p. 423; IDEM, voce Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, 1966, XIII; G.R. CARRIO, Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970, ora in R. GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980, pp. 75-94; G. ALPA, I principi generali, in Trattato di diritto privato, Milano, 1993, p. 33 e ss.; A. SCHIAVELLO, Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir., 1995, p. 162; V. FROSINI, Sull’interpretazione dei principi generali del diritto, in Riv. internaz. fil. del diritto 1995, p. 853; G. OPPO, Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 492. Peraltro, a noi sembra che si tratti di un falso problema: essendo collocati comunque al vertice nella gerarchia delle fonti risulta superfluo chiedersi se si tratti delle norme più generali o di fonti di produzione. Cfr. A. CERRI, Appunti sul concorso conflittuale di diverse norme della Costituzione, in Giur. cost., 1976, I, p. 272 e ss.; IDEM, Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come valore “privilegiato”: spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur. cost., 1987, p. 1806. Da ultimo, sembra aderire a questa posizione anche P. BECCHI, Giuristi e principi, Genova, 2000. 791 Con le parole di apertura – chiusura di U. PAGALLO, Alle fonti del diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino 2002, possiamo dire che veramente “Alle fonti del diritto ritroviamo il “nodo del riconoscimento che presiede all’interazione comunicativa degli uomini”. 313 costituiscono già un primo esempio di sistema giuridico, cioè di insieme co-attivo di norme, nel duplice senso già detto di norme che operano insieme e che (anche per questo) sono cogenti. In base all’art. 14 le norme eccezionali si applicano solo ai casi in esse considerati. È dunque ammessa l’estensione, ma non il passaggio dal problema di cui sono risposta ad un altro problema. La vera natura dell’eccezionalità risiede non nel solo tèlos, che può essere comune ad altre norma, non nella sola ratio, ché la compressione di quel dato principio può essere comune anche ad altre norme, ma nella combinazione dell’uno e dell’altra. Il limite dell’estensione sta nella ragione stessa dell’eccezionalità: perché si è dovuta introdurre quella determinata norma? Per limitare la portata di un’altra. La ratio riposa nell’esigenza di comprimere un determinato principio per far posto ad un altro. Il tèlos consiste nel proteggere un bene che sarebbe altrimenti travolto dalla disciplina generale, una peculiarità meritevole di tutela in base ad un altro principio generale o per miglior specificazione del medesimo principio di cui vuole essere attuazione la stessa norma generale derogata dalla norma eccezionale. Abbiamo sopra sintetizzato il fondamento dell’analogia nell’equazione problema analogo = norma analoga, cioè l’applicabilità di una norma per analogia è ammessa ove il caso da risolvere sorga dal medesimo problema di cui ha voluto essere risposta la norma espressa; la fattispecie da regolare abbisogna della medesima ratio e dello stesso tèlos; ed è per questo, per la comunanza di questi due elementi, che la norma espressa può essere analogicamente applicata anche al caso non specificamente regolato.792 792 Giova ripetere che tèlos e ratio non esauriscono gli aspetti caratterizzanti la norma: due norme con identico tèlos e ratio non sono la stessa norma, potendovi essere altri elementi precipui, quali l’applicazione temporale o spaziale che differenziano l’una dall’altra. Per un diverso tentativo di ricostruire il carattere eccezionale della norma, cfr. R. PINARDI, “incostituzionalità sopravvenuta” e natura “eccezionale” della normativa denunciata (a margine di 314 Se questo è il fondamento dell’analogia legis, allora la norma eccezionale non può essere applicata ad un problema analogo a quello per la quale è stata prevista. In altri termini, la definizione di interpretazione estensiva è data a contrariis da quella di analogia. Ci sembra allora che acquisti un senso nuovo (e il termine va usato con cautela dopo oltre duecentocinquanta pagine spese sui problemi dell’interpretazione) l’affermazione tradizionale per cui se analogia è passaggio da un problema ad un altro (individuandosi l’uno e l’altro mediante procedimento dialettico di confronto dei rispettivi ratio e tèlos), l’estensione spinge il momento teleologico fino alla massima risposta del problema che aveva originato la norma, ma non va oltre.793 un’altra pronuncia di accoglimento solo parzialmente retroattiva), in Giur. cost., 1991, p. 1236 e ss. 793 Questa costruzione viene incontro anche alla posizione cara ai penalisti che ambiscono a dilatare l’eccezione alla norma incriminatrice speciale (eccezione a norma eccezionale!) avvalendosi del principio del favor rei. Tra i molti, mi limito a richiamare il valore di G. BELLAVISTA, L’interpretazione della legge penale, Milano 1936 (rist. 1975); di G. VASSALLI, La legge penale e la sua interpretazione, il reato e la responsabilità penale, le pene e le misure di sicurezza, 2 vol, Milano, 1997, nonché in altra prospettiva R. R INALDI, L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, in Riv. it. dir. proc. pen. 1994, p. 195. 315 Indice della giurisprudenza citata (in ordine cronologico) 1. Cassazione civile, sez. I., 10.8.1934 2. Corte d’Appello Roma, 10.1.1939 3. Cassazione penale, sez. un, 7.2.1948 4. Cassazione civile, sez. III, 22.6.1948 n. 975 5. Cassazione civile, sez. III, 27.7.1948 n. 1255 6. Cassazione civile, sez. un, 25.6.1949 n. 1592 7. Cassazione civile, sez. II., 14.7.1949 n. 1801 8. Corte cost., 23.6.1956, n. 3 9. Corte cost., 2.7.1956, n. 8 10.Corte cost. 26.1.1957, n. 24 11.Cassazione civile, sez. I., 8.8.1959 n. 2500 12.Corte cost., 27.5.1961, n. 27 13.Cassazione civile, sez. I., 3.7.1967 n. 1621 14.Corte cost., 19.12.1968, n. 126 15.Corte cost., 19.12.1968, n. 127 16.Cassazione penale, sez. I, 7.3.1977 17.Cassazione penale, sez. I, 14.4.1978 18.Tribunale Milano, 15.5.1978 19.Cons. Stato, sez. IV, 4.7.1978 n. 701 20.Tribunale Palermo, 12.7.1978 21.Pretura Milano, 31.10.1978 22.Pretura Ottaviano, 28.3.1979 23.Cons. Stato, sez IV, 27.9.1979 n. 738 24.Cassazione civile, sez. lav, 4.12.1979, n. 6307 25.Cassazione penale, sez. V, sent. 8.1.1980 26.Cassazione penale, sez. III, 11.1.1980 27.T.A.R. Calabria, sez. Catanzaro, 18.1.1980 n. 2 28.Cassazione penale, sez. I, 25.2.1980 29.Cassazione civile, 17.3.1980 n. 1772 30.Corte cost., 22.4.1980, n. 62 31.Corte cost., 5.5.1980 n. 68 32.T.A.R Campania, 11.6.1980, n. 445 33.Cassazione civile, sez. lav, 6.11.1980, n. 5968 34.Corte cost., 10.2.1981 n.22 316 35.Cassazione civile, sez. lav, 28.3.1981 n. 1800 36.Cassazione civile, sez. lav 9.4.1981, n. 2067 37.Pretura Milano, 21.9.1981 38.Cassazione civile, sez. III, 9.7.1982, n. 4095 39.Tribunale Torino, 3.9.1982 40.Cassazione civile, sez. lav., 1.10.1982, n. 769 41.Cassazione penale, sez. V, 12.10.1982 42.T.A.R. Molise 6.12.1982, n. 217 43.T.A.R. Emilia Romagna, sez. Bologna, 18.12.1982 n. 643 44.Cassazione civile, sez. lav., 9.5.1983 n. 3168 45.Cassazione civile, 13.5.1983 n. 3275 46.Cassazione penale, sez. IV, 13.6.1983 47.Cassazione civile, 3.12.1983 n. 7248 48.Cons. Stato, a. plen. 16.12.1983, n. 27 49.T.A.R. Lazio sez. II, sent. 20.12.1983 n. 1269 50.Cassazione penale, sez. I, 20.10.1984 51.Cassazione civile, sez. lav, 4.2.1985, n. 732 52.Cons. Stato, a. plen., 12.2.1985 n. 2 53.Cassazione civile, sez. lav, 19.6.1985, n. 3609 54.Cassazione civile, sez. I, 21.10.1985, n. 5171 55.Corte d’Appello Reggio Calabria, 22.1.1986 56.Tribunale Roma ,18.4.1986 57.Cons. G. Amm. Sicilia, 26.7.1986, n. 109 58.Cons. G. Amm. Sicilia, 28.8.1986, n. 129 59.Cassazione civile, sez. lav, 27.10.1986, n. 6294 60.Cassazione civile, sez. II, 11.11.1986, n. 6584. 61.Cassazione penale, sez. I, 27.11.1986 62.Cassazione civile, sez. lav., 17.1.1987, n. 383 63.Cassazione civile, sez. I, 26.5.1987, n. 4710 64.T.A.R. Lazio, sez.I, 16.10.1987, n. 1651 65.Comm. imposte prov.le, sez. I, Firenze, 28.10.1987 n. 443 66.Cassazione penale, sez. V, 24.2.1989 67.Cassazione civile, sez. lav, 18.3.1989, n. 1381 68.Cons. Stato, sez. VI, 15.4.1989, n. 422 69.Cassazione civile, sez. lav, 12.5.1989, n. 2178 317 70.Cassazione civil,e sez. un, 17.5.1989, n. 2336 71.Cassazione civile, sez. unite, 30.5.1989, n. 2631 72.Corte cost. 25.7.1989 n. 427 73.Cassazione civile, sez. lav, 25.10.1989, n. 4373 74.Cassazione civile, sez. lav, 2.2.1990, n. 689 75.Cons. Stato, sez. V, 27.2.1990, n. 217 76.Tribunale Catanzaro, 24.4.1990 77.Cassazione penale, sez. I, 21.5.1990 78.Cassazione civile, sez. un, 14.6.1990, n. 5777 79.Cassazione civile, sez. lav., 24.7.1990, n. 7494 80.Cassazione penale, sez. VI, 15.10.1990 81.Cons. Stato, sez. V, 26.10.1990, n. 731 82.Cassazione civile, sez. lav, 21.11.1990 n. 11210 83.Cons. G. Amm. Sicilia, 26.3.1991 n. 99 84.Cassazione civile, sez. I, 19.4.1991, n. 4234 85.Cassazione civile, sez. II, 16.5.1991, n. 2991 86.T.A.R. Toscana, sez. I, 30.5.1991 n. 314 87.Cassazione penale, sez. V, 3.7.1991 88.Cassazione civile, sez. lav., 30.7.1991, n. 7279 89.Cassazione civile, sez. lav., 3.10.1991, n. 10304 90.T.R.G.A., sez. Trento, 2.12.1991 n. 410 91.Cassazione civile, sez. II, 16.12.1991, n. 13519 92.Cassazione penal,e sez. I, 11.2.1992 93.Cassazione penale, sez. I, 6.3.1992 94.Cassazione penale, sez. IV, 11.3.1992 95.Consiglio di Stato sez. V, 14.10.1992, n.987 96.Pretura Milano, 10.11.1992 97.Cassazione penale, sez. III, 2.12.1992 98.Cassazione penale, sez. I, 12.1.1993 99.Cassazione civile, sez. lav, 26.2.1993, n. 2404 100.Cassazione penale, sez. VI, 2.4.1993 101.Cassazione penale, sez. IV, 10.6.1993 102.Cassazione civile, sez. I, 8.7.1993, n. 7514 103.Cassazione penale, sez. I, 10.11.1993 104.Cassazione penale, sez. un, 19.1.1994 105.Cassazione penale, sez. III 23.1.1994 318 106.Cassazione penale, sez. I, 17.2.1994 107.Comm. centr. imposte sez. IX, 16.3.1994, n. 733 108.Cassazione civile, sez. I, 17.3.1994, n. 2574 109.Cass. Civ. sez. lav., 15.4.1994, n. 3556 110.Corte d’Appello Brescia, 4.5.1994 111.Cassazione civile, sez. III, 6.5.1994, n. 4420 112.Pretura Milano, 19.7.1994 113.Cassazione civile, sez. I, 18.8.1994, n. 7437 114.Pretura Bologna, 6.9.1994 115.T.A.R. Sicilia, sez. II, 4.10.1994 n. 888 116.Tribunale Napoli, 7.10.1994, n. 13519 117.Corte cost., 28.11.1994, n. 410 118.Cassazione civile, sez. II, 14.12.1994, n. 10699 119.Cassazione civile, sez. I, 15.2.1995, n. 1638 120.Cassazione civile, sez. I, 19.2.1995, n. 4409 121.Cassazione civile, sez. II, 15.3.1995, n. 3045 122.Cassazione civile, sez. II, 28-9.4.1995, n. 4754 123.Cassazione civile, sez. lav, 17.7.1995, n. 7763 124.Cassazione civile, sez. lav, 27.10.1995, n. 11154 125.Cassazione civile, sez. lav., 13.4.1996, n. 3495 126.Corte cost., 23.1.1997, n. 10 127.T.A.R. Liguria, sez. II, 15.1.-14.2.1997 n. 57 128.Corte cost., 5.3.1998, n. 40 129.Corte cost., 26.5.1998, n. 185 130.Corte cost., 2.11.1998, n. 361 131.Corte cost., 13.4.2000, n. 98 132.Tribunale Milano, sez. I, decreto 26.6.2003 319 BIBLIOGRAFIA AA.VV. Codice civile: libro delle successioni e donazioni : illustrato con i lavori preparatori, relazione sul progetto preliminare, relazione sul progetto definitivo, atti della commissione parlamentare, relazione del guardasigilli a S.M il Re imperatore, Roma, 1939 AARNIO A., The Rational as Reasonable, Dordrecht, 1987 ABBAGNANO N., La filosofia contemporanea in Storia della filosofia, IV ed., Roma – Bari, 1991 ABIGNENTE A., Adolf Merkl: la costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, in Riv. dir. civ. 1987, I, 621 ALCHOURRÓN C. E., Los argumentos jurídicos ‘a fortiori’ y ‘a pari’ en ALCHOURRÓN C., BULIGYN E., Análisis lógico y Derecho, con prefazione di G. H. Von Wright, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid, 1991, pp. 3-24 ALCHOURRON C., BULYGIN E., Introducción a la metodología de las ciencias jurídicas y sociales, Buenos Aires, 1993 ALEXY R. – PECZENIK A., The Concept of Coherence and its Significance for Discursive Rationality, in Ratio juris, 1990, p. 130 – 147 ALEXY R., Theorie der juristischen Argumentation: die Theorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristischen Begrundung, Frankfurt (a M.), 1978, tr. it. a cura di Massimo La Torre, Milano, 1998 ALEXY R., voce Interpretazione giuridica, in Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, Roma, 1996, p. 64-71 ALIBRANDI L., (a cura di), Il Codice penale annotato con la giurisprudenza, Piacenza, 1996, pp. 281-295 ALLEN C.K., Law in the making, 7th ed., Oxford, 1964 ALPA G. – GUARNIERI A. – MONATERI P.G. – PASCUZZI A. – SACCO R., Le fonti non scritte e l’interpretazione, in R. Sacco (a cura di), Trattato di diritto civile, Torino, 1999 320 ALPA G., I principi generali in Trattato di dir. privato, Milano, 1993 ALSTON W. P., Filosofia del linguaggio, (1964), tr. it. Bologna, 1971 AMENTA G., Interpretazione e fonti del diritto nell’ottica dell’ermeneutica antropologica, in Giur. it. 1987, IV, 518 AMSELEK P., Méthode phénoménologique et théorie du droit, Paris, 1964 ANCORA F., La corte costituzionale e il potere legislativo, in Giur. cost., 1987, I, 3825 ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, XI ed., Milano, 1989 ARGIROFFI A., Sull’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, in Riv. int. fil. dir, 1995 ARGIROFFI A., Valori, prassi, ermeneutica : Emilio Betti a confronto con Nicolai Hartmann e Hans Georg Gadamer, Torino, 1994 ARISTOTELE, De interpretatione, trad. e cura di Marcello Zanatta, Milano, 1992 ARISTOTELE, La Metafisica, V libro, trad. e cura di Giovanni Reale, Napoli, 1978 ARMELLINI S., Le due mani della giustizia, Torino, 1996 ASCARELLI T., Il problema delle lacune e l’art. 3. disp. prel. nel diritto privato. (Appunto critico), Estratto dall’ Archivio Giuridico vol XCIV, Fasc. 2 ASCARELLI T., La funzione del diritto comparato e il nostro sistema di diritto privato, Estr. annali Seminario giur. Università di Catania, III-1949 ASCARELLI T., Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959 ASCOLI M., La interpretazione delle leggi, Roma, 1928 ASQUINI A., La natura dei fatti come fonte del diritto, Modena, 1921 ATIENZA M., “Algunas tesis sobre la analogía en el Derecho”, in Doxa, 2, 1985, pp. 223-229 ATIENZA, M., Sobre la analogía en el Derecho. Ensayo de análisis de un razonamiento jurídico, Madrid, 1986 321 AUSTIN J., Lectures on Jurisprudence or The Philosophy of Positive Law, London, 1879 BACIGALUPO E., “La garantía del principio de legalidad y la prohibición de analogía en el Derecho Penal”, en Anuario de Derechos Humanos, Universidad Complutense, 1983, pp. 13 e ss BARBERIS M., L’evoluzione nel diritto, Torino, 1998 BARCELLONA M., L’interpretazione del diritto come autoriproduzione del sistema giuridico, in Riv. critica dir. priv., 1991, p. 53 BARONI C., Essere e dover essere alla luce della cd. legge di Hume, Tesi di laurea in Filosofia del diritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Padova, a.a. 1995-96 BAZZICALUPO L., Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, 1996 BECCHI P., Enunciati, significati, norme. Argomenti per una critica dell’ideologia neoscettica, in P. Comanducci – R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, Torino, 2000, p. 1 – 17 BECCHI P., Giuristi e principi, Genova, 2000 BECCHI P., La polemica sulla codificazione fra Thibaut e Savigny. Significato e limiti di una chiave interpretativa, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Milano, 1987, p. 376 BELLAVISTA G., L’interpretazione della legge penale, Milano 1936 (rist. 1975) BELLINAZZI P., Conoscenza, morale e diritto: il futuro della metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990 BELVEDERE A., Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Politica del diritto, 1988, p. 631 – 653 BENEDETTI G., L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 BENEDETTI G., Una testimonianza sulla teoria ermeneutica di Emilio Betti, in Riv. dir. civ. 1990, I, 781 BERGBOHM K., Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892 BERGSON H., Introduzione alla metafisica, Paris, 1903 322 BERTALANFFY L. VON, General system theory: foundations, development, applications, New York, 1968 BERTI E., Aristotele nel Novecento, Bari, 1992 BERTI E., Il principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica, memoria presentata dal socio effettivo Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti (Venezia), serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966 BERTOLISSI M., Identità e crisi dello Stato costituzionale in Italia, Padova, 2002 BETTI E., Di una teoria generale dell’interpretazione, in Riv. giur. umbro-abr. , XXXIII, 1957 BETTI E., Diritto, metodo, ermeneutica, a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1991 BETTI E., Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), (1949) II ed. a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1971 BETTI E., Interpretazione della legge e sua efficienza evolutiva, in Scritti giuridici in onore di Mario Cavalieri, Milano, 1959 BETTI E., Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. it. sc. giur., 1948 BETTI E., Metodica e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir., 1925, 5 BETTI E., Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in Riv. dir. comm., 1940, I, p. 217-223 BETTI E., Sul cosiddetto risarcimento del danno in forma specifica in materia contrattuale, in Giur. it. 1948, I, II, 259 BETTI E., Teoria generale della interpretazione, a cura di Giuliano Cfrifò, 2 voll. Milano, 1990 BETTI E., voce Dovere giuridico (teoria generale) in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, 53 BETTIOL, G., Diritto penale, Palermo, 1945 BIANCO F., La teoria generale della interpretazione nel dibattito ermeneutico contemporaneo, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 323 BIERLING E. R., Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894 BIERLING E.R., Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877 BIFULCO R., La responsabilità dello Stato per atti legislativi, Padova, 1999 BINDI E., Un caso di bilanciamento (mascherato) tra esigenze di efficacia della giustizia e principi costituzionali relativi alle garanzie giurisdizionali in Giur cost., 1998, p. 900 BINDING K., Die Normen, vol I, Leipzig, 1872 BLEICHER J., Contemporary hermeneutics : hermeneutics as method, philosophy and critique, London, 1980 (tr. it. a cura di Stefano Sabattini, Bologna, 1986) BOBBIO N., Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogia, in Giur. it., 1968, I, 1, c. 695 BOBBIO N., Intorno al fondamento del procedimento per analogia, in Giur. it., 1951, I, 1, 229-232 BOBBIO N., L’ analogia nella logica del diritto, Torino, 1938 BOBBIO N., voce Analogia in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1957 BOBBIO N., voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, 1963 BOBBIO N., voce Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, XIII 1966 BOELLA L., Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Milano, 1995 BÖHLER D., Rekonstruktive Pragmatik. Von der Bewusstseinphilosophie zur Kommunikationsreflexion: Neubegründung der praktischen Wissenschaften, Frankfurt (a. M.), 1985 BONGIOVANNI G. Teorie costituzionalistiche del diritto Morale, diritto e interpretazione in R. Alexy e R. Dworkin, Bologna 2000 BOSCARELLI M., L’ analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1954, p. 624. 324 BOSCHI M., Sentenza di condanna atipica per l’applicazione di pena patteggiata, in Giustizia pen. 1990, III, 645 BOTTIN F., La scienza degli Occamisti, Rimini, 1982 BOZZI A., Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 1985 BRETONE M., Il paradosso di una polemica, in Quaderni fiorentini n. 7, Milano, 1978 BRUGI B., L’analogia di diritto e il cosiddetto giudice legislatore, in Dir. Comm., 1916, I, p. 262-75 BRUNETTI G., Il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924 BULTMANN R., È possibile un’esegesi priva di presupposti? in Credere e comprendere, tr. it. di A. Rizzi, Brescia, 1977 BULYGIN E., “Sentencia judicial y creación de Derecho” en ALCHOURRÓN C., BULIGYN, E., Análisis lógico y Derecho, con prefazione di G. H. Von Wright, Centro de Estudios Constitucionales, Madrid, 1991, pp. 355-369 BURDESE A. e GALLO M, Ipotesi normativa di interpretazione del diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949 BURDESE A., Diritto privato romano, Torino, 1987 CAIANI L., I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1953 CAIANI L., voce Analogia: b) teoria generale in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, 348 CALVO VIDAL F. M., La jurisprudencia ¿Fuente del Derecho?. (El valor de la jurisprudencia dentro de las fuentes del Derecho), Valladolid, 1992 CANO CAMPOS T., “La analogía en el Derecho administrativo sancionador”, in Civitas. Revista española de Derecho administrativo, nº 113, 2002, pp. 51 e ss CAPOGRASSI G., Il problema della scienza del diritto, Roma, 1937 CAPOTOSTI P.A., Tanto tuonò …, ma non piovve, in Giur. cost., 1990, p. 2622 CARAVITA DI TORITTO B., La modifica dell’efficacia temporale delle sentenze della Corte costituzionale: limiti pratici e teorici, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze 325 straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 243 CARNELUTTI F., Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951 CARNEVALE P., La pronuncia di incostituzionalità “ad effettoparzialmente retroattivo” del regime della perequazione automatica per le pensioni dei magistrati: ancora una declaratoria di illegittimità costituzionale con efficacia “temporalmente circoscritta”, in Giur. it, 1989, I, 1, 761 CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale: del delitto, della pena, (1859-70) Bologna, 1993 CARRIO G.R., Principi di diritto e positivismo giuridico, Bologna 1970, ora riprenso in R. GUASTINI, Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980 CARTABIA M., Portata e limiti della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale che incidono sugli status giuridici della persona. In margine ad alcune recenti sentenze della Corte di cassazione in materia di cittadinanza, in Giur. cost., 1996, p. 3260 CASA, F., Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo e idealismo, Napoli, 1999. CASSIRER E., Filosofia delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967 CASTELLANO D., L’ordine della politica, Napoli, 1997 CASTELLANO D., La libertà soggettiva, Napoli, 1984 CASTELLANO D., La razionalità della politica, Napoli, 1993 CASTELLANO D., La verità della politica, Napoli, 2002 CATANIA A., Ermeneutica e definizione del diritto, in Riv. dir. civ. 1990, II, 121 CATTANEO M. A., Illuminismo e codificazione, Milano, 1966 CATTANEO M.A., Considerazioni sul significato dell’espressione “i giudici creano diritto”, Atti del VII congresso della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Milano, 1966, vol II, p. 256 ss CAVALLA F., La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Padova, 1996 326 CAVALLA F., voce Topica giuridica, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, 720 CAVANNA A., Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982 CELANO B., Dover essere e intenzionalità - Una critica all’ultimo Kelsen, Torino, 1990 CERRI A, Appunti sul concorso conflittuale di diverse norme della Costituzione, in Giur. cost., 1976, I, p. 272 e ss. CERRI A., Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come valore “privilegiato”: spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur. cost., 1987, p. 1806 CERVATI A. A., Incostituzionalità delle leggi ed efficacia delle sentenze delle Corti costituzionali austriaca, tedesca ed italiana, in AA. VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con firerimento alle esperienze straniere, Atti del seminario di studi tenuto al Palazzo della Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989, p. 125 CLARICH M., Con un’interpretazione moderna della legge salta l’equiparazione tra maghi e “ciarlatani”, in Guida al diritto, 1997, 13 COCA PAYERAS, M., “Voz Analogía”, en Enciclopedia Jurídica Básica, Madrid, 1995, vol. I, pp. 451-453 CONTE A.G., Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, 1968 COSSIO C., El derecho en el derecho judicial, Santa Fe, 1945 COTTA S., I principi generali del diritto: considerazioni filosofiche, in Riv. dir. civ. 1991, I, 496 CRIFÒ G., Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini, n. 7, Milano, 1978 CRISAFULLI V., Questione in tema di interpretazione della Corte costituzionale nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria, in Giur cost., 1956, p. 929 CROSA E., I diritti di libertà e la Costituzione, in Giur. it., 1948, II, 129 CRUET J., La vie du droit et l’impuissance des lois, Paris, 1908 D’AMICO M. E., Giudizio sulle legge ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità, Milano, 1993 327 DE GENNARO A., L’ermeneutica idealista. Filosofia politica neoidealistica italiana ed interpretazione, Napoli, 1993 DE LA VEGA BENAYAS C., Teoría, aplicación y eficacia en las normas del Código Civil, Madrid, 1976 DE LUCA M., Licenziamenti individuali nelle “piccole imprese”: la Corte costituzionale estende la garanzia del contraddittorio, ma restano alcuni problemi, in Foro it. 1989, I, 2685 DE RUGGIERO R., Istituzioni di diritto civile, vol. I, Milano, VII ed., 1934-1935 DEGNI F., L’interpretazione della legge, Napoli, 1909 DEL VECCHIO G., Sui principi generali del diritto, Archivio Giuridico LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in Studi sul diritto, vol. I, Milano 1958, p. 207-270 DELFINO F., Omissioni legislative e Corte costituzionale (delle sentenze costituzionali c.d. creative), in AA. VV. Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974, p. 911 DEMANTE A., Cour anlytique de Code Civil, Paris, 1849 DICIOTTI E., Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999 DICIOTTI E., Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Torino, 1999 DÍEZ PICAZO L., Experiencias jurídicas y Teoría del Derecho, Madrid, 1973 DILTHEY W., Einleitung in die Geistwissenschaften in Schriften, II ed., I, Leipzig, 1921 DONATI D., Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910 DWORKIN R. M., I diritto presi sul serio, Bologna, 1982 DWORKIN R.M., The philosophy of law, Oxford, 1977 EHERLICH E., Juristische Logik, Tübingen, 1925 ENGISCH K., Die Idee der Konkretisierung im Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit, Heidelberg, 1968 ESSER J., Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts: Rechtsvergleichende Beiträge zur Rechtsquellen- und Interpretationslehre, Tübingen, 1958, IV ed., ivi, 1990 328 ESSER J., Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung. Rationalitätsgrundlagen richtlicher Entscheidungspraxis, Frankfurt a M., 1972, tr. it. di S. Patti e G. Zaccaria, Napoli, 1983 ESSER J., Wege der Rechtsgewinnung, Tübingen, 1990 ESSER, J., Wert und Bedeutung der Rechtsfiktionen: Kritisches zur Technik der Gesetzgebung und zur bisherigen Dogmatik des Privatrechts, Frankfurt (a. M.), 1940 FALCÓN Y TELLA M. J., El argumento analógico en el Derecho, Civitas y Servicio de Publicaciones de la Universidad Complutense de Madrid, Madrid, 1991 FALZEA A., Gli standards valutativi e la loro applicazione in Riv. dir. civ., 1987, I, p 198 FALZEA A., I principi generali del diritto, in Riv. dir. civ. 1991, I, 462 FANTOZZI A., Il diritto tributario, 3 ed., Torino, 2003 FASSÒ G., voce Legge in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Milano, 1973, 783 FERRARA F., Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225 FERRATER MORA J., Diccionario de Filosofía, Madrid, 1981 FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, Bologna, 1993 FLETCHER G.P., Basic concept of legal tought, Oxford, 1996 FRANCO A., Problema della coerenza e della completezza dell’ordinamento, Torino, 1988 FROSINI V. - RICCOBONO F. (a cura di), L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 FROSINI V., Sull’interpretazione dei principi generali del diritto, in Riv. int. fil. dir 1995, 853 FUCHS E., Die Gemeinschädlichkeit der konstruktiven Jurisprudenz, Karlsruhe-Brun, 1909 GADAMER H.G., L’art de comprendre, Tome I, Paris, tr. franc. 1982 GADAMER H.G., Warheit und Methode, Tübingen, (1960) III ed., 1972, tr. it. (sulla II ed, 1965) a cura di Gianni Vattimo, Milano, 1983 GALGANO F., Diritto civile e commerciale, Padova, 1993 329 GARCÌA FIGUEROA A., Principios y positivismo jurìdico, Madrid, 1998 GARCÍA PASCUAL C., “Notas sobre la creación e interpretación del Derecho. Jueces, profesores y legisladores”, in Anuario de Filosofía del Derecho XIV, 1997, págs. 603-619 GENTILE F., Esperienza giuridica e secolarizzazione, in Esperienza giuridica e secolarizzazione, a cura di Danilo Castellano e Giovanni Cordini Milano, 1993 GENTILE F., Il giuramento. Conversazione tenuta agli Allievi del 170 Corso Ufficiali dell’Accademia Militare di Modena, Modena, 1989 GENTILE F., Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed., Milano, 1984 GENTILE F., La controversia alla radice dell’esperienza giuridica, in AA. VV., Soggetti e norme. Individuo e società, Napoli, 1987, p. 151 e ss. GENTILE F., Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, II ed. ampliata, Padova, 2001 GENTILE F., Politicità e positività nell'opera del legislatore. Relazione al 17. Congresso della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica (1989), Catanzaro, 1998 GENTILE M., Breve trattato di filosofia, Padova, 1974, poi ripreso in IDEM, Trattato di filosofia, Napoli, 1987, GENY F., Méthodes d’interpretation et sources en droit privé positif, Paris, 1919 GIANFORMAGGIO L., Logica e argomentazione nell’interpretazione giuridica, ovvero i giuristi interpreti presi sul serio, in (a cura di) F. Gentile, Interpretazione e decisione – diritto ed economia. Atti del XVI congresso della Società di Filovia Giuridica e Politica, Padova, 1987, 29 GIANFORMAGGIO L., voce Analogia in Digesto civile, Torino, 1987, 320 GIANNINI M.S., L’analogia giuridica, in Jus 1941 GORLA G., I precedenti storici dell’art. 12 delle disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale), in Foro it., 1969, II, 112 330 GORLA G., I principi generali comuni alle nazioni civili e l’art. 12 delle disposizioni preliminari del codice civile italiano del 1942, in Foro it., 1992, V, 90 GOYTISOLO, J BMS. VALLET DE, En torno de las relaciónes constituciónales, in Annales de la Fundación Francisco Elías de Tejada, VII, 2001, p. 17 ss GRASSO P.G., Costituzione e secolarizzazione, Padova, 2002 GREÑO J-E., Voce “Analogía Jurídica”, in Nueva Enciclopedia Jurídica, Editorial Francisco Seix, Barcelona, 1983, pp. 645653 GRIFFERO T., Elogio dell’incompiutezza. L’eccedenza simbolica nell’ermeneutica di Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 GRONDIN J., L’universalité de l’hermenéutique selon Emilio Betti, in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 GROSSI P., Interpretazione ed esegesi, in Riv. dir. civ. 1989, I, 197 GROSSI P., Pagina introduttiva, in Quaderni fiorentini n.7, Milano, 1978 GROSSO C. F., L’ art. 121 T. U. delle leggi di pubblica sicurezza 18.6.31 n. 733 e il divieto di analogia in diritto penale, in Giur. it., 1961, I, 1, 1043 e ss. GUASTINI R., Dalle fonti alle norme, Torino, 1990 GUASTINI R., Problemi di teoria del diritto, Bologna, 1980 GUASTINI R., Realismo ed antirealismo nella teoria dell’interpretazione, in Ragion pratica, 17, 2001, p. 43-52 GUASTINI, R., Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, HABERMAS J., Erkenntnis und Interesse in Teknik und Wissenschaft als Ideologie, Frankfurt, 1968 HABERMAS J., Erkenntnis und Interesse, in Teknik und Wissenschaft als Ideologie, Frankfurt, 1968 HABERMAS J., Zur Logik der Sozialwissenschaften, (1967) Frankfurt (a. M.), 1970 HAHN L.E., The Philosophy of Hans-Georg Gadamer, Chicago, 1997 HART L. A., Il concetto di diritto, tr. it. e cura di M.A. Cattaneo, Torino, 1965 331 HASSEMER W., “Palabras justas para un Derecho justo? Sobre la interdicción de la analogía en el Derecho Penal”, in Persona y Derecho, nº 35, 1996, pp. 143-169. HECK P., Gesetzesauslegung und Interessenjurisprudenz, Tübingen, 1914 HEIDEGGER M., Sein und Zeit, Tübingen, 14, Auflage, 1977 HÖFFDING H., Der Begriff der Analogie, Leipzig, 1924 HUME D., Trattato sulla natura umana, (1739-1740), tr. it. Bari, 1971 IRTI N., Testo e contesto : una lettura dell'art. 1362 Codice civile, Padova, 1996 ITURRALDE SESMA Mª. Vª., Las decisiones judiciales como fuente del Derecho en los sistemas del civil law: el caso español”, in Anuario de Filosofía del Derecho XII, 1995, pp. 401-421 ITURRALDE SESMA,Mª. V., Lenguaje legal y sistema jurídico. Cuestiones relativas a la aplicación de la ley, Madrid, 1989. JEMOLO A. C., Analogia vietata, analogia necessaria o interpretazione?, in Giur. it., 1935, I, 1, 279 JOWITT EARL (ed), voce Analogy in The dictionary of the English Law, Sweet-Maxwell, London, 1959 KANT I., Scritti politici, a cura di Bobbio, Firpo, Mathieu, Torino, 1956 KELSEN H., Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it. (a cura di R. Treves) Milano, 1952 KOSKO B. - ISAKA S., Logica “sfumata”, in Le scienze n. 301, settembre 1993 KOSKO B., Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Milano, 1995 LANDSBERG E., Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1898 LARENZ K, CANARIS C.W., Methodenlehre der Rechtswissenschaft, III ed., Berlin, 1995 LARENZ K., Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983 LASERRA G., Critica della interpretazione estensiva, in Giur. it., 1961, I, 1, 101 332 LATTANZI, Codice penale annotato con la giurisprudenza e norme complementari, Milano, 1995, 31-36 LAZZARO G., L’interpretazione sistematica della legge, Torino, 1965 LEGAZ LACAMBRA L., “El razonamiento por analogía como medio de interpretación y de aplicación del Derecho en los diferentes sistemas nacionales”, in AA. VV., Estudios de Filosofía del Derecho y Ciencia Jurídica en memoria y homenaje al catedrático don Luis Legaz Lacambra (19061980), Tomo I, Centro de Estudios Constitucionales, Facultad de Derecho de la Universidad Complutense, Madrid, 1983 LEVI A., Contributi ad una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova, 1914 LIFANTE VIDAL I., La interpretación jurídica en la teoría del Derecho contemporánea, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 1999 LOMBARDI VALLAURI L., Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981 LOMBARDI VALLAURI L., Diritto naturale, in Jus 1987, 241 LOMBARDI VALLAURI L., Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975 LOMBARDI VALLAURI L., Verso un sistema esperto giuridico integrale, in Jus 1995, 207 LUCCHIN C., Introduzione alla cosmologia, Bologna, 1996 LUCIANI M., Lo spazio della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, in AA. VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del seminario di studi tenuto a Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 245 MacINTYRE A., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 1981, II ed. riv., Milano, 1984 MANZINI V., Trattato di diritto penale, Torino, 1982 MARINI G., Crisi della legge e interpretazione, in Riv. dir. civ. 1988, II, 167 333 MASSA PINTO I., La discrezionalità politica del legislatore tra tutela costituzionale del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1998, p. 1309 MAZZAROLLI L.A., Il giudice delle leggi tra predeterminazione costituzionale e creatività, Padova, 2000 MAZZIOTTI DI CELSO M., Lezioni di diritto costituzionale, parte I, Milano, 1993 MELZI D’ERIL C., Le limitazioni all’attività giornalistica non possono essere estese per analogia, nota a Trib. Milano, sez. I, decreto 26 giugno 2003, in Guida al diritto, 2003, n. 37, p. 57 MENDOCA BONET J. C., “El argumento de analogía”, en http://comunidad.derecho.org/jurist/doctr4.htm MENGONI L., Ancora sul metodo giuridico, in Riv. trim.dir civ., 1983, p. 321 MENGONI L., La polemica di Betti con Gadamer, in Quaderni fiorentini n.7, Milano, 1978 MERCADANTE F., voce Dovere giuridico (filosofia), in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, 59 MERKL A., Allgemeines Verwaltungsrecht (1916), Darmstadt, 1969 MESSINEO A., Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952, I MICELI V., I principi generali di diritto, in Riv. dir. civ., 1923, p. 23-42 MODUGNO F., Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998 MODUGNO F., Appunti per una teoria generale del diritto oggettivo, Torino, 1988 MONATERI P.G., Interpretare la legge, in Riv. dir. civ. 1987, 531 MONTESQUIEU CH. L. DE SECONDAT DE, L’Esprit des lois, Paris, 1748 MORESO J.J., La indeterminación del Derecho y la interpretación de la Consitución, Madrid, 1997 MORNET D., Du rôle et des droits de la jurisprudence en matière civile, Paris, 1904 334 MORRA G., voce spirito in Enciclopedia filosofica (1957), vol. VII, Roma, 1979, 1030 MOSCARINI P., Contumacia e applicazione della pena su richiesta delle parti, in Giur. it. 1993, II, 283 MÜLLER F., Juristische Methodik, Berlin, 1976 NUVOLONE P., I limiti taciti della norma penale, Palermo, 1947 OPITZ P.J. Politische Wissenschaft als Ordnungswissenschaft. Anmerkungen zum Problem der Normativität im Werke Eric Voegelins, in Der Staat, 1991, p. 349 OPOCHER E., Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1983 OPPO G., Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ. 1991, I, 492 OPPO G., Sui principi generali del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 492 PAGALLO U, Testi e contesti dell'ordinamento giuridico : sei studi di teoria generale del diritto, III ed., Padova, 2001 PAGALLO U., Alle fonti del diritto. Mito, scienza, filosofia, Torino, 2002 PAGALLO U., Testi e contesti dell'ordinamento giuridico : sei studi di teoria generale del diritto, (1998) III ed., Padova, 2001 PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996 PALADIN L., Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim dir, pub., 1956, p. 993 PARIOTTI E., , La comunità interpretativa nell'applicazione del diritto, Torino, 2000 PARIOTTI E., Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Torino, 1997 PASTORE B, Identità del testo, interpretazione letterale e contestualismo nella prospettiva ermeneutica, in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, 2000, p. 137 – 166 PAWLOWSKI H. M., Einfürung in die juristische Methodenlehre, II ed., Heidelberg, 2000 PEDRALI-NOY P.L., I vuoti del diritto, Bologna, 1911 335 PÉREZ LUÑO A. E., “La peculiaridad normativa de los principios generales del Derecho”, in Persona y Derecho, 42, 2000, pp. 131 e ss PERFETTI L., Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori nell’interpretazione, in Jus 1993, p. 199 PERLINGIERI P., L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo “in claris non fit interpretatio”, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi” in Rass. dir. civ., 1985, p. 990 - 1017 PESCATORE -RUPERTO, Codice civile annotato con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e delle giurisdizioni amministrative superiori, Milano, 1995, Tomo I, 31-41 PIANO MORTARI V., voce Analogia: a) premessa storica in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano, 1958, 344 PIETROBON V., Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990 PINARDI R., “incostituzionalità sopravvenuta” e natura “eccezionale” della normativa denunciata (a margine di un’altra pronuncia di accoglimento solo parzialmente retroattiva), in Giur. cost., 1991, p. 1236 e ss PINARDI R., La Corte, i giudici e il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993 PINTORE A., Il diritto senza verità, Torino, 1996 PIZZORUSSO A., Il controllo sull’uso della discrezionalità legislativa, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Atti del convengo di Trieste, 26-28 maggio 1986, Milano, 1988, p. 71 PLATONE, Il Sofista, ed. a cura di Arangio-Ruiz, Bari, 1951 PLATONE, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Milano, 1991 POGGI A.M., “A ciascuno il suo”, in Giur. cost., 1987, p. 1731 PORTALIS J.E.M., Discours préliminaire sur le projet de Code civil, in, IDEM, Discours, rapports et travaux inedits sur le code civil / par Jean-Etienne-Marie Portalis, Paris, 1844 336 POUND R., Why Law Day in Harvard Law School Bulletin, 1958, vol. X, 3 PULITANÒ D., Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985 QUADRI R., Dell’applicazione della legge in generale, in Comm. del codice civile Scialoja e Branca, 1974 RADBRUCH G., Einführung in die Rechtswissenschaft, Leipzig, 1919 RAGUSA V., L’araba fenice, ovvero dei principi generali del diritto, Roma, 1924 RAVÀ A., Il diritto come norma tecnica, Cagliari, 1911 RAVÀ A., Le classificazioni delle scienze, Roma, 1904 RAZ J., Ethics in the Public Domain, Oxford, 1994 RECASENS SICHES L., N. filos. de la interpretacion del derecho, Barcelona, 1956 RENTERÍA DÍAZ, A., “Argumento a contrario y reglas constitutivas”, in Doxa, nº 20, 1997, pp. 317 a 330 RICCOBONO F., Emilio Betti e la “malattia kelseniana” in L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti, Milano, 1994 RINALDI R., L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, in Riv. it. dir. proc. pen. 1994, 195 RIONDATO S, Retroattività del mutamento giurisprudenziale penale sfavorevole, tra legalità e ragionevolezza, in U. Vincenti (a cura di), Diritto e clinica. Perl’analisi della decisione del caso, Padova, 2000, p. 239 RIONDATO S., Competenza penale della Comunità europea, Padova, 1996 RIONDATO S., Legalità penale versus prevedibilità delle nuove interpretazione. Novità dal corpus juris 2000, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2000, p. 967 RODRÍGUEZ J. L., “Lagunas axiológicas y relevancia normativa”, in Doxa, nº 22, 1999, pp. 349-369. RODRÍGUEZ PANIAGUA J. M., Ley y derecho: interpretación e integración de la ley, , Madrid, 1976 ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987 337 ROMANO S., Interpretazione evolutiva, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947 (rist. 1983), p. 120 – 125 ROMANO S., L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18 ROMANO S., Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena, 1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950 ROSSANO C., “Ragionevolezza” e fattispecie di eguaglianza, in AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Atti del sminario di studi tenuto a Palazzo della Consulta il 13 e 14 ottobre 1992, Milano, 1994, p. 169 ROSSELLI C., Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983 ROTONDI M., Equità e principi generali del diritto, in Riv. dir. civ., 1924, p. 266-275 ROXIN C., Grundlagen, der Aufbau der Verbrechenslehre, München, 1997 ROXIN C., Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973 RUBINO D., La valutazione degli interessi nell’interpretazione della legge, in Foro it. 1949, IV, 4 SACCO R., Alcune novità in materia di interpretazione in Riv. trim. dir. proc. civ. 1951, 748 SALGUERO M., La aplicación analógica como escenario de la creación judicial del Derecho, in Aranzadi Civil, núm. 22, 2002, pp. 13 e ss SALGUERO M., Argumentación jurídica por analogía, Madrid, 2002 SAMMARCO A.A., nota a Cass. pen. 10.6.1993 in Giust. penale, 1994, III, 249 SÁNCHEZ FERRO S., “Analogía e imperio de la ley”, in Anuario de Filosofía del Derecho, XIV, 1997, pp. 651-676. SANDULLI A.M., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto e società, 1975, p. 561 e ss SANTINELLO G., voce ontico in Enciclopedia filosofica (1957), vol. VI, Roma, 1979, 101 SATTA S. - PUNZI C., Diritto processuale civile, Padova, 1994 SAUER W., Juristische Methodenlehre. Zugleich eine Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940 338 SAVIGNY F.C., System des heutigen römischen Rechts, (1840), rist. Aalen, 1973 SCARANO L., Il problema dei mezzi nell’interpretazione della legge penale in Riv. it. dir. pen. 1952, 164 SCARPELLI U., Le argomentazioni dei giudici, in IDEM, L’etica senza verità, Bologna, 1982 SCARPELLI U., Semanitica, morale, diritto, Torino, 1969 SCHIAVELLO A., Riflessioni sulla distinzione rules/principles nell’opera di Ronald Dworkin, in Riv. int. fil. dir 1995 SCHOPENHAUER A., Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap. XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione italiana di P. Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930 SCOCA F.G., La teoria del provvedimento dalla sua formazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, p. 1-55 SEGURA ORTEGA M., “El problema de las lagunas en el Derecho”, in Anuario de Filosofía del Derecho, vol. VI, 1989, pp.. 285312. SERRA T., Il disagio del diritto, Milano, 1995 SERRA T., L’autonomia del politico, Teramo, 1984 SOLARI G., Filosofia del diritto privato. Storicismo e diritto privato, Torino, 1940 SOLMI A., Sulle lacune dell’ordinamento giuridico in Riv. dir. comm., 1910, p. 487 STAMMLER R., Die Lehre von dem richtigen Rechte, Berlin Leipzig 1902 STAMPE E., Rechtsfindung durch Konstruktion, in Deutsche Iuristen-Zeitung, 1905, p. 417 STINTZING R., Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880 TARELLO G., Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974 TARELLO G., L’interpretazione della legge in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1980 TARELLO G., voce Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1969, p. 819 339 THON A., Rechtsnorm und subjectives Recht. Untersuchungen zur allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878 TIPKE K., Die Steuerrechtsordnung. Band I, Wissenschaftsorganisatorische, systematische und grundrechtlichreschtsstaatliche Grundlagen, 2. Auflage, Köln, 2000 TOMMASI C., Riflessioni sul pensiero etico e politico di Arthur Schopenhauer, in Il Pensiero Politico, 1996, I, p. 41 e ss. SCARPELLI U., Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965 TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, Padova, 1991 TRABUCCHI A., Regole di diritto e principi generali del diritto nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. civ. 1991, I, 511 TROISI B., Interpretazione della legge e dialettica, in Legge, giudici, giuristi. Atti del Convegno tenuto a Cagliari 18-21 maggio 1981, Milano, 1982, p. 324 TUHR A. VON, Der allgemeine Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, I, Leipzig, 1910 VALLET DE GOYTISOLO J., “La analogía en el Derecho”, in Anuario de Derecho Civil, nº 48, 1995, pp. 1039 e ss VALLET DE GOYTISOLO J., El razonamiento jurídico: la analogía y la equidad. Discurso leído el día 17 de noviembre de 1997 en la sesión inaugural del Curso Académico 1997-1998 de la Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, Madrid, 1997 VAN HOECKE M., El uso de los principios jurídicos no escritos por los tribunales, in Doxa, 19, 1996, pp. 421-433 VASSALLI G., La legge penale e la sua interpretazione, il reato e la responsabilità penale, le pene e le misure di sicurezza, 2 vol, Milano, 1997 VASSALLI G., voce Analogia nel diritto penale in Novissimo Digesto italiano, vol. I, Torino, 1957, p. 607 VATTIMO G., Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione?, in Aut aut n. 225, 1988 VELLUZZI V., Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, 2002 VICO GB., La scienza nuova, introduzione, (1730 – 1744) nell’edizione curata da Fausto Nicolini, Bari 1931 e 1953 340 VIDAL GIL E. J., Los conflictos de derechos en la legislación y jurisprudencia españolas. Un análisis de algunos casos difíciles, Valencia, 1999 VIGNAUX P., La filosofia del medioevo (1987), trad. it. Bari, 1990 VILLA V., L’intenzione del legislatore nell’art. 12 delle disposizioni preliminari, in F. VIOLA - M. URSO, Interpretazione ed applicazione del diritto tra scienza e politica, Palermo, 1974, p. 125 – 138 VILLAR PALASÍ J. L., La interpretación y los apotegmas jurídicológicos, Madrid, 1975 VOLLI U., Manuale di semiotica, Bari – Roma, 2000 WELZEL H., Strafrecht, Berlin, 1969 WIAECKER F., Dalla storia del diritto alla teoria dell’interpretazione. (Il pensiero filosofico-giuridico di Emilio Betti), in Riv. dir. civ., 1970, I, 301 WINTGENS L.J., Coherence of the Law, in ARPS, 1993, p. 483 – 519 WRIGHT G.H. VON – ENNECCERUS L., Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, I, Marburg, 1928 WRIGHT VON G.H., Is and Ought, London, 1963 ZACCARIA G., Dimensioni dell’ermeneutica e interpretazione giuridica, in Riv. int. fil. dir, 1995 ZACCARIA G., Ermeneutica e giurisprudenza. I fondamenti filosofici nella teoria di H.-G. Gadamer, Milano, 1984 ZACCARIA G., Ermeneutica e giurisprudenza. Saggio sulla metodologia di J. Esser, Milano, 1984 ZACCARIA G., L’analogia come ragionamento giuridico. Sul fondamento ermeneutico del procedimento analogico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1535 ZACCARIA G., L’apporto dell’ermeneutica alla teoria del diritto contemporanea, in Riv. dir. civ., 1989, I, 323 ZACCARIA G., L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova, 1990 ZACCARIA G., Questioni di interpretazione, Padova, 1996 ZANON N., La Corte, il legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all’”ultima parola” al cospetto delle decisioni d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1998, p. 3169 341 ZANUSO F., Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico – giuridico di Jeremy Bentham, Padova, 1989 ZITELMANN E., Die Gefahren des bürgerlichen Gesetzbuches für die Rechtswissenschaft, Bonn, 1896 ZITELMANN E., Die Gefahren des bürgerlichen Gesetzbuches für die Rechtswissenschaft, discorso tenuto a Bonn il 27 gennaio 1896, citato in E. BETTI, Metodica e didattica del diritto secondo Ernst Zitelmann, in Riv. int. fil. dir. (RIFD), 1925, p.5, ora in Diritto, Metodo, Ermeneutica, Milano, 1991, p.14. ZITELMANN E., Lücken im Recht, Leipzig, 1903 342