Fabio Veglia e Gianmario Dell`Osbel

Transcript

Fabio Veglia e Gianmario Dell`Osbel
TIFLOLOGIA PER L’INTEGRAZIONE
Ottobre-Dicembre 2001 n. 4
STUDI E RICERCHE
Handicap e attaccamento
- Crescere un bambino cieco - Un’indagine con la
«Adult Attachment Interview» - Implicazioni
psicologiche dell’atteggiamento iperprotettivo delle
madri, riflessioni e suggerimenti per i genitori
naturali e adottivi Introduzione. Disabilità, reciprocità e sviluppo
La nascita di un bambino disabile rompe violentemente
gli equilibri preesistenti; impone problemi complessi,
per lo più sconosciuti ai suoi genitori; li costringe
ad una intensa medicalizzazione del loro tempo e delle
loro aspettative. Le madri con fanciulli portatori di
handicap incontrano, inoltre, seri ed oggettivi
ostacoli alla normale spontaneità ed immediatezza
dell’interazione con il loro bimbo: si pensi, per
esempio, alla progressiva diminuzione di reciprocità
mimica, nell’interazione fra una madre e il suo
figlioletto cieco, dovuta alla graduale perdita della
competenza espressiva innata e alle difficoltà di
interiorizzare una adeguata prossemica da parte di chi
nasce con grave disabilità visiva (Galati D.,
Dell’Osbel G., Ricci Bitti P.E. 1995) o all’assenza o
inadeguatezza delle risposte verbali e paraverbali
emesse dai bambini affetti da sordità, o alla ancor più
pesante inibizione espressiva di chi è affetto da
plurihandicap.
In tutte le situazioni caratterizzate da un
significativo deficit funzionale dell’apparato
sensoriale e percettivo e/o da distorsioni nel processo
di elaborazione dello stimolo prossimale a causa di
danni al sistema nervoso centrale, sono infatti
seriamente compromesse le stesse capacità prerequisite
per sviluppare un coerente dialogo emozionale con la
figura di accudimento. Gli stimoli percepiti sono
infatti frammentari, instabili, incoerenti, scarsamente
integrati a livello intermodale; l’attribuzione di
significato agli stimoli provenienti dall’ambiente,
troppo discontinui, fragili e precari. Risulta quindi
molto più difficile, più lenta e comunque meno ricca.
L’intervento prioritario in presenza di grave deficit
sensoriale è quindi quello di ottimizzare la capacità
di scambiare informazioni con il mondo, ma l’incremento
delle competenze percettive e di integrazione degli
stimoli somatosensoriali, richiede in parallelo un
approccio rassicurante e caloroso che permetta al
bambino di evolvere secondo i suoi ritmi (Frolich A.
1987). In queste situazioni i comportamenti genitoriali
possono a volte assumere caratteristiche
iperinterventiste con aspettative che vanno oltre la
competenza dei bimbi con handicap o, al contrario,
abbandoniche e di privazione con implicazioni ancora
più preoccupanti sul piano dello sviluppo generale del
bambino disabile.
Nell’area degli interventi precoci, alcuni studi
hanno valutato in che modo la presenza di handicap nel
neonato possa influenzare l’interazione della diade
madre-bambino. In alcuni casi sono state studiate e
confrontate le modalità interattive delle diadi madrebambino caratterizzate dalla presenza di un bambino con
handicap, con le modalità interattive di coppie con
bambini che non presentavano disabilità (Dunst 1985,
Marfo 1984; Marfo 1992; Rogers 1988). Da questi studi è
emerso che, in generale, i bambini che presentano
disabilità hanno minori capacità espressive, sono in
genere meno attivi e meno responsivi rispetto ai
bambini che non presentano disabilità e che le loro
madri sono più direttive, più intrusive. Alcuni dei
citati studi suggeriscono inoltre che tali modalità
interattive materne possano avere un impatto negativo
sullo sviluppo del bambino in quanto tenderebbero a
limitare o a sopprimere le necessità esplorative dei
minori. Altri autori sostengono invece che il
comportamento [pag. 33] direttivo delle madri potrebbe
essere una risposta appropriata che si adatta al
livello di sviluppo del bambino disabile (Marfo 1982;
Marfo & Kysela 1988).
Da quanto detto pare dunque che alla nascita di un
bimbo disabile i problemi derivanti dalla scarsa o
nulla informazione sul «come affrontare la situazione»,
e dalle difficoltà di comunicazione, sembrano essere
frequentemente associati anche a modalità relazionali
disadattative; modalità che sono potenzialmente
responsabili di un ulteriore aggravamento della qualità
della vita futura del bimbo con handicap.
Implicazioni evolutive della cecità congenita
Sotto il profilo evolutivo la vista è la primaria
modalità sensoriale per la conoscenza del mondo e per
l’interazione con gli altri. Il contatto visivo con la
madre rappresenta una delle prime modalità di scambio
affettivo con lei e costituisce la base per lo sviluppo
di altre importanti interazioni (Fraiberg 1977). Lo
studio di alcuni casi porterebbe alla conclusione che
le madri di bambini non vedenti hanno difficoltà ad
interpretare i segnali non verbali dei loro bambini con
implicazioni negative sulla continuazione
dell’interazione (Fraiberg 1977). Altri studi (Kekelis
e Andersen 1984) hanno concluso che il comportamento
maggiormente direttivo delle madri dei bambini ciechi
poteva essere considerato utile ed adattativo, tenuto
conto dei bisogni specifici dei bambini ciechi;
frequentemente il loro comportamento era di
incoraggiamento alla locomozione o un tentativo di
interpretare il comportamento autostimolatorio del loro
bambino. I risultati delle osservazioni di Inamura
(1965) confermerebbero l’idea che le madri dei bambini
disabili visivi avviano una quantità maggiore di
interazioni e mostrano una maggior dominanza sulle
attività dei loro bambini rispetto alle madri con
bambini normovedenti. Una recente ricerca (Behl, Akers,
Boyce, Taylor 1996) ha messo in evidenza come le madri
dei bambini con minorazione visiva sono fisicamente più
coinvolte con i loro piccoli, impiegano una maggior
quantità di strategie di controllo ed interagiscono
verbalmente in maniera maggiore rispetto alle madri con
bambini normovedenti. Questo risultato conferma quanto
già trovato da Kekelis e Andersen (1984) secondo i
quali l’interazione della madre potrebbe essere
strutturata per incoraggiare i bambini con problemi di
vista ad assumere ruoli più attivi, incoraggiandoli nel
muoversi o interrompendone i comportamenti
autostimolatori. Le conclusioni tuttavia non sono
unanimi e ulteriori ricerche sono necessarie al fine di
poter acquisire una maggior conoscenza delle
conseguenze dell’impatto della minorazione visiva sul
comportamento interattivo con la madre. Ciò potrà
essere utile per lo sviluppo di eventuali programmi
precoci di intervento e per offrire opportuni strumenti
pedagogici ai genitori naturali e a coloro che
intendono adottare bambini disabili, nonché agli
educatori che hanno in carico bimbi non vedenti.
Riflessioni in margine ad una ricerca presentata al IX
congresso S.I.T.C.C. di Torino
Occorre dunque poter discriminare tra le due ipotesi
suggerite dalla letteratura specialistica che ha
rilevato un’alta frequenza di comportamenti direttivi
ed intrusivi agiti dalle figure di attaccamento nei
confronti dei propri bimbi ciechi. Come accennato,
alcuni autori sostengono che questa modalità
interattiva della madre può avere effetti negativi
sullo sviluppo del bambino (1ª ipotesi), mentre altri
affermano che questa modalità può essere considerata
adattativa e funzionale (2ª ipotesi). Inoltre le
ricerche sull’attaccamento nelle diadi normovedenti,
hanno da tempo messo in evidenza che i comportamenti
materni altamente intrusivi e controllanti,
contribuiscono col tempo a connotare la relazione
d’attaccamento come «evitante»: in altre parole, in
presenza cioè di una figura di attaccamento fortemente
intrusiva e direttiva, il bambino tende a evitare di
emettere segnali di richiamo, tende a smorzare la
propria emotività, al fine di ridurre la frequenza
delle intrusioni che limitano la sua possibilità di
esplorare e conoscere l’ambiente.
[pag. 34] Ipotesi della ricerca
La presenza in alcuni casi di incertezze circa le
modalità interattive in diadi madre-bambino disabile e
di ipotesi opposte circa le implicazioni evolutive dei
comportamenti intrusivi delle madri nei confronti dei
bimbi ciechi richiede quindi, ai fini di una corretta
informazione pedagogica, un ulteriore approfondimento
al fine di:
a) esplorare il grado di coinvolgimento dei genitori
(madre e padre) nella relazione con il bambino con
disabilità visiva;
b) verificare l’eventuale maggior coinvolgimento
(iperprotezione) delle madri dei bambini ciechi
rispetto alle madri dei bimbi normovedenti;
c) verificare se l’atteggiamento intrusivo comporti
necessariamente un’evoluzione psicologica futura del
bambino stesso verso strutture di personalità più
fragili, dipendenti ed esposte.
Metodologia
Al fine di ottenere informazioni riferite agli
obiettivi individuati è stato utilizzato uno strumento
d’indagine noto come «Adult Attachment Interview»
(A.A.I.). Lo strumento trova le sue radici nella teoria
dell’attaccamento (Bowlby 1958, 1989, 1989) ed è stato
elaborato da ricercatori che ad essa fanno riferimento
(M. Main, et alii 1985). Come è noto la teoria
dell’attaccamento è una teoria relativamente nuova
sviluppata dallo psicoanalista inglese J. Bowlby, nel
corso di osservazioni mirate a conoscere la natura
delle condizioni psicologiche e dei comportamenti
disturbati dei bambini separati dalla famiglia e dei
bambini che avevano subito perdite traumatiche. Essa
riceve il contributo di altre scienze quali l’etologia,
la teoria evoluzionistica, la teoria dei sistemi di
controllo e la psicologia cognitiva e sostiene che la
sopravvivenza dell’essere umano è strettamente connessa
alla possibilità di mantenere la prossimità, la
disponibilità della figura di attaccamento, alla quale
potersi rivolgere per chiedere protezione e sostegno in
situazioni vissute come pericolose.
L’«Adult Attachment Interview» è una intervista
semistrutturata della durata di circa un’ora, mirata ad
ottenere informazioni sulla qualità delle relazioni di
attaccamento infantili dell’adulto intervistato e sul
punto di vista dell’adulto su quelle esperienze stesse.
Sono quindi domande volte a ricostruire le esperienze
di attaccamento avute nell’infanzia (il grado di
sensibilità, la qualità del supporto, se vi sono stati
maltrattamenti, lutti, e così via). L’intervista viene
trascritta integralmente annotando pause, incertezze,
emozioni. Dal contenuto e dallo stile narrativo si
ricavano informazioni sullo «stato mentale»
dell’intervistato rispetto al tema dell’attaccamento.
Per esempio i soggetti che descrivono i propri genitori
come figure protettive e di conforto o che, pur avendo
corso pericoli sono state in grado di arrivare ad una
chiarezza mentale ed emozionale riguardo a tali
esperienze, vengono classificati come equilibrati,
liberi, autonomi (in sigla «F»-free); la caratteristica
mentale primaria dei soggetti equilibrati è la capacità
di integrare affettività e cognitività.
Quando il racconto descrive figure di attaccamento
che non hanno fornito protezione o conforto ai bambini
o che sono state pesantemente intrusive e non vi è
stata elaborazione di tali esperienze, lo stato mentale
dell’intervistato viene classificato come
«distanziante» («Ds» da dismissing of attachment). Le
caratteristiche principali dei soggetti distanzianti
sono il distanziamento del Sé dagli stati affettivi
negativi e l’accantonamento delle conclusioni negative
sulle figure di attaccamento. Tendono a minimizzare o a
svalutare esplicitamente il ruolo che le figure di
attaccamento hanno avuto per loro. Quando le figure di
attaccamento [pag. 35] vengono rievocate come
irregolarmente disponibili lo stato mentale dell’adulto
intervistato viene classificato come preoccupato,
invischiato «E» («E» preoccupied/entangled); i processi
mentali fondamentali dei soggetti sono l’uso
dell’affettività distorta come guida per il
comportamento, il coinvolgimento di altre persone nella
regolazione dei loro stati affettivi; i soggetti
preoccupati mantengono nell’attualità una
concentrazione invischiante sul passato.
Infine quando i ricordi e la forma del racconto
evidenziano una relazione di attaccamento
caratterizzata da traumi irrisolti (gravi
trascuratezze, violenze, abusi) lo stato mentale
rispetto all’attaccamento viene definito come irrisolto
«U» («U» da unresolved): si tratta di individui
preoccupati in modo spaventato da eventi traumatici
nell’infanzia, che non hanno risolto un trauma
(perdita, abuso fisico o sessuale). Questo stato viene
identificato nell’intervista attraverso segnali di
disorganizzazione e disorientamento cognitivi
(Lambruschi, in Veglia a cura di, 1999).
Occorre qui ricordare che diversi studi sostengono
l’ipotesi sulla continuità intergenerazionale della
qualità dell’attaccamento in mancanza di significative
esperienze correttive.
La ricerca
La ricerca è stata effettuata nel corso del 1998 ed i
risultati provvisori sono stati presentati a Torino al
IX congresso nazionale della S.I.T.C.C. (Izard,
Dell’Osbel, Adenzato, Veglia, 1999); i medesimi autori
hanno continuato la ricerca ed i risultati verranno
presentati in una prossima pubblicazione. L’obiettivo è
stato perseguito somministrando a 15 soggetti adulti
ciechi congeniti (sei maschi e nove femmine) con
genitori normovedenti, l’Adult Attachment interview.
[pag. 36] Il ruolo della dimensione affettiva in
relazione a quella iperprotettiva
A titolo esemplificativo si riportano alcune
dichiarazioni di due soggetti ciechi intervistati; il
primo inquadrato come Ds ed il secondo come FREE.
Soggetto 3 (Ds): «(mia mamma)... era assente
fisicamente, cioè quando c’era non lo era comunque più
di tanto, insomma giusto per le cose magari pratiche,
proprio materiali da mamma, ma più di tanto non me lo
ricordo... poi era apprensiva nel senso che se facevo
delle cose, magari si preoccupava, l’ho sempre vista
molto preoccupata anche le volte che mi è capitato di
star male, allora lei però era apprensiva, non sapeva
più tanto cosa fare...»
Soggetto 11 (F): «(lei)... era protettiva perché in
ogni caso cercava di tenerti in guardia da eventuali
pericoli, anche se poi era contenta che uscissi con gli
altri e facessi più o meno i giochi comuni che potevano
fare gli altri, chiaro, non tutti, però la maggior
parte...»
I risultati ottenuti riassunti sinteticamente nella
tabella (fig. 1, non riprodotta in Braille) ci
consentono un orientamento rispetto ai tre quesiti
proposti:
a) esplorare il grado di coinvolgimento dei genitori
nella relazione con il bambino non vedente.
I dati testimoniano un maggior grado di
coinvolgimento della madre rispetto al padre, che anzi
appare scarsamente presente nei racconti degli
intervistati.
b) verificare l’eventuale maggior coinvolgimento
(iperprotezione) delle madri dei bambini ciechi
rispetto alle madri dei bimbi normovedenti.
A tal proposito sembrerebbero confermati i dati in
letteratura circa un generale atteggiamento di
intrusività da parte delle madri dei bambini con
disabilità visiva. I risultati alla «involving scale»
evidenziano che il 73% delle madri del campione
esaminato esprime atteggiamenti definibili come
iperprotettivi.
c) verificare se l’atteggiamento intrusivo comporti
necessariamente un’evoluzione psicologica futura del
bambino stesso verso strutture di personalità più
fragili, dipendenti ed esposte.
I risultati relativi alla classificazione dello stato
mentale espresso dai ciechi rispetto al tema
dell’attaccamento sono stati confrontati con quelli
della letteratura su soggetti vedenti. Nonostante la
percentuale di comportamenti iperprotettivi da parte
delle madri sia elevata (73%), la percentuale di
soggetti con stato mentale libero-autonomo (53%) è
simile a quella della popolazione vedente. La
stragrande maggioranza dei soggetti ciechi del campione
esaminato, risulta essere FREE (libera, equilibrata,
autonoma) rispetto al tema dell’attaccamento. Questo
dato sembra essere strettamente dipendente dalla
contemporanea presenza di esperienze di amabilità e di
iperprotezione; al contrario la presenza di sole
esperienze iperprotettive disgiunte da una buona
affettività sembra implicare l’emergere di uno stato
mentale distanziante.
Quindi, riassumendo, queste interviste hanno
confermato i dati presenti in letteratura evidenziando
alla involving scale un elevato grado di intrusività
delle madri vedenti dei soggetti ciechi, ma hanno
altresì evidenziato uno stato mentale equilibrato e
autonomo (FREE) delle persone adulte non vedenti
intervistate, disconfermando, almeno come tendenza,
l’ipotesi che l’atteggiamento direttivo ed
iperprotettivo determini necessariamente la costruzione
di personalità disturbate. La condizione necessaria
perché ciò comunque non rischi di verificarsi, che
sembra essere fortemente associata, è la presenza di
una esplicita e positiva affettività materna (degli 8
soggetti FREE ben 6, il 75%, vedono la compresenza di
intrusività e amore).
[pag. 37] Commento ed implicazioni educative
Il passo successivo della ricerca richiederà, per la
validazione statistica dell’orientamento che è emerso,
un ampliamento del campione; ma questa prima fase
sembra già poter falsificare l’impostazione prevalente
in letteratura secondo la quale il comportamento
iperprotettivo delle madri dei bambini ciechi debba
necessariamente avere una valenza disturbante per lo
sviluppo dei loro figli. Il dato risulta interessante
perché sembrerebbe indicare che il comportamento
intrusivo e direttivo delle madri dei soggetti ciechi
viene esperito da questi ultimi come incoraggiante e
funzionale quando associato ad un punteggio elevato
nella loving scale (scala dell’amabilità) e quindi
accompagnato da un atteggiamento affettuoso, amorevole
e supportivo.
Anche se occorrono certamente ulteriori dati per
ritenere statisticamente significativo il risultato,
quanto emerge dal pur ristretto campione mette infatti
in dubbio l’assunto secondo il quale la presenza di
comportamenti materni iperprotettivi sia sempre ed
inequivocabilmente responsabile di future personalità
fragili. Sembrerebbe, al contrario, che in caso di
gravissimo handicap visivo congenito una madre
fisicamente molto presente e fortemente orientante
l’esplorazione del bambino sia, se associata ad
atteggiamento amorevole, una variabile significativa
per la graduale costruzione di personalità
tendenzialmente sicure ed equilibrate (FREE).
Una possibile spiegazione dei risultati riscontrati
può essere riconducibile alle seguenti considerazioni
relative alle implicazioni psicologiche della cecità
congenita. È ragionevole pensare che l’assenza della
capacità visiva, modalità elettiva per la costruzione
dello spazio (Hatwell 1967), inibisca pesantemente il
comportamento esplorativo del bambino non vedente,
determinando talvolta, in presenza di ripetute
esperienze spiacevoli, il blocco stesso
dell’esplorazione. In simili situazioni una madre
sensibile (sensibile ai bisogni del bimbo) si fa carico
sia dei suoi bisogni di esplorare il mondo sia dei suoi
bisogni di proteggersi da un mondo di cui non ha il
controllo. La presenza della madre consente quindi al
bambino cieco di effettuare esperienze guidate e
protette del mondo e della sua complessità, esperienze
che difficilmente chi non vede potrebbe autonomamente
effettuare senza mettere a repentaglio la propria
sopravvivenza. Paradossalmente quello che per un
bambino vedente potrebbe essere una limitazione della
libertà esplorativa (la pressante presenza orientante
della madre) può essere considerata, nel caso dei
bambini con grave disabilità visiva congenita, come una
utile e forse essenziale opportunità di conoscenza che
consente via via l’interiorizzazione rappresentativa
dello spazio, del mondo, della sua struttura (la
formazione di schemi percettivi e cognitivi). Questa
interiorizzazione a sua volta consentirà, col passare
del tempo, di avere un maggior controllo di quel mondo
stesso, una maggior autonomia di movimento, un miglior
senso di autoefficacia ed una migliore autostima. In
conclusione: la luce porta il mondo nella mente del
bambino vedente, chi non vede deve essere invece
guidato direttamente (fisicamente e a volte
coercitivamente) in questo stesso modo. Questa guida
dovrà a volte dirigere, scoraggiare o incoraggiare
l’esplorazione favorendo i comportamenti adattativi e
impedendo comportamenti pericolosi con modalità che in
quanto ad intensità e qualità, se paragonate con quelle
utilizzate con i bambini normovedenti, potrebbero
essere anche considerate «intrusive»; l’atteggiamento
affettuoso ed amorevole contribuirà a stemperare
l’eventuale vissuto di rabbia e depressione ed a
consolidare la relazione di fiducia.
G. Dell’Osbel
(Psicoterapeuta, responsabile dell’Unità di Psicologia
dell’Handicap del Centro Clinico Crocetta di Torino)
F. Veglia
(Psicoterapeuta, Direttore del Centro Clinico Crocetta
di Torino, docente di «Psicologia e Psicopatologia del
Comportamento Sessuale» presso la Facoltà di Psicologia
dell’Università di Torino)
[pag. 38] Bibliografia
1) Behl D.D. et al., Do mothers interact differently
with children who are visually impaired?, J.V.I.B., pp.
501-511, 1996.
2) Bowlby J. (1958): The nature of the child’s tie to
his mother, International Journal of Psycho-Analysis,
39, pp. 350-373.
3) Bowlby J. (1989): Una base sicura, Raffaello
Cortina Editore, Milano.
4) Bowlby J. (1989): Attaccamento e perdita,
Boringhieri, Torino.
5) Dell’Osbel G. (1992): La condizione dei non
vedenti: aspetti medico-epidemiologici e socioassistenziali, in (a cura di Galati D.) Vedere con la
mente, Franco Angeli, Milano.
6) Dunst C.J. (1985): Communicative competence and
deficits: Effects on early social interaction. In E.
McDonald and D. Galangher (Ed.). Faciliting socialemotional development in the young multiply handicapped
child. Philadelphia: HMS Press.
7) Fraiberg S. (1977): Insight from the blind, New
York, Basic Books.
8) Frolich A. La stimulation basale. Aspects
pratiques, ed Istitution de Lavigny, 1987, Lavigny.
9) Hatwell Y. (1986): Toucher l’Espace, Presses
Universitaires de Lille, Lille.
10) Galati D., Dell’Osbel G., Ricci Bitti P.E.
(1995): L’espressione delle emozioni in soggetti ciechi
dalla nascita, Giornale Italiano di Psicologia, n. 3,
pag. 417-437.
11) Immamura S. (1965): Mother and blind child: The
influence of child-rearing practices on the behavior of
preschool blind children. New York: American Foundation
for the Blind.
12) Izard E., Dell’Osbel G., Adenzato, Veglia F.
(1998): Iperprotezione, esplorazione e stile di
attaccamento in un gruppo di ciechi congeniti, IX
congresso nazionale SITCC, programma e abstracts,
Bollati Boringhieri.
13) Kekelis F. & Andersen E.S. (1984): Family
communication styles and language development,
J.V.I.B., 78, 54-75.
14) Lambruschi F. (1999): La Adult Attachment
Interview, in Storie di Vita (a cura di Veglia F.),
Bollati Boringhieri, Torino.
15) Main M., Goldwin R., Adult attachment
classification sistem. In M. Main (a cura di), A
Typology of human attachment organization: Assessed in
discourse, drawing, and interviews. Cambridge:
Cambridge University Press.
16) Marfo K. & Kysela G.M., (1988): Frequency and
sequential patterns in mother’s interactions with
mentally handicapped and nonhandicapped children, in K.
Marfo (Ed.), Parent-child interaction and developmental
disabilities, (pp. 64-89), New York: Praeger.
17) Marfo K. (1984): Interaction between mothers and
their mentally retarded children: Integration of
research finding, Journal of Applied developmental
Psychology, 5, 45-69.
18) Marfo K. (1992): Correlates of maternal
directiveness with children who are developmentally
delayed, American Journal of Orthopsychiatry, 62, 219133.
19) Rogers S.J. (1988): Characteristics of social
interaction between mothers and their disabled infants:
A review. Child: Care, Health and Development, 14, 301317.
20) Veglia F. (1999): Storie di Vita, Bollati
Boringhieri, Torino.