Riflessioni critiche sul concetto di competenza

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Riflessioni critiche sul concetto di competenza
Riflessioni critiche sul concetto di competenza Berta Martini Il concetto di competenza è, da una decina d’anni, al centro di un dibattito 1 , che se letto diacronica­ mente nel tempo e sincronicamente nelle interpretazioni offerte dalle scienze dell’educazione, riflet­ te le tensioni e, anche, i cambiamenti che hanno segnato il modo di concepire la scuola, i processi di insegnamento e apprendimento e, più in generale, la formazione. Semplificando molto, possiamo dire che si è passati da una concezione di tipo “behaviorista” della competenza, ad una di tipo “cognitivista”. La prima, fa coincidere l’idea di competenza con i com­ piti che i soggetti sono in grado di eseguire, distinguendo, su questa base, anche diversi “livelli” di competenza. Questa interpretazione, risente della mutuazione di questo concetto dall’àmbito della formazione professionale dove assume un’accezione vicina all’idea di “performance”. Accezione, questa, che oltre ad essere insufficiente ad inglobare i molti significati che interessano una trasposi­ zione didattica del concetto di competenza, ha il difetto di declinare in senso “professionalizzante” il progetto educativo della scuola. La seconda concezione, assimila la competenza ad una “strate­ gia”, cioè ad un sistema di conoscenze e abilità che sono mobilitate dal soggetto in relazione ad uno scopo (un compito o un’azione). Da ciò deriva che una competenza è definibile in base alla tipolo­ gia del compito o di un insieme di compiti. Un’analisi critica dei concetti di conoscenze, abilità , performance ha, quindi, contribuito a precisare progressivamente il significato di competenza, attri­ buendole lo status di specifico e fondamentale obiettivo formativo. La possibilità stessa della scuola di educare ogni soggetto ad autonomia e responsabilità , così come le condizioni per l’esercizio di una cittadinanza attiva, vengono oggi espresse in termini di “competenze” o, meglio, di repertori di competenze caratteristiche di diversi ambiti di attività. Dal punto di vista pedagogico e didattico, ciò impone una riflessione critica su questo concetto, così da delimitarne l’estensione (ma anche l’intensione) semantica e pervenire ad una definizione della “competenza” abbastanza ampia e comprensiva da affrancarla da interpretazioni riduttivamente tecnicistiche e tale da garantirle una sufficiente efficacia come categoria progettuale del curricolo. Oggi, il significato su cui si attesta il concetto di competenza risente, certo, dell’impostazione “co­ gnitivista”, ma con un’attenzione specifica al fatto che, essendo i compiti caratterizzati, per chi li deve svolgere, da diversi gradi di complessità, novità, interesse, una competenza si manifesta in modo non indipendente dalla capacità di coordinare insieme conoscenze, abilità e, anche, disposi­ zioni interne motivazionali e affettive. Va in questa direzione, per esempio, l’OCSE, che nell’ambito del programma DeSeCo 2 si riferisce alla nozione di competenza come ad una nozione nella quale intervengono diverse componenti: «Fronteggiare efficacemente richieste e compiti com­ plessi comporta non solo il possesso di conoscenze e di abilità, ma anche l’uso di strategie e di rou­ tines necessarie per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti a­ deguati e un’efficace gestione di tali componenti». 3 Possiamo, dunque, riferirci ad un approccio secondo il quale la messa in opera di una competenza mobilita tre componenti soggettive: le conoscenze, le abilità e le disposizioni interne stabili 4 . Le prime corrispondono al sapere 5 e sono per lo più di natura dichiarativa. Esse comprendono i fatti e 1 In Italia, il dibattito, aperto dalla pubblicazione, nel 1996, del Libro Bianco della Commissione Europea, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Lussemburgo, si è articolato in diverse tappe, tra le quali ricordiamo i lavori delle due diverse Commis­ sioni di “saggi”. La prima Commissione, operante fra il gennaio e il maggio 1997, elaborò il documento: “Le conoscenza fondamen­ tali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana dei prossimi decenni”, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istru­ zione, 78; la seconda Commissione elaborò nel 1998 il documento di sintesi: “Contenuti essenziali per la formazione di base, Annali della Pubblica Istruzione, 1/2. 2 Definitions and Selection of Competencies: Theoretical and Conceptual Foundations. 3 Scalera V. (2000), Il progetto Ocse/Pisa, in Istituto nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (Cede). Ricerche valu­ tative internazionali 2000, Milano, FrancoAngeli, 2001. 4 Questo approccio è sostenuto in Pellerey M., Le competenze individuali e il portfolio, Firenze, la Nuova Italia, 2003, pp. 67­73. 5 Frabboni F., Manuale di didattica generale, Roma­Bari, Laterza, 1992.
1 le idee acquisite dal soggetto attraverso lo studio, la ricerca o l’esperienza. Le seconde corrispondo­ no, invece, al saper fare o, in psicologia, a conoscenze di tipo procedurale. Esse vengono usate per designare la capacità di utilizzare le proprie conoscenze in compiti abbastanza semplici. Infine, le disposizioni interne possono essere assimilate all’espressione saper essere. Si riferiscono a caratte­ ristiche personali di tipo motivazionale o sociale e sono relative a sistemi di credenze e valori che orientano e sostengono il soggetto ad operare in un certo modo. È interessante osservare che in questo modo di intendere le competenze, è implicito il riferimento ad esse come “conoscenze in uso”. Una competenza si rende cioè manifesta attraverso la mobilita­ zione di altre conoscenze, siano esse dichiarative (come nel caso dei saperi) o procedurali (come nel caso delle abilità ). Di conseguenza, né la padronanza di conoscenze, né l’esercizio di specifiche abilità possono, di per sé, generare competenza, a meno che il soggetto sia motivato e si impegni a mobilitare le conoscenze e le abilità corrispondenti in una situazione che le solleciti. Non solo. La situazione che l’allievo dovrebbe riconoscere come debitoria dell’uso di conoscenze e abilità è di tipo indefinito o, almeno, variabile. Ci si aspetta, cioè, che la stessa competenza, per il fatto di esse­ re tale, si manifesti in situazioni differenti. Il che rende la competenza un concetto che trattiene in sé anche il carattere di trasversalità . Nessuna risorsa (conoscenza o abilità), cioè, appartiene esclusi­ vamente ad una competenza specifica, potendo essere mobilitata anche da altre. Al contrario, ciò è condizione necessaria perché essa possa essere utilizzata in diversi contesti e in diversi momenti, in risposta a diverse situazioni e intenzioni. In sintesi, il possesso di una competenza implica, da parte del soggetto, non solo la capacità d’uso delle risorse interne disponibili (le conoscenze e le abilità possedute fino a quel momento), ma anche il loro trasferimento in contesti (compiti o situazioni) di­ versi da quelli in cui quelle conoscenze e quelle abilità sono state originariamente apprese. L’idea che una competenza implichi il trasferimento di conoscenze e abilità è, d’altra parte, in linea con la tendenza psico­pedagogica di far corrispondere la competenza a livelli gerarchicamente ele­ vati di apprendimento. Lo stesso Dewey, 6 avverte che l’educazione e la formazione non si situano a livello dei soli contenuti, ma al livello sottostante del processo di formazione di abiti, attitudini e in­ teressi permanenti, cioè di abitudini durevoli (mentali ed emotive), che si formano “nascostamente” e che possono essere messe in atto in diverse situazioni. Questa interpretazione, collima in larga parte con la distinzione di Bateson 7 di diversi livelli logici dell’apprendimento. Nella classificazione ipotizzata da Bateson, infatti, il livello gerarchico più elevato, il livello due, detto deuteroapprendi­ mento, corrisponde all’apprendimento di abitudini mentali durature e trasferibili. Nei livelli inferiori (livello zero e livello uno, o protoapprendimento) troviamo, rispettivamente, l’apprendimento di contenuti e l’apprendimento di abilità . 8 Infine, possiamo rintracciare una concordanza tra l’idea di competenza che stiamo avanzando e quella di comprensione 9 gardneriana. La comprensione, secon­ do Gardner, rappresenta l’obiettivo fondamentale dell’azione di insegnamento. Essa si realizza quando il soggetto accede a conoscenze e abilità appresi in un certo contesto e le utilizza in un con­ testo nuovo. Dunque, la comprensione, anziché essere inglobata come processo cognitivo nel con­ cetto di competenza, coincide con la possibilità stessa dell’esercizio di questa. In base a quanto abbiamo affermato, il concetto di competenza implica il coordinamento di risorse interne (conoscenze, abilità e disposizioni interne) che devono essere mobilitate, cioè “trasferite” in relazione ad un compito che ne solleciti l’utilizzazione. Val la pena allora riflettere, dal punto di vi­ sta didattico, sulle condizioni che rendono possibile lo sviluppo di competenze da parte degli allievi. Procederemo cercando di derivare logicamente tali condizioni dall’idea di competenza, così come l’abbiamo delineata fin qui. Ne segnaliamo due, tra altre possibili, in quanto più direttamente colle­ gate ad offrire orientamenti per la pratica didattica. La prima condizione riguarda il tipo di situazioni didattiche che consentono effettivamente lo svi­ luppo e, quindi, l’esercizio di competenza da parte dell’allievo. Per quanto ovvia, questa condizione 6 Dewey J., Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1986. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997. 8 Per una trasposizione in ambito didattico della teoria dei livelli logici dell’apprendimento di Bateson si veda Baldacci M., Una scuola a misura d’alunno, Torino, Utet, 2002, e, dello stesso autore, Ripensare il curricolo, Roma, Carocci, 2006. 9 Gardner H., Educare al comprendere, Milano Feltrinelli, 1993; Id., Educazione e sviluppo della mente, Trento, Erickson, 2005.
7 2 va ribadita, dato che spesso assistiamo alla proposta di situazioni che sebbene vengano allestite per lo sviluppo di competenze, consistono in tipologie di compiti che, di fatto, non richiedono quella mobilitazione di risorse interne (cognitive, motivazionali e affettive) caratteristica del comporta­ mento competente. La competenza relativa alla risoluzione di problemi costituisce, in questo senso, un esempio elo­ quente. Sono molte le occasioni, infatti, nelle quali la proposta di situazioni problematiche (che so­ no tali se sono sufficientemente nuove e sfidanti), si riduce alla richiesta di esecuzione di una certa tipologia di esercizi (cioè di compiti noti, ai quali associare la procedura risolutiva corrispondente), compromettendo, in questo modo, la possibilità di coltivare quelle abitudini mentali delle quali è costituita la competenza. Beninteso, da un punto di vista curricolare, la proposta di esercizi o di compiti di tipo riproduttivo è tanto legittima quanto auspicabile, a patto, però, di finalizzarla consa­ pevolmente all’apprendimento ci conoscenze o abilità procedurali, piuttosto che allo sviluppo di competenze. Di più. La competenza relativa alla risoluzione di problemi è evidentemente “invisibi­ le” fino a che non si sia specificato quale problema, di quale livello di difficoltà o in quale dominio di sapere si colloca; cioè fino a quando, in definitiva, non si sia dato il contesto all’interno del quale se ne richiede l’esercizio. Quest’ultimo, quindi, non rappresenta la competenza in sé (che avrebbe avuto diversa attualizzazione in un diverso contesto) ma un indicatore di quella. L’attenzione all’allestimento di situazioni didattiche adeguate allo sviluppo della competenza, quin­ di, è anche il presupposto per la loro osservazione e valutazione. La seconda condizione riguarda il carattere di trasversalità delle competenze. Una delle difficoltà legate al loro sviluppo, infatti, riguarda il processo di decontestualizzazione e ricontestualizzazione delle conoscenze e delle abilità, come se ogni conoscenza e abilità restasse in qualche modo “pri­ gioniera” del contenuto nel quale è stata acquisita, il che non la renderebbe disponibile all’uso in al­ tri contesti. Al contrario, pur essendo più o meno generali, le competenze presuppongono il trasfe­ rimento di conoscenze e, dunque, si configurano come “trasversali”, seppure a volte si tratti solo di una trasversalità di tipo “locale”, ossia interna ad un ambito di attività specifico. Ciò ci suggerisce di ricondurre lo sviluppo delle competenze a quello della capacità di transfer di conoscenze e abilità da parte del soggetto. L’educazione alla trasferibilità delle conoscenze costituisce, allora, la secon­ da condizione. L’assunto implicito consiste, evidentemente, nel riconoscere che la trasferibilità è educabile, o, detto diversamente, che essa non è direttamente e spontaneamente determinata dal possesso di conoscenze e abilità. Un esempio per chiarire. Spesso, l’intenzione di promuovere nell’allievo l’esercizio di competenza si risolve nella proposta di situazioni di apprendimento analo­ ghe tra loro. Ossia di situazioni che, seppur differenti, presentano un’identità di struttura logica che secondo le attese dell’insegnante, dovrebbe indurre l’allievo a trasferire alla situazione analoga le conoscenze e le abilità acquisite nella situazione di origine. Tuttavia, questa identità di struttura o di procedura è individuata sempre a posteriori da parte dell’allievo il quale, normalmente, non perce­ pisce in anticipo l’analogia. In altri termini, il problema è che nello sviluppo di competenze, l’analogia non funziona, per così dire, come uno “stimolo”, cioè non provoca come risposta un vero e proprio transfer. Al più, essa induce ad un comportamento analogico che potrà risultare tanto più efficace quanto più estesa è l’esperienza compiuta su casi analoghi, ma tale che, situandosi – per dirla con Bateson – ad un livello logico inferiore, non incide sulla effettiva capacità di trasferimento di conoscenze e, dunque, sullo sviluppo di competenza. Negli studi sul ruolo dell’analogia nella ri­ soluzione di problemi, 10 per esempio, il tratto più evidente è che l’analogia gioca sì un ruolo, ma che raramente essa interessa in modo pertinente i tratti comuni ai problemi, concentrandosi su a­ spetti esteriori piuttosto che su quelli strutturali. Al contrario, l’analogia di struttura logica sembra funzionare solo quando se ne informa il soggetto, o se questo deve risolvere una successione di pro­ blemi isomorfi. Dunque, ad essere decisivo è il fatto che il soggetto prenda coscienza dell’identità di struttura, piuttosto che l’analogia in sé. Generalizzando un po’ le cose, potremmo ritenere che se non esiste una capacità di trasferimento in quanto realtà psicologica, la possibilità di trasferimento dipende dal fatto che il soggetto prenda coscienza delle sue pratiche e delle similitudini fra le situa­ 10 Su questo si può vedere Rey B., Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003.
3 zioni. Il rinvio ad una presa di coscienza sembra trasparire anche dalle posizioni di Bernard Rey e di Michele Pellerey. Il primo traduce il ruolo della presa di coscienza in termini del significato attri­ buito alla situazione, il quale rivelerebbe un’intenzione del soggetto sulle cose che fa emergere quella situazione come luogo d’uso di una certa competenza. 11 In altre parole, ogni situazione porta con sé una molteplicità di fattori oggettivi, la cui esistenza, di per sé, non è sufficiente a mobilitare nel soggetto le capacità corrispondenti perché è il soggetto che seleziona questi elementi decidendo della loro pertinenza. Da un certo punto di vista, questi oggetti non preesistono all’intenzione di ac­ quisirli da parte del soggetto, bensì è la elaborazione di un’“intenzione” che permette al soggetto di percepire la situazione come debitoria della mobilitazione di conoscenze e abilità possedute. Anche Pellerey 12 pone al centro del processo di trasferimento non tanto i contesti, né le condizioni oggetti­ ve esterne al soggetto, quanto, piuttosto, il soggetto stesso e la sua “intenzione” di impegnarsi a de­ contestualizzare e ricontestualzzare le sue conoscenze e le sue abilità. Rinviare ad una presa di co­ scienza significa, dunque, concettualmente, allargare il problema dello sviluppo di competenze a processi di riflessione e decisionali sostenuti dalla elaborazione di un’intenzione soggettiva, ossia di un impegno consapevole ed esplicito a riadattare le proprie risorse e a coordinarle fra loro. A che cosa corrisponde ciò, ci chiediamo, dal punto di vista della pratica didattica? Se queste analisi sono corrette, si comprende l’importanza che viene data nel discorso didattico con­ temporaneo alla metacognizione. Ci riferiamo a questo termine intendendolo nel duplice senso, oggi largamente condiviso, di meta ­conoscenza (ciò che l’individuo sa del funzionamento della mente propria ed altrui) e di controllo (la regolazione, attraverso l’uso di strategie, che il soggetto esercita sui propri processi cognitivi). 13 Metaconoscenza e capacità di controllo sono legati da un ordine lo­ gico che vede la seconda dipendere dalla prima, attraverso una presa di coscienza : è la consapevo­ lezza delle conoscenze su sé stessi, sul compito e sulle strategie, infatti, che permette di intervenire nella regolazione dei processi messi in atto dal soggetto. La coordinazione consapevole delle due componenti converge, inoltre, nell’acquisizione di un atteggiamento metacognitivo inteso come «generale propensione del soggetto a riflettere sulla natura della propria attività cognitiva e a rico­ noscere la possibilità di utilizzarla ed estenderla» 14 . La metacognizione o, più propriamente, l’educazione ad un atteggiamento metacognitivo, divengo­ no quindi il mezzo attraverso il quale educare al trasferimento e, dunque, sostenere lo sviluppo delle competenze. In particolare, ci si può riferire alla capacità del soggetto di autodirigere o autoregolare il proprio apprendimento, cioè alla capacità del soggetto di far fronte all’adattamento alle nuove si­ tuazioni, utilizzando risorse interne e competenze acquisite precedentemente ma anche entrando in possesso di nuove risorse e nuove competenze. È interessante osservare, a questo proposito, che se­ condo un approccio di tipo socio­cognitivo l’attività di autoregolazione si articola in quattro livelli di sviluppo. 15 Nei primi due, chiamati rispettivamente di osservazione e di imitazione, la fonte di apprendimento è “esterna” al soggetto ed è costituita da un modello competente (nel primo caso) o da un ruolo docente che offre guida e sostegno durante l’attività (nel secondo caso). Si situano a questo livello, per esempio, esperienze di apprendistato cognitivo, ma, anche, la proposta di uno schema procedurale per la risoluzione di un compito, da parte dell’insegnate. Il terzo livello, detto di auto­controllo, si raggiunge quando il soggetto è in grado di sviluppare forme indipendenti di a­ bilità esercitate in contesti e condizioni strutturate. Il modello non è più presente e il riferimento an­ ziché esterno è interno al soggetto. Il caso della risoluzione autonoma di compiti “simili” per analo­ gia di struttura, per esempio, rientra in questa fase di sviluppo. Nell’ultimo livello, infine, quello della auto­regolazione, il soggetto riesce ad adattare autonomamente le proprie prestazioni e a mo­ dificare le proprie strategie sulla base di condizioni soggettive o ambientali. Sebbene non sia sem­ pre necessario passare attraverso questi quattro livelli, essi offrono un orientamento alla scansione del lavoro didattico almeno nel senso di indicare che la padronanza raggiunta a ciascun livello faci­ 11 Idem, pp. 187­191. Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006. 13 Cornoldi C. (1995), Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino. 14 Cornoldi C. e Caponi B. (1991), “Metamemoria, strategicità e ricordo in bambini della scuola elementare”, Età evolutiva, 34, p. 12. 15 Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006, p. 124 e seg.
12 4 lita l’apprendimento successivo. D’altra parte, le attività finalizzate allo sviluppo della capacità di autoregolazione nell’apprendimento sono centrali in un sistema scolastico e formativo che, dalla scuola dell’infanzia all’educazione degli adulti, intenda perseguire un innalzamento della qualità delle competenze culturali e sociali. In sintesi, l’ipotesi che abbiamo inteso sostenere è che una definizione ampia e articolata di compe­ tenza ingloba in sé, oltre il possesso di conoscenze e abilità e disposizioni interne, anche la loro tra­ sferibilità a diversi contesti. Ciò, sul piano didattico, ha due implicazioni. Da una parte, la necessità del ricorso a situazioni capaci di promuovere effettivamente l’esercizio di competenze, cioè di sol­ lecitare i livelli di apprendimento corrispondenti; dall’altra, la ricerca delle condizioni per lo svilup­ po, da parte del soggetto, della capacità di trasferimento delle proprie conoscenze e competenze. Questa capacità, anziché dipendere direttamente da apprendimenti altri, sembra connessa princi­ palmente a fattori soggettivi; all’elaborazione di un “intenzione” motivazionale, affettiva e volitiva capace di strutturare le situazioni rivelandone i caratteri utili alla messa in atto di competenze parti­ colari già possedute. Una via efficace per l’elaborazione di tale intenzione consapevole, ci sembra quella offerta dalla metacognizione e, in particolare, dalle capacità di autoregolazione. La consape­ volezza delle proprie risorse, la valutazione delle proprie disposizioni motivazionali e affettive, le capacità di decisione, organizzazione, controllo e valutazione ci suggeriscono, oltre che orientamen­ ti concettuali per pensare le competenze, i caratteri peculiari che deve assumere il progetto formati­ vo della scuola. Un progetto che torna, con forza, a riabilitare il ruolo dell’allievo nel gestire il pro­ prio apprendimento. Riferimenti bibliogr afici Baldacci M., Una scuola a misura d’alunno, Torino, Utet, 2002. Baldacci M., Ripensare il curricolo, Roma, Carocci, 2006. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997. Cornoldi C., Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1995. Cornoldi C. e Caponi B., “Metamemoria, strategicità e ricordo in bambini della scuola elementare”, Età evolutiva , 34, 1991. Dewey J., Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1986. Frabboni F., Manuale di didattica generale, Roma­Bari, Laterza, 1992. Frabboni F., Società della conoscenza e scuola , Trento, Erickson, 2005. Gardner H., Educare al comprendere, Milano Feltrinelli, 1993. Gardner H., Educazione e sviluppo della mente, Trento, Erickson, 2005. Pellerey M., Le competenze individuali e il portfolio, Firenze, la Nuova Italia, 2003. Pellerey M., Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006. Rey B., Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003.
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