RESEARCH REPORT - Dr. Giovanni Iannuzzo

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RESEARCH REPORT - Dr. Giovanni Iannuzzo
AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE N. 6 – PALERMO
DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE
(Responsabile: Dott. Nicolò Governanti)
MODULO DIPARTIMENTALE DI SALUTE MENTALE N. 7
Cefalù-Petralia Sottana
(Direttore: Dott. Francesco La Rosa)
ATTIVITA’ DI ETNOPSICHIATRIA E PSICHIATRIA SOCIALE
(Referente: Dott. Giovanni Iannuzzo)
RESEARCH REPORT
PROGETTO SULLA COMUNICAZIONE NON MEDIATA
CONVENZIONALMENTE IN PSICHIATRIA
N.2, GIUGNO 2002
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REGIONE SICILIANA
AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE N. 6 – PALERMO
DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE
(Responsabile: Dott. Nicolò Governanti)
MODULO DIPARTIMENTALE DI SALUTE MENTALE N. 7
Cefalù - Petralia Sottana
(Direttore: Dott. Francesco La Rosa)
ATTIVITA’ DI ETNOPSICHIATRIA E PSICHIATRIA SOCIALE
(Referente: Dott. Giovanni Iannuzzo)
RESEARCH REPORT
N. 2
GIUGNO 2002
PROGETTO DI RICERCA SULLA COMUNICAZIONE NON MEDIATA
CONVENZIONALMENTE IN PSICHIATRIA
SOMMARIO
Introduzione
Studi epistemologici: Comunicazione non mediata convenzionalmente
in psichiatria: implicazioni per la pratica clinica
Etnopsichiatria e pratiche magiche: studi sul campo
pag. 1
pag. 3
pag. 19
INTRODUZIONE
Le attività di etnopsichiatria e psichiatria sociale sono proseguite secondo le linee
strategiche del progetto originario (vedi Research Report n.1, marzo 2002). In
questo trimestre l’attività è stata fondamentalmente focalizzata su un nuovo
orientamento di ricerca, con finalità spendibili nella pratica clinica: lo studio
della ‘comunicazione non convenzionale in psichiatria”, seguendo le guide3
lines internazionali su questo argomento. La particolare complessità del tema, ha
reso necessaria un’ampia revisione della letteratura esistente, e la ricerca di
modelli teorici e metodologici fruibili. Per quanto attiene a fattori di metodologia
descrittiva si rimanda a quanto già esposto nel precedente Research Report (p.2).
Si fa presente che, in atto, lo studio sulla comunicazione non convenzionale ha
assunto un ruolo centrale nell’Attività di Etnopsichiatria e Psichiatria Sociale, e
si configura come possibile trend centrale dell’attività medesima.
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RESEARCH REPORT
N. 2
GIUGNO 2002
STUDI EPISTEMOLOGICI
COMUNICAZIONE NON MEDIATA CONVENZIONALMENTE IN
PSICHIATRIA: IMPLICAZIONI PER LA PRATICA CLINICA
COMUNICAZIONE NON CONVENZIONALE
Si discute ormai da decenni, nella comunità scientifica, sull’esistenza o meno
nella specie umana di forme di comunicazione anomale, rispetto ovviamente ai
modelli di comunicazione dati per acquisiti. Tali modelli acquisiti implicano la
comunicazione sensoriale e motoria, sia nei suoi aspetti verbali sia in quelli non
verbali, simbolici, analogici, metaforici e quant’altro. Una comunicazione
‘anomala’ potrebbe consistere nella possibilità che la mente interagisca con
l’ambiente esterno o interno per mezzo di altri mezzi, lo influenzi o ne sia
influenzata senza alcuna correlazione diretta con gli abituali canali sensoriali o
motori. Definizioni come ‘paranormale’, parapsicologico, o, più genericamente
‘psi’ sono state largamente utilizzate per indicare questi fenomeni. In senso più
specifico, l’influenza/informazione dell’ambiente sulla mente è stata definita
‘percezione extrasensoriale’ (ESP); l’influenza della mente sull’ambiente è stata
chiamata
‘psicocinesi’
(PK).
Secondo
il
Glossario
del
Journal
of
Parapsychology, una delle riviste più autorevoli del settore, la ‘percezione
extrasensoriale’ è” cognizione paranormale; l’acquisizione di informazioni circa
un evento esterno, un oggetto o influenza (mentale o fisica; passata, presente o
futura) in qualche altro modo che non attraverso i canali sensoriali conosciuti".
La Psicocinesi, invece, è definita: ”Azione paranormale; l’influenza della mente
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su un sistema fisico che non può essere interamente attribuita alla mediazione di
qualsiasi energia fisica nota”.
Certo, le definizioni sono spesso imprecise, ma possono essere intese in senso
operazionistico: esse servono a costruire ipotesi verificabili1. In realtà, una
definizione piuttosto esauriente di è quella suggerita anche da Freedman, Kaplan
e Sadock (1984, ed.it.) nel loro 'Trattato di Psichiatria':
"Argomento di essa (la parapsicologia, ndr) è lo studio delle interazioni tra gli
organismi e l'ambiente esterno, ivi inclusi altri organismi, che non sono mediate
da riconosciute funzioni senso motorie dell'organismo".
Queste interazioni sono di due tipi, la prima di tipo sensoriale, la seconda di tipo
motorio. L'aspetto sensoriale viene definito 'percezione extrasensoriale' (ESP,
extra-sensory perception) ed implica "l'esperienza di, o la risposta a, un oggetto,
uno stato un evento o un'influenza bersaglio, senza contatto sensoriale"; l'aspetto
motorio viene definito 'Psicocinesi (PK)", ovvero "una influenza diretta (cioè
mentale ma non muscolare) esercitata dal soggetto su un processo fisico, una
condizione o un oggetto esterno (al soggetto stesso, ndr)."
Ma esistono dati empirici che rendano plausibili queste ipotesi?
La casistica esistente sembra configurare un insieme piuttosto rilevante di casi
spontanei che sembrerebbero ad una prima disamina suggerire l’ipotesi che
forme ‘anomale’ o non convenzionali di comunicazione e/o interazione tra mente
ed ambiente esistano. Ma, oltre a questo, molti studi sperimentali sembrano aver
fornito una qualche evidenza che i racconti popolari e tutta la vasta anedottica
esistente su questi presunti fenomeni abbiano almeno una possibilità d’essere
attendibili. E se sull’esistenza delle storie nessuno dubita, si dubita invece, e
spesso a ragione, sugli esperimenti che hanno cercato di comprovarne la
sostanza. Certo il compito dei ricercatori in questo campo – la parapsicologia - è
difficilissimo, vista la materia magmatica, incandescente, problematica con la
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Oltretutto si tratta di definizioni costruite in momenti storici ben definiti, che – alla luce delle
conoscenze allora disponibili – apparivano sufficientemente valide. Quando il filosofo Max Dessoir
inventò, nel 1899, il termine parapsicologia per definire quest’area d’indagine o lo psicologo e biologo
americano J.B.Rhine, negli anni ’20, quello di percezione extrasensoriale, l’ambito conoscitivo della
psicologia e una corretta definizione di percezione non erano ancora definiti
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quale hanno a confrontarsi: telepatia, chiaroveggenza, precognizione, psicocinesi,
apparizioni di fantasmi, case nelle quali avvengono fenomeni fisici anomali e
inspiegabili. Ma i metodi di indagine possono essere di grande precisione e
sembrano globalmente indicare la realistica possibilità dell’esistenza di uno
scambio mente/ambiente a livelli non afferenti alle normali categorie percettive o
motorie. Una delle definizioni più recenti di questo scambio è quella di
‘comunicazione non mediata convenzionalmente’.
Ma dove si potrebbero cercare prove o tentare modalità d’applicazione di questa
forma di comunicazione? La risposta più ovvia è: in un contesto nel quale esista
una relazione intensa tra persone, che offra buone garanzie scientifiche (non sia
cioè semplicemente una relazione affettiva o tra amici, ma abbia contenuti
professionali specifici), che possa inoltre presentare situazioni nelle quali una
comunicazione non mediata convenzionalmente si possa rivelare utile.
E’ infatti in questo contesto (che riguarda la psichiatria clinica, le psicoterapie, le
situazioni gruppali, persino il processo diagnostico), fondamentalmente centrato
sulla comunicazione tra psichiatra/terapeuta e pazienti che ci si potrebbe
aspettare di vedere segni che indichino una deviazione dalle norme generali della
comunicazione. Anzitutto perché in genere la relazione terapeutica è sempre
fondata sulla comunicazione in tutte le sue forme. Sebbene possa sembrare che
quella verbale abbia la preponderanza, in realtà è vero il contrario: la postura del
paziente, il suo modo di muoversi, gesticolare, guardare, vestirsi, presentarsi,
sedersi sta ad indicare un contesto di comunicazione ad ampio raggio, anche
perché assai spesso ciò che il paziente ci comunica è puramente emozionale,
difficilmente esprimibile a parole, o comunque, se esprimibile, lo è per mezzo di
metafore, simboli, riferimenti incrociati con quanto la realtà esterna comunica.
Poi, ed è un fatto estremamente importante, ciò che dovrebbe essere comunicato
ha spesso valore profondamente intimo, riservato, inesprimibile o difficilmente
esprimibile. Inoltre, la psichiatria si occupa di situazioni che hanno direttamente
a che vedere con difficoltà nella comunicazione: si pensi per esempio alle
psicosi, alle forme di schizofrenia genericamente caratterizzate dai cosiddetti
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“sintomi negativi”, e pertanto da chiusura autistica, difficoltà di relazione,
introflessione spesso totale nel proprio ‘mondo interno’. Un mondo che appare
spesso irraggiungibile, lontano, irreale. E, se non bastasse, in questi quadri come
in altri, si presentano sintomi dalle caratteristiche insolite, convinzioni del
paziente di essere oggetto di comunicazioni anomale, di essere protagonista di
fenomeni occulti, di esperire fenomeni chiaramente paranormali. Sono quattro
condizioni (la comunicazione generale; la difficoltà di comunicare cose che
afferiscono alla sfera del privato; la difficoltà di comunicazione tipica di certi
quadri clinici; la presenza di sintomi che mimano o si riferiscono a fenomeni
paranormali) che giustificano la definizione della psichiatria come un area
ricchissima di stimoli per lo studio di una comunicazione non convenzionalmente
mediata. Non è infatti un caso che psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti siano
stati, sin dagli esordi di quest’area di ricerche e della sua prima formulazione
teoretica, intorno alla fine del diciannovesimo secolo, tra i più attenti osservatori
dell’evenienza di fenomeni ‘psi’ nell’ambito nei propri contesti professionali. Su
quest’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro, ma non è superfluo forse
ricordare che Freud2 cercò di teorizzare sulla possibile utilizzazione della
telepatia nel rapporto tra analista e paziente, e che fu socio della Society for
Psychical Research di Londra, una delle più antiche istituzioni dedicate allo
studio della parapsicologia, così come dell’ESP e del suo possibile uso in
psicoterapia si occuparono anche altri psiconalisti, in particolare modo Ferenczy,
ma anche la Deutsch, e Burlingham, e Stekel e Hollos, l’italiano Servadio e altri
ancora. Su altri versanti della psicoterapia Carl Gustav Jung fu ancora più
interessato a questi temi, ne scrisse e ne teorizzò ampiamente. Ma anche
psichiatri clinici di grande prestigio non limitarono attenzioni verso questi
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Sul problema del complesso rapporto tra Freud e la parapsicologia esiste una vasta letteratura, che ha
valutato il problema da differenti punti di vista. Il fondatore della psicoanalisi si occupò di questo
argomento in diverse opere, speificamente dedicate al tema o che in qualche modo ne affrontavano alcuni
aspetti (Freud, 1968, 1966, 1980, 1974, 1977, 1977b, 1978, 1979) Nella sua biografia, Jones (1977,
vol.III) affronta l'argomento come se il reale interesse di Freud per il 'paranormale' fosse stata una sua
'debolezza'.Altri, hanno invece ripetutamente rivalutato l'interesse del padre della psicoanalisi nei
confronti della parapsicologia, come autentico interesse scientifico. (vedi, in particolare, Servadio, 1958,
1963, 1972, 1977). Una rassegna sull'argomento è disponibile in Iannuzzo, 1988.
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fenomeni, vuoi per questioni genericamente naturalistiche, vuoi per questioni
afferenti alla loro professione. E se è quasi ovvio citare gli italiani Lombroso e
Morselli, non si deve dimenticare un folto gruppo di psichiatri americani che tra
gli anni ’50 e gli anni ’70 si dedicarono con grande attenzione sia sul campo, sia
in contesti sperimentali a studi su questi fenomeni. Sembra anzi esistere, proprio
storicamente una ‘pattuglia’ di psichiatri clinici che non hanno lesinato
attenzione per ciò che oggi chiamiamo comunicazione non convenzionale, in
tutte le sue forme ed espressioni, pubblicando i resoconti delle loro ricerche sulle
più prestigiose riviste psichiatriche internazionali. Certo, è doveroso aggiungere
che il parere di questi studiosi non è stato, e non è, condiviso da tutti i loro
colleghi. Ma quanto detto è solo per dimostrare che esiste una ‘attrazione storica’
(se non proprio ‘fatale’) tra psichiatria e parapsicologia, sino al tentativo negli
anni ’80 di fondare una scienza ad hoc, denominata metapsichiatria, che si
occupasse specificamente delle aree di contatto tra scienze del comportamento e
fenomeni parapsicologici (tentativo poi giustamente abortito, anche se la sua
descrizione trovò ampia ospitalità su riviste di tutto rispetto come l’American
Journal of Psychiatry o il Journal of Nervous and Mental Disease).
Sul piano eminentemente pratico, il concetto di comunicazione non
convenzionalmente mediata in psichiatria e nelle scienze del comportamento,
sembra essere stato recepito in maniera trasversale, attraverso una serie di
concetti ed elaborazioni fondate sulla pratica rigorosamente empirica. Un certo
numero di costrutti presenti nella psichiatria contemporanea sembrano fare
riferimento a qualcosa di simile, o almeno di molto vicino alla parapsicologia.
Uno di questi costrutti teorici è quello di empatia, centrale nella dottrina di Carl
Rogers identifica nell’empatia una forma primaria di contatto con paziente e che
si concretizza poi nella condizione di un sentire reciproco, di un avvertire un
flusso di sensazioni, sentimenti, stati d’animo, comprensione, condivisione. E’
difficilissimo credo, dare una definizione operativa di empatia. E’ un ‘quid’ che
si crea tra paziente e terapeuta e che quanto più si crea, tanto più rende la
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comunicazione terapeutica efficace. In una generica definizione di un noto
manuale di psichiatria l’empatia viene definita così:
“La capacità di un membro del gruppo di mettersi nello schema psicologico di
riferimento di un altro membro del gruppo e per mezzo di ciò capire i suoi
pensieri, sentimenti, comportamenti” (Kaplan, Sadock e Grebb, 1997).
Una delle definizioni più esaustive è però quella fornita da Hinsie e Campbell nel
loro “Dizionario di psichiatria”:
“Porsi nella struttura psicologica di un altro, in modo che pensieri, sentimenti e
azioni dell’altra persona siano capiti e, in qualche modo, prevedibili. Carl Rogers
definisce l’empatia come la capacità di accompagnare un’altra persona ovunque
conducano i sentimenti di questa, per quanto forti, profondi, distruttivi o abnormi
possano apparire”.
La differenza tra questa definizione e quella di percezione extrasensoriale bisogna
ammettere che è abbastanza vaga. L’empatia non si realizza sempre, non è il frutto
di un addestramento e somiglia ad una forma di comunicazione non convenzionale.
D’altra parte, la presenza dell’ESP nel rapporto tra psichiatra e paziente è un fatto
dato addirittura per scontato da alcuni psichiatri, come nel caso dell’americano
Bertold Schwartz, che ne parlo con gran disinvoltura in un suo libro del 1980,
basando la sua discussione scientifica molto sull’evidenza dei casi, alla luce peraltro
di un preciso approccio psicodinamico.
Certo, possono esistere ragionevoli perplessità sull’uso clinico di eventuali forme
di comunicazione non convenzionale, ma esse, dal punto di vista teorico
sembrano perfettamente plausibili. Una delle situazioni più significative potrebbe
essere, per esempio, la relazione con pazienti psicotici. Esiste oggi un acceso
dibattito sull’uso e sui limiti del trattamenti psicoterapici (in particolare di tipo
cognitivo-comportamentale) nei casi di schizofrenia, per esempio. Ma senza
volere entrare nel merito di questa polemica, appare chiaro che la relazione è
sempre decisamente difficile. La chiusura autistica del paziente, il desiderio
avvertito e non espresso di dire, e il silenzio che inevitabilmente caratterizza la
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relazione, con l’ovvia impossibilità di rapportarsi rendono assai speso questi
rapporti problematici, difficili, non raramente sino al punto di provocare un dropout nel paziente, o un burn-out nell’operatore. Una forma di comunicazione non
convenzionalmente mediata potrebbe consentire un contatto profondo, eludendo
le barriere della coscienza. Così come, sinora, l’addestramento psichiatrico è
stato fondato sul colloquio, un addestramento più adeguato per il nuovo contesto
potrebbe essere centrato sulla percezione extrasensoriale, sull’uso d’altre
modalità di entrare in relazione. Modalità simili sono riconosciute anche sul
piano diagnostico. L’esempio più celebre è, credo, quello tratto dalla vecchia
clinica europea, di praecox gefull, la sensazione del tutto ‘intuitiva’ del clinico di
trovarsi di fronte un paziente schizofrenico senza avere alcun’informazione sul
suo reale stato psicologico o psicopatologico: semplicemente osservandolo. La
psichiatria clinica sembra in effetti un’area nella quale le ricerche
parapsicologiche sembrerebbero poter dare un grande contributo formativo.
Prendiamo il caso delle allucinazioni. L’allucinazione è certamente un
‘fenomeno’ clinico. E’ presente in una serie di condizioni patologiche, sia di
natura neurologica, sia di natura psichiatrica.
TABELLA 1
ALLUCINAZIONI IN CONDIZIONI SPECIFICHE
-Alcolismo (delirum tremens)
-Droghe
-Effetti indesiderati di farmaci quali:
antidepressivi (1)
digossina (2)
propanololo (3)
Benztropina e triexiphenidil (4)
agenti anticolinergici (5)
Cimetidina (6)
Clonidina (7)
Bromocriptina (8)
Antinfiammatori, corticosteroidi, antibiotici (9)
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(1) Hemmingsen e Rafaelsen, 1980; Albala et al., 1983; Normal et al., 1982;
Barnes, 1982; Damlouji e Furguson, 1984; Schuckit et al., 1971
(2)Closson, 1983
(3)Fleming e Drachman, 1982
(4)Wilcox, 1983
(5) Linn, 1980
(6) Yodofsky et al., 1980; Adler et al., 1980
(7) Brown et al., 1980
(8) Goodkin, 1980
(9) Shader, 1972; Peterson, 1980
TABELLA 2
ALLUCINAZIONI NEI DISORDINI NEUROLOGICI
Lesioni del lobo temporale e del gior uncinato (1)
(allcuniazioni di tipo olfattivo e gustativo)
Disordini convulsivi (2)
Cafalea (3)
(soprattutto di tipo olfattivo e ottico)
Narcolessia (4)
Morbo di Parkinson (5)
Trattamento del morno di Parkinson con L-Dopa (6)
Demenza
Corea di huntigton e di Sydhenam (7)
Disturbi cerebrovascolari, emorragia e infarto delle regioni temporo-parietooccipitali (8)
Traumi cranici e concussione del cervello (9)
Lesioni compressive da processi occupanti spazio (10)
Infezioni (11)
(1) Kolb e Brodie, 1982
(2) Slade, 1976
(3) Wolberg e Ziegler, 1982; Lippman, 1952
(4) Shapiro e Spitz, 1976
(5)Sandyk, 1981
(6)Sandyk, 1981
(7)Lipowski, 1980; Dale, 1980
(8)Peroutka, et al., 1982
(9)Loyd e Tsuang, 1981
(10)Mulder, 1980; Dunn et al., 1983
(11)Dale, 1980; Mize, 1980
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Inoltre, molte forme di allucinazione possono essere indotte da farmaci, o essere
il sintomo secondario di un disturbo di natura organica. Ancora, esistono
allucinazioni
‘para-fisiologiche’
(per
esempio
le
cosiddette
immagini
ipnagogiche o ipnopompiche, che si presentano nelle fasi di transizione
rispettivamente dalla veglia al sonno o dal sonno alla veglia). Esistono decine di
condizioni nelle quali l’allucinazione si presenta nella pratica medica e
psichiatrica. Ed esistono, proprio per questo farmaci specifici contro le
allucinazioni, che vengono ampiamente utilizzati in psichiatria e in neurologia, in
geriatria e in medicina interna. Il problema non è questo, poiché la presenza e
rilevanza delle allucinazioni come fatto patologico è acclarata. Di norma, le
allucinazioni 'vere' - distinte cioè dalle pseudoallucinazioni - sono ritenute
caratteristiche degli stati psicotici 'funzionali'. Questa distinzione (Fish, 1962)
non sembra essere sempre così rigida. Fitzgerald (1977) sostiene che le
allucinazioni possono essere considerate sintomi di conversione. Andrade et al.
(1986, 1988) hanno sostenuto questo concetto, descrivendo casi di allucinazione
'vera' come sintomi di conversione. Gli Autori inoltre sostengono che sono le
norme culturali in qualche modo a stabilire che e se una allucinazione vera può
essere considerata sintomo di stati psichiatrici non-psicotici. D'altra parte
esistono studi di psichiatria interculturale come quello di Rack (1982), che
dimostrano come nelle donne asiatiche, per esempio, le allucinazioni siano,
specialmente nelle giovani, maggiormente dovute all'isteria che alla schizofrenia.
Il problema si pone invece quando ci troviamo a dover valutare certe forme di
allucinazione. Immaginiamo che un paziente ci venga a dire di aver visto un
fantasma. Certo, subito l’idea dell’allucinazione è spontanea. E’ uno
schizofrenico? Può darsi. Ma immaginiamo anche che quel paziente in realtà non
presenti tratti psicopatologici tali da giustificare una diagnosi di psicosi, disturbo
della percezione o altro. Cosa faremmo, diremmo che quel paziente ha, per
esempio, una forma paucisintomatica di psicosi? Utilizzeremmo espressioni del
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tipo ‘psicosi allucinatoria’ (che non significa assolutamente nulla, ma che
comunque viene utilizzata lo stesso)? Lo tratteremmo farmacologicamente?
Vedremmo in quell’unica manifestazione ‘anomala’ il segno, lo ‘stigma’ di una
condizione psicopatologica? Jan Stevenson, un noto psichiatra americano, autore
tra l’altro di un celebre contributo sul colloquio psichiatrico su uno dei textbooks
storici della psichiatria americana3, non proprio recentemente espose le sue
perplessità in un articolo pubblicato sull’American Journal of Psychiatry,
intitolato “Abbiamo bisogno di un nuovo termine per definire le allucinazioni?”.
Domanda provocatoria, ma altamente realistica. Esistono infatti in natura una
serie di fenomeni caratterizzati da percezioni (visive, acustiche, tattili)
apparentemente non realistiche, che però non configurano un fatto allucinatorio
nel suo versante per così dire clinico. Di fatto esistono molte condizioni
allucinatorie non patologiche.
TABELLA 3
ALLUCINAZIONI NON PATOLOGICHE*
Allcuinazioni non patologiche di natura imprecisata (1)
(presumibilmente paranormale?)
Allucinazioni di natura religiosa o rituale: visioni, stati di trance, possessione
isterica (2)
Allucinazioni dell'infanzia (3)
Allucinazioni da reazioni al lutto, consistenti nella convinzione di vedere o
sentire la persona defunta (4)
Allucinazioni da proluntato isolamento e deprivazione sensoriale (5)
Allucinazioni da privazione di sonno (6)
Allucinazioni da fatica (6)
Allucinazioni da privazione di cibo e di acqua (7)
Allucinazioni da stress secondario ad un grave pericolo per la vita del soggetto
(8)
Allucinazioni ipnagogichee ipnopompiche (9)
Allucinazioni in ipnosi o stato di trance (10)
*In genere queste allucinazioni dovrebbero essere definite 'pseudo-allucinazioni'
3
Mi riferisco allo storico American Handkook of Psychiatry, curato da Silvani Arieti (Basic Books, 19591966), e tradotto in italiano, negli anni ’60, dalla Boringhieri col titolo di ‘Manuale di Psichiatria.
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in quanto i soggetti che le esperiescono dovrebbero rendersi conto della loro
irrealtà, ma tale distinzione appare abbastanza forzata, in quanto questo non
sempre è vero.
(1)Stevenson, 1983
(2)Sarbin e Juhasz, 1975; LaBarre, 1975; Kroll e Bachrach, 1982
(3)Egdell e Kolven, 1972
(4)Frantz, 1984; Balk, 1983
(5)Mullaney et al., 1983; Zukerman e Cohen, 1964
(6)Mullaney et al., 1983
(7)Forrel, 1960
(8)Siegel, 1984
(9)Savage, 1975; Jadi e Trixler, 1981
(10)Spanos et al., 1973
Nel campo di studi sulle interazioni non convenzionali fra individuo ed ambiente,
queste esperienze vengono definite apparizioni. Un organismo riceve delle
informazioni dall’esterno (o dall’interno), le elabora e le percepisce anche
quando non esistono modalità rilevabili di comunicazione sensoriale.
Psicopatologia? Alterazione di sottili equilibri neuroendocrini? O cosa?
E sempre a proposito di psicosi e di manifestazioni comportamentali in
apparenza fondate su alterazioni di natura psicopatologica, è inevitabile discutere
brevemente dei deliri. Il delirio è la manifestazione più evidente di una
distorsione della realtà, di una convinzione erronea, di un modo assolutamente
soggettivo di vedere il mondo, assai spesso non condivisibile ed è tipico,
generalmente, delle psicosi. E qui si deve ammettere che esiste una straordinaria
somiglianza tra psicosi e paranormalità. Sia il paranormale che il pensiero psicotico
infatti sono sistemi di credenze . La differenza sta nel fatto che li definiamo in
maniera differente, cioè in quella opzione originaria che valuta le 'credenze
paranormali' in base ad un parametro semplicemente anomalistico , e le credenze
psicotiche in base ad un parametro patologico.
Il problema è che è proprio lo psichiatra, almeno in un certo numero di casi a
dovere stabilire se e quanto quel modo di vedere il mondo sia davvero non
condivisibile, frutto cioè di un processo di pensiero patologico e non di qualcosa
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che trovi origine in situazioni personali, relazionali o ambientali comunque
obiettive, verificabili empiricamente. Karl Jaspers, grande filosofo e psichiatra e
celeberrimo detrattore di tutto quanto avesse odore di paranormale, stigmatizzò
in maniera severissima la relazione tra delirio e forme (eventuali o possibili) di
percezione extrasensoriale, che invece gli apparivano proprio come mutamenti
storico-culturali nel modo di costruire i deliri:
“In tempi passati – scriveva – nei deliri di parlava più spesso di trasformazioni in
animali (licantropia), di demonomania (delirio di invasamento) ecc., adesso si
parla invece di telefono, di telegrafia senza fili, di ipnosi, e di telepatia”.
C’è ovviamente un dato di fatto obiettivo nel discorso di Jaspers: il delirio in
qualche modo di ‘aggiorna’ in base ai progressi scientifici. Un paziente che
manifesta un delirio paranoideo, per esempio, fondato sul controllo su di lui
stesso esercitato da altri, utilizzerà oggi il computer come strumento
persecutorio, allo stesso modo in cui cento anni fa si usavano i mezzi ritenuti più
validi per il raggiungimento dell’obiettivo (il controllo, appunto). Non v’è nulla
da eccepire, ma il problema è che il computer esiste, e che quindi se un paziente
dichiara che il capufficio lo controlla per mezzo del computer bisognerà essere
certi che questo non avvenga davvero, prima di fornire una diagnosi, per
esempio, di schizofrenia. E se il paziente dice di essere controllato per mezzo
della telepatia? Siamo proprio certi che questo non possa accadere? E siamo
proprio obiettivi nell’affermare che il nostro paziente ha tanto bisogno di
aloperidolo semplicemente perché parla di ‘influenze telepatiche’? Non sarebbe
il caso di fare qualche piccola verifica, e stare attenti a che il nostro soggetto non
possa – per pura ipotesi, ovviamente – essere soggetto attivo o passivo di forme
di comunicazione non convenzionale? Domanda decisamente hard. In questi casi
sarebbe necessario utilizzare altri parametri clinici e osservazionali,
che
prevedano la possibilità di forme di comunicazione non ortodosse e insieme ad
esse la legittimità di modalità relazionali, credenze popolari, o fenomeni che
comunque sembrano possedere una loro dignità scientifica (seppur modesta…)
16
nell’esame di pazienti che ci dicono cose improbabili o, almeno, scarsamente
probabili per il senso comune.
A stabilire che una convinzione sia erronea è in genere un corretto esame di realtà.
Poiché in base all'esame di realtà è impossibile che certe cose accadano, se io sono
altrimenti convinto significa che sto 'delirando'. Il problema è che il nostro esame
di realtà comprende una serie di parametri che distinguono l'anomalo dal
patologico. E mentre per alcuni tipi di delirio l'esame di realtà corrisponde in
maniera assai precisa ad una descrizione attendibile del reale, nel caso di altre
manifestazioni deliranti si pone un problema pregiudiziale. Facciamo l'esempio di
un delirio di gelosia. Il marito che pensa che la moglie lo tradisca (col il vicino di
casa, col portinaio, con il suo migliore amico, insomma con tutti), può essere
considerato attendibilmente un paranoico solo se è possibile dimostrare la realtà o
meno delle sue convinzioni. Non sarà poi così difficile sapere che la moglie sta
sempre in casa, e che nessuno entra o esce da quella casa, e che nonostante questo il
marito continua ad essere convinto di un tradimento. O che, viceversa, non è il
povero marito anziché paranoico, bensì la moglie ad essere un’allegra adultera. La
'patologia' del comportamento è facilmente evidenziabile. Lo stesso si può dire con
atri deliri, per esempio quello di persecuzione, o quello di veneficio. Il problema si
pone, ovviamente, quando la manifestazione delirante si connette a manifestazioni
fenomeniche, non del tutto empiriche, ma abbastanza difficili sia da provare che da
smentire. Molti deliri potrebbero essere definiti, infatti, 'deliri paranormali', nel
senso che essi si riferiscono a fenomeni di tipo praticamente identico a quelli
discussi dalla parapsicologia. Di tali fenomeni i pazienti sentono di essere oggetto,
diretto o indiretto. In questi casi il problema dell'esame di realtà è difficile, in
quanto un tale esame di realtà parte dalla convinzione pregiudiziale dell'operatore
sulla realtà o meno del paranormale, e sulla possibile realtà del fenomeno espresso
dal paziente. In altri termini, prima ancora di chiedersi quale sia la realtà del
fenomeno presentato dal paziente bisogna chiedersi quanta realtà lo psichiatra
conferisca a questi fenomeni indipendentemente dal caso clinico che sta
esaminando.
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Certo, possono essere credenze. Ma le stesse credenze possono essere oggetto di
valutazione. La stessa American Psychiatric Association (APA) ha dato una
qualche forma di attendibilità alle credenze e ai modi diversi di vedere il mondo,
non solo enfatizzando nel DSM IV la dimensione ‘culturale’ dei problemi
psichiatrici, ma anche evidenziando che certi fenomeni, di presumibile natura
paranormale (per esempio i fenomeni di trance e di possessione), vanno
considerati fenomeni patologici solo se la cultura dominante non li accetta. Ecco,
per esempio, quanto il DSM IV afferma per lo stato di trance:
“La manifestazione essenziale è uno stato involontario di trance, che non è previsto
dalla cultura della persona come parte normale di una pratica culturale o religiosa, e
che causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione funzionale. Il
disturbo qui proposto non dovrebbe essere preso in considerazione per i soggetti
che entrano volontariamente in stato di trance o di trance di possessione, non
provano disagio, e agiscono nel contesto di pratiche culturali e religiose che sono
ampiamente accettate dal gruppo culturale della persona. Tali stati volontari e non
patologici sono comuni, e costituiscono la stragrande maggioranza degli stati di
trance e di trance di possessione che si incontrano nelle diverse culture”.
Lo stato di trance o di possessione devono quindi essere ritenuti patologici solo nel
caso in cui essi causino evidente disagio nei soggetti che ne sono affetti. E’
ovviamente un grande passo avanti nella definizione psichiatrica di una serie di
condizioni che afferiscono al paranormale. La distinzione viene infatti posta non
tanto sulla natura del fenomeno, quanto sul fatto che il fenomeno sia per così dire
‘distonico’ rispetto alla realtà individuale e culturale del soggetto che lo esperisce.
Passi avanti. Lentissimi, ma pur sempre passi avanti sulla strada della conoscenza.
D’altra parte, il problema fondamentale col quale ci si confronta esaminando la
possibile esistenza di forme di comunicazione non convenzionale in psichiatria è
proprio quella della conoscenza, in particolare di quella dei fenomeni mentali e dei
meccanismi che li regolano. Sul funzionamento della mente abbiamo imparato
certo molto, ma non sappiamo tutto. Il Decennio del Cervello, appena conclusosi, ci
ha indicato strade, direzioni possibili, meccanismi probabili. Resta però un mistero
di fondo: e cioè come il cervello realmente acquisisca informazioni, come le
rielabori, come le trasformi in modalità di comunicazione e d’espressione. Ed è un
18
mistero enorme, che si snoda lungo un continuum che va dalla psicopatologia alla
creatività artistica. In questa terra di nessuno, l’ipotesi dell’esistenza e del possibile
uso di forme di comunicazione non convenzionale è solo una bandierina piantata
nella sabbia, smossa dal vento, instabile e fragile, eppure un punto di riferimento
importante su una mappa che è ancora, per buona parte, da disegnare.
ETNOPSICHIATRIA E PRATICHE MAGICHE: STUDI SUL CAMPO
Un importante contributo alla definizione del problema delle forme di interazione
non
convenzionalmente
mediate
fra
individuo
e
ambiente
è
fornito
dall’etnopsichiatria.
Gli antropologi e gli etnologi hanno spesso pubblicato relazioni di ricerche sul
campo, nel corso delle quali osservarono pratiche "magiche" che implicavano
prevalentemente tra primitivi, nell'ambito di gruppi umani non acculturati. Su
questo problema esistono diverse rassegne (vedere per esempio Van De Castle,
1975, 1977; Zorab, 1957; Humprey, 1944 e Pobers, 1956; Fisher, 1940; De
Martino, 1946, 1973; Bozzano, 1974; Iannuzzo, 1980, 1981).
La presenza di componenti ‘paranormali’ nelle pratiche magiche e la loro rilevanza
per l’etnmopsichiatria è un argomento che presenta un ampio interesse; purtroppo
alcuni aspetti di questo problema non sono stati indagati con la dovuta attenzione,
come per esmpio la connessione tra credenze magiche e eventi reali di interazioni
non convenzionali, il cui interesse fondamentale consiste nella verifica scientifica
che alcune popolari credenze possano anche avere una base realistica. Un esempio
di questa interpretazione può essere costituito dalla credenza nella "jettatura", che,
pur essendo certamente una superstizione, presenta alcuni aspetti meritevoli di
attenzione etnologica ed etnopsichiatrica. Inoltre non è stata mal suggerita, sinora,
una tipologia degli eventi magici presenti in tutte le culture.
Per ciò che concerne le comuni pretese magiche, esse sono tradizionalmente di due
tipi : la pretesa di poter conoscere il mondo senza l'ausilio dei sensi e la pretesa di
poter magicamente - per mezzo della volontà, o grazie alla mediazione di entità
superiori - l'assetto del mondo. Gli antropologi e gli etnologi hanno ampiamente
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discusso sia delle "leggi" che possono essere sottese ad una presunta azione magica
(vedere per esempio Frazer, 1911) sia del rapporto che esiste tra gli aspetti
sociologici di una cultura e le espressioni di pretese magiche, sia ancora dei moduli
di pensiero che possono essere sottesi a tali pretese. In ogni caso, qualunque sia il
punto di vista dominante, il mago pretende sempre (e in ogni epoca) di agire in due
modi: "conoscendo" il mondo e "agendo" su di esso. In questo scritto definiremo la
pretesa magica di "conoscere" il mondo senza l'ausilio dei sensi: Potere di
conoscenza, e quella di "agire" magicamente su di esso: Potere di azione.
Cominceremo con l'esaminare il materiale etnografico disponibile sulla prima di
queste "pretese" magiche.
POTERE DI CONOSCENZA
Esistono molti resoconti etnografici riguardanti il "potere di cononscenza" del
mago, implicante presumibilmente componenti extrasensoriali.
Callaway, un religioso che indagò a lungo il sistema religioso degli Zulu, riporta la
descrizione di metodi di divinazione presso quel popolo. Egli racconta di come gli
Zulu riescano a indovinare dove si trovi un oggetto che si sia perso e che risulta
apparentemente introvabile (Callaway, 1884). Gli uomini della tribù - come risulta
dalla descrizione di Callaway - si introflettevano, meditando e cercando "dentro di
essi" il luogo dove la cosa che era stata persa poteva trovarsi, con una tecnica che
Callaway definisce di "divinazione interiore"; ad un certo punto lo Zulu sentiva di
aver trovato la cosa che cercava e sapeva perfettamente in quale luogo poteva
trovarla. Il reverendo si stupiva di come questa visione puramente interiore fosse
vivida almeno quanto la visione reale dell'oggetto. I veggenti Zulu sapevano inoltre
adoperare la veggenza per ritrovare oggetti nascosti, sui quali essi erano stati
informati di proposito in maniera erronea o imprecisa per metterli alla prova.
Sembra anche che questi maghi fossero in grado di prevedere alcuni eventi con
molta esattezza.
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Per diventare stregone occorreva essere posseduto dagli spiriti: quanto ciò avveniva
(e quindi il soggetto era divenuto un veggente) egli era sottoposto ad una severa
prova per accertare le sue reali capacità, prova che Callaway così descrive:
"Prendono oggetti di varia natura: uno prende grani di collana e si reca a
nasconderli; altri nascondono lance; altri braccialetti, altri i loro bastoni, altri i loro
grembiuli, altri i loro ornamenti, altri le loro marmitte, altri le loro ceste. E dicono:
"vediamo se proprio troverà queste cose, oppure no". Altri nascondono spine di
granturco, o di amabele o di ujiba, o cime di upoko". Il superamento della prova è
necessario presso la cultura zulu perché gli aspiranti stregoni vengono riconosciuti
come tali dalla comunità.
Adrian K. Boshier riferisce in tempi molto più recenti testimonianze di capacità
paranormali presso le tribù presso le quali fu ospitato in Africa (Bokoni, Blatlokwa,
Bakata). Egli dà inoltre testimonianza di un rituale molto simile a quello descritto
da Callaway a proposito dell'iniziazione a stregone (Boshier, 1974). Il futuro
stregone viene inizialmente posseduto dagli spiriti. Questa fase - che dimostra che il
soggetto è stato scelto per fare questa professione - viene seguita da un duro
apprendistato. Per dare la prova dei suoi effettivi poteri, l'aspirante sangoma deve
riuscire a trovare degli oggetti che i suoi maestri hanno nascosto nei luoghi più
impensati e il superamento della prova è anche in questo caso la conditio sine qua
non dell'iniziazione.
"L'addestramento di un sangoma - scrive Boshier - prevede l'apprendimento di
certe canzoni, di danze speciali, l'ingestione di emetici a fini purificatori, nonché la
continua presenza del Baba (maestro) che osserva la sua twasa (allievo) con molta
attenzione, notando le particolari manifestazioni del suo spirito. Essi sono
quotidianamente incoraggiati a rafforzare ed usare lo spirito che li sta possedendo.
Devono cercare in continuazione, giorno e notte, cose che il Baba ha "nascosto" in
qualche parte del villaggio. All'inizio l'insegnante dice alla twasa che c'è qualcosa
nascosto per lei, ma, col procedere dell'addestramento, il Baba non informa più
l'iniziata a parole: la chiama servendosi di metodi telepatici. Si può ricorrere a
leggere droghe, qualora le manifestazioni dello spirito vengano ad indebolirsi,
oppure per chiarire il significato di sogni e di esperienze allucinatorie".
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Trilles (1932) riferisce su fenomeni di conoscenza paranormale rinvenuti presso i
Pigmei della foresta equatoriale. Egli racconta tra l'altro, di uno stregone di clan che
era capace di predire nel corso di una danza magica, in maniera estremamente
particolareggiata e vivida, quale sarebbe stato il risultato di una battuta di caccia
all'elefante. Lo stregone cadeva in trance e mimava i movimenti degli animali e dei
cacciatori indicando che cosa sarebbe accaduto e come la caccia si sarebbe
conclusa. Trilles afferma che venivano precisate non soltanto circostanze generiche,
ma tutto ciò che poteva riguardare l'esito della caccia, compreso il numero di zanne
d'elefante che sarebbero state prese e si fa garante della assoluta veridicità del
responso.
Lang descrive anch'egli un caso di veggenza relativa ad una battuta di caccia
all'elefante, riferendosi ad un fatto di cui fu protagonista D. Leslie che a sua volta lo
espone in un suo famoso e ormai rarissimo libro (Leslie, 1875; Lang, 1900). Leslie,
che doveva prendere parte a una battuta di caccia all'elefante, attendeva i suoi
cacciatori; giunto al luogo dove aveva dato loro appuntamento non vi trovò
nessuno. Si rivolse allora ad uno stregone del luogo per avere qualche informazione
e questi gli chiese nome e numero dei cacciatori. Avute queste notizie egli accese
un fuoco per ogni cacciatore (erano otto) e vi buttò sopra radici che bruciando
emanavano un fumo profumato. Grazie a particolari erbe lo stregone cadde in
trance e al risveglio raccolse le ceneri di ognuno dei fuochi e tracciò con esse le
immagini degli uomini sui quali Leslie chiedeva informazioni. Di ognuno di essi
disse cosa gli era accaduto e il resoconto risultò esatto in ogni particolare.
Matthews (1886) descrive un episodio che riguarda le ragazze appartenenti ad un
particolare culto delle Bahamas, che cadevano in trance contemporaneamente,
anche a grande distanza tra loro, e che in stato di trance erano in grado di descrivere
accuratamente fatti che si stavano svolgendo a grande distanza. Prince afferma che
egli stesso fu testimone di una precognizione, poiché uno stregone dell'Africa
occidentale avrebbe predetto un evento personale riguardante un suo socio (Prince,
1967), Massaia (riportato in Caimpenta, 1935) descrive con scetticismo e
unilateralità religiosa pratiche magiche etiopiche e abissine, ma proprio per questo
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carattere non oggettivo, la sua tetimonianza assume un valore ancora maggiore,
quando scrive:
"Fra i Galla, dunque, ed anche gli abissini, divenuti ormai quasi tutti pagani come
quelli, in ogni occasione si suole ricorrere ai maghi; e principalmente quando, lesi
nella vita, nella roba, nell'onore, ecc., non sanno a che dare la colpa del danno
ricevuto. Ed il mago, spiega il mistero dicendo: il tale ha rubato, il tal'altro ha
ucciso, per istigazione di quello avvenne il danno. Talvolta il padre della bugia dice
la verità...".
Gorer (1935) narra un episodio probabilmente genuino di chiaroveggenza, nel quale
un veggente dell'Africa occidentale descrisse accuratamente la sua casa, posta a
mille miglia di distanza, e Hallowell (1942) ebbe rivelati numerosi particolari, per
via precognitiva, riguardanti suo padre e alcuni membri del suo gruppo. Presso i
Negas indiani furono pure rilevati fenomeni di chiaroveggenza che sembrano essere
abbastanza probanti (Hutton, 1921).
Gusinde (1937) riferisce di un caso di divinazione dovuto ad uno stregone che in
sua presenza previde l'arrivo di uno stormo di uccelli che effettivamente giunsero
l'indomani. De Martino (1973), riportando questo episodio, non nega l'evidenza di
un fenomeno di probabile natura "paranormale", ma suggerisce la possibilità
alternativa che possa essersi trattato di un caso di iperestesia. Bisogna però
considerare che, se il caso citato è vero, è abbastanza difficile interpretarlo in
termini di iperestesia, poiché l'avvistamento avvenne un giorno dopo la divinazione
e risulta quindi difficile pensare che la portata di una eventuale iperestesia sia tanto
grande.
Laubscher, uno psichiatra sudafricano, constatò empiricamente le capacità di uno
stregone Tembu, Salomon Daba (Laubscher, 1938). Egli descrive numerosi episodi
relativi a capacità di veggenza rilevate nel corso delle sue ricerche presso la cultura
Bantu. Uno degli episodi più convincenti è anche descritto in un articolo pubblicato
in Italiano (Laubscher, 1976).
"(Salomon Daba) Abitava a circa cento chilometri dall'ospedale Komani, dove
prestava servizio, e ci eravamo messi d'accordo per fare un'esperimento una
domenica mattina. All'insaputa di tutti, avevo comprato un borsellino rosso, e il
negoziante lo aveva impacchettato in carta velina bianca, coperta da un secondo
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involto color marrone. Lo chiusi a chiave in un cassetto e la domenica mattina, alle
dieci circa, a quarantotto chilometri dal villaggio di Salomon fermai la macchina,
lasciandovi sopra Van der Merwe, mio assistente e brillante linguista Xhosa. Io
scesi lungo un fosso di circa due metri e mezzo e quando fui fuori vista scavai una
buca nel terreno sconnesso con una pietra piatta e grigia. Seppellii il borsellino, lo
ricoprii di sabbia piantandovi sopra la pietra predetta sormontata da un'altra scura, e
lasciai tutto così. Van der Merwe non era al corrente del mio piano. Quando arrivai
al villaggio la danza era già cominciata. Salomon iniziò a danzare e mi descrisse in
ogni particolare, senza omettere nulla, sia pure parlando a intervalli, tutta la
faccenda del borsellino e come lo avessi seppellito nel fosso. Non riuscii a trovare
alcun'altra spiegazione possiblile, all'infuori di una spiccata facoltà telepatica".
Shirokorogoff (1935) descrive numerosi episodi di natura paranormale presso i
Tungusi. Egli scrive tra l'altro:
"In stato di grande concentrazione gli sciamani (Tungusi), come altre persone,
possone entrare in comunicazione con altri sciamani e con individui comuni. Presso
tutti i gruppi tungusi questo si fa del tutto intenzionalmente per necessità di
carattere pratico, specialmente per casi urgenti... Nel pratico intento di ottenere una
comunicazione del genere la persona deve pensare senza interruzione a un'altra
persone, ed esprimere un desiderio, come, per esempio: "Per favore, vieni qui (in un
dato luogo)". Ciò deve essere ripetuto finché si vede la persona chiamata o finché si
apprende che la persona ha inteso il richiamo. Si può vedere la persona fisicamente,
nel suo ambiente naturale. Più tardi, quando si incontra la persona chiamata, si può
chiederle conferma dell'ambiente e del luogo nel momento della chiamata".
De Vesme (1931) racconta un'esperienza di Trilles. Nell'episodio si parla di un
certo Negema Nzago, uno stregone molto noto per i suoi poteri. Egli disse a padre
Trilles che ci sarebbe stato un convegno dei maghi della regione in un luogo che si
trovava a quattro giorni di cammino dal villaggio dove Nzago e Trilles si
trovavano, e il convegno doveva aver luogo l'indomani. Naturalmente Trilles si
mostrò alquanto incredulo poiché riteneva che la distanza fosse troppa per poter
essere coperta in un giorno solo. Ma lo stregone gli assicurò il contrario e gli chiese
se volesse assistere alla sua partenza quella sera. Giunto all'appuntamento, Trilles
gli chiese, per avere in qualche modo una prova dell'effettivo viaggio dello
stregone, di passare da un villaggio che si trovava sul cammino che Negema Nzago
avrebbe dovuto percorrere e di avvertire un amico di venirlo a trovare per portagli
alcune cose. Lo stregone accettò, dopodiché diede inizio a un complicato rito e si
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immerse in un sonno catalettico; il corpo divenne assolutamente rigido e Trilles
vide un grosso serpente nero, scaturito dal nulla che circondava il corpo dello
stregone. Padre Trilles, per evitare che vi fosse qualche trucco, non lasciò la
capanna sino al mattino e al risveglio del mago si sentì dire che la commissione
affidatagli era stata perfettamente compiuta e che il suo messaggio era stato
recapitato. In effetti tre giorni dopo la persona "chiamata" si presentò al villaggio e
disse a Trilles di aver sentito (nella notte nella quale lo stregone aveva effettuato il
suo "viaggio") una voce che dall'esterno della casa in cui abitava gli aveva detto di
andare da lui.
Il colonnello Van Der Post (1958) descrive alcuni fenomeni di orientamento presso
i boscimani sudafricani del Kalahari, che hanno certamente qualcosa in comune con
fenomeni di nature telepatica. Van der Post fece anche delle prove empiriche. Una
volta chiese per esempio ad una sua guida (un indigeno di nome Nxu) di indicare
esattamente la direzione del villaggio da cui erano partiti, che distava circa
duecentocinquanta miglia, e il boscimano la indicò con esatezza pari a quella della
bussola di Van der Post. Sempre lo stesso autore afferma che spesso i suoi
accompagnatori indigeni gli riferirono di possedere la capacità di comunicare a
distanza tra loro, paragonando tale loro capacità al telegrafo. Maddox (1923)
osservò che le capacità paranormali non solo erano notevolmente diffuse tra gli
Zulu e i Beciuana del Sud Africa e altre tribù del Borneo, del Perù, del Paraguay e
della Siberia, ma anche che la paranormalità presso queste popolazioni è
considerata eriditaria, e che, nell'ambito di alcune famiglie i figli vengono addestrati
all'uso di queste capacità e sono quindi avviati alla professione di veggente.
Evans-Pritchard (1937) conferma che presso alcune popolazioni africane esiste la
convinzione che la psi sia ereditaria, oltre naturalmente a mettere in evidenza la
presenza di questo tipo di capacità. Freuchen (1935) riporta testimonianza di
episodi di divinazione estremamente precisa presso gli Esquimesi dell'Artico; la
divinazione si basa sui movimenti più o meno liberi e volontari del piede e si rivela
di notevole esattezza. Lo stesso autore (Freuchen, 1953) ha inoltre assistito alle
pratiche divinatorie di una strega che riusciva a indovinare l'arrivo di una nave a
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vapore che conteneva merci necessarie alla sua gente. Sempre Trilles descrive
anche fenomeni di comprensione di lingue sconosciute, di cui sono protagonisti gli
stregoni pigmei:
"Uno dei viaggi che facemmo con monsignor Le Roy - scrive -, lo Stregone del
villaggio in cui arrivammo la sera, ci descrisse con molta esattezza la via che
avevamo percorsa, la lista del nostro pasto, e anche la conversazione tenuta. Una
delle cose dette nella nostra conversazione era particolarmente tipica. Avevamo
incontrato una piccola tartaruga. "Può servire per la cena di stasera" mi disse
Monsignor Le Roy, ed io aggiunsi ridendo, poiché avevamo molta fame: "Se
occorre, aggiungeremo la testa della guida". Ora noi parlavamo in francese, lingua
di cui lo stregone non capiva una parola, e tuttavia senza muoversi dal suo
villaggio, in cospetto di tutti, egli ci aveva "visto" nel suo specchio magico, e ci
ripeteva quello che avevamo detto" (Trilles, 1932).
Rasmussen (1929) ha rilevato fenomeni di presumibile natura paranormale presso
le tribù esquimesi. Uno di essi - discusso da De Martino (1948) - riguarda la
predizione, da parte di uno sciamano, di un movimento dei ghiacci polari che poi fu
verificato dai componenti della spedizione di Rasmussen. Anche in questo caso De
Martino suggerisce la possibilità che si sia trattato di un caso di iperestesia.
Massajoli (1974) a proposito dei Subtjava (un gruppo etnico compatto che vive in
una regione presso la città di Leon, nella parte nord-occidentale del Nicaragua, che
sta attraversando una fase di veloce acculturazione) descrivendo le loro credenze
magiche, scrive che:
"... permane, soprattutto fra gli anziani, una certa superstizione e il timore verso la
stregoneria e le sue possibili manifestazioni. Si dice che taluno ricorra ancora a
persone, che pare abbiano poteri supernormali. Forse, su questo argomento
(riguardo al quale è comprensibile una certa diffidenza a dare delle risposte
precise), sarebbe molto interessante poter fare delle indagini prolungate e
approfondite".
Lo stesso autore si occupa pure, seppur brevemente, nella stessa pubblicazione, dei
Maribios, a proposito dei cui stregoni riporta una notizia interessante:
"Oviedo ricorda un episodio nel centro maribio di Gaucama: un cacique cui si
rivolsero i genitori di un bambino che era scomparso, disse che il sogno gli aveva
rivelato che il piccolo era stato rapito da due texores, specie di stregoni che si erano
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trasformati in grandi animali, uno bianco e uno nero, per mangiarlo. Il mattino
seguente, testimonia Oviedo, si trovarono i resti del bambino".
Castaneda fornisce numerose e interessanti informazioni non solo sugli straordinari
fenomeni presentati dai brujos yaquis, ma anche sulle tecniche utilizzate per
acquisire la conoscenza di uno stregone. Egli infatti fu per oltre dieci anni
apprendista stregone di Don Juan Matus, un brujo di una comunità yaqui, che lo
addestrò alle arti magiche. L'esperienza di Castaneda è molto suggestiva; dopo aver
conosciuto per caso Don Juan, in una assolata stazione di autobus dell'Arizona
meridionale e aver saputo che era uno yerbero (un esperto di piante medicinali),
Castaneda aveva saputo che Don Juan era anche qualcosa di più: cioè un brujo, uno
stregone, un depositario dei segreti del potere magico. Così iniziò il suo
apprendistato che lo avrebbe condotto ad acquisire il potere magico, il potere di
conoscenza, come lo stesso Don Juan lo chiama. Sono molto interessanti le
descrizioni del mondo concettuale degli stregoni yaquis e le loro interpretazioni
"esoteriche" della realtà. Castaneda ha sinora pubblicato cinque volumi sulla sua
straordinaria esperienza (Castaneda, 1968, 1971, 1972, 1974, 1977) i primi tre dei
quali, e il primo in particolare, sembrano essere molto più attendibili e convincenti
degli altri.
Beattie (1963) riporta casi di stregoneria presso i Bunyoro e un lavoro di Belo
(1960) è dedicato a fatti magici accaduti a Bali (stati di trance). Esistono numerose
rassegne su fenomeni di conoscenza paranormale nel corso di pratiche magiche.
Relativamente all'Africa, all'Australia e alla Giamaica, rispettivamente H. Trilles
(1914), Elkins (1944) e Williams (1934) descrivono numerosi eventi di natura
paranormale. Fatti magici probabilmente implicanti eventi psi sono stati descritti da
Huxley, relativamente ad Haiti (Huxley, 1969).
Un aspetto abbastanza importante del potere di conoscenza è la sua relazione con
sostanze allucinogene, o comunque droghe in grado, in qualche modo, di stimolare
questo "potere". Esempi di questo tipo sono ampiamente riportati dal già citato
Castaneda (la prima parte del suo noviziato consistè proprio nell'ingestione di
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droghe allucinogene stimolanti presumibilmente l'ESP). La Barre (1959) narra
alcuni episodi implicanti probabilmente la psi, rilevati presso indiani americani che
usavano abitualmente il peyotl, e Mac Govern (1927) afferma che l'ingestione di
una sostanza allucinogena (una bevanda ricavata dalla Banisteripsis Caapi o
ayahuasca) presso tribù amazzoniche sembra incrementare le capacità telepatiche,
da lui indiscutibilmente rilevate. Un caso di ESP in seguito all'ingestione di questa
stessa droga è riportato da Wilkens (1948): un colonnello brasiliano, sotto l'effetto
di questa droga, percepì la morte della sorella, a 2900 chilometri di distanza, fatto di
cui ebbe conferma un mese dopo. Kensinger (1973) studiando l'uso della droga
presso i Cashinaua del Perù, rilevò pure episodi di natura indiscutibilmente
paranormale. Osterreich (1966) discute di trance e possessione - e della loro
rilevanza per processi di conoscenza magica - presso popoli primitivi.
POTERE DI AZIONE
Una delle più documentate forme di questo presunto potere riguarda la possibilità di
realizzare guarigioni con mezzi presumibilmente magici. D. St. Clair (1971)
riferisce in uno suo libro di episodi di gurarigione magica cui ebbe modo di
assistere in Brasile, riportando tra l'altro un caso riguardante un bambino di otto
anni dai piedi ampiamente deformati. Un guaritore di nome Palmerio li baciò e
subito dopo il bambino, che sino a pochi minuti prima si trascinava a stento a causa
della sua deformità, se ne andò camminando normalmente e coi piedi quasi normali
nella forma. Eliade (1966) riporta numerosi casi di guarigione magica attribuibile
agli sicamani e alle loro tecniche. Descrive casi di esperti sciamani che aprono il
corpo di un individuo e "operano" senza che in realtà si veda alla fine
dell'operazione alcun segno di ferita. Alcuni scIamani inoltre sembrano essere in
grado di aprirsi l'addome con un coltello senza riportarne alcun danno. Sempre
Eliade, nella stessa opera, distingue tra la figura dello sciamano e dello stregone, a
proposito dell'arte magica della guarigione. Uno degli aspetti più interessanti di
questa differenza è che lo sciamano, durante la trance che accompagna queste
prestazioni, afferma di abbandonare il suo corpo. Altri stregoni si dichiarano invece
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posseduti da spiriti. Lo sciamano è in grado di controllare gli spiriti, ma non è
posseduto da loro.
Questo aspetto del potere magico di sciamani e stregoni è in stretta correlazione con
il problema delle "guarigioni" spirituali. Lo stesso libro di St. Clair fornisce un
parere favorevole ai poteri terapeutici di Zè Arigò, un discusso guaritore brasiliano
apparentemente capace di operare con mezzi di fortuna (come coltelli arrugginiti)
senza alcun danno per il paziente. Altri rapporti positivi sono quelli di Fuller (1974)
e soprattutto quello di Puharich (1974, 1975) che fornisce anche delle personali
esperienze. Tra l'altro Arigò affermava che, per tramite suo, operasse lo spirito di
un medico tedesco. Parere nettamente negativo su Arigò è stato invece espresso da
Quevedo che ha a lungo studiato i trucchi che potrebbero essere utilizzati in questo
tipo di pratiche.
Una polemica ben più ampia sorse, qualche anno fa, nei confronti delle pretese
guarigioni podotte dai notissimi "logurghi" delle Filippine (chiamati anche
curanderos), apparentemente capaci di realizzare vere e proprie operazioni
chirurgiche semplicemente con le mani nude. Alcuni rapporti su questo fenomeno
(Valentine, 1973, e Sherman, 1967) non forniscono alcuna prova della realtà di
queste pratiche e non dimostrano in alcun modo che i "curanderos" filippini siano in
grado di operare producendo ferite nel corpo del paziente che poi rimarginano
spontaneamente, alla fine dell'operazione, senza traccia alcuna di cicatrici. Nolan
(1974) mette in luce l'evidente fraudolenza di queste pratiche, e l'italiano Granone
ha evidenziato in queste pratiche l'esistenza di trucchi (Granone, 1972). Sempre
Granone (1973, 1975, 1976) ha sostenuto la presenza di capacità di guarigione
paranormale in almeno qualche guaritore-chirurgo, anche se è indiscutibile la frode
perpetrata con l'utilizzazione di trucchi di grande effetto. Sul problema della
‘guarigione psichica’ esistono diversi contributi clinici e teorici, tre dei quali di
particolare rilevanza (Cassoli, 1979; Cassoli e Iannuzzo, 1982; Iannuzzo, 1985;
Iannuzzo, 1985b).
Un problema che, più che quello delle "guarigioni" magiche - o "spirituali" interessa il presunto "potere d'azione" del mago, è quello della padronanza del
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fuoco che, tra l'altro, è anche uno dei fenomeni di questo tipo più diffuso, anche se,
assai stranamente, la maggioranza degli autori americani lo ha sistematicamente
ignorato. Van De Castle (che è il più noto esperto americano di review sui nessi tra
parapsicologia e antropologia) in una sua recente rassegna (Van De Castle, 1977)
ha citato un numero assai limitato di ricerche su questo argomento.
Stregoni, membri di particolari comunità o adepti di alcuni culti sembrano essere in
grado di camminare sul fuoco senza ustionarsi. Gaddis (1967) riporta numerosi casi
di questo tipo. Un libro di Kenne (1949) riporta un'esperienza compiuta
all'università delle Haway: 576 persone passeggiarono su uno strato di carboni
ardenti lungo quattro metri e mezzo. Ad un'analisi compiuta alla fine
dell'esperimento, soltanto nove di essi mostravano segni di ustioni. Thompson
(1894, 1895) riferisce di una cerimonia detta Vilavilareivo durante la quale i
membri del clan Na ilankata dell'isola di Mbenga, nell'arcipelago delle Figi, hanno
la capacità di attraversare una fornace in virtù del loro potere sul fuoco.
Thompson descrive il luogo che i passeggiatori sul fuoco dovevano attraversare: un
fosso scavato in una piccola radura a poca distanza dal mare, poco profonda e larga
diciannove piedi. Grossi ceppi in fiamme e grosse pietre rotonde erano poste nella
fossa sino a quando il luogo della prova non era che:
"un ammasso al calor bianco, da cui sprizzavano piccole lingue di fiamme bianche,
e il calore era così intenso che in confronto il sole bruciante costituiva un gradevole
sollievo".
Nella parte successiva della cerimonia venne spianato il fossato e cominciò la
passeggiata. Venne anche fatta una prova empirica: una delle pietre sulle quali i
membri del clan avevano passeggiato venne messa a contatto con un fazzoletto che
si bruciò in quella parte che aveva toccato la pietra direttamente e s'ingiallì per il
resto. I piedi dei camminatori, alla fine della cerimonia, erano invece intatti. E'
interessante notare che la capacità di non bruciarsi poteva essere contagiata, fatto,
questo, che si ritrova in numerose relazioni sui fenomeni e nella letterature
riguardante i fenomeni medianici.
30
Successivamente, Ocken (1989) constatò anch'egli questo fenomeno nelle Figi e
riportò più dettagliate informazioni concernenti per esempio i valori della
temperatura della fornace che i membri del clan dovevano attraversare. Gudgeon
(1899) constatò fenomeni di incombustibilità nell'isola Baratonga, nell'arcipelago
delle Cook e fece lui stesso la prova di attraversare la fornace senza riportarne
alcuna ustione: egli attraversò la fornace rovente insieme con alcuni suoi
collaboratori e solo uno rimase ustionato (gli europei che attraversarono la fornace
erano quattro).
Henry (1893) descrive pure passeggiate sul fuoco compiute in Polinesia, ed alle
quali parteciparono degli europei. Sayce (1933) osservò nel Natal alcuni episodi di
incombustibilità e rilevò anch'egli la possibilità che questa capacità fosse in qualche
modo contagiosa. Roth (1933) constatò pure questo fenomeno e notò nel suo studio
che la temperatura delle pietre era tanto elevata da carbonizzare l'estremità delle
pertiche con le quali le pietre venivano uniformemente sparse nel fossato. Fulton
(1902) osservò passeggiate sul fuoco pure nelle isole Figi durante la cerimonia del
Vilavilareivo e cercò di spiegare il fenomeno dell'incombustibilità con le
caratteristiche fisiche delle pietre che venivano utilizzate per riempire il fossato (che
assorbivano, secondo l'autore, il calore e lo irradiavano molto lentamente),
interpretazione questa che è comunque contestata - per la sua limitatezza - da De
Martino (1973). Su questo problema sono state anche compiute due ricerche
sperimentali (Price, 1936; Brown, 1938).
In Italia, Cassoli (1958) si è occupato del problema della pirobazia (del greco:
passeggiata sul fuoco) presso gli Anastenaridi, una setta religiosa greca la cui
origine è avvolta dalla leggenda e sulla quale sono stati compiuti numerosi studi
relativamente alla presunta incombustibilità mostrata dai suoi membri nel corso di
una tipica cerimonia religiosa (Dimantoglou, 1953, Papachristodoulou, 1953,
1953a, 1953b; Tanagras, 1953, 1956; Gault 1954). La leggenda degli Anastenaridi
ci viene così raccontata dallo stesso Cassoli:
"Si narra che nel 1257, o press'a poco, nel villaggio di Kosti, nel nord della Tracia,
la piccola chiesa di San Costantino un giorno prese fuoco. Kosti è abbreviazione di
31
San Costantino. Mentre i poveri abitanti del paese stavano ad assistere impotenti
alla distruzione della loro chiesetta, udirono dei sospiri lamentosi che provenivano
dal fuoco. Poiché, contandosi, si accorsero che erano tutti presenti, pensarono che
fossero le loro vecchie Icone che, di tra le fiamme, chiedevano aiuto. Si credeva,
infatti che le Icone potessero, in certi momenti, parlare. Alcuni volenterosi si
buttarono nel fuoco, presero le otto Icone dalla Chiesa e, sotto gli attoniti sguardi
dei villici, uscirono dalle fiamme senza che neppure un capello si fosse bruciato. Le
Icone divennero proprietà privata dei salvatori e furono trasmesse di generazione in
generazione fino ad oggi".
Esistono molti altri classici studi sul fenomeno (Lang, 1900-1901; Stowell e
Mahaluxmivala, 1927-1928; Thomas, 1934; Gibson, 1952 e Dimantoglou, 1952),
oltrew ad alcune rassegne specifiche (Iannuzzo, 1981; Iannuzzo, 1983).
Per quanto riguarda altri fenomeni fisici, Bogoraz (citato in De Martino, 1973)
descrive un caso in cui assistette ad un fenomeno di probabile natura psicocinetica
che ebbe per protagonista una sciamana Chulchee:
"Dopo aver preso una larga pietra rotonda della grandezza di una testa umana, la
collocò sul tamburo e soffiando su essa da tutti i lati, cominciò a borbottare e a
russare al modo di uno "spirito". Essa richiamava la nostra attenzione mediante dei
segni, poiché, essendo posseduta dallo "spirito", aveva perduto la facoltà di parlare,
e quindi prese a spremere con entrambe le mani la pietra. Poi una colonna
ininterrotta di piccolissime pietre cominciò a cadere dalle sue mani. La cosa si
protrasse per buoni cinque minuti, fino a che non si formò un mucchio giù sulla
pelle. La pietra più larga, tuttavia, rimase liscia e intatta, come era naturale che
fosse. Sedevo vicinissimo alla prestigiatrice, e non mi riuscì di scoprire la
provenienza di queste pietre. Ma tutta la parte superiore del suo corpo era
completamente nuda, e accessibile all'ispezione. Dopo alcuni momenti feci
improvvisamente richiesta alla sciamana di ripetere il trucco, per vedere di coglierla
impreparata: ma essa subito prese la sua pietra, e ne fece prorompere un flusso di
piccole pietre, tuttavia di maggiori proporzioni delle precedenti".
Cakaninkij riporta numerosi episodi comprovanti una presumibile psicocinesi
(citato in Ohlmarkrl, 1939). Gusinde ha pure rilevato presunti fenomeni di
psicocinesi presso gli stregoni Selk'nam (opera citata). Jacolliot (1901) descrive
invece la capacità di un fachiro di poter muovere un pesante vaso di bronzo
(presumibilmente per psicocinesi) in qualunque direzione gli fosse stata da lui
indicata.
32
Esistono alcuni casi di "potere d'azione" poco chiari, come per esempio quello
riportato, nell'opera citata, da Trilles a proposito di una guarigione magica che, per
molti versi, è decisamente inusuale; Trilles riferisce di un caso di guarigione di
febbre algida dovuta all'azione di uno stregone che "trasferì" la febbre dal malato ad
un albero:
"Il chinino si era dimostrato impotente. Lo stregone lo fece trasportare sotto un
albero (Mpala) a larghe foglie, poi eseguì i passi rituali dapprima sul malato, poi
sull'albero. Subito le foglie di quest'ultimo cominciarono ad agitarsi, poi ad
attorcigliarsi e a cadere. Essudazione abbondante del malato: all'indomani era
guarito".
In questo caso è presumibile che l'azione dello stregone sia stata duplice: da un lato
quella terapeutica, volta a guarire il malato di febbre algida; dall'altro, puramente
psicocinetica, avente come "bersaglio" le foglie dell'albero.
Una rassegna di lavori relativi ai meccanismi di azione delle guarigioni magiche (o
meglio ai "presunti" meccanismi coinvolti in esse) può ritrovarsi in Ehrenwald
(1977).
Alcune ricerche sono state pure compiute su un argomento tipicamente magico,
quello dei "sortilegi" e della "magia nera". Il materiale disponibile è comunque
limitatissimo. Cannon (1942) esamina il problema delle morti per voodoo, ed
ipotizza che tali morti improvvise non dovute ad alcuna causa specifica siano da
imputare alla paura. Halifax-Grof discute di alcune cause, di natura
fondamentalmente psicodinamica, che possono essere implicate nel fenomeno
(Halifax-Grof, 1974). Queste interpretazioni concordano tra loro nel ritenere che gli
effetti dei sortilegi sarebbero provocati da fatti psicologici che agiscono sulla
vittima dei sortilegi sarebbero provocati da fatti psicologici che agiscono sulla
vittima del sortilegio stesso, spesso causandone la morte. In questi processi può
entrare in azione il sistema simpatico-adrenegico (Canon), oppure il sistema
parasimpatico (Halifaz-Grof). Le interpretazioni disponibili si rivelano insufficenti,
comunque, a spiegare il fenomeno.
33
Un altro sconcertante aspetto del "potere d'azione" degli stregoni è la capacità
presunta di controllare gli eventi e gli elementi atmosferici. Basti pensare alle danze
della pioggia che avevano il compito di provvedere a mutare condizioni
atmosferiche sfavorevoli in favorevoli per la comunità. Le prove di questo presunto
fenomeno sono abbastanza esigue. Boshier riporta un esempio di questo tipo di
"potere"., da lui rilevato durante il suo apprendistato magico:
"Un lunghissimo periodo di siccità aveva costretto quella gente (gli indigeni presso
i quali Boshier viveva, ndr) a dedicarsi nuovamente alla caccia. Ormai la situazione
era così tragica che si faceva di tutto per scoprire le cause di una simile calamità. A
questo scopo si rivolsero anche a me e ne derivò una lunga discussione fra il capo e
i suoi consiglieri, durante la quale io chiesi come mai nel corso del mio perigrinare
alla ricerca di pitture rupestri, avessi scoperto i tamburi tribali nascosti nel fondo di
una caverna. La mia rivelazione fu seguita da una certa costernazione, poiché la
caverna era stata oggetto di un rituale magico per impedire a chiunque di scoprirla
o di entrarvi. Successivamente mi dissero che i tamburi sacri erano stati nascosti in
seguito alle minacce fatte dai missionari europei alla fine dell'ultimo secolo. Quelli
più anziani mi informarono che sarebbero stati più che felici di riportare fuori i
tamburi, a patto che io li assicurassi che il dio dell'uomo bianco non si sarebbe
vendicato. Inoltre, avevano bisogno di sangue per far rivivere l'antico cerimoniale.
Feci loro rilevare l'assurdità di un sacrificio umano, ma i miei timori furono
immediatamente fugati da un vecchio stregone il quale mi spiegò che la sua gente
aveva abbandonato simili pratiche già da lungo tempo; invece, avevano bisogno di
altro sangue, quello della madre terra. Quando mi offersi di procurar loro una certa
quantità di ematite, mi risposero con garbo che prima dovevano vedere il materiale,
dal momento che solo l'ocra impiegata dai loro antenati era atta alla bisogna. Non
avevo altra scelta che recarmi alle antiche miniere dello Swaziland".
E continua:
"Nel giro di un mese tornai con un carico di ematite che fu gioiosamente accettata,
e così iniziarono i preparativi per una delle loro cerimonie più importanti. Essendo
stato iniziato alla scuola di quei tamburi, non mi è concesso descrivere il rituale nei
suoi dettagli. A grandi linee esso prevede il sacrificio di un bue al cui grasso viene
mischiata l'ocra macinata. Questo "sangue" è versato sui tamburi che vengono
percossi ininterrottamente dall'alba al tramonto, per tutta la durata della cerimonia.
Mi fu detto che tutto ciò avrebbe definitivamente placato gli spiriti, poiché essi non
avevano mai rifiutato una simile offerta di sangue. E qui devo sottolineare il fatto
che la stagione delle piogge 1965-1966, nel Transvaal settentrionale, fu una delle
più propizie degli ultimi decenni: l'acqua cadde dal cielo a fiumi" (Boshier, 1974).
34
Conferma etnografica dell'esistenza di rituali magici specifici per placare la
violenza degli eventi atmosferici (nella fattispecie le trombe marine) ci vengono
dagli studi su alcuni aspetti del folklore siciliano. In Sicilia esistevano dei rituali atti
a "spezzare" le trombe marine; tali eventi atmosferici sarebbero infatti stati
estremamente dannosi per l'economia dei pescatori siciliani, oltre che estremamente
pericolose per le barche da pesca.
"Un evento temuto dai marinai, quando si trovavano in mare aperto, - scrive
Losacco (1972) a proposito dei pescatori delle isole Eolie - era la comparsa di
qualche manica di cuda di rattu, cioè di una tromba marina che avrebbe potuto
rovesciare la barca e condurre tutti alla morte. Lo scongiuro ritenuto valido perché
la tromba si dissolvesse era: forza del Padre, sapienza del Figlio, virtù dello Spirito
Santo ti taglio manica che ti decanto. Era però grave peccato pronunciare queste
parole quando l'evento si verificava, a meno che non fosse presente un prete per
assolvere subito l'incauto; occorreva invece impararle a memoria la notte di Natale,
al momento dell'elevazione, o il Venerdì Santo, ma si potevano anche pronunziare
la sera dell'Epifania. L'arciduca Luigi Salvatore racconta che un prete non volle
concedere per molto tempo l'assoluzione al padre di uno dei suoi marinai che aveva
pronunciato lo scongiuro".
Non è chiaro quale fosse l'efficacia dello scongiuro (simili rituali esistono tuttora),
ma le tradizioni popolari assicurano che fosse davvero notevole.
Non c'è dubbio che la manifestazione più clamorosa e affascinante del potere
d'azione magico sia il "sortilegio", ovvero la capacità di modificare l'esistenza di
altri esseri umani, nel bene o nel male, per mezzo della magia. Su questo problema
esiste una mole estremamente esigua di letteratura e di ricerche. Per quello che
riguarda la Sicilia, ho personalmente condotto alcune ricerche che non intendo
esporre in questo scritto. Da tali ricerche è evidenziabile una certa "tipologia" del
sortilegio, che si esprime in tre categorie fondamentali:
a) Il "malocchio". Non si tratta in questo caso di un procedimento magico
rituale, bensì di un procedimento magico "spontaneo", nel senso che esso non
riguarda individui che esercitino la professione di mago, bensì la "capacità",
posseduta da alcune persone, di danneggiare un individuo semplicemente
"desiderando" di danneggiarlo. Sarebbe troppo lungo (ed esulerebbe dagli scopi di
questo scritto) descrivere le origini di questa credenza. Tradizionalmente si ritiene
35
che alcuni individui, per invidia, odio o altro, possano danneggiare le persone
invidiate o odiate col semplice atto volitivo. Non trattandosi di un procedimento
rituale, non si tratta di una espressione di potere magico d'azione. Non c'è dubbio
che, comunque, il potere d'azione si basi su premesse concettuali simili, anche se
tali premesse sono, in quei casi, ritualizzate. E' invece magica o rituale l'azione con
la quale i "maghi" riescono a "togliere il malocchio", cioè a riequilibrare la
situazione creata da questi "influssi" per mezzo dell'annullamento dell'influsso
stesso. E' facile dedurre che, a parte la fondamentale differenza rituale- non rituale
il principio magico che sta sotteso ad ambedue queste forme di "potere" è lo stesso.
Su questo problema esiste una vasta letteratura etnologica.
b) La "fattura". In questo caso si tratta di un vero e proprio rituale atto a
danneggiare ritualmente una persona, per mezzo di una azione magica che è
espressione del potere d'azione. L'origine di questa credenza si perde nella notte dei
tempi. Anche su questo argomento esiste una vasta letteratura etnologica. La fattura
è una pratica tradizionale di magia nera che sfruttando le capacità del mago di
modificare il mondo, danneggia altre persone. Delle leggi magiche precise (quelle
di magia simpatica e contagiosa, per esempio) costituiscono il substrato concettuale
di questa credenza.
c) Il "pignateddu". E' un'espressione siciliana che propabilmente trova
riscontro nelle tradizioni di altri paesi, anche se su questo argomento non ho
informazioni interculturali. Pignateddu è una parola siciliana che significa
"pentolino" ed indica il mezzo col quale viene perpetrata l'azione magica: in altri
termini si tratta dei filtri magici, realizzati facendo ingerire all'individuo da
"stregare" alcune pozioni trattate magicamente che possono ottenere vari effetti: dal
malessere alla morte, all'alterazione delle capacità mentali e all'assoggettamento
all'altrui volontà. E' un tipo di sortilegio molto noto e diffuso, una variante
"alimentare" della fattura.
d) La "jettatura". In questo caso il fenomeno non è tipicamente magico. La
jettatura è l'espressione di una capacità inconscia, inintenzionale, per la quale un
individuo che sia dotato di questo poco invidiabile potere danneggia
36
involontariamente le persone con cui viene a contatto. Abitualmente confusa col
malocchio, la jettatura se ne differenzia perché è del tutto non-intenzionale. Mentre
chi "getta il malocchio" lo fa intenzionalmente per danneggiare un'altra persona, lo
jettatore non ha alcuna intenzione di danneggiare altre persone, ma è la sua stessa
presenza a causare eventi negativi. Su questo fenomeno non esistono studi
antropologici particolarmente degni di nota, né studi parapsicologici, a parte un
capitolo di un libro di Rene Haynees (1970) e gli studi ormai classici, ma
aneddotici, di Tanagras. Esiste invece una vastissima letteratura psicologica e
psicoanalitica che spiega questi fenomeni come espressione di fattori psicodinamici
specifici in coloro che credono a queste capacità (vedi, per esempio, Servadio,
1961).
E' inoltre indiscutibile l'apparente evidenza aneddotica dei fenomeni di potere
d'azione relativi alle pratiche di magia nera. Una documentazione non raccolta con
criteri scientifici, ma certamente suggestiva per la sua spontaneità è possibile
trovarla, per esempio in Cassoli (1974), oltre che in ulteriore letteratura.
Sull’antropologia culturale delle pratiche magiche De Martino solleva un problema
importante.
"Appena lo studioso - scrive - si volge al mondo magico, nell'intento di penetrarne
il segreto, subito si imbatte in un problema pregiudiziale dal quale dipende in
sostanza l'orientamento e il destino della ricerca: il problema dei poteri magici.
Ordinariamente tale problema viene eluso con molta disinvoltura, in quanto si
assume come ovvio presupposto che le pretese magiche siano tutte reali e che le
pratiche magiche siano tutte destinate all'insuccesso: onde sembra addirittura ozioso
sottoporre a verifica il presupposto, e si ritiene assai più proficuo stabilire come la
magia possa sorgere e mantenersi ad onta della ovvia irrealtà delle sue pretese e ad
onta degli inevitabili insuccessi a cui sono sottoposte le sue pratiche. Eppure
proprio in questo presupposto "ovvio" non meritevole di verifica si cela in realtà un
intreccio di gravissimi problemi, tralasciati e occultati da una pigrizia mentale così
stranamente tenace da costituire per se stessa un problema" (De Martino, 1973).
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