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NELLA FEDE LA NOSTRA SALVEZZA
«Alzati
e va'; la tua fede ti ha salvato!»; sono queste le parole che Gesù rivolge
all'unico dei dieci lebbrosi che, mentre attraversavano a il territorio tra la Galilea e la
Samaria, gridavano a lui per esser guariti; e lo furono, mentre andavano a
presentarsi ai sacerdoti, ma uno solo tornò indietro verso chi lo aveva liberato da
quella che non solo era una malattia ma era anche una condanna sociale e morale.
Oggi la chiamiamo lebbra, col nome dato dal medico Gerard Hansen che, solo nel
1871, ne scoprì la causa; ma per un lunghissimo tempo quella parola "lebbra"
suonava come una terribile condanna; infatti era uno spettro orribile, che non solo
logorava le membra e deturpava volti e corpi ma, a causa del contagio, esigeva si
rispettassero delle norme di isolamento molto severe, norme che finivano per
allontanare completamente da qualunque nucleo sociale chi ne fosse portatore;
basti, a questo proposito, rileggere i capitoli 13 e 14 del Levitico per avere un'idea di
come fosse costretto a vivere un lebbroso. A questo, dobbiamo poi aggiungere che,
per la sua gravità e la devastazione che procurava, questa malattia divenne presto
simbolo del male, segno di delitti e peccati che Dio inesorabilmente punisce; segno
di impurità morale, a causa della quale la persona non poteva più aver contatti con
gli altri. La lebbra non faceva sconti perché, anche se colpiva in prevalenza i poveri,
neppure i ricchi e i potenti ne erano al riparo; e oggi la Scrittura ci parla di Naaman,
un generale siro, colpito anch'egli dalla lebbra, dalla quale cerca disperatamente di
guarire; la sua ricerca diventa, in realtà, cammino verso la luce, un percorso faticoso
e umiliante, ma che approda, infine, alla conversione, alla fede entusiasta nel vero
Dio. Dunque, il valoroso comandante del re di Aram, fu colpito dalla lebbra; e fu una
giovane israelita, rapita alla sua gente durante una razzia ed entrata al servizio della
moglie di Naaman, a suggerire all'ufficiale del re di recarsi in Samaria per consultare
il profeta Eliseo, sicura che l'uomo di Dio lo avrebbe liberato da quel terribile male.
Non fu facile per Naaman seguire il consiglio della fanciulla ebrea, piegarsi alle
parole di una serva; tanto meno, una volta incontrato il profeta, fu semplice accettare
l'ordine da lui dato attraverso un servo di immergersi sette volte nel fiume Giordano,
un piccolo corso d'acqua, che niente aveva a che fare con i meravigliosi fiumi di
Damasco; tuttavia, superando la diffidenza e l'umiliazione, l'ufficiale siro "scese e si
immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Eliseo e il suo corpo ridivenne
come il corpo di un ragazzo; egli era purificato dalla sua lebbra...". Naaman era
guarito nel corpo ma, quel che più conta, i suoi occhi si erano aperti alla visione della
verità perché aveva incontrato il Dio che salva. Ripresentandosi al profeta disse:
"Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele...»; e ad Eliseo che
rifiutava una ricompensa replicò: «Sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui
tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende
compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore»; ed ecco
che, nelle parole di questo straniero, risuona un'altissima professione di fede. Quelle
di Naaman, infatti, sono parole che si fanno annuncio di verità, la cui eco ancora
dura. Di un'altra conversione, attraverso il duro percorso della sofferenza, ci parla
anche il Vangelo nel racconto della guarigione dei dieci lebbrosi, icona del dolore,
dell'ingiustizia, dell'emarginazione. In quel tempo i lebbrosi erano persone ormai
prive di dignità e anche di identità, per quella loro condizione di emarginati, e non
solo per ragioni di igiene e di prudenza; quel simbolo del peccato che era la lebbra li
qualificava, infatti, come esseri moralmente impuri, uomini o donne puniti da Dio e
perciò da tenere lontani. Sarà Cristo a smontare questa mentalità falsa, sia nei
confronti di Dio, il Dio che salva, come nei riguardi della malattia: non un castigo, ma
un evento che, per quanto terribile e doloroso, è inevitabilmente legato alla fragilità
creaturale e può diventare via di salvezza per chi ha fede in Dio, per chi, nel suo
travagliato cammino, incontra il Cristo che libera e salva. Dunque, Gesù, in cammino
verso Gerusalemme, entrando in un villaggio del territorio tra la Samaria e la Galilea,
vede venirgli incontro un gruppetto di uomini che grida da lontano: «Gesù, maestro,
abbi pietà di noi!»; essi sanno di non potersi avvicinare ma sanno anche che quel
rabbi opera prodigi e risana i malati; e Gesù accoglie il loro grido; infatti il Figlio di Dio
è il segno visibile della misericordia del Padre che strappa l'uomo dalla sofferenza,
sia essa fisica o morale, che consola e risolleva dall'umiliazione e infrange i
pregiudizi degli uomini, per ridare, a chi soffre, serenità, gioia, e una vita degna di
esser vissuta. Il testo continua: "Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a
presentarvi ai sacerdoti; e, mentre essi andavano, furono purificati."; nessun gesto,
solo poche parole e i dieci sono risanati, restituiti alla loro vita di sempre, liberati da
quella malattia che decompone il corpo ancora in vita, liberati dall'emarginazione,
liberati dal pregiudizio dell'impurità morale che faceva di loro dei condannati dalla
giustizia divina. I lebbrosi di cui Luca ci parla sono dieci, forse un numero simbolico,
o forse un numero reale; ma di questi dieci uno solo è toccato profondamente dal
dono di Cristo: si sente guarito, sperimenta una gioia nuova, una vitalità nuova, e
torna indietro, questa volta per rendere grazie a colui che ha accolto il suo grido e lo
ha risanato; anche questa volta è uno straniero: un Samaritano. Il passo del Vangelo
così conclude: "Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove
dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio,
all'infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!»."
Gesù non parla di salute fisica, rivolgendosi a questo samaritano tornato da lui, ma
parla di salvezza, quella salvezza che viene dalla fede; infatti il samaritano non torna
indietro a ringraziare il guaritore, ma a render grazie a Dio che, nel Cristo, lo ha
salvato nel corpo e nello spirito: "tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò
davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo." Il samaritano, risanato nel corpo e
totalmente liberato e rinnovato nello spirito, ha sperimentato la salvezza per opera
del Cristo; ha raggiunto la fede, quella fede che non conosce barriere, infatti nessun
uomo è straniero agli occhi di Dio perché ogni uomo è un figlio che ha in sè
l'immagine del Padre, che niente può distruggere e che Gesù ha riportato, col suo
sacrificio e la sua parola, allo splendore originario. La liturgia della Parola di questa
domenica ci offre un richiamo forte, non solo ad occuparci di chi soffre, ma a riflettere
sul dono grande della fede, da accogliere con cuore umile e generoso, da coltivare
con assiduità e passione per crescere nella conoscenza e nell'amore di Dio e così
saper amare concretamente gli uomini, soprattutto coloro che soffrono e si sentono
stranieri perché poveri ed emarginati. .