Ernesto Nathan commemora Garibaldi

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Ernesto Nathan commemora Garibaldi
Frapolli, Fabrizi, Bertani, Crispi, Saffi, Ceneri, Damiani, Sani,
Campanella, Zanardelli, Menotti buono, valoroso, diletto, Bovio,
Carducci ed altri ed altri: una lunga schiera di pensatori, cooperatori,
cantori ispirati: fratelli tutti, figure luminose sullo sfondo scuro delle
patrie lotte, dei patrii dolori, non sono più; il fido amico, consigliere e
soccorritore, colui che da Livorno a Firenze l’accompagnò nel 1867,
prima di varcare la frontîera per affrontare i « chassepots » di
Napoleone III, Adriano Lemmi, duce e riorganizzatore della Massoneria
per molti anni, li ha raggiunti. Evocando la loro memoria,
comprenderete per quale via, seminata di tombe, sono giunto qui oggi a
parlarvi di Giuseppe Garibaldi.
E perché appartarsi, indire commemorazione massonica in occasione
del centenario, quando tutta Italia, china dinanzi a Lui, commemora?
Appartarsi la Massoneria Italiana! Essa, nella Patria credente, nella sua
missione framezzo alle genti; essa sollecita di ogni sua degna memoria,
di ogni sua degna aspirazione! Appartarsi essa, intesa del suo alto
ufficio patriottico educative! Giammai! Altri si, essa no. Vollero
imprigionare la grande radiosa figura, circondarla da un lato di
parlamentari riserve, dall’altro cingerla di popolari monopoli; la
Massoneria, allora, insofferente di ogni indebita appropriazione, di ogni
tentativo di manomettere la sacra eredità nazionale; essa tramite e pegno
di fratellanza fra i popoli, del pensiero nazionale interprete, volle, al
cospetto del mondo civile, commemorando il suo Grande Maestro,
sottrarre la figura dell’Eroe dei due Mondi da ogni incameramento negli
angusti confini di persone, di partiti o di scuole.
Ecco perché in nome della Massoneria, vi parlo oggi, del suo Capo
augusto, del suo Gran Maestro. Grande davvero; Maestro davvero di
massonica fede. Egli più d’ogni altro commenta, illustra, traduce in
azione il verbo Massonico; porta sulla punta della fiammeggiante spada,
al di quà e al di là dell’Oceano, il glorioso nostro trinomio:
Uguaglianza, Fratellanza, Libertà.
Debbo dirvi oggi, cent’anni da quando in Lui fu benedetta la buona,
la santa madre sua, il come? Riassumere in pedestre prosa, in brevissimi
tratti la gloriosa epopea? Osservate allora come fin da principio,
irresistibile si affermi la vocazione; come l’Eroe, quasi il mitico Ercole,
dalla culla alla tomba, impersoni la libertà e la fratellanza nelle sue
eroiche fatiche. Racconta Lui non io: riassumo.
Il padre, piccolo armatore ed uomo di mare, di quei forti liguri
cullati sulle onde, lo vuole, il caro figliuolo, come tutti i padri amorosi,
più di lui istruito, non vittima delle proprie deficienze; ed una serie di
precettori, abati e laici, si danno successivamente mano a pettinare la
criniera del leoncino. Il padre amava teneramente, la madre adorava, le
lezioni, no. Fin d’allora la vita d’avventura esercita su di lui attrazione
irresistibile. E seduce, colla parola e coll’esempio alcuni dei suoi
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giovani compagni a correre la ventura. S’impossessano di una barca, vi
caricano poche provviste, gli attrezzi di pesca... e via! Sciolgono la vela,
in balia del vento, alla ricerca della fortuna! Per caso un di quei ostici
abati avverte i parenti; mandano tosto alla ricerca una barca veloce, che
raggiunge i profughi in alto mare e li riconduce, scornati e delusi, alcuni
non del tutto scontenti, a casa.
Valse l’avvertimento per accorciare il periodo degli studi. Il padre
affidò il figlio ad un amico, capitano di una barca sanremese; e, nella
irrequietezza delle onde, nell’infrenato impeto dei venti spinti dal
turbinare d’ignoto desio, sotto la volta sconfinata, al cospetto di cielo e
mare, congiunti nell’armonia dell’infinito, crebbe, temprandosi ed
allargandosi, la vocazione sortita da natura.
Ma prima, sempre nel periodo degli studi, lo scolaretto trova modo,
di tempo in tempo, di liberarsi dal giogo degli abati, e di andare a caccia
con un cugino. Un giorno, vagando per la campagna vicino al Varo,
arrivano ad un largo e profonde fosso ove macerano la canapa; là,
intenta a lavare i panni, era una povera donna. Non si sa come, perde
l’equilibrio e precipita nell’acqua: stava per annegare in quella buca dai
lati quasi verticali. Non è il cugino che muove alla riscossa; è il piccolo
Giuseppe. Salta nell’acqua, afferra e trascina a riva la lavandaia, con
quale grave pericolo della vita, ognuno può figurare. Come esordio,
prova di valore civile, fondamento e presidio di valore militare, è
promettente!
Ne basta. Più tardi, marino provetto, approda a Marsiglia, secondo
in comando. Vestiva abiti di gala, per scendere a terra; sente ad un tratto
in alto, intorno, rumoreggiare il vocio della folla; sale a vederne la
ragione. Trova la gente assembrata sul molo; un uomo era caduto in
mare: si tempesta, si grida, si gesticola, nessuno si muove. Giuseppe
Garibaldi si getta a capofitto, a gran detrimento di quel vestiario festivo;
trascina a riva il pericolante francese, fra gli applausi della folla.
In quei momenti, eravamo nel 1834, e prima, volse l’opera alla
propaganda attiva per il patrio riscatto; s’unì alla Giovine Italia; fin
d’allora ebbe probabilmente principio la sua vita massonica: e n’ebbe,
come altri, il dovuto guiderdone. Lesse in breve su di un giornale di
Marsiglia il proprio nome: era la sua condanna a morte per alto
tradimento: era la proscrizione. L’epopea, la spada che si sguaina in
difesa della libertà, per non rinfoderarsi più, d’allora ha principio;
principio nel Nuovo Mondo.
Fugge; giunge a Rio Janiero, vi trova Rossetti, si riconoscono
fratelli; ne lungamente esita: le sue simpatie sono con gli oppressi. Offre
il poderoso braccio alla Repubblica del Rio Grande, ribelle alla tirannia
della Confederazione Argentina sotto la dittatura di Rosas; pugna sulle
rive del Plata; là rimane a pugnare, sfidando l’avversa fortuna, la
soverchiante forza nemica, con coraggio, abilità ed audacia mirabili,
sino a quando l’eco del risveglio patriottico del 1848 non lo richiama in
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patria, febbricitante d’azione sognata nel lungo esilio.
Intorno a quei tempi di balda gioventù, quando le difficoltà si
affrontano, magari si creano per vincerle e dar sfogo al pieno della vita
che impetuosa pulsa, due soli episodi fra tanti; fra tante una sola
memoria.
Egli coi suoi è in riva di uno degli affluenti del Plata, intenti a
rattoppare dei lancioni; era quella la flotta ch’egli comandava per
molestare il nemico in acqua ed in terra. Della forza effettiva ai suoi
ordini, dei compagni, « guerrilleros » anfibi, i più sono lontani, ad altro
accudendo; i pochi rimasti stanno intorno ad un capannone, assorbiti
nell’opera di calafataggio, quando ad un tratto piomba loro addosso, per
sorpresa abilmente calcolata, un corpo di cavalleria nemica forte di
centocinquanta uomini — gli altri, tutti contati, eran in quattordici! Fu
un momento di suprema disperazione. Garibaldi, in un lampo, trascina
gli altri al capannone, cominciando lui a far fuoco ed alla meglio a
barricare gli ingressi. Lo raggiungono tosto i compagni. Là si
raccolgono i quattordici, là stanno in difesa dalle prime ore del mattino
sino alle tre del pomeriggio: caricano febbrilmente i fucili, sparano,
intonano l’inno del Rio Grande, con quanta voce hanno in strozza,
brandendo lancie ai due portoni per farsi credere in tanti... una difesa
così strenua, così valida, così eroica, che i centocinquanta assalitori,
stanchi e scoraggiati, infine battono in ritirata trascinandosi dietro i loro
morti e feriti. Eran 14 contro 150; ma eran quattordici comandati da
Garibaldi!
Di nuovo. Comanda una piccola squadriglia, tre piccole navi
destinate a rimontare il Paranà sino a Corrientes, oltre seicento miglia,
con ambi le sponde in potere del nemico. Ad un dato punto si arena la
nave più grande, la Costituzion (non è la prima ne sarà l’ultima volta che
si arenano le Costituzioni). Danno tosto mano ad alleggerirla, come
avviene in simili casi bellici e politici, e trasportano la roba più pesante,
l’armamento, a bordo della più piccola sorella, la Procida; mentre sono
nel pieno del lavoro e rimane una sola piccola nave atta a combattere,
s’avanza di improvviso la flotta nemica, sette forti legni di guerra. Eran
perduti, non v’era visibile scampo. Non per questo si smarriscono con
quel duce, e si preparano a disperata lotta, onorata morte. Volle questa
volta la fortuna sorridere a tanto valore. Come la Constituzion, s’arenò
la nave ammiraglia nemica, e, durante i tentativi per scagliarla, l’altra fu
messa a galla; calò sul fiume una fitta nebbia, e sotto quel velo
impenetrabile, i Riograndensi potettero rifugiarsi nel Paranà; che,
sfuggiti al nemico, rimontarono, e dopo disperati combattimenti,
perseguiti da forze infinitamente superiori, Garibaldi dovette metter
fuoco alla propria flotta, e, nel mentre esplodevano le Sante Barbare,
seminando terrore intorno, salvarsi coi pochi superstiti compagni in
terra. Omai abbandona l’acqua ed assume comando in terra; d’ora
innanzi, come in passato, nell’uno come nell’altro elemento, duce dei
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volontari della libertà contro le forze prepotenti del dispotismo.
Due episodi fra cento, ove rifulge valore non scompagnato talvolta
da fortuna; o meglio ove valore soggioga fortuna. Purnondimeno, venne
un momento quando l’eccitamento della lotta inuguale non valse più ad
acquetare lo spirito: ad uno, ad uno, col ferro, col piombo, con l’acqua
erano scomparsi gli amici, gli italiani che gli si erano serrati intorno;
comandava a soldati coraggiosi e soggiogati al suo volere si, ma ad una
accolta d’ogni razza, europei, meticci, neri, sudamericani, avventurieri
che con lui nulla avevano di comune fuori delle vicende del momento. Il
vuoto gli si fece attorno. Il pensiero spesso si rivolgeva con triste ansia
ai cari lontani, chi sa se tuttora viventi, agli amici o lontani o strappati
dalla morte; e la solitudine negli affetti, nelle aspirazioni, gli empì di
tristizia il cuore; la vita gli si affacciava dinanzi grigia, monotona, senza
la luce, senza il calore di un affetto, senza la dolcezza di un essere caro
a lato; e sognava amore. Era nella laguna del grande fiume; dal cassero
della nave, guardando un giorno col cannocchiale, nella monotonia della
sconsolata esistenza, vide sulla collina dirimpetto una figura di donna,
che esercito su di lui, in quello stato dello spirito, una strana attrazione.
Volle sapere chi fosse colei, sperando nella ricerca forse requie alla noia
insopportabile. Sbarca, invano si volge attorno; rifacendo la strada,
perduta la speranza, incontra un conoscente che gentilmente gli offre il
caffè in una casa vicina. Accetta; lo segue, entra, si trova dinnanzi la
figura di cui aveva subito il fascino a bordo: — era Annita! Per entrambi
fu la rivelazione dell’amore. Egli aveva dinanzi la donna dei suoi sogni;
per essa quella maschia presenza fu irresistibile comando d’infrangere
ogni nodo, seguire quell’uomo, fedelissima, coraggiosissima compagna
della sua tempestosa vita. E Dio sa se lo fu, attraverso le sofferenze fino
alla morte! Madre dei suoi figli, di Menotti, di Teresa, di Ricciotti,
prima ad affrontare qualsiasi disagio, di se noncurante; nell’affetto
intense, nella fierezza indomita, del disprezzo del pericolo, fu degna
compagna di Giuseppe Garibaldi. Alla lunga vittoriosa difesa di
Montevideo dall’assedio degli eserciti di Rosas, parteciparono non pochi
stranieri raccolti in legioni. V’era la francese, la più numerosa, quella
degli americani del Sud, ma, sopratutto, innanzi tutto, vive nella storia
di quei fatti d’armi la gloria ed il valore della Legione Italiana. Sempre
prima sul campo di battaglia, dal duce animata, lasciò lunga traccia di
martiri caduti per la libertà, rinnovandosi, rafforzandosi, mantenendosi
compatta fino in principio del 1848. Attraverso l’oceano, affievolito,
giunse allora ai profughi l’eco del risveglio patrio. Da lungo atteso, per
non pochi non giunse invano. Garibaldi in quei momenti era stato
chiamato a capo dell’esercito di difesa. A nulla valse onore, gloria,
posizione; un solo pensiero martella lui ed i suoi: trovar imbarco e
rispondere all’appello. Si mettono a contributo e spremendo l’ultimo
soldo, arrivano a noleggiare un veliero.
Erano 63 della gloriosa legione, e mordendo il freno della lunga
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traversata, della lunga attesa, finalmente approdano a Nizza nel giugno
del ’48. Anzani, valoroso, il devoto compagno dell’eroe, l’organizzatore
della Legione, colpito da fiera tisi, s’era fatto trasportare a bordo,
febbricitante, divorato da un solo ed ardente desiderio; porre piede in
terra, snudare la spada, prima di scendere nella tomba a cui si sapeva
condannato.
In nome del pugno di valorosi, Garibaldi corre a Roverbella e offre
a Carlo Alberto le loro braccia; corre nell’impeto del patriottismo, per
vedersi accolto con diffidenza e sospetto. Fidarsi a costoro, a quegli
uomini strani, di liberi sensi, dalle faccie abbronzate, dai cappelli
spagnuoli a larghe tese, dai lunghi capelli ondeggianti, era per gli
incipriati disciplinari dell’esercito piemontese roba da pazzi. Al disotto
del costume bizzarro, la loro miopia non sapeva indovinare gli altissimi
attributi di disinteressato patriottismo; la povertà degli abiti celò ai loro
occhi la ricchezza di valore che copriva. Rinviati da Erode a Pilato,
furono finalmente accolti dai Governo provvisorio di Milano; e già a
Trecate la Legione Italiana si preparava a gagliarda azione, quando la
triste notizia della capitolazione e dell’armistizio la spinge, attraverso la
Toscana, seguita dalla ufficiale diffidenza, in Emilia, poi a Roma, alla
epica difesa, alla epica ritirata.
Epica ritirata! Seguiamola dappresso un momento. Scomparsa ogni
speranza di utile offesa o difesa, Garibaldi scioglie la colonna che
l’aveva accompagnato fuori di Porta S. Giovanni dopo la resa. S’imbarca
a Cesenatico su di un trabaccolo, per riprendere di nuovo terra seguito
dalla flotta nemica. Incalzato dappresso, quei pochi si sparpagliano; egli
si separa da Ugo Bassi, da Ciceruacchio, dai nove martiri della barbarie
austriaca. Rimane, insieme ad un’altro, con la sua Anita, l’indomita
compagna, da grave malore affetta. È là all’aperto, alla ricerca di un
riparo qualsiasi, ove essa, poveretta, possa riposare le frali esauste
membra. E vaga, trasportandola amorevolmente nelle braccia, sino a
quando finalmente non arrivi ad un casolare; giunge per deporla su di un
umile letto, per vederla, vinta dalle sofferenze, esalare la forte anima. E
dinanzi al cadavere ancor caldo della sua donna, affranto dalla
disperazione, l’appressarsi dei persecutori gli impone la immediata
partenza. Senza poter affidare alla terra la salma della compagna diletta,
senza darle l’ultimo addio, strozzando le lacrime che lo soffocano, per i
figli suoi, per il paese suo, per la libertà dei suoi concittadini, fugge
ancora. Vedovo di quell’amore intenso e fedele, vedovo di speranza,
quale dev’essere stata l’agonia straziante di quei supremi momenti! Ed
egli, senza un lamento, riprende la sua croce; spezzato ogni legame caro,
con la morte nel cuore, con la semplicità dell’eroe, riprende la via
dell’esilio!
Ora raminga qua e là, nell’America dei Sud e nell’America dei
Nord, nei mari indiani, ovunque e comunque si presenti modo di
guadagnare il pane. Il generale in capo dell’esercito di Montevideo
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diviene perfino garzone in una fabbricuccia di candele a Staten Island.
Non per questo è dimenticato, non per questo impallidisce la sua fama
nei momenti di bisogno. È richiamato dal governo piemontese nel 1859:
vi è pericolo, molto può il nome suo, caro e venerato. Ed accorre;
accorre, accolto dalle solite diffidenze, per porsi di nuovo a capo dei
volontari: sono i Cacciatori delle Alpi. Per previdenza governativa sono
pochi, per previdenza governativa sono male armati; ma quei pochi, coi
loro catenacci, contro alle carabine tirolesi, contro alle forze
preponderanti, egli conduce alla vittoria; li avrebbe condotti ad
anticipare il 60, il 70, se Villafranca ed i timori ministeriali e
diplomatici non gli avessero sbarrata la strada.
Viene il 60. Precorso dalla soave figura di Rosalino Pilo, circonfusa
dall’aureola dei martirio, culmina nell’ingresso a Napoli del Dittatore;
di Lui solo, coi suoi aiutanti di campo, frammezzo agli entusiasmi di un
popolo acclamante ed alle truppe napoletane schierate lungo le vie,
presentando le armi al sovrano, investito dei supremi poteri della virtù,
dei diritto e dei valore. Ed erano i soliti catenacci, i soliti pochi
volontari, guidati da Lui, che, toccando terra a Marsala, come Anteo,
attingevano forza per andare da vittoria in vittoria, seminando di fecondi
martirii la via!
Vittorioso entra a Napoli, vittorioso ne esce, donando un regno,
portandosi via in ricompensa, un sacco di fagiuoli e più tardi... la palla
di piombo di Aspromonte! Aspro monte davvero, Calvario! Eran tredici
anni da quando, apostolo di libertà, s’era strappato dalla salma della sua
donna, per sottrarsi ai nemici, immolandosi al dovere incombente; ora si
frappone, offre se stesso perché una politica liberticida non generi
fratricida strage. E tredici mesi sta inchiodato su di un letto di dolore, ad
espiare l’altrui colpa, come l’espiò in tredici anni di dolorante
pellegrinaggio.
E viene il 66. Da quel governo che lo ferì quasi a morte è
richiamato: balza in piedi. Che importa la voce, se gli accenti suonano
libertà, unità, guerra allo straniero. Corre, talvolta zoppicando, quando
la fitta del dolore lo assale; è accolto, come prima, con diffidenza. I
volontari del 66, in parte trattenuti dalle previdenze governative, in
parte dalle governative previdenze armati dei soliti catenacci, son pochi,
ma ancora una volta sbaragliano a Monte Suello, a Bezzecca le forze
preponderanti, i carabinieri tirolesi; e, con Medici alle porte di Trento,
il Duce vittorioso, gettando alla fatalità la parola « ubbidisco », ira il
pianto e le gramaglie del Trentino, al romitaggio si ritrae per ritemprarsi
nella solitudine, attutire nel pensiero dell’avvenire il dolore del passato;
per aggiungervi. Cogli accorgimenti di un indiano, fugge come un ladro
dalla sua isola, circondata da navi di guerra, perché egli è il grande,
temuto malfattore. Egli non conosce diplomazie, patti col dispotismo e
colla reazione; egli è l’alta e schietta espressione del fuoco popolare che
consuma vestimenta, panoplie, corone e triregni, quando si accende e la
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fiamma monta in cielo. Fugge; e, giuocando di arteficio, attraverso la
Maddalena, giunge in Sardegna; di là sul continente, fremente
nell’ardore dell’apostolato, a raggiungere i figli, gli amici, per
omologare col sangue, notaio del popolo, il deliberato del parlamento
che consacrava Roma Capitale d’Italia.
E di nuovo, come nel 49, si trova dinnanzi i soldati del governo
francese, e di nuovo dalla loro forza superiore è costretto a retrocedere,
mentre l’esercito italiano coll’arme al piede veglia alla frontiera. Fu
fatalità, fu destino? Tre anni più tardi quel governo, puntello della
papale tirannia, sotto il peso dei propri misfatti, crolla; gli eserciti
alemanni invadono la Francia, il suo popolo geme su di un letto di
dolore. L’eco di quel accenti di strazio giunge tosto al cuore giovane ed
ardente del vecchio eroe; dimentica gli anni, dimentica i malori, e ad
espiazione del 49, ad espiazione del 67, oh, magnanimità di cavalleresca
vendetta! coi pochi volontari, coi soliti catenacci, col calore della sua
imperitura fede, col valore dei figli, di Ricciotti, di Menotti, di Canzio,
strappa in nome della Francia, dai vittoriosi dilaganti prussiani, le
uniche ripulse, gli unici trofei, in quella serie di disastri e di sconfitte
che la improntitudine della corruzione aveva preparata.
Dal 34 al 70, 36 anni! Trentasei anni di lotte, di battaglie per la
libertà, di vittorie per la libertà. Ardimenti inauditi coronati da successi
inauditi; dove e quando la storia ricorda una simile figura del vindice
della libertà, disdegnando ogni mortale compenso, vagando di paese in
paese, di oceano in oceano, cavaliere del S. Graal, coll’orecchio sempre
teso ai gemiti dei popoli oppressi? Egli riman solo, e, nella leggenda dei
suoi fasti, nei paesi che attraversa, fin agli ultimi limiti del globo, la
bionda figura, dalla spada fiammeggiante, risplende, arcangelo di
Libertà. Perché questa rappresenta, di questa egli è l’Apostolo in atto.
Come idealizza il libero corsiero dei Pampas, così freme al pensiero di
chi nei ceppi vorrebbe confinare il libero andamento dell’uomo; e vuole,
come se stesso, i suoi simili ritti in piedi, impavidi dinnanzi al presente
ed all’avvenire.
E come dalla tirannia politica così dalla tirannia religiosa abborre;
anzi, all’una l’altra sopratutto rintraccia, e nella corruzione di
sacerdotale impero ravvisa i germi di ogni altra sociale corruzione.
Mentre innalza un inno ad Ugo Bassi, sacerdote di vero, a Don Verità,
sacerdote di carità, ha in orrore chi dalla religione vuol trarre dominio
od utile; nella sua visione della vita e dei suoi rapporti col mistico al di
là, il pensiero di un intermediario che negozia con Dio l’anima umana
l’agghiaccia e l’irrita. E quando cotesto onesto sensale, per l’opera
ultramondana compiuta, esige grasse propine di pecunia e di potere, la
fiera indipendenza dell’apostolato si riscuote e prorompe in accenti di
flagellante ira. Se dall’alto del pensiero riverente, si dovesse scendere
fra le mefitiche esalazioni della bassa pianura dove si destreggiano le
piccole intelligenze e le piccole arti, dove le propine di ogni
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intermediario, in alto ei in basso, dell’una e dell’altra classe, sono fine a
loro stesse; se nelle lotte venali, nelle ibride alleanze, dettate da
interesse o da paura, al pensiero di Giuseppe Garibaldi, al suo apostolato
si dovesse fare appello, non sarebbero fulmini per incenerirci?!
Per noi sopratutto, semi accampati a Roma, coll’occhio timidamente
rivolto al Vaticano, quasi in atto di pauroso ossequio verso chi
ostinatamente, come i predecessori, osa in nome della religione negare
all’Italia, al popolo da cui trasse natali, diritto d’esistenza, se non in
virtù del suo intervento e nella misura da lui statuita; di colui che di
fronte al pensiero moderno, di fronte alle pure aspirazioni dell’animo
umano, ha la incredibile audacia di trasportare Dio in terra per
scritturarlo alla sua impresa e per il suo utile. Perocchè, come in tutti i
grandi italiani, il culto per Roma era in Garibaldi innato ed intenso.
La Roma ch’egli intuiva nei suoi giovani anni, recandovisi col padre
nel suo seconde viaggio per mare, sentite qual’è: cito le sue parole: È
« là Roma capitale d’un mondo — la Roma dell’avvenire — la Roma di
cui mai disperò, naufraugo, moribonde, relegato nel fondo delle foreste
americane — la Roma ch’è simbolo dell’Italia una, dell’idea
rigeneratrice di un grande popolo, cara sopra tutte le esistenze mondane,
adorata con tutto il fervore dell’anima ». Tale è Roma per lui; ne sono
vane ciance: il ’49, Aspromonte, Mentana sono là ad attestarne la verità;
come l’attesta il vegliardo venerato alla Villa Casalini, rotto dalle
gloriose infermità, che, con intelletto e prescienza d’amore, vuole, colla
deviazione del Tevere, congiungere Roma col mare e bonificare l’Agro
intorno; devinazione che, risparmiando a diecine i milioni buttati a
fiume, avrebbe portato sviluppo inaudito alla Capitale d’Italia ed al suo
suburbio; idea su cui oggi, dopo trent’anni, si ritorna e si pondera. Ma
siamo alle solite; Garibaldi vecchio appariva agli occhi dei parrucconi
del genio civile, come Garibaldi giovane appariva a quegli dei
parrucconi dello Stato Maggiore piemontese: per gli uni era un
avventuriero militare, un avventuriero civile per gli altri. Laonde, nel
campo idraulico, come in quelle militare e politico, attraverso tortuosi
meandri ed avvallamenti impantanati, anzichè per la via larga e diritta
fecondatrice, lentamente arriviamo a quella Roma dell’avvenire da lui
intraveduta, sognata, amata: alla Roma del Pensiero e dell’Azione, nel
mondo morale e materiale, perché, nel pensiero e nell’azione, non
abbiamo saputo seguire le intuizioni del suo genio, alzare fieramente il
capo, lottare e vincere, in nome della verità, le arti subdole degli uni e la
menzogna degli altri.
Ma il popolo, colla sua giusta intuizione, compreso dell’animo
dell’Eroe, a lui si unisce, di lui ha raccolto la successione, e,
flagellando, spezza le catene che avvincono Roma e l’Italia, la Capitale
e le cento Città, alle trame ed alle ipocrisie della reazione!
Consecrazione dell’unità, pegno di civile missione, l’Eterna Città
era sogno e meta del grande Pensatore, come del grande Attore; talvolta
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fra loro, intorno ai metodi, nascevano dispareri e dissapori, giammai sul
fine; e la verità storica identificherà il Pensiero che precorre l’avvenire
nella persona di Mazzini, l’Azione nella persona di Garibaldi; framezzo
porrà Vittorio Emanuele, valendosi dell’uno e dell’altra per unificare e
governare la Terza Italia,
E in quell’eccelso fine nazionale non si immedesima la Massoneria,
dalle prime avvisaglie della spedizione di Savoia alla Breccia di Porta
Pia? Non vi raccolse nella unità dell’intento la varietà delle sue forze,
da Villamarina e Nigra al triumviro della Romana Repubblica, la virtù
nella modestia impersonata, Aurelio Saffi? Non vi rivolse l’energia della
sua opera patriottica, umanitaria? E acclamò a suo grande Maestro, a suo
legittimo interprete dinanzi al mondo civile, Giuseppe Garibaldi nella
Costituente del 1864; con lui alla guerra maledicendo, la pace e
l’arbitrato promuovendo fra le genti, ma con lui della gente sua il diritto
rivendicando dinanzi alla prepotenza ed alla menzogna altrui, pronta ad
ogni sacrificio per assicurarne il trionfo. Gran Maestro lo acclamò
consapevolmente. Chi al pari di Lui, di fratellanza Apostolo, di guerra
nemico, di guerra fulmine per sante rivendicazioni, poteva condurre le
Loggie Massoniche al compimento dei loro doveri patriottici ed
umanitari? Là alla sede dell’Ordine, nella sala massima, vi è una
semplice lapide di marmo, su cui è la iscrizione che eterna la sua Grande
Maestranza, memento ai successori, ai fratelli, della eredità di doveri,
dall’opera sua, dalle aspirazioni sue trasmessa. Salve, o Grande Maestro,
in nome del vostro vangelo e del nostro, in nome della Uguaglianza, in
nome della Fratellanza, in nome della Libertà; Salve, o Grande Maestro,
in nome della lunga, della spinosa via, tracciataci sotto l’egida vostra, in
voi specchiandoci, da calcarsi attraverso dolori e sacrifici per essere
degni della vostra massonica memoria; Salve, o Grande Maestro, voi che
ci ripetete, in tutta la vostra vita fulgida, le parole di Colui che siede a
voi allato nelle pagine della storia, nel cuore della nazione, nella
ammirazione dell’Umanità: « Oh, miei fratelli, amate la Patria, la Patria
è la nostra casa; è la nostra lavoreria; è una indivisible. Come i membri
di una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è
lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo
finchè una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è
divelta dalla Nazione ». Così quegli disse, così voi opraste, così noi
ricordiamo... così sarà!
Eran diciannove secoli tremolava in alto una Stella ed alla sua luce
s’inoltravano attravesso il deserto, in lunga processione, i Re di Oriente;
ori, argenti, mirra e franchincenso recavano, dalla Stella guidati, a
deporre, riverenti, dinanzi alla culla del Divin Bambino, a Betlemme; e,
giunti alla umile stalla, vi si prosternarono, deponendo ai piedi del
Redentore i doni ricchi e preziosi, per propiziarsi il regno dei Cieli.
Nell’attimo dell’eternità vita e morte si congiungono; brullo in mare
s’erge uno scoglio; su di esso non è culla; ivi, dove doveva elevarsi una
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pira, per ridare alla terra l’involucro d’un’anima d’Eroe, sorge solo una
tomba, non una tomba famigliare, non una tomba nazionale: è tomba
consegnata ai secoli ed alla umanità. Su di essa brilla e riluce una Stella.
Quivi i re d’oriente con ricchi doni non si recano in pellegrinaggio;
d’oriente e d’occidente, in lunghe adoranti schiere, sfilano i popoli; e su
quel granito, emblema del destino fatale ed inesorabile, nella coscienza
del martirio che segnala, dell’immortale esempio che racchiude,
dell’eroica figura che da essa si sprigiona per innalzarsi sulle ali della
virtù alla immortalità, su quella tomba versano il tesoro del loro affetto;
dal petto loro s’innalza, fra cielo e mare, l’inno della riconoscenza, che
varcando limiti di classi e frontiere di nazioni, incita alla uguaglianza,
alla fratellanza, alla liberta; e come dalla culla sorse a compiere la
missione divina il Redentore, così da quella tomba s’innalza radiosa,
immortale, dinnanzi alla umanità riverente, la figura del Liberatore.
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