Giugno 2007 - Gran Loggia d`Italia

Transcript

Giugno 2007 - Gran Loggia d`Italia
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3
Sommario
Il segreto della vecchia abbazia
Luigi Pruneti
È la sua voce
come tuon di maggio
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Laicità e Simbolismo
Vincenzo Ribet
Anna Giacomini
4
L’Unione Massonica
del Mediterraneo
38
Luigi Danesin
La Massoneria
dall’Illuminismo
alla Globalizzazione
Leo Toscanelli
Rua do Gremio Lusitano in
una notte di primavera...
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Tricots, stelle e Caruso
60
Per l’Italia e per Garibaldi
62
Parole scolpite
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in biblioteca
72
Fregi di Loggia
Silvia Braschi
Anna Giacomini
Barbara de Munari di Cento
Amicitiae
et Adiumentii Pactum
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12
I Seminari
Marco Materassi
Il ‘Diavolo rosso’
Luigi Pruneti
14
Infinito e bello
26
Torture
e verità
50
Un ‘Te Deum’ per Garibaldi
44
Madamina,
il catalogo è questo
Maria C. Nicolai
- Il risveglio di Omero
- I nostri libri, un bene prezioso
- Recensioni
Aldo Alessandro Mola
Carlo De Raffaele
Adriana Mangialajo Rantzer
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Luigi Pruneti
Il segreto
della vecchia abbazia
I parte
V
’era quella sera aria di tempesta: dal mare avanzava una
muraglia minacciosa livida
come lo sconforto e di quando
in quando s’udiva un brontolio lontano.
Sembrava che l’approssimarsi della bufera
gravasse anche sugli avventori seduti ai
tavoli di quercia della locanda. Né grida,
né risa solo un brusio sommesso si levava
da quegli uomini intenti a consumare la cena o a contemplare silenziosi un boccale di birra.
- Sembra d’essere in Chiesa per la
funzione dei defunti - Disse fra’ Jacopo, lisciandosi perplesso la barba
fluente che già iniziava ad incanutirsi.
Era un omone alto e massiccio, forte
come un toro. Da anni viveva ad
Elsinore, officiando nella cappella
reale. Era un ministro di Dio onesto
e saggio, il Vangelo però non gli
impediva d’apprezzare la compagnia
e la buona cucina.
Amleto l’osservò per un attimo, poi
rivolse lo sguardo ad Orazio e
Ruggero: parevano gravati da oscuri
presentimenti. Che avevano? - Basta
col silenzio! - pensò e, afferrando un
pezzo di focaccia, esclamò:
- Su via amici miei, animo! Siamo giunti
in questo angolo del Regno per vivere un’avventura, per svelare un arcano, per conoscere
il mistero dell’ abbazia. Perché tanti pensieri
in voi?Orazio, scrollò la testa, sospirò, quindi
con voce sommessa, quasi sussurrando
mormorò:
- Forse è questo luogo, così remoto... malinconico, sembra la dimora di monna Tristitia:
le paludi, le nebbie, la miseria dei villaggi,
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le rovine avvinte dal muschio... Pare che
una volontà malvagia, senza nome, soggioghi uomini e cose. Partii da Elsinore felice,
fremente come un fanciullo atteso al giuoco,
strada facendo tuttavia, un’ ansia prima
sottile, quasi impercettibile, poi arrogante
nella sua possanza si è impadronita di me.
- Tacque e afferrato il boccale trangugiò
con avidità un gotto di birra come se
quelle poche frasi avessero provocato in
lui un’incontenibile arsura. Fu allora Ruggero, cavaliere di grande coraggio, imbattibile armeggiatore, a proferir parola..
- Amici - disse - fin da piccoli abbiamo
sentito parlare dei segreti dell’ abbazia di
Shianok. A sera le nutrici ci contavano di
quelle mura fatali, dei demoni che le sorvegliavano e soprattutto del suo ventre oscuro,
dove si celavano favolosi tesori e un segreto
indicibile, un mistero ancestrale. Era leggen-
da, favola, fino a quando Amleto non trovò
per caso quella pergamena con indicata la
cripta segreta, e la scritta capsa arcani. Non
capite? Là ci attende una prova e, se la
supereremo, la conoscenza. Il velo sarà lacerato e finalmente sapremo. Da questo
deriva il presente malessere perché l’una
preoccupa e l’altra turba. Riconosciamolo,
fratelli! L’ignoranza genera sicurezza, certezze e opima pigrizia, la conoscenza è solo una tappa lungo la
difficile, perigliosa via della verità.
Rise a quel punto fra’ Jacopo e
aggiunse:
- Un capitano che parla come un
canonico! Siffatta esperienza mi
mancava. Hai comunque ragione,
prode signore. L’uomo è carne ed
anima, se la prima lo incatena al
basso, si premura di ungerlo di
piacere e di cullarlo nell’indigenza
dello spirito, spesso camuffata da
vane parole. Se, invece, prevale la
seconda ed egli mira all’alto, le
scorie si fanno sentire ed ecco il
dubbio, il timore, la pavida incertezza. - Viva il reverendo priore,
maestro di sermoni, e principe di
prediche! - esclamò allora Amleto,
alzandosi con nella man destra una brocca
di birra.
- Alla nostra impresa! Domani saremo ad
Shianok, sapremo... forse, ma è certo che
alcun demone, strega o mannaro, sarà capace di scalfire la nostra unione. Tutti allora si levarono in piedi, il coccio
incontrò il coccio, l’umore biondo del
malto fluì nella gola e il sorriso allietò di
nuovo i volti, mentre un’improvvisa livida
lama di luce squarciò l’oscurità della notte.
Anna Giacomini
È la sua voce
come tuon di maggio
A
priamo il numero solstiziale di
Officinae con alcune pagine
dedicate al panorama internazionale in cui la Gran Loggia
d’Italia grazie all'opera del Sovrano Gran
Commendatore Gran Maestro Luigi Danesin, coadiuvato dagli alti dignitari preposti,
ha assunto un ruolo portante e di riferimento per le altre obbedienze. Antalya in Turchia
ha visto la settima edizione della Conferenza
dell’Unione delle Potenze Massoniche del
Mediterraneo, che abbraccia idealmente
non solo le terre effettivamente affacciate
sullo storico bacino, ma anche tutte quelle
che alla cultura ivi fiorita hanno attinto
linfa vitale. Tale rapporto interobbedienziale ha assunto tanta importanza
nella vita dell’istituzione da richiedere uno
specifico spazio nella sede romana destinato alle relazioni con l’estero. Oggi godiamo di un ampio nuovo ufficio che
costituisce una prova in più della crescita
della Gran Loggia d’Italia, Obbedienza di
Piazza del Gesù, Palazzo Vitelleschi.
Parlando di internazionalità si fa strada
una figura cosmopolita che ha saputo
diventare per gli italiani la quintessenza
del loro amor patrio. Un Eroe, un’icona.
Garibaldi balza dalle pagine della storia
come un colosso inossidabile, amato fino
alla mitizzazione ed idealizzato fino alla
consacrazione. Questo numero di Officinae,
nel bicentenario della nascita (4 luglio 1807),
vuole parlarne in un modo semplice e rigoroso. Non per questo però intende sottacere
il mito che lo circondò, ma l’idea di dedicargli un intero numero nasce dal desiderio
di raccontarlo in modo massonico ossia
tenendo ben presente la ricerca del vero.
Quindi abbiamo effettuato la nostra inda-
gine sull’uomo, sui suoi ideali, sulle sue
passioni, non trascurando anche le sue più
semplici realtà.Non è stato facile, troppo
gigantesca troneggia la sua personalità per
ricondurla, senza attuare un minimalismo
di maniera, ad un’ottica non enfatica, limpida e senza retorica. Vari sono i contributi
approntati con l'idea di regalare ai lettori
un’immagine che la Massoneria vanta come
uno dei capisaldi della sua nomenclatura.
Della storia del suo libero pensiero, spesso
“Soldati io esco da Roma. Chi
vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me.
Non posso offrirgli né onori né
stipendii, gli offro fame e sete,
marce forzate, battaglie e morte. Chi ama la patria mi segua!”
considerato ‘scandaloso’, ci parla la penna
di Luigi Pruneti e quella di Aldo A.Mola
che hanno toccato i temi delle alte idealità
del Nizzardo ed anche delle sue convinzioni
religiose. Il resto, ossia debolezze e predilezioni, hanno trovato espressione accanto
alla cronaca delle ovazioni che sovente
raggiunsero i toni dell’epopea. Districarsi
tra tanta materia mantenendo una limpida
distanza dal fascino che ancora oggi emana
il Grande, ha significato dare spazio ad
indagini sul mondo clericale contemporaneo all'Eroe o a quello massonico, a quello
familiare o leggendario, alle esaltazioni ed
alle inevitabili detrazioni. Un Grande lascia
sempre dietro di sé abbondanza di osanna
e crucifige. Importante è stato il lavoro di
ricerca del materiale documentario connesso alla vita dell’Eroe. Abbiamo ricercato
oggetti ed immagini con l’idea di accostare
l’inedito alla notizia particolare o al taglio
insolito usato nello scavo di una personalità
poliedrica. La stessa iconografia scelta, che
ha una sua originale linea nel numero, è
formata da nostre trouvailles. In questo
lavoro è stata preziosa la collaborazione
della nostra redattrice Silvia Braschi che,
da vero segugio, è riuscita a scovare materiale originalissimo e notizie altrettanto
fuori-binario. Dobbiamo ricordare con
gratitudine gli ultimi eredi del patrimonio
delle reliquie garibaldine che si conservano
intatte in una villa ottocentesca di Livorno.
I signori Gonella, parenti ‘da parte del cuore’
dell’Eroe, hanno aperto le porte della storica
villa Francesca che fu l’ultima abitazione
di Francesca Armosino e di Clelia Garibaldi.
Un notevole numero di fotografie, lettere,
oggetti e confidenze è così entrato nelle
pagine di Officinae con la freschezza dei
ricordi di famiglia. Osservando le varie
immagini di Garibaldi vengono in mente
i versi che Carducci dedicò ad Alberto da
Giussano:
...la capelliera
il lato collo e l’ampie spalle inonda
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla,
È la sua voce come tuon di maggio.
Forse il nostro grande poeta, nel momento
in cui compose il Parlamento, aveva in
mente proprio Giuseppe Garibaldi?
il Direttore
3
L’Unione
Massonica
del Mediterraneo
Luigi Danesin
4
L
a VII Conferenza dell’Unione
Massonica del Mediterraneo,
svoltasi dal 22 al 24 Marzo 2007
E.V. all’Oriente di Antalya in Turchia, ha
rappresentato, sotto molti aspetti, il punto
più alto raggiunto dall’Unione nei suoi
primi sette anni di vita. L’appuntamento
in terra di Turchia ha, infatti, evidenziato
alcuni punti fermi che ci piace in questa
sede ricordare. Innanzitutto, l’affermazione
sempre più completa di un’idea della Massoneria Adogmatica e Liberale che, in quanto tale, deve necessariamente trovare le
proprie radici nel bacino del Mediterraneo
quale culla di una profonda tradizione
iniziatica e di tutta la civiltà occidentale.
Civiltà che, attualmente, non può prescindere da un’ottica che veda sullo stesso piano
uomini e donne, bianchi e neri, ricchi e
poveri, cristiani e musulmani... abbattendo
quelle odiose barriere che, purtroppo, ancora oggi esistono anche in una certa visione
di una Libera Muratoria che non ci appartiene , mai ci è appartenuta e mai ci apparterrà. Siamo, infatti, profondamente convinti che, in un mondo lacerato da mille
conflitti, l’unica strada che ci possa portare
lontani da quel baratro cui l’umanità si
avvicina pericolosamente giorno dopo
giorno sia quella della tolleranza, dell’effet-
5
tiva eguaglianza, della reciproca comprensione, dell’amore... nell’accezione più completa del termine. Se l’Umanità vuole salvarsi, non può prescindere dalla tensione
verso una più elevata espressione dell’evoluzione umana che comprenda il più perfetto dominio degli istinti attraverso la
ragione ed il sentimento... non può prescindere dal far ricorso a quell’uomo
“diverso” così come deve essere il Libero
Muratore inteso quale mattone del Tempio
dell’Umanità. E questi elementi sono apparsi evidenti nel corso delle varie riunioni
svoltisi ad Antalya. Così estremamente
proficua è stata la riunione dei Gran Maestri
delle Obbedienze membri, dedicata allo
studio dello stato dell’Unione e a porre le
premesse per la VIII Conferenza che sicuramente sarà all’altezza delle precedenti.
Ricca di contenuti e sinceramente toccante
la Tornata rituale che ha dimostrato, se
pur ce ne fosse stato ulteriore bisogno,
come la ritualità sia il comune cemento
dei Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra. Ed è questo un elemento
su cui non ci stancheremo mai di insistere
e su cui torneremo anche alla fine di queste
brevi considerazioni; noi, possedendo un
elemento unico e caratterizzante - l’Iniziazione - non siamo né un Club Service né
una associazione qualunque. Di qui l’assoluta necessità da un canto di rispettare le
tradizioni (pur attualizzandole il dovuto)
dall’altro di seguire nel modo più profondo
6
la ritualità che non deve significare lo stanco
ripetersi di vuote formule ma l’adesione
convinta e partecipata ad un sistema di
simboli che racchiudono tutta la forza e la
genuinità del messaggio trasmesso agli
adepti. Ma, tornando ad Antalya, particolarmente importante è stato anche il colloquio pubblico che, impreziosito da una
buona presenza “profana”, ha comunicato
all’esterno quali siano natura e finalità di
questa nostra “Unione”. Ed è questo un
obiettivo che occorre considerare prioritario
anche a livello di Unione Massonica del
Mediterraneo. In effetti, così come riteniamo indispensabile che la Gran Loggia d’Italia Palazzo Vitelleschi sappia correttamente
informare i Fratelli tutti e i profani circa le
proprie attività, ponendone in rilievo valenze e significati, altrettanto deve accadere
per l’Unione. E’ assolutamente indispensabile che i contenuti scaturiti da queste
Conferenze vengano opportunamente veicolati sì da portare a conoscenza di tutti
quanto è stato fatto.
Al riguardo dobbiamo ringraziare i nostri
Fratelli delle Regioni Massoniche Calabria,
Sicilia e Campania ed i Fratelli delle Obbedienze di Libano, Spagna e Grecia per la
tempestiva pubblicazione degli atti delle
relative Conferenze. In effetti, a nostro
avviso, la pubblicazione degli Atti rappresenta un elemento fondamentale nella
crescita dell’Unione dal momento che
testimonia, meglio di mille parole, il cam-
mino che si va facendo. Così, per chi volesse
approfondire la materia o soltanto seguire
l’evolversi dell’Unione, sono oggi a disposizione gli atti di tutti i primi sei appuntamenti che rappresentano una documentazione imprescindibile ed un momento di
conoscenza assai significativo. Certo sembrano passati molti anni da quella felice
intuizione che portò alla prima riunione
preliminare svoltasi all’Oriente di Reggio
Calabria. E, invece, si era solo nel Febbraio
del 2000 E.V. e la nostra Istituzione lanciava
a livello internazionale un’idea di cui era
assolutamente convinta senza, però, nulla
conoscere circa la risposta delle altre Obbedienze. Il ragionamento a base di questa
nostra scelta era e rimane assai semplice;
innanzitutto una considerazione di estrema
attualità: oggi, cadute le barriere che dividevano in due blocchi contrapposti l’intero
pianeta, oggi che la Comunità Europea è
divenuta una realtà operativa non più solo
di carattere economico, i Paesi del Bacino
Mediterraneo tornano ad acquisire una
posizione strategica di assoluto primo piano. Spetta, infatti, a questi Paesi il compito
di fungere da anello di congiunzione tra il
mondo occidentale e il mondo orientale
alla ricerca di quella piattaforma comune
su cui costruire il futuro, pena il decadimento inarrestabile di tutte le civiltà. C’era
poi una seconda considerazione tutta interna all’universo massonico: la necessità
di ricercare quella comune ascendenza
esoterica che partendo dalla civiltà babilonese e passando attraverso quella egizia,
quella ebraica e quella greca si è poi diffusa
in tutto il bacino del Mediterraneo. Nel
Novembre del 2000, all’Oriente di Palermo,
un secondo incontro preparatorio in cui
si affrontò la rinnovata matrice latomistica
da poter mettere in comune con la tradizione scozzesista. A questo punto la risposta
delle altre Obbedienze interessate fu di
entusiastico consenso tanto che, nel Novembre del 2001, nell’incontro di Castellammare di Stabia all’Oriente di Napoli, la
nascente Unione fu consacrata con un
protocollo che fissava i tre obiettivi fondamentali da perseguire: salvaguardare e sviluppare la cultura e la storia iniziatica del
Mediterraneo; diffondere il pensiero della
Massoneria d’ispirazione liberale; studiare
e seguire i problemi di ciascun Paese aderente all’Unione. I successivi passi sono
ricordi recenti: nel 2003, la Conferenza
all’Oriente di Beirut in Libano; nel 2004
quella all’Oriente di Tarragona in Spagna;
nel 2006 quella all’Oriente di Atene in
Grecia. Nel frattempo, a testimoniare il
crescente successo dell’Unione, il numero
delle Obbedienze è andato sempre crescendo; all’Oriente di Antalya, oltre ai rappresentanti di sette Obbedienze accolti quali
‘‘Osservatori’’, erano ufficialmente partecipanti il Grande Oriente di Francia, la
Gran Loggia d’Italia Obbedienza di Piazza
del Gesù Palazzo Vitelleschi, la Gran Loggia
Liberale di Turchia, l’Ordine Massonico
Internazionale Delfi di Atene, il Grande
Oriente di Grecia, la Gran Loggia Centrale
del Libano, la Gran Loggia dei Cedri sempre
del Libano, la Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia, la Gran Loggia Simbolica
Spagnola, la Gran Loggia del Marocco e il
Grande Oriente Lusitano del Portogallo.
E l’ingresso di quest’ultima Obbedienza ci
impone un’ulteriore riflessione: il Portogallo
non è propriamente Paese che si affacci sul
Bacino del Mediterraneo... eppure si è
sentito talmente interessato dalle nostre
iniziative, talmente coinvolto da chiedere
di entrare a far parte dell’Unione... e noi
l’abbiamo accolto con il massimo del calore
e della fratellanza possibili. Così anche altre
Obbedienze hanno già chiesto di far parte
della nostra Unione. Insomma, i risultati
ottenuti dall’Unione sono già straordinari
ma siamo convinti che, se sapremo lavorare
con lo stesso impegno e la stessa dedizione,
sono alla nostra portata molti altri preziosi
traguardi. E, a proposito di questo nostro
lavoro, poniamo inoltre l’accento su un
elemento di carattere organizzativo che, a
nostro avviso, ha rappresentato un’altra
carta vincente in questo nostro cammino.
Quando venne varata l’Unione si pose il
problema di come strutturarla; all’epoca si
fronteggiavano due tesi: c’era chi premeva
per la costituzione di un nuovo organismo
che in qualche modo assumesse i poteri di
controllo e di organizzazione del tutto, e
c’era chi (noi, tra questi) riteneva assolutamente inopportuna la costituzione di qualsivoglia nuova struttura preferendo creare
semplicemente un “ruolo” di Coordinatore
Permanente. Il tutto nel rispetto della piena
Sovranità di ogni singola Obbedienza aderente. Prevalse questa seconda impostazione
ed il ruolo di Coordinatore Permanente
venne affidato al Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia
d’Italia Obbedienza di Piazza del Gesù
Palazzo Vitelleschi. Certo, era una scelta
piuttosto delicata potendosi facilmente
creare vuoti di potere o carenze decisionali
nei momenti più delicati. Invece, adesso
possiamo dirlo con cognizione di causa, le
cose sono andate per il meglio: grazie alla
fattiva collaborazione di tutti, il coordinamento è stato possibile, anche se non facile,
e così abbiamo potuto lavorare magnificamente alla costruzione di questo edificio
che tante soddisfazioni sta procurando a
tutti noi. Sarà possibile mantenere l’attuale
assetto anche in un domani, quando con
tutta probabilità il numero delle Obbedienze salirà ancora? Certo è difficile ipotecare
il futuro, ma con tutta franchezza riteniamo
che, almeno per un certo lasso di tempo
non breve, questa strutturazione risponda
del tutto alle esigenze dell’Unione.
Non abbiamo creato questa struttura per
ottenere prebende, non per occupare poltrone, non per tenere in mano maglietti di
qualsiasi genere... ma per lavorare per il
7
bene dell’umanità che resta sempre il nostro
obiettivo primario. Personalmente lo facciamo sempre, lo facciamo nella nostra
vita profana, lo facciamo nei nostri templi,
lo facciamo nelle strutture associative di
carattere internazionale... E tanto più l’abbiamo fatto, lo facciamo e lo faremo, con
rinnovato spirito di servizio, all’interno di
questa nostra grandiosa Istituzione.
8
Carissimi Fratelli,
consentitemi di dire con una punta d’orgoglio, la nostra è davvero una Grande e
Sovrana Obbedienza Iniziatica cui si guarda
con ammirazione e rispetto da più parti
come pure dalle più importanti Istituzioni
Massoniche internazionali. Tutto ciò ci
conforta nella sicurezza che tutti, Fratelli e
Sorelle, sappiano comportarsi con perfetta
serena coerenza iniziatica all’interno ed
all’esterno delle Sacre Mura del nostro
Tempio.
P.4, 5 in basso, 6: Il SGCGM Luigi Danesin, Antalya; p.5
in alto: rovine del tempio greco a Side, vicino ad Antalya;
p.7: Il minareto di Yivli e la Moschea; p.8: Rovine di
sarcofago, Phaselis, vicino ad Antalya (p.4, 5 in basso e 6:
foto C.Bottinelli, p.5 in alto: foto P.Del Freo)
o
L
Déclaration d’Antalya
es dix Obédiences libérales au
cours de la 7ème rencontre de
l’Union Maçonnique Méditerranéenne et les Obédiences observatrices
se réunissent à Antalya et s’interrogent sur
le rayonnement à partir du bassin méditerranéen des valeurs maçonniques, humanistes et éthiques telles que définies par
la Déclaration d’Athènes.
Suite aux différentes interventions des
participants. Il en résulte une grande volonté de collaboration pour la recherche
du perfectionnement personnel et
Obédientiel. Chacun des participants a
évoqué la richesse de la culture méditerranéenne. Ils ont mis en évidence la nécessité d’une adaptation de cette richesse aux
défis de la modernité de notre société en
évolution pour rechercher le chemin de
la paix dans le bassin méditerranéen.
Constat a été fait d’une montée importante
de l’individualisme, de l’intégrisme, du
communautarisme, du fanatisme et du
dogmatisme en général;
o
par conséquent les signataires de cette
appel réitèrent leurs principes fondamentaux humanistes de liberté absolue de
conscience, de respect et défense des droits
de l’Homme, de travailler pour la fraternité
des Hommes et des peuples, sur la base
d’une laïcité forte comme rempart à l’obscurantisme et au dogmatisme. En un mot
œuvrer à promouvoir une démocratie
participative et progressive.
Fait le 24 mars 2007, à Antalya et signées
Obédiences
Membres et Observatrices
Elenco delle Obbedienze
aderenti
Grand Orient de France
Grand Orient Lusitanien
Grande Loge d’Italie
Ordre Maçonnique
International Delphi
Grande Loge Libérale
de Turquie
Grande Loge du Maroc
Grande Loges des Cèdres
Grande Loge
Symbolique Espagnole
Grande Loge Centrale
du Liban
Grand Loge Maçonnique
Féminine d’Italie
Grand Orient de Suisse
Grande Loge
Mixte des Pays Bas
Grand Orient et Loges
Associés du Congo
Grande Loge Unie du Liban
Grande Loge
Féminine de Portugal
Grande Loge de Roumanie
Grande Loge
Féminine de Roumanie
du Liban
Francia:
G.M. Aram Nazarian
Grand Orient de France
G.M. Jean Michel Quillardet
Grande Loge des Cédres
G.M. Roger Haddad
Grecia:
Grande Loge de l’Ordre
Maçonnique International Grande Loge Unie du Liban
G.M. Jamil Saade
“Delphi”
G.M. Vassilios Patkas
Marocco:
Grande Loge du Maroc
Serenissime
G.M. Aziz Smires Bennani
Grand Orient de Grèce
G.M. Petros Francos
Portogallo:
Italia:
Grand Orient Lusitanien
Grande Loge d’Italie des G.M. Antonio Reis
ALAM, Obedience de Piazza
del Gesù Palazzo Vitelleschi Spagna:
Grande Loge Symbolique
G.M. Luigi Danesin
Espagnole
Grande Loge Maçonnique G.M. Jordi Farrerons Farré
Féminine d’Italie
G.M. Simonetta Marchese Turchia:
Grande Liberale
Libano:
de Turquie
Grande Loge Centrale
G.M. Huseyn Ozgen
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A.L.A.M., Mondo si riuniscano con cadenza
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Giuseppe Garibaldi quando
sbarcò a Marsala per l’epica
Spedizione dei Mille aveva con
sé il brevetto di apprendista libero
muratore1. Era stato iniziato nel Nuovo
Mondo molti anni prima, secondo alcuni
a Montevideo2, per altri a Rio de Janeiro3,
nella Loggia Asilo de la Virtud. Nella Capitale dell’Uraguay fu comunque regolarizzato nell’officina Amis de la Patrie,
dipendente dal Grande Oriente di Francia:
era il 18 o il 28 Agosto del 18444. Preso
dalle vicende politiche e militari della
giovane repubblica sudamericana frequentò pochissimo la Loggia5 ed anche
in seguito, durante gli anni 1848-1860,
varcò la soglia dei templi massonici saltuariamente, come attestano le scarse
testimonianze. Sappiamo inoltre che durante la rocambolesca fuga del 1849, fu
aiutato da confratelli, fra i quali Riccioli,
appartenente ad una loggia di Grosseto6.
Più tardi, negli Stati Uniti, ebbe contatti
con iniziati italiani, fra i quali Antonio
Meucci. Tant’è vero che è ricordato più
di una volta nei verbali della loggia Tompkins, di Stapleton nello stato di New
York dove, ancora oggi, un’officina reca
il suo nome7. La storia massonica di Garibaldi è ben documentata dal 1860 in
poi. In Sicilia, durante la Spedizione dei
Mille, numerose Logge costituirono il
Supremo Consiglio dell’Isola che, prima
lo regolarizzò e quindi l’elevò al 33° Grado.
In seguito, grazie agli auspici di Crispi, lo
nominò ‘Sovrano Gran Commendatore
Gran Maestro a vita dell’Ordine Massonico di Rito Scozzese Antico ed Accettato’8. In questa veste Garibaldi vergò uno
dei suoi primi documenti massonici,
datato Palermo 28 luglio 1862. Si tratta
di una balaustra indirizzata ai Venerabili
nella quale sottolineava, fra l’altro, l’importanza del segreto: ‘‘poiché il segreto è
l’anima di tutte le importanti fazioni, così
voi, Venerabile Maestro, comunicherete
la presente in Famiglia e senza visitatori,
raccomandando ai Fratelli il silenzio per
il mantenimento del quale hanno replicatamente giurato’’. Iniziò da allora, per
l’Eroe, un periodo d’intensa attività latomistica e, a dirla con Gustavo Sacerdote,
egli divenne, dopo il ’60, “un fervido
massone”, convinto del valore sociale e
politico dell’associazione9. Per questo
13
pose i suoi buoni uffici e la propria fama
a servizio dell’unificazione massonica,
sicuro che ciò apportasse “un gran beneficio per l’Italia”10. La costituente fiorentina del 21 maggio 186411, a sua volta
desiderosa di un leader carismatico, lo
elesse Gran Maestro dell’Ordine. Il Generale accettò, senza peraltro rinunciare
ad essere Sovrano Gran Commendatore
del Supremo Consiglio di Palermo12. L’8
agosto, tuttavia, amareggiato dalle polemiche, rassegnò le dimissioni. La breve
e deludente esperienza alla guida della
Comunione non gli impedì, per altro, di
continuare ad operare per la tanto auspicata unificazione13 e nel 1867 un’ennesima costituente lo nominò “Primo Massone d’Italia e Gran Maestro Onorario”14.
Tra affiliazioni e sorelle
Sono noti molteplici aspetti della partecipazione di Garibaldi alla vita latomistica:
l’affiliazione a membro onorario di logge,
fra le quali il Trionfo ligure di Genova15 e
la The Philadelphians di Londra16, l’accoglienza attribuitagli nel 186417 dai confratelli inglesi, l’elavazione a Gran Jerofante
del Rito Riformato di Memphis e Misraim e quella a Gran Maestro Onorario del
14
Grande Oriente di lingua italiana
d’Egitto18. E’ pure documentato l’impegno del Nizzardo a favore dell’iniziazione
della donna, da lui considerata un essere
eccezionale19 e, per certi versi, superiore
all’uomo. Egli fondò logge femminili
come la Luigia Sanfelice, la Eleonora Pimentel, il Vessillo della carità-Anita20 e
provvide a crismare di persona numerose
sorelle; ricordo, a titolo di esempio, Giulia
Caracciolo Cigala, Rosa Zerbi21, la figlia
Teresita, Luigia Candia22, Susanna Elena
Curruthres23.
Garibaldi contro il clericalismo
Una lotta senza quartiere
Non molto nota è la polemica rabbiosa e
violenta fra Garibaldi e i clericali, cosicché
per alcuni fu il ‘Messia’ di una nuova era,
laica e progressista, per altri una sorta di
Belzebù, inviato da Satana per distruggere
la vera religione. Quest’ultima tesi fu avvalorata dal suo astio nei confronti della
Chiesa di Roma, così radicato da assumere
aspetti grotteschi: considerava il papa e i
preti causa di tutti i mali del mondo, i
“nemici”, insomma, da combattere con
ogni mezzo24. Già in Sud America aveva
mostrato siffatta tendenza e nelle Memo-
rie, riferendosi a quegli anni lontani, annotava: “Il prete, sotto codesto cielo benedetto, striscia da rettile, come dovunque,
ma sui nostri non ha dominio, e pochissimo sui figli di quel paese”25. Fu però
dopo il 1860 che espresse tutto il livore
possibile ed immaginabile. Furono quelli,
anni difficili per il neonato ed ancora
instabile Regno d’Italia, minacciato più
dal tarlo dei nostalgici e dei clericali che
dal revanchismo austroungarico. Gli uni
e gli altri avevano costituito un fronte
unito e adoperavano periodici, quotidiani,
fogli diocesani e i pulpiti per destabilizzare
la Terza Italia. La loro voce aveva presa
soprattutto sulle plebi rurali, in gran parte
lontane dal processo risorgimentale, di
argomenti per infiammare le folle ne
avevano a sufficienza. Il fiscalismo, la
miseria dilagante, la coscrizione di leva,
la grossolana indifferenza verso la pietas
popolare erano, in vero, temi che andavano dritto al cuore della povera gente,
vittima dell’ignoranza e della miseria. I
reazionari avevano di conseguenza buon
giuoco a dipingere il nuovo regime come
un’accozzaglia di bestemmiatori, di atei,
di corrotti disposti a stremare il popolo
pur di assicurarsi ricchezza e privilegi: ‘‘Il
popolo vede l’abisso delle sue miserie [...] Le
gravezze che lo angustiano sono al colmo.
Egli non può stentare più oltre il pane della
sua esistenza per provvedere più lungamente
ai suoi liberatori mense, cantine stalle, veneri,
fumo e danze’’ 26. Spesso, usando, un
linguaggio dialettale, di facile presa e d’immediata comprensione, ricordavano il
felice tempo andato e le promesse dei
rivoluzionari miseramente tradite. Riporto, a titolo di esempio, questo dialogo
apparso nel 1864 su La Vespa. I protagonisti sono il ‘Gocciola’, un popolano disilluso e il liberale ‘Mignatta’. Il primo
rinfaccia continuamente al secondo gli
antichi impegni, mutati in amare delusioni: ‘‘Tu ‘un ti rammenti icchè tu mi dicesti?
I’ me ne ricordo sai, di cande tu mi dicei
che s’ave ‘sta tanto bene, che tutte le Domeniche c’avea entrà la ribotta, ch’è s’avea
lavorà poco e guadagnà di morto. Invece
caro mio, l’è andata tutta a rovescio. E polli
sono diventachi zucche, che prima le si tiraan
n’groppone a chi le portà a Firenze’’ 27.
Orchestrata dal diavolo in persona la genia
dei nuovi padroni: massoni, ebrei28 e
comunisti, usava come arma privilegiata
la corruzione e i loro caporioni solevano
raccomandare: ‘‘Lasciate da banda i vecchi
e gli adulti; uccellate la gioventù e, se
possibile, l’infanzia’’29. Ogni mezzo era
adoperato da tenebrosi “figli della vedova”
per corrompere le coscienze, ad iniziare
dalla divulgazione di opere letterarie di
autori blasfemi al pari di Dumas e di
Guerrazzi o dalla diffusione della musica
che ‘‘discesa dal cielo a conforto dei miseri
mortali serve [ora] ad accompagnare
parole e fatti schifosi come avviene nella
Violetta, nel Trovatore e in altre opere’’30.
Garibaldi, che si trovava dall’altra parte
della barricata, di fronte ad una simile
controffensiva, dette fuoco alle polveri,
sparando ad alzo zero su chiesa e sacerdoti.
Combatterli divenne un dovere, anzi “il
dovere di ogni onesto” 31 ed “eliminare il
prete, bugiardo e sacrilego insegnatore di
Dio ed ostacolo primo all’unità morale
delle nazioni”32 fu una missione. Era comunque ottimista, il regno della “nequizia
sacerdotale”, sarebbe ben presto crollato
e sulle sue rovine, sarebbe sorto il regno
de “la ragione e il vero”33. Odiava in particolare Pio IX34 “il primo nemico
d’Italia”35, “il pontefice della menzogna”36,
“il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore
delle genti”37 arrivò a chiamare uno dei
suoi asini col nome del pontefice38 e, nel
1869, complimentandosi per l’organizzazione dell’anticoncilio di Napoli39, sembra
che lo definisse “metro cubo di letame”40.
Anche la sua opera letteraria rigurgita di
anticlericalismo, così nel Poema autobiografico moderati e clericali sono dannati
alla stessa gogna: “Moderati!... e finiamola;
il lezzo sgorga / Dalla penna, scrivendo il
scellerato / Infame nome. Voi la stessa
creta / Veste a color del Vatican simile”41.
Non contento in una poesia dedicata a
Giosué Carducci, vate “illustre di Satana”
appellava la Chiesa “lue sacerdotale”42. Il
meglio di sé l’offrì comunque nel romanzo
Clelia il governo dei preti. I protagonisti
sono patrioti costretti a vedersela con gli
sporchi complotti di sacerdoti lascivi e di
abietti clericali43. La storia ha per protagonista Clelia “la perla di Trastevere” che i
15
preti, “schiuma dell’inferno” desiderano
concupire. A latere di siffatta vicenda vi
è spazio per tutto, anche per la vicenda
del figlio di un papa Farnese che “violò il
vescovo di Fano di cui si era innamorato”.
Alla fine lo stesso Garibaldi dubitò di aver
superato il limite tanto da affermare: “Se
la mia penna troppo sovente s’intinge nel
fiele e se sovente si tempera non col gentile
temperino ma con l’acuto, triangolare,
terribile pugnale del carbonaro ne ho ben
donde”44. Non fu di tenore diverso per
stile e contenuto, l’altro faldone narrativo
dell’Eroe I Mille: pagine e pagine d’insulti
contro tutto ciò che odorasse di clericale
e di papalino45. Il passare degli anni e
16
l’accentuarsi degli acciacchi non placarono
la vis polemica, anzi da Caprera cercò di
far pervenire alla stampa una lettera ove
si diceva ‘‘che se fosse stata eseguita la
condanna a morte pronunciata a Roma
contro i dinamitardi Monti e Tognetti,
che avevano fatto saltare in aria la caserma
Serristori, in ogni città d’Italia due preti
avrebbero pagato con la […] vita’’46.
Quando poi sentì sul collo l’alito della
morte, temendo di essere gabbato all’ultimo momento da un’estemporanea conversione, si cautelò, inserendo nel testamento politico il seguente paragrafo:
“Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello
stato spossato in cui si trova il moribondo
e della confusione che sovente vi succede,
s’inoltra e, mettendo in opera ogni turpe
stratagemma, propaga con l’impostura
di cui è maestro, che il defunto compì,
pentendosi delle sue credenze passate, ai
doveri di cattolico. In conseguenza io
dichiaro, che trovandomi in piena ragione
oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e
scellerato d’un prete, che considero atroce
nemico del genere umano e dell’Italia in
particolare. E che solo in istato di pazzia
o di crassa ignoranza, io credo possa un
individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”47. I clericali, a loro
volta, cercarono di rispondere alle bordate
dell’Eroe, “cinico anticlericale” ed otre di
“odio incontenuto contro ogni
religione”48. Di conseguenza diffusero
voci e dicerie, atte ad accreditarlo come
un essere demoniaco, in rapporto diretto
con l’Inferno. In taluni frangenti, questa
strategia si rivelò controproducente. Durante la difesa della Repubblica romana,
ad esempio, il nome stesso di Garibaldi
bastò a terrorizzare le truppe napoletane.
Insomma il mito nero di Garibaldi cangiò
in una possente arma psicologica. I fanti
borbonici, assai poco motivati, lo temevano quasi fosse un’entità ultraterrena, lo
chiamavano il diavolo rosso e nei bivacchi
si mormorava a bassa voce che fosse supportato da una forza luciferina: le pallottole
lo schivavano, le lame delle sciabole levate
contro di lui andavano in frantumi. I suoi
uomini poi, pervasi da solfurei umori, al
pari di novelli berserker, si mutavano in
belve assetate di sangue, non conoscevano
la paura ed erano insensibili al dolore.
Alla fine, qualcuno giunse addirittura a
ritenerlo ‘‘Belzebù in persona’’49: l’abbigliamento e l’aspetto ne erano una lampante riprova. Nonostante siffatta fama
la Repubblica Romana cadde e per il
Nizzardo iniziò un’epica quanto travagliata fuga, durante la quale, Anita gravida e
stremata, perì. Si approfittò allora di un
frettoloso esame della salma per dubitare
sulla causa della morte. Ma quale setticemia, si sussurrò! Era stato il Generale a
strangolare la consorte per sbarazzarsi di
un impiccio e forse per carpirle qualche
avere. Passò del tempo e la Chiesa, considerandolo un sorta di ossesso, ritenne
opportuno riconsacrare, con uno squal-
lido rito, la cappella dove egli e la moribonda compagna si erano fermati qualche
ora, tanto per tirare il fiato50. Durante e
dopo la Spedizione dei Mille l’opera di
demonizzazione di Garibaldi fu portata
avanti con metodi quasi scientifici. Vescovi
e preti, nella migliore delle ipotesi, lo
dipinsero come un guerrafondaio, un
brigante violento e sanguinario, un sadico,
un sacrilego di professione51. Di fronte a
cotale, inaudita perversione il Regno dei
Cieli non poteva rimanere indifferente ed
ecco perciò abbattersi sulla desolata Italia
terremoti, calamità naturali, epidemie52.
Tutte queste iatture, ad iniziare dal colera,
erano solo un assaggio dell’ira divina,
scatenata da Garibaldi e dai suoi confratelli
settari. Anche la letteratura popolare
d’estrazione cattolica, fu precettata per
combatterlo. In racconti, novelle, romanzi
a scopo educativo e morale, fu rappresentato come una sorta di mostro assetato di
sangue, brando sì ma delle forze delle
tenebre. Ne è un esempio singolare Lionello o delle società segrete che dedica un
intero capitolo a Garibaldi, vi si leggono
passi di questo tenore: “gramo il paese
ove [Garibaldi] approda, scaturendogli
sotto i passi fuoco e fiamma, e sgorgando
sangue da tutto ciò ch’ei tocca colla man
micidiale, e disseccando e struggendo e
consumando quando egli mira con gli
occhi biechi, o sente il mortifero fiato che
spira dal suo petto pregno del tossico e
del zolfo delle cospirazioni, delle sedizioni,
degli ammutinamenti e delle stragi”53.
“[Garibaldi] macella iniquamente tanti
prodi che combattono pel buon diritto
de’ loro legittimi signori; solleva i sudditi
contro l’autorità loro, mette a ruba, a
ferro, e fuoco le città fedeli, incrudelisce
contro i pacifici e onesti cittadini, si rende
il terrore e l’abominazione dei buoni”54.
Ogni occasione fu presa a pretesto per
denigrarlo. Nel 1875, quando il Nostro
accettò, per distribuirlo ai figli, il “dono
di gratitudine nazionale” di 50.000 lire
offertogli dal governo Depretis, apriti cielo!
I clericali lo sbeffeggiarono in mille maniere e, poiché l’elargizione corrispondeva
alla rendita di 2.000.000 lire oro, Civiltà
Cattolica lo ribattezzò ‘‘L’Eroe dei due
milioni’’. Col passare del tempo la tambureggiante campagna stampa contro
Garibaldi generò vere e proprie leggende,
come questa apparsa negli ultimi anni
della sua vita: a Caprera vi era un sosia di
Garibaldi manovrato dai frammassoni,
quello vero era ormai morto da tempo e
la sua anima nera friggeva nell’Inferno,
sotto lo sguardo compiaciuto di
Satanasso55. Nella sua Isola il Nizzardo
non si curava di siffatte scemenze, ormai
paralizzato dall’artrite, pensava soprattutto
all’istante fatale ed aveva disposto ogni
cosa con cura: le sue spoglie, secondo l’uso
massonico, dovevano essere cremate e
tumulate “nel muro del sarcofago delle
nostre bambine”56 sotto l’acacia, l’albero
sacro ad Hiram, segno di rinascita iniziatica.
Ultime volontà negate
Quando spirò alle 18.20 del 2 Giugno
1882, le ragioni di stato si imposero sulle
ultime volontà di Garibaldi e sei giorni
più tardi, l’8 Giugno, vi furono le solenni
esequie. Orazioni funebri furono pronunciate con voce stentorea, seppur venata
dalla commozione, da Crispi e da Zanardelli, davanti a stuoli di Garibaldini, a
rappresentanti della Camera, del Senato
e al duca di Genova inviato appositamente
dalla Corona57. Il tutto però fu rovinato
da un furioso temporale, gli abiti delle
signore s’inzupparono, le tube si mutarono in flosci catafalchi, le alte uniformi si
17
coprirono di disdicevole belletta.
Secondo alcuni il fortunale fu una
sorta di vendetta postuma del Nostro,
offeso per il mancato rispetto delle
sue volontà. I clericali però alzarono
il tiro, altro che spirito di Garibaldi!
Era stato l’Onnipotente a dare un
tangibile segno della propria terribile
ira. Il Buon Dio poi, non contento,
qualche mese più tardi, sarebbe andato oltre58. Il 9 luglio di quello stesso
anno, infatti, la Loggia “Garibaldi”
di Montevideo, si riunì per commemorare l’Eroe, nominato anni
prima Maestro Venerabile Onorario.
L’evento fu organizzato in una palazzina a due piani in via San Giuseppe, vi parteciparono 500 Liberi
Muratori con le loro famiglie, ad un
certo punto scoppiò un furioso incendio, vi furono 19 morti e numerosi feriti59. Ecco gli strali dell’Altissimo, commentò qualcuno,
scatenarsi contro chi ha irriso il
‘‘Geova de’ sacerdoti’’. La morte
impedì a Garibaldi di assistere all’offensiva che i clericali, avrebbero
mosso di lì a poco contro la Massoneria e il suo Gran Maestro
Adriano Lemmi, con l’intento di
colpire il Primo Ministro Francesco
Crispi60, anch’egli fratello. Non lesse
quindi le facezie di un certo Leo Taxil,
né delle sue creature, rispondenti al
nome di Diana Vaughan e del dottor
Battaille61. La signora dalla falce, insomma,
lo mise al sicuro da cotanto fango. Niente
però ha potuto ripararlo dal revisionismo
storico che ultimamente ha preso di mira
anche il Risorgimento. Si iniziò negli anni
’90 a tirare nel mucchio, senza risparmiare
né l’Eroe dei due mondi, né Mazzini e
Cavour. A costoro, presunti padri della
Patria - si disse - “sono dedicati [in piazze
e viali] monumenti e bronzi [mentre] la
città più giusta [ad accoglierli] sarebbe
[…] Norimberga”62. Più tardi altri, con
meno enfasi e maggior mestiere, cercarono e cercano di demolire la figura di quel
“diavolo rosso”, rispolverando i “si dice”
di quasi un secolo e mezzo fa63. Si tratta
di una sorta di processo postumo, assai
discutibile, ma probabilmente imposto
dalla fama. Forse questo è il fato dei grandi,
al quale nemmeno l’Italiano più celebre
al mondo sembra potersi sottrarre.
18
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Massoneria nell’ultimo periodo del Risorgimento
italiano, Alessandria 1914.
- G. Pelaggi, La donna nella Massoneria, Catanzaro 1952.
- A. Pellicciari, Garibaldi: un uomo dal cuore
tenero, in Il Timone, n. 15, Settembre – Ottobre
2001.
- A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali
e massoni contro la Chiesa, Milano 1998.
- L. Pruneti, I segreti di Garibaldi (parte II).
Un Gran Maestro in odore di zolfo, in Archeomisteri, a. VI, n. 33, Maggio - Giugno
2007.
- L. Pruneti, I segreti di Garibaldi fra guerra
di corsa e massoneria, in Archeomisteri, a. IV,
n. 32, Marzo – Aprile 2007.
- L. Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia
dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002.
- L. Pruneti, La tradizione massonica scozzese
in Italia, Roma 1994.
- L. Pruneti, Oh setta scellerata ed empia. Appunti su oltre
due secoli di pubblicistica antimassonica, Firenze 1992.
-G.Sacerdote,LavitadiGiuseppeGaribaldi,Milano1933.
- A. Sbardellati, Il Fratello Giuseppe Garibaldi, Roma 1993.
- A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un
cittadino del mondo, Bari 2004.
- C. Spellanzon, Garibaldi, Firenze 1958.
- R. Ugolini, Garibaldi genesi di un mito, Roma 1982.
- Una loggia femminile a Napoli, in Acacia, IV, n. 43, 1913.
- F. Vigni, Donne e massoneria dalle origini ad oggi,
Foggia 1997.
- F. Vigni, L’iniziazione femminile nella massoneria
italiana, in Storia d’Italia, Annali, La Massoneria, a.
c. di G. M. Cazzaniga, vol. XXI, Torino 2006.
___________________
Note:
Cfr. L. Pruneti, I segreti di Garibaldi (parte II). Un
Gran Maestro in odore di zolfo, in ‘‘Archeomisteri’’, a.
VI, n. 33, Maggio - Giugno 2007.
2
Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia oscura
della storia, Roma s.d., pp. 126 - 127; C. Patrucco,
Documenti su Garibaldi e la Massoneria nell’ultimo
periodo del Risorgimento italiano, Alessandria 1914,
p. 9; AA. VV. La liberazione d’Italia nell’opera della
Massoneria, Foggia 1990, p. 62.
3
M. Gallo, Garibaldi la forza di un destino, Milano
2000, p. 85; A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori,
1
ideali di un cittadino del mondo, Bari 2004, p. 34.
4
L. Lami, Garibaldi e Anita corsari, Milano 2002, p.
220; G. Oneto, L’Iperitaliano. Eroe o cialtrone? Biografia
senza censure di Giuseppe Garibaldi, Rimini 2006, p.
41.
5
L. Pruneti, I segreti di Garibaldi fra guerra di corsa
e massoneria, in ‘‘Archeomisteri’’, a. IV, n. 32, Marzo
– Aprile 2007, p. 90.
6
A. Sbardellati, Il Fratello Giuseppe Garibaldi, Roma
1993, p. 29.
7
Giuseppe Garibaldi, il Gran Maestro dell’umanità,
a.c. di C. Gentile, Foggia 1981, p. 28.
8
C. Patrucco, Documenti su … cit, p. 11.
9
G. Sacerdote, La vita di Garibaldi, Milano 1933, p.
923.
10
Ibidem, p. 922
11
Nella prima costituente massonica, tenuta a Torino
il 26 dicembre del 1861, Garibaldi fu acclamato
“primo Libero Muratore d’Italia”. Siffatto onore gli
fu confermato nella costituente di Napoli del 1867.
Garibaldi, in ‘‘Il Laboratorio’’, n. 75, Gennaio –
Febbraio – Marzo 2007, p. 26. Cfr. V. Gnocchini,
L’Italia dei Liberi Muratori, Roma 2005.
12
C. Patrucco, Documenti su … cit., p. 49.
13
Garibaldi uomo e massone, a. c. di F. Belmonte,
Salerno 1982, pp. 80, 83 – 84.
14
A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle
origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 114.
15
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 99.
16
C. Gentile, Giuseppe Garibaldi, il Gran Maestro
dell’umanità, Foggia 1981, p. 33; A. Sbardellati, Il
Fratello Giuseppe Garibaldi … cit, p. 67.
17
A. Scirocco, Garibaldi … cit, p. 331; G. Oneto,
L’iperitaliano … cit, p. 208; Montanelli M. Nozza,
Garibaldi. Ritratto dell’Eroe dei due mondi, Milano
2002, p. 479.
18
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 234.
19
Nel 1848, appena tornato in Italia, avrebbe affermato che se gli uomini avessero temuto di accorrere
per combattere gli austriaci, avrebbe chiamato a
raccolta le donne, C. Spellanzon, Garibaldi, Firenze
1958, p. 14.
20
C. Gentile, Giuseppe Garibaldi, il Gran Maestro …
cit., p. 38; F. Vigni, L’iniziazione femminile nella
massoneria italiana, in Storia d’Italia, Annali, La
Massoneria, a. c. di G. M. Cazzaniga, vol. XXI, Torino
2006, p. 779 e segg.; Una loggia femminile a Napoli,
in “Acacia”, IV, n. 43, 1913, pp. 27 – 28; cfr. F. Vigni,
Donne e massoneria dalle origini ad oggi, Foggia 1997.
21
G. Pelaggi, La donna nella Massoneria, Catanzaro
1952, p. 20.
22
A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana... cit,
pp. 112-113.
23
L. Pruneti, La tradizione Massonica Scozzese in
Italia, Roma 1994, p. 16 e segg.
24
M. Milani, Giuseppe Garibaldi, Milano 1982, p. 534.
25
G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze
1982, p. 272.
26
L. Pruneti, Oh setta scellerata ed empia. Appunti su
oltre due secoli di pubblicistica antimassonica, Firenze
1992, p. 29.
27
In “La Vespa”, 17 Giugno 1864.
28
L. Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002, pp. 58 – 59.
29
Fatti e argomenti intorno alla massoneria e ad altre
società segrete, Genova 1862, p. 113.
30
Ibidem, pp. 100 – 1001.
31
A. Sbardellati, Il Fratello Giuseppe Garibaldi... cit, p. 53
L. Pruneti, La sinagoga di satana... cit, p. 71.
33
Ibidem, p. 72.
34
Nel 1847 Garibaldi, come tanti altri giovani, aveva
riposto grandi speranze in Pio IX, tanto che in una
celebre lettera giunse ad “offrire a Sua Santità la sua
spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa
cattolica”. Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze, a. c. di L. Villari, vol. III, Roma 2007, p. 618.
35
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 182.
36
M. Gallo, Garibaldi, la forza di un destino, Milano
2000, p. 391.
37
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 240.
38
Ibidem, p. 78.
39
Poco tempo dopo però, Garibaldi smentì la paternità di quella frase ingiuriosa. Ibidem, p. 222.
40
F. R. Esposito, La Massoneria e l’Italia dal 1800 ai
nostri giorni, Roma 1979, p. 71.
41
R. Ugolini, Garibaldi genesi di un mito, Roma 1982,
p. 277.
42
G. Garibaldi, Prose, Firenze 1998, pp. 71 e 73,
43
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 221.
44
I. Montanelli M. Nozza, Garibaldi… cit , p. 528.
45
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 234.
46
I. Montanelli M. Nozza, Garibaldi … cit, p. 529
47
G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi … cit, p. 938.
48
Dizionario Ecclesiastico, a. c. di A. M. Bozzone, vol.
II, Torino 1955, p. 23.
49
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 56.
50
M. Milani, Giuseppe Garibaldi … cit, p. 534.
32
51
A. Scirocco, Garibaldi… cit, p. 358.
L. Pruneti, La sinagoga di satana … cit, p. 53.
53
Lionello o delle società segrete, vol. II, Napoli 1860, p. 112.
54
Lionello … cit, p. 124.
55
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 240.
56
G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi … cit, p. 944.
57
Ibidem, p. 946.
58
G. Oneto, L’iperitaliano … cit, p. 243.
59
Ibidem, p. 243.
60
A. A. Mola, Giosue Carducci. Scrittore, politico,
massone, Milano 2006, p. 313.
61
L. Pruneti, La sinagoga di Satana… cit, pp. 85 –
112; G. C. Loraschi, L’antimassoneria , in “Hiram”,
n. 5, Maggio 1990, pp. 113 – 114.
62
A. Mazzocchi, La massoneria nella stampa italiana
degli anni Ottanta, Firenze 1994, p. 75.
63
A. Pellicciari, Garibaldi: un uomo dal cuore tenero,
in “Il Timone”, n. 15, Settembre – Ottobre 2001. Su
una rivisitazione in negativo del Risorgimento cfr.
A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e
massoni contro la Chiesa, Milano 1998.
52
P.12: Ritratto di G.Garibaldi, collez. GLDI, Roma; p.13,
14 e 15: ‘L’album del ‘59’, raccolta di scritti e illustrazioni
risorgimentali, a cura della Banca Pop. Milano; p.14 in
basso: Pio IX, stampa; p.16 e 19: Ritratti fotografici di
G.Garibaldi, collez. privata; p.17: Testamento autografo
di G.Garibaldi, collez. privata; p18: Garibaldi in Inghilterra
al Crystal Palace, London Illustrated News, 1864 (tutte
le foto delle riproduzioni sono di P. Del Freo)
19
20
P
remessa
Giuseppe Garibaldi fu uomo di
fede. Anzi, poiché fece sempre
tutto in grande, fu anche di fede profonda,
incrollabile. Il suo “credo”, però, non fu
quello della chiesa cattolica, in cui nacque
e venne cresciuto dalla madre, Rosa Raimondo, né di altre religioni rivelate. Anzi,
non fu neppure un “credo” se per tale
s’intende una dottrina sistematica, una
filosofia o anche solo una somma di verità.
Se lo costruì egli stesso dagli anni giovanili,
contemplando il mare e il cielo, visitando
genti, esplorandone credenze e costumi,
vivendo e ponendosi via via gl’interrogativi
di sempre: che cosa debbo a Dio, alla patria,
a me stesso...? Negli ultimi quindici anni
scrisse le sue riflessioni su religione e religiosità e accennò quali fossero i suoi punti
fermi: Dio-Intelligenza Infinita, sua presen-
za in ogni uomo, sua manifestazione nel
creato e una certa fiducia nel ricongiungimento dell’intelligenza individuale all’universale dopo la separazione dal corpomateria. Il tutto fra interrogativi senza
risposte e dubbi: con molta tolleranza verso
le opinioni altrui e sommessa richiesta di
rispetto per le proprie. Ha dunque torto
chi liquida Garibaldi come uomo di poca
fede? Forse si, forse no. Per rispondere
bisogna chiarire che cosa s’intenda e che
cosa egli intendesse per fede. Peppino fece
di tutto per farsi considerare un miscredente
opportunista. Basti pensare alla sua condotta nei confronti di riti e osservanze.
Il personaggio
Giuseppe Garibaldi (Nizza Marittima, 4
luglio 1807-Caprera, 2 giugno 1882) fu
artefice dell’unificazione nazionale italiana
e profeta universale della libertà e del pro-
gresso civile ed economico. Poiché sulla
sua figura e sul suo pensiero si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare
alcuni punti fermi su un aspetto centrale
della sua personalità: la religiosità. Vale per
lui come per Giosue Carducci (che fece di
Garibaldi un secondo padre: per certi
aspetti ancor più vicino di quello carnale)
e molti altri protagonisti dell’Ottocento
europeo e italiano, specialmente di quelli
impegnati per l’elevazione dei popoli a
nazioni-Stato, in linea con una filosofia
della storia consolidatasi tra Sette e Ottocento. In premessa va detto che anche sulla
religione apparentemente Garibaldi disse
e scrisse tutto e il contrario di tutto. Va
ricordato inoltre che molte dichiarazioni
e lettere attribuite a Garibaldi non sono
propriamente sue. A volte si limitò a firmarle o ad autorizzare che comparissero
21
a nome suo. Altre volte gliene venne attribuita la paternità, senza che si premurasse
(o avesse occasione o motivo) di smentirle
o correggerle.
Occorre però distinguere tra documenti
relativi alla vita militare e politica, quelli
concernenti affetti domestici e amicizie e
le carte cui affidò i suoi pensieri su temi
generali. Tra queste ultime speciale rilievo
occupano le sue riflessioni sulla religiosità.
Esse includono tre diversi temi: Dio, le
religioni, le chiese intese come clero.
22
Il pensiero e gli scritti
Per comprendere il pensiero di Garibaldi
su un tema così rilevante vanno presi in
esame anche i suoi discorsi e gli scritti
letterari, le cui pagine gli rimasero dinnanzi
agli occhi e sotto la penna più a lungo di
quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata o
vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione
o incalzato dal fitto carteggio quotidiano,
cui dedicò attenzione e tempo sino a quando le forze glielo consentirono. Nelle prose
d’arte (per quanto arte povera, come non
esitò mai a dichiarare e a riconoscere)
Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva alle proprie riflessioni.
Debitamente confrontate con le altre fonti
utili a coglierne il pensiero, esse conducono
ad affermare che Garibaldi fu credente in
un Dio personale, creatore e ordinatore
dell’universo, provvidente nei confronti
delle sue creature.
Clelia
Leggiamo a conferma l’incipit del capitolo
LXIII di Clelia, il governo dei preti: “Era una
di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni
miseria della vita per rivolgerti tutto intiero
alle meraviglie colle quali il Creatore ha
fregiato i mondi. L’alba primaverile che
spuntava dall’orizzonte, così graziosamente
tinta dei colori dell’Iride, t’incantava...”.
Poco oltre, il capitolo intitolato Morte ai
preti gronda invettive contro il clero cattolico: “Tra le astuzie dei sardanapali pretini,
ricchissimi com’erano, sempre mercé la
stupidità dei fedeli, non ultima fu quella
d’impiegare gli artisti più eminenti nella
illustrazione delle loro favole”. Ai capolavori
di Michelangelo e Raffaello contrappose
la libertà e la dignità nazionale, “vero capo
d’opera di un popolo”.
Contraddizione? No.
I Mille
In I Mille, un romanzo (mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici dell’anticlericalismo
militante; nondimeno nella prefazione si
scusò pubblicamente perché gli parve di
avervi detto abbastanza male dei preti.
Nello stesso libro, tuttavia, le più roventi
condanne di papi, imperatori, preti (soprattutto i gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata,
della “religione della libertà” e della religiosità in sé quale vincolo necessario all’umano incivilimento. Si rilegga, per esempio, l’accorato capitolo 61°, La morente,
ove viene descritta la straziante agonia di
Marzia, una delle eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie
di Francesco Crispi, personaggio storico
mescolato a quelli di fantasia): “Marzia
sentiva vicinissima la morte, ma dotata di
sì supremo coraggio e di quell’eroismo
filosofico capace di affrontarla come una
conosciuta, come una transizione naturale
della materia (...) Marzia accennò colle
labbra un bacio verso Lina, che fu seguito
da P. e dai cari presenti; non articolò più
parola e passò tranquilla all’Infinito!” Materialismo panico? o spiritualismo?
Il sogno
Il capitolo conclusivo del romanzo, Il sogno,
raccoglie le contraddizioni di Garibaldi e
indica la via del loro superamento. L’Eroe
assiste al “sorgere del Figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle cime dell’Apennino”. Mentre contempla l’aurora,
intravvede il nuovo ordinamento dell’Italia
unita, “un governo di tutti e per tutti”
(‘‘non so se lo chiamassero Repubblicano’’
tiene a precisare), fondato sulla giustizia e
sua garante. E assisté al miracolo: la riesumazione gloriosa delle ossa dei martiri
caduti per la patria (“Si scopron le tombe,
si levano i morti,/ i martiri nostri son tutti
risorti...”) e, al tempo stesso, alla redenzione
dei chercuti, incluso il santissimo padre,
“non più panciuto e con le pantofole dorate,
ma calzato con un buon pajo di stivali,
snello e robusto che consolava il vederlo”.
Pio IX dirigeva di persona i preti intenti
alla bonifica delle Paludi Pontine: “chi colla
vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavo-
ravano la terra che era una delizia”. A
quell’afflizione educativa, alla fatica quale
risarcimento dei danni inflitti alla società
non erano però solo i preti nella visione di
Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava
“una quantità di finanzieri d’ogni classe,
di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto
e tanta altra gente inutile alla società ed ora
resa utilissima”. “I preti diventati laboriosi
ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia,
come i primi consueti al dolce far niente
ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegan-
23
do la schiena al lavoro. Non più leggi scritte.
Misericordia! Grideranno tutti i dottori
dell’Universo, oggi obbligati anche loro a
menare il gomito per vivere. Finalmente
una trasformazione radicale in tutto ciò
che abusivamente chiamavasi civilizzazione
e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e
tale soddisfazione per il nuovo stato sociale,
ch’era un vero miracolo!”.
Il sogno garibaldino
Il sogno garibaldino di palingenesi va dunque molto oltre la o le chiese o, se si preferisce, guarda altrove: la politica assai più
che religione e religiosità. Sentì egli stesso
il bisogno di chiarire il proprio pensiero in
una lunga nota esplicativa sul concetto di
Infinito: “Nelle presenti controversie della
Democrazia mondiale, in cui si scrivono
dei fascicoli numerosi per provare Dio gli
uni, per negarlo gli altri,e che finiscono per
provare e per negare nulla; io credo sarebbe
conveniente stabilire una formola edificata
sul Vero, che potesse convenire a tutti ed
affratellare tutti... Per parte mia accenno e
non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che
sono la definizione l’uno dell’altro, servire
all’uopo? Io lo credo; ma non lo insegno.
V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia,
come lo prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. E’ essa
24
parte integrante della materia? Emanazione
della materia? La soluzione di tale problema
è superiore alla mia capacità (...).”
Interrogativi senza risposta
Garibaldi si poneva dunque domande
comuni a tanti uomini. “Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?” Non aveva
certezze e, ciò che più conta, non s’impancava a imporre verità che per primo non
possedeva. Quello degl’interrogativi senza
risposta è il Garibaldi vero. E’ anche un
Garibaldi molto attuale, giacché non propone affatto una dottrina, un catechismo,
un insegnamento né, meno ancora, un
modello cui attenersi rigidamente. Egli
offre solo un esempio: quello di chi convive
con i dubbi, reputa di non arrivare a darsi
alcuna soluzione definitiva e tuttavia non
si abbandona alla disperazione né diviene
scettico o indifferente. Garibaldi attende
senza nulla pretendere. Sente che di giorno
in giorno la vita si esaurisce, ma non ne
prova angoscia. È.
Le ombre del cattolicesimo
Nato e a lungo cresciuto nella tradizione
cattolica, Giuseppe Garibaldi ebbe la vita
scandita dai sacramenti sino al secondo
matrimonio, con la diciassettenne Giuseppina Raimondi (24 gennaio 1860, nella
cappella della villa patrizia dei Raimondi
a Fino). Tutti i figli furono battezzati. Lo
strappo dai sacramenti coincise con due
eventi, uno pubblico, uno privato, che
s’intrecciarono e ne alimentarono l’anticlericalismo, anzi la dichiarata avversione
contro tutte le chiese e specialmente nei
confronti della chiesa cattolica, papa ed
ecclesiastici di tutti gli ordini e gradi, con
qualche eccezione personale nei confronti
di sacerdoti incontrati nel corso delle battaglie patriottiche. In primo luogo gli bruciò
il mancato “scioglimento” delle nozze benché fosse divenuto di dominio pubblico
che la “puttana” (come, secondo un racconto, egli apostrofò Giuseppina, brandendo una seggiola) era incinta di altri (il
garibaldino Luigi Caroli) come apprese
appena terminata la cerimonia o, più verosimilmente, tre o quattro giorni dopo.
Per ottenere l’annullamento l’eroe non
esitò a dichiarare a Lorenzo Valerio, deputato della sinistra democratica, di avere
avuto, si, “con essa delle copulazioni”, ma
solo prima del matrimonio giacché dal 20
gennaio pareva che la ‘fidanzata’ avesse
contratto il vaiolo. “Non avendola più
copulata - argomentò Garibaldi - , io penso
che si può considerare il matrimonio non
consumato”. Non ci fu verso però di aprire
alcuna breccia presso l’autorità religiosa e
solo vent’anni dopo, il 14 gennaio 1880, la
Corte d’Appello di Roma annullò le nozze
giacché (fu la trovata geniale di Pasquale
Stanislao Mancini) erano state celebrate
quando in Lombardia vigeva il codice austriaco, che appunto prevedeva l’annullamento del matrimonio “rato e non
consumato”. In secondo luogo crebbero
l’ira e la sete di vendetta di Garibaldi contro
il papa-re: ogni fallimento dei ripetuti tentativi di scardinarne lo Stato e rovesciarlo
dal trono riapriva le piaghe della Repubblica
romana del 1849, della dolente marcia dalla
Città Eterna a San Marino, della tragica
morte di Anita (febbre e stenti) nella pineta
di Ravenna (4 agosto), della fucilazione di
don Ugo Bassi e di altri seguaci... Per
renderla più accettabile agli occhi
propri e della sua parte politica,
Garibaldi finì per mettere in conto
al Papato la regia pallottola
conficcatasi nel malleolo del
piede destro all’Aspromonte
(29 agosto 1862) e a Mazzini
e ai mazziniani lo scarso seguito che ne aveva svigorito
la spedizione dell’ottobre
1867 drammaticamente
conclusa a Mentana. Era
quanto bastava a inasprire la
sua avversione nei confronti
della Chiesa e di ‘‘Teopompo’’
(come Carlo Marx denominò
sarcasticamente Mazzini). Questa,
però, non divenne mai negazione
della religiosità né di Dio. Lo confermano le sue Memorie, scritte dopo
Porta Pia. Non vi manca, anzi, la reiterata
narrazione di trasalimenti che sono eco di
spiritualità panica: è il caso del risveglio in
navigazione sull’Oceano, quando sentì la
morte della madre.
Religiosità e massoneria
La religiosità di Garibaldi non è messa in
discussione dalla sua adesione alla massoneria, né, meno ancora, dalle cariche che
gli vennero conferite: ora accettate, ora
lasciate, sempre con l’obiettivo di farne il
“gran fascio della democrazia”, anzi dell’Italia stessa, della “Nuova Italia”. Lo stesso
vale per il testamento nel quale dispose che
la salma fosse arsa con rito classico: meticolosamente da lui indicato, del tutto diverso dalla cremazione poi promossa da
alcuni settori della massoneria. Anche a
quel modo Garibaldi ribadì la sua estraneità
alla chiesa cattolica. Sciolto dal matrimonio
con la “puttana” grazie al codice civile
asburgico, sposata con solo rito civile
Francesca Armosino, che da anni lo assisteva e gli aveva dato Clelia, Rosa e Manlio,
per sé Garibaldi non aveva altro da rivendicare. Era in pace con se stesso. Popolana
appena in grado di scrivere poche frasi,
Francesca gli fece approntare, a sorpresa,
la camera colma di luce e di azzurro in cui
attendere la Grande Visitatrice. Il 2 giugno
1882 sul davanzale della stanza in cui Garibaldi agonizzava si fermarono due capinere. A chi voleva allontanarle, con un filo
di voce il Solitario (come il generale si
compiacque definirsi) disse le lasciassero
sostare: forse erano le due figlie, entrambe
di nome Rosa, perdute appena bambine.
Chiamavano, attendevano... Lo avrebbero
guidato, verso l’Infinito. Così era Garibaldi:
pira omerica da un canto, tenerezza dall’altro. Sogni. Bontà. Armi e pacifismo, invettive e abbracci. A una parete della stanza
in cui si spegneva l’uomo di grande fede
nell’Intelligenza Suprema faceva gran mostra di sé il diploma che lo celebrava presidente della società ateistica italiana. Contraddizioni? Si. Risolte accettando di
convivere in pace con tanti dubbi, voltarsi
dall’altra e fare.
Una religiosità civile
Garibaldi fu il campione dell’ ‘‘Italia laica’’?
Su uso ed abuso del termine laico (da aggettivo cresciuto a sostantivo) è opportuno
stabilire una moratoria e fare una riflessione.
Secondo Niccolò Tommaseo laico è “quegli
che non è iniziato, né fatto abile a maneggiare le cose sacre”: esattamente l’opposto
del senso in cui esso oggi suona. Laici aggiunge Tommaseo - erano gl’illetterati
nei secoli in cui studiavano solo preti e frati.
Laico non era dunque un’insegna gloriosa.
Bene si comprende perché gli artefici dell’unificazione nazionale e della Nuova Italia
non ne facciano mai uso. “Laico” è un abito
nel quale non si riconoscevano. Cavour,
Azeglio, Minghetti, Sella e via seguitando
sino a Garibaldi e a Carducci (rappresentanti
di due diverse generazioni, questi ultimi,
abbraccianti i vent’anni decisivi da Villafranca alla Triplice Alleanza) contrapposero
liberale a servile, liberi a mitrati, i “figli della
libertà” (e persino della santa libertà) a
quelli incatenati nelle tenebre del clericalismo. Garibaldi fu campione di religiosità civile, alternativa a quella dei
catechismi (tutti: non solo della chiesa
cattolica, come ribadì a ogni pie’
sospinto), di religione patria e universale, senza cedimenti all’incredulità né al materialismo. Per un
marinaio, uomo del mare e delle
stelle quale egli fu, la scienza era uno
sguardo nel mistero, non la saracinesca su ciò che è oltre. E’ l’invito a
procedere nella ricerca, non la tentazione di separare ciò che si vede e si
misura da quanto si percepisce e si
esprime con un semplice segno, con un
simbolo. Il segreto della complessa personalità di Garibaldi fu dunque ch’egli era un
poeta? Di sicuro pochi altri come lui (o
forse nessuno, quanto meno nell’ “uso
pubblico”) suscitarono la creatività di tanti
artisti e scrittori. Tutti uomini di religione.
Laici? Niente affatto. Tutti uomini “di fede”:
quanto meno di fede nel Bello. Quella di
Garibaldi fu la fede di chi fa, dà ogni giorno
il meglio di sé, nella serena convinzione di
essere responsabile delle proprie azioni, di
cui deve rispondere dinnanzi a se stesso e
agli uomini, senza pretendere né speciali
soccorsi né compiacenti assoluzioni. Caposaldo della religiosità di Garibaldi fu l’alto
rispetto dell’Infinito. Dopo averci riflettuto
a lungo, concluse che l’uomo deve fare
quanto sente sia il proprio dovere, senza
nulla attendere, né temere. Da uomo libero.
P.20, 22, 23 e 25: Ritratti fotografici di G.Garibaldi, collez.
privata; p.21 e 24: ‘Dal Molino...’ e ‘Garibaldi’, volumi d’epoca
sulle gesta dell’eroe (tutte le foto delle riproduzioni sono
di P. Del Freo)
25
26
M
olto è stato scritto fino ad oggi
relativamente all’Inquisi-
zione, e in particolare circa l’utilizzo da
parte di questo Tribunale di metodi coercitivi quali la tortura; molti autori cattolici e non - hanno correttamente
insistito, in tale direzione, nell’accusare
la Chiesa romana di avere, con una fanatica e feroce repressione, basata sul
terrore e sui supplizi più crudeli, arrecato,
per mezzo di tale disumana macchina
giudiziaria, un’intollerabile offesa alla
libera coscienza degli individui, insanguinando il mondo cristiano con il vermiglio
bagliore dei suoi roghi. In effetti la repressione dell’eresia venne considerata una
cosa talmente aberrante, da incontrare
seria opposizione già nello spirito pubblico
del Medioevo, sebbene - cosa davvero
I
l contesto sociale, politico e culturale
in cui maturò l’istituzione della
tortura ad opera della bolla Ad extirpandam del 1252
La Chiesa Romana, assunto il ruolo di
potenza regolatrice e tutrice di ogni altra
autorità temporale, si preoccupò, in effetti,
esclusivamente di utilizzare ogni mezzo
posto a sua disposizione dalla preminente
posizione conquistata, per garantire la conservazione del suo potere e la sussistenza
dei suoi privilegi, nonché per difendersi
contro i propri nemici e, in particolare,
contro l’eresia che dilagava nel mondo
cristiano, attentando al dogma, presupposto
vitale della sua stessa esistenza. I vari Papi
incominciarono, così, a usare prima le armi
spirituali contro i nemici della fede, e poi,
gradualmente, soprattutto quando constatarono che queste erano spesso, in concreto,
inefficaci, pene corporali idonee a reprimere
il delitto di eresia, e ad arginare la diffusione
del fenomeno. A tale proposito, non deve
stupire che gli stati e i sovrani temporali,
anch’essi attaccati, si unissero alla Chiesa
nell’opera di difesa, sia per lo spiccato carattere destabilizzante che rivestiva l’eresia, sia
perché essi sentivano la necessità di tutelare
singolare - di essa si parli assai raramente
la Chiesa di Dio, dalla quale derivava ogni
loro potere, secondo la sapiente dottrina
teologica, strategicamente costruita dai
Sommi Pontefici. Infatti lo sviluppo morale
e intellettuale del mondo cristiano nel Medioevo era stato principalmente teologico.
La teologia dirigeva e controllava, signora
assoluta, lo spirito umano, impregnando
di sé tutti i più importanti settori dello scibile
umano e dunque della vita pratica, dalla
filosofia, alla politica, all’economia, alla
storia, e via dicendo, interpretati sempre da
un punto di vista teologico. Il mondo nel
Medioevo aveva quindi un ordinamento
strutturale e costitutivo che presupponeva,
in tutto e sempre, la fede cattolica; era fondato sul rispetto per le leggi della Chiesa e
dei suoi diritti quale, almeno in apparenza,
protettrice dei deboli, sull’obbedienza ai
Vescovi e ai prìncipi, ministri di Dio in
terra. Chi attentava alla fede e ai suoi dogmi
fondamentali, minacciava perciò l’esistenza
stessa della società umana, e la colpiva al
cuore. Per converso, in un’epoca in cui il
pensiero umano si esprimeva prevalentemente in categorie e forme teologiche, le
dottrine di tipo libertario-rivoluzionario ed
anarchico-insurrezionalista si manifestava-
nei racconti e nelle cronache dell’epoca
(in quanto redatti da esponenti eruditi
del potere costituito dell’epoca, ossia da
ecclesiastici), mentre se ne tratti diffusamente - ed in maniera negativa - nei
racconti e nelle ballate tramandate oralmente dai cantastorie, soprattutto in
Francia e nell’Europa centro–settentrionale. Oggi si assiste, invece, a dibattiti
continui e accesi circa l’inammissibilità
e l’illiceità, in termini etico–religiosi, del
fenomeno della lotta contro gli eretici
durante l’età di mezzo, e si invoca come
giusto parametro di valutazione la teoria
dei diritti umani, i principi della libertà
di religione, dell’uguaglianza delle fedi,
del ripudio dei mezzi di repressione violenta del crimine da parte dell’autorità
pubblica, ecc.
27
no per lo più sotto forma di eresie. Da tutto
quanto precede, derivava il carattere di
estrema pericolosità, rivestito da ogni specie
di eterodossia, nei riguardi dell’ordine sociale
ed ecclesiale, indipendentemente dai suoi
contenuti. Fino a che si trovò di fronte
solamente a opinioni astratte, tali da non
mettere in serio pericolo il suo potere, la
Chiesa fu sostanzialmente tollerante, limitandosi a riprovare e censurare tali costruzioni teoriche nei Concili, infliggendo le
relative pene spirituali (interdetto, scomunica, ecc.) agli autori di quelle; ma quando
tali opinioni presero a minare la sua gerarchia, la sua organizzazione, il suo potere,
che erano la base e la garanzia del funzionamento dell’intera società medievale, allora
28
la Chiesa cominciò a difendersi energicamente, con ogni mezzo utile. Gradualmente
si cominciò ad interpretare in senso letterale
stretto, e dunque in maniera arbitraria ed
inaccettabile, il passo del Vangelo di San
Giovanni che, rievocando le parole di Cristo,
ammoniva: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me e io in lui, fa molto frutto,
perché senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me venga gettato via
come il tralcio e si secchi, e poi lo si raccolga,
lo si getti nel fuoco e lo si bruci”. Evidentemente san Giovanni non aveva affatto in
mente i tribunali ecclesiastici quando - forse
- scrisse queste righe; e ancor meno poteva
prevedere che le sue parole sarebbero state
inopinatamente strumentalizzate dalla Chie-
sa di Cristo per giustificare, sul piano teologico, abominevoli pratiche punitive quali
la tortura ed il rogo.
Il fondamento giuridico-politico della
tortura durante il Medioevo e disciplina
generale del supplizio
Per quanto riguarda la tortura, va osservato
che essa era un mezzo di prova legalmente
riconosciuto e utilizzato da tutte le giustizie
medievali, talora definito supplicium, talaltra
tormentum. Non deve quindi sorprendere
che l’Inquisizione se ne sia servita per realizzare i propri obiettivi, certo non di giustizia, ma di mera conservazione della sua
autorità, supremazia e controllo sociale.
Tale misura probatoria coercitiva (ma il
discorso sarebbe analogo per qualunque
altra pena corporale, rogo compreso) indice di barbarie selvaggia, perché profondamente lesivo dei diritti e delle libertà
fondamentali dell’uomo (validi in qualunque epoca perché tutelati dal diritto naturale)
- trovò la sua presunta ragione giustificatrice,
in senso giuridico-canonico, non nella gravità oggettiva e assoluta della colpa, bensì
nella soggettiva estimazione del danno che
arrecava ad un certo gruppo sociale - in
questo caso la Chiesa - l’atto criminoso del
reo. Anticipando di qualche secolo la regola
machiavelliana ‘il fine giustifica i mezzi’, il
potere ecclesiastico ritenne perciò indifferentemente lecito ricorrere a qualunque
strumento repressivo, purchè fosse efficace
a combattere i nemici della Chiesa e, in tal
guisa, giunse all’aberrante costruzione giuridica della tortura come legittimo strumento per l’accertamento della verità nell’ambito
del processo canonico. Fu così che Innocenzo IV, con la bolla Ad extirpandam del
1252, acconsentì esplicitamente e ufficialmente all’utilizzo della tortura nei processi
per eresia, precisandone i casi e le modalità
di impiego. Per rispetto agli antichi statuti,
gli inquisitori e i Vescovi, per applicarla,
dovevano richiedere - alquanto ipocrita
mente - l’intervento del braccio secolare;
non potevano neppure assistervi sotto pena
di incorrere nelle censure ecclesiastiche, che
vietavano ai chierici ogni spargimento di
sangue. Ma detto atteggiamento di falso
ripudio della violenza da parte della Chiesa
venne ben presto meno per esigenze di
politica ecclesiale. La necessità di ricorrere
al giudice laico per applicare la tortura (con
il quale il giudice ecclesiastico poteva anche
essere in conflitto, perché quegli non poteva
facilmente essere controllato durante l’utilizzo di tale misura coercitiva) costituiva
infatti una soggezione non tollerabile, dalla
quale gli inquisitori cominciarono ad affrancarsi non appena Alessandro IV, nel
1256, li autorizzò arbitrariamente alla mutua
assoluzione dalle censure nelle quali fossero
incorsi assistendo ai supplizi. Urbano IV,
in seguito, nel 1262, stabilì espressamente
che gli inquisitori potessero assistere alla
tortura per dirigerla, in modo da raccogliere
le confessioni a mezzo dei loro cancellieri,
rispettate però sempre la vita e l’integrità
personale ‘generale’ dell’imputato. Quest’ultimo è un ulteriore punto che va sottolineato
con particolare forza: è concepibile un’integrità fisio-psichica parziale? L’Inquisizione
ecclesiastica medievale si vantava, invero,
di applicare rigorosamente il principio per
cui la tortura non doveva mai essere spinta
citra membri diminutionem et mortis periculum. Ma poteva dirsi moralmente e
cristianamente accettabile la pur limitata
laesio intra membri diminutionem et mortis
periculum, soprattutto alla luce del messaggio di Cristo, il quale era talmente contrario
alla violenza da lasciarsi inchiodare ad una
croce morendovi senza reazione alcuna?
Di sicuro Cristo non pensava affatto né al
Tribunale dell’Inquisizione, e nondimeno
alla tortura quando conferì il mandato agli
Apostoli di edificare la sua Chiesa. E ancora:
chi doveva valutare circa l’effettiva applicazione ad casum della tortura? Nei confronti
di quali imputati ed entro quali limiti?
Inevitabilmente la discrezionalità affidata
agli inquisitori in proposito era immensa,
i controlli sporadici e gli abusi perpetuati si
rivelarono infiniti. E tutto ciò sempre in
nome di Dio. Clemente V, con le sue regole
pubblicate da Giovanni XXII nel 1317,
disciplinò, poi, più adeguatamente l’uso dei
metodi di tortura, disponendo anche che
per applicarla dovesse esservi, a garanzia
dell’imputato, l’accordo fra il Vescovo e
l’inquisitore. Ma anche in tal caso si trattò
di una norma tutt’altro che ispirata al principio del favor rei, perché nella pratica le
lentezze burocratiche o le rivalità tra Vescovi
ed inquisitori resero concretamente inap-
29
plicabile questa regola, o posero i primi assai desiderosi di scaricarsi delle relative
responsabilità - in condizione di delegare
agli inquisitori stessi il compito di decidere
in loro vece, così che nella pratica questi
rimasero arbitri assoluti in ordine alla pratica
dei supplizi, e gli abusi proseguirono senza
sosta. La tortura che, in ogni caso, era ordinata con una sentenza interlocutoria (ossia
non definitoria del giudizio principale),
soggetta a notificazione e a gravame (impugnazione), era di due specie: quella che si
faceva subire all’imputato per strappargli
la confessione, o il nome dei suoi eventuali
complici, chiamata in caput proprium; e
quella che si applicava ai testi per ottenere
la verità quando i giudici ritenevano che
essi celassero il vero o fossero reticenti.
Nell’applicazione di tale ultima tortura,
detta in caput alienum, il teste veniva a sua
volta considerato come un reo. L’applicazione dei tormenti era tassativamente vietata
per i bambini e per le donne incinte; altrimenti poteva infliggersi indistintamente a
chiunque, ricco o povero, chierico o laico,
giovane o vecchio che fosse. E’ tuttavia
provato da alcune sentenze dell’epoca che
in alcuni casi gli inquisitori la applicarono
30
anche ai bambini, quando ritenessero che
i loro corpi erano posseduti dal demonio.
In due di queste sentenze il reo torturato nel primo caso un bimbo di otto anni, nel
secondo di tredici - la descrizione delle
presunte influenze diaboliche lascia pensare
semplicemente a problemi psichici gravi,
oppure ad attacchi di epilessia. Un uomo
di buona reputazione era torturabile se
militavano a suo carico appena due indices
vehementer, ossia due indizi gravi, come
per esempio la testimonianza di una persona
credibile e un tentativo di fuga, oppure
l’affermazione di due testi. Per un uomo di
cattiva fama era sufficiente che un solo teste
attendibile deponesse contro di lui. All’imputato poteva anche applicarsi nel caso di
sue risposte palesemente contraddittorie.
Le tipologie di supplizio
fino all’epoca di Garibaldi
Le regole sopra evidenziate rimasero pressoché invariate, vigendo in Italia fino al
1861, anno in cui, attuata l’Unità nazionale,
il monarca pretese che l’attività dei tribunali
ecclesiastici cessasse per la maggior parte
del contenzioso criminale, lasciando in vita
le sole cause già pendenti in quella data,
oltre che, evidentemente, le cause per i delitti
commessi dai chierici in violazione delle
norme di diritto penale canonico. Evidentemente anche il Tribunale dell’Inquisizione
venne a cessare le sue funzioni, in ordine al
delitto di eresia, ma rimase concretamente
operante fino ad esaurimento dei processi
pendenti; la sua azione, tuttavia, non conservò la propria individualità, confondendosi con l’azione dei tribunali ecclesiastici
ordinari, diretti alla repressione di reati
comuni. Successivamente, riacquistò la
propria identità teologico-giuridica autonoma: fu rinominato Sacra Congregazione
del Sant'Uffizio il 29 giugno 1908 da Papa
Pio X, ma perse definitivamente il potere
di applicare pene corporali, rimanendo
fermo il suo diritto esclusivo di irrogare
pene spirituali per tutti i delitti contro i
dogmi e la morale. Il 7 dicembre 1965 Papa
Paolo VI ne cambiò, ancora una volta, il
nome in Congregazione per la dottrina
della fede. Rimangono comunque famose
alcune sentenze dell’epoca di Garibaldi, che
sancirono la condanna, da parte dei tribunali
ecclesiastici, di criminali comuni e politici,
prima torturati e poi messi a morte. Sotto
il Pontefice Pio IX (1846-1878) - definito
‘metro cubo di sterco’ dallo stesso Garibaldi
- furono infatti torturati e decapitati, ad
esempio, Romolo Salvatori (10 settembre
1851) per aver consegnato ai garibaldini
l’arciprete di Anagni; Gustavo Paolo Rambelli, Gustavo Marloni e Ignazio Mancini,
per aver ucciso tre preti (24 gennaio 1854);
Antonio De Felici, per aver attentato al
Cardinale Antonelli (24 gennaio 1854). Le
torture applicate a questi condannati, a
tenore delle sentenze che le comminarono,
erano assai varie e comprendevano tutte le
varianti suggerite dalla raffinata crudeltà
dell’epoca medievale, ancora viva e operativa
fino a tutto il secolo XIX, così come invariata
rimasero la procedura e la prassi giudiziale
utilizzate per i rituali di tortura. Si usava
generalmente la questione (quaestio: interrogatorio) dell’acqua, la questione del fuoco,
la strappata, la ruota, il cavalletto, gli stivaletti.
Per la questione dell’acqua, ad esempio,
applicata al condannato Romolo Salvatori,
si faceva inghiottire all’accusato una gran
quantità di acqua a mezzo di un imbuto
(cinque litri per la questione ordinaria, dieci
per quella straordinaria), sottoponendo poi
il ventre smisuratamente gonfio a forti
pressioni. Per la questione del fuoco, applicata al condannato Gustavo Paolo Rambelli,
si spalmavano le piante dei piedi del suppliziando con del grasso, avvicinandole poi
sempre più a un braciere acceso, e tormentandolo contemporaneamente in varie parti
del corpo con tenaglie roventi. La strappata,
applicata ai condannati Gustavo Marloni
ed Ignazio Mancini, si eseguiva legando il
paziente a una corda per le braccia rovesciate
sul dorso, e alzandolo poi per mezzo di una
puleggia. Dopo averlo tenuto per un po’ di
tempo sospeso, lo si lasciava piombare con
violenza fino a pochi centimetri da terra,
arrestando quindi di colpo la sua caduta,
in modo da slogargli tutte le giunture. Il
supplizio poteva essere aggravato, legando
dei pesi ai piedi della vittima. Lo stivaletto,
infine, applicato al condannato Antonio
De Felici, era costituito da quattro tavole
legate, due internamente e due esternamente
alle gambe del paziente. Dei cunei (quattro
per la questione ordinaria e otto per quella
straordinaria) erano posti fra le tavole interne e affondati a colpi di mazza. In caso
di invincibile ostinazione il condannato
sperimentava uno a uno i vari strumenti
che gli venivano presentati e poi, previa la
solita rituale esortazione a confessare, applicati. Ciò si verificò - nell’ambito dei
processi sopra citati - nel caso del condannato Gustavo Paolo Rambelli. Quando il
torturato dichiarava finalmente di avere
desiderio di parlare si sospendeva l’operazione e il boia lo conduceva in una stanza
attigua, dove le sue confessioni venivano
raccolte dal cancelliere ad tormenta. Ogni
confessione, strappata con la tortura, doveva
però essere confermata in seguito, generalmente alcuni giorni dopo, con giuramento,
non potendosi ritenere valido mezzo di
prova le sole ammissioni estorte con il
supplizio. Nel processo verbale che si redigeva in tale occasione, si dichiarava che la
confessione era stata resa spontaneamente
e senza l’uso di violenza. In genere, il timore
di essere nuovamente torturato e la menomazione psicologica provocata dal supplizio
faceva sì che le deposizioni fossero confermate. Tuttavia, se l’imputato sottoposto a
tormenti aveva confessato il suo delitto, e
poi ritrattava la confessione, veniva accusato
di spergiuro o di mendacio e punito per
tali ultimi crimini, per i quali era contemplata la pena di morte. Tra i menzionati
orribili tormenti - contemplati già nel diritto
canonico medievale - morirono, dunque,
i cinque patrioti garibaldini sopra menzionati, che nessun’altra colpa ebbero se non
quella di seguire fino in fondo, e senza
compromessi, il richiamo della propria
libertà di coscienza contro le perverse limitazioni imposte dall’arbitrio del potere ecclesiastico.
P.26: L’esecuzione, I. Repin, olio su tela, 1888, Hermitage,
San Pietroburgo; p.27 e 30: Auschwitz; p.28: La tortura
degli ebrei, P. della Francesca; p.29: Tortura, fotografia,
collez. priv; p.31: Il martirio di sant’Ippolito (part), olio su
tavola, Museo della Cattedrale, Bruges; (foto p.27 e 30: P.
Del Freo)
31
32
M
olto clamore ha avuto la recente decisione del Consiglio
di Stato che ha respinto
l'istanza di togliere il Crocifisso dalle aule
scolastiche1. Ciò non desta stupore, visto
che è lo stesso concetto di laicità dello Stato
che viene messo in discussione. E' d'obbligo
quindi tentare di capire a fondo le argomentazioni. Proveremo: 1) a compredere
la sentenza, 2)a confutare quello che si
ritiene errato, ed infine, 3)a valorizzare le
parti che, invece, devono essere difese.
Brevi cenni sulla sentenza
Questa è la vicenda: una cittadina finlandese ha chiesto al Consiglio di Istituto della
scuola media di Abano Terme, frequentata
dai figli, la rimozione di tutte le immagini
e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici, in ossequio al principio
di laicità dello Stato. Il consiglio di istituto
ha respinto la sua domanda. Contro tale
decisione è stato fatto ricorso al TAR, il
quale in primo luogo ha sollevato
l'eccezione di incostituzionalità delle norme
impugnate. Tuttavia2 la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di incostituzionalità,
in quanto concernente norme regolamentari e non norme di Legge. Se tale pronunzia può sembrare pilatesca - ancorché
assolutamente legittima - giova tuttavia
rilevare, come la Suprema Corte fosse già
intervenuta sul tema della laicità dello Stato
in termini chiari e decisi, oltreché laici.
Riesaminato il caso, dopo il responso della
Corte, il TAR ha respinto la domanda, ed
infine anche la VI sezione del Consiglio di
Stato, ha respinto e definitivamente chiuso
la questione con la Decisione che stiamo
esaminando.
Tre erano i motivi sui quali veniva basata
la richiesta di togliere il crocifisso:
a) abrogazione dell'art 118 R.D. 965/1924
per la cancellazione della norma che ne
costituiva il fondamento, cioè l'art. 1 dello
Statuto Albertino.
b) violazione del principio di laicità dello
Stato3;
c) violazione del principio di imparzialità
della Amministrazione4;
Veniamo al primo punto, relativo allo
Statuto Albertino.
Veniva sostenuta la abrogazione implicita
della norma dell'art. 118r.d. 1924 n.965,
non essendo essa stata "riprodotta" dal t.u.
del 1994, disciplinante l'intera materia, ma
soprattutto essendo venuto meno il principio di confessionalità, sancito dall'art. 1
dello Statuto Albertino, che ne rappresentava il fondamento. Infatti tale norma
statutaria non è stata ripresa dalla legge n.
121/1985 di attuazione dell'accordo di
Villa Madama (il nuovo Concordato).
Si impone quindi una considerazione di
carattere storico. Scrive a tal fine il C.d.S.:
"è vero infatti che nel 1924, allorché la
norma fu emanata vigeva in Italia lo Statuto
Albertino, il cui art. 1 proclamava la religione cattolica, apostolica e romana come
"la sola religione dello Stato" (gli altri culti
essendo tollerati conformemente alle leggi);
ma è altrettanto vero che tale norma non
impedì minimamente al legislatore, nel
corso di vari decenni, di adottare in mol-
teplici settori della vita dello Stato una
normativa contraria agli interessi della
confessione cattolica, ed in dottrina ad
alcuni autori, anche assai qualificati, di
ascrivere la Chiesa cattolica fra le associazioni illecite. Peraltro, con riferimento allo
Stato odierno, sorto dalla Costituzione
repubblicana, ed ormai non più confessionale, ove però quelle discriminazioni non
potrebbero aversi)".
In effetti è vero che sotto la vigenza dello
Statuto Albertino, lo Stato risorgimentale
-pur confessionale- sapeva essere tutt'altro
che ossequiente verso la Chiesa cattolica,
bastino tra i tanti due esempi:
Il ministro Rattazzi5, presentando la sua
33
legge che prevedeva pene speciali per i
ministri del culto che in tale loro qualità
censurassero le leggi e le istituzioni dello
Stato, scriveva nella la Relazione "[quando
essi] abusando del loro ministero, cercano
di rivolgere la morale da loro influenzata
a danno della civile società, censurando le
istituzioni e le leggi dello Stato [...] allora
ragion vuole che i loro conati siano giustamente repressi" [è lecito domandarsi cosa
sarebbe successo se questa legge fosse stata
in vigore in occasione dei referendum su
staminali e procreazione assistita. Oppure
sui DICO, eutanasia e quant'altro]. Tornando allo Stato risorgimentale, la legge
sui conventi di poco successiva a Rattazzi,
prevedeva la soppressione di tutte le corporazioni religiose esistenti nel regno, ed
i beni di tali enti sarebbero passati sotto
l'amministrazione del demanio dello stato.
Si rilevi che, oltre la oggettiva spoliazione
di beni, vi era assai di più: infatti riconoscendo a sé medesimo il diritto di sopprimere le corporazioni religiose, il governo
di Torino invocava l'assoluta sovranità del
potere civile nelle cose temporali. Corre-
34
lativamente era sancito il principio del
carattere "artificiale" e non originario delle
corporazioni ecclesiastiche: esse infatti
erano poste in essere dalla legge civile e da
essa revocabili, con buona pace dell'art. 1
dello Statuto. E' appena il caso di rilevare
che tale principio era assolutamente inaccettabile da parte di chi nella Chiesa cattolica scorgeva una comunità originaria
fondata sul diritto naturale e dunque antecedente ad ogni riconoscimento civile.
A distanza di qualche decennio vi era
ancora un senso dello Stato (e quindi della
sua intrinseca laicità), che forse successivamente è andato in gran parte perduto.
Scriveva infatti, nel 1904 Giovanni Giolitti:
"Guai alla Chiesa il giorno che volesse
invadere i poteri dello Stato! Libertà per
tutti entro i limiti della legge: questo è il
nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori della
costituzione da un estremo, così lo applichiamo a quelli che sono fuori dall'altra
parte ...in quanto a religione il governo è
puramente e semplicemente incompetente. Non ha nulla da fare, nulla da vedere:
lascia libertà assoluta ai cittadini di fare ciò
che credono finché stanno entro i limiti
della legge. Ma non credo sia nelle attribuzioni del Governo né di sostenere né di
combattere alcun Principio religioso".
Ed ancora, successivamente: "Ora l'italiano
considera tanto il clericale quanto
l'anticlericale come nemici della sua pace,
nemici del paese. L'italiano non vuole
persecuzioni, ha una civiltà troppo antica
per non essere tollerante. Io capisco che il
partito socialista si sia posto principalmente
contro la Chiesa. E' una chiesa contro
un'altra. Il partito socialista ha i concili
ecumenici, in cui proclama il dogma, ed
i conclavi in cui nomina le alte cariche
sociali. Ha i suoi missionari, il grande
inquisitore e la scomunica. E che la scomunica esista lo sa, purtroppo l'onorevole
Bissolati, che ne è stato colpito. ...Al di
sopra poi dei clericali, degli anticlericali e
dei liberali vi è lo Stato, cioè l'autorità
suprema in tutti i rapporti della vita politica
e della vita civile, perché nessuna autorità
può stare al di sopra dello Stato. Questo è
il fondamento del nostro diritto pubblico...".
Laicità
Veniamo al tema portante della sentenza:
la LAICITÀ, che l'iter dell'esame pone in
stretta relazione con il SIMBOLO.
Scrive infatti il C.di S. che il problema della
presenza del crocifisso tra gli arredi scolastici va affrontata attraverso la verifica della
compatibilità delle norme di legge che la
prevedono, con i principi oggi ispiranti
l'ordinamento costituzionale dello Stato,
"ed in particolare con il principio di laicità".
Cito testualmente: "Al riguardo, più volte
la Corte costituzionale ha riconosciuto
nella laicità un principio supremo del
nostro ordinamento costituzionale, idoneo
a risolvere talune questioni di legittimità
costituzionale". Devono infatti essere ricordate tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme sull’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola, o
sulla competenza giurisdizionale per le
cause concernenti la validità del vincolo
matrimoniale contratto canonicamente e
trascritto nei registri dello stato civile. "Deve
tuttavia essere ricordato che il principio
della laicità non è espressamente citato
nella nostra Carta fondamentale; ma esso
si può evincere dalle norme fondamentali
del nostro ordinamento. E la Corte Costituzionale lo trae specificamente dagli
artt.2,3,7,8,19 e 20 della Costituzione". Il
C.di S. rileva che la parola "laicità" indica
in forma abbreviata profili significativi di
quanto disposto dalle anzidette norme, e
quindi tale termine altro non è che
l'espressione che individua le "condizioni
di uso" secondo le quali esso va inteso ed
opera. "D'altra parte -scrive il C.di S.- senza
l'individuazione di tali specifiche condizioni d'uso, il principio di "laicità" resterebbe confinato nelle dispute ideologiche
e sarebbe difficilmente utilizzabile in sede
giuridica. Ne deriva che la laicità, benché
presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la
dimensione spirituale e fra gli ordini e le
società cui tali dimensioni sono proprie,
non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi, ma, pur
all'interno di una medesima "civiltà", è
relativa alla specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com'è al divenire
di questa organizzazione".
Fatta questa premessa (la laicità non è uno
schema astratto ma è l'attuazione di norme
definite) viene esaminato il problema della
legittimità della esposizione del Crocifisso
nelle aule scolastiche verificando se questa
sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al
principio di "laicità" dello Stato italiano.
Simbolo
Direi che tra le tante definizioni di laicità
che si possono dare, quella esposta dal
C.d.S. sia ampiamente condivisibile. Altre
obiezioni si possono fare nella successiva
attuazione pratica del concetto: quando
entra nel merito del significato del Crocifisso. Scrive il C.d.S.: "È evidente che il
Crocifisso è esso stesso un simbolo che
può assumere diversi significati e servire
per intenti diversi; innanzitutto per il luogo
ove è posto". Ricordiamo per inciso che
"il termine greco symbolon vuol dire "accostamento", "segno di riconoscimento".
Deriva dal greco symbàllo "mettere insieme", "fare coincidere" "Oggi il termine
indica qualsiasi cosa (segno, gesto, oggetto,
persona), la cui percezione valga a suscitare
nella mente una idea diversa da quello che
è il suo più immediato aspetto sensibile.
E' dunque spesso l'equivalente di segno;
ma nell'uso comune immediatamente
interpretabile, qualche cosa di più solenne,
che rinvia a una realtà più importante e
remota6". Nel senso più esatto il simbolo
religioso dovrebbe essere, come "segno di
riconoscimento", una cosa semplice che
indicasse o ricordasse qualcosa di più complesso, ma ovviamente sottinteso. Fatta
questa premessa, così prosegue la sentenza:
"In un luogo di culto il Crocifisso è propriamente ed esclusivamente un "simbolo
religioso", in quanto mira a sollecitare
l'adesione riverente verso il fondatore della
religione cristiana. In una sede non religiosa, come la scuola, destinata
all'educazione dei giovani, il Crocifisso
potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e
non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non
discriminatorio sotto il profilo religioso
se esso è in grado di rappresentare e di
richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di
ogni simbolo) valori civilmente rilevanti,
e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere
civile". Quindi, sostiene il C.d.S. essendo
il Crocifisso memoria e rappresentazione
dei più alti valori civili (tolleranza, giustizia
ecc.) "potrà svolgere, anche in un orizzonte
'laico', diverso da quello religioso che gli
è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni". Questo è il
punto centrale, ed ancora citiamo testualmente: "Ora è evidente che in Italia, il
Crocifisso è atto ad esprimere, appunto
in chiave simbolica ma in modo adeguato,
l'origine religiosa dei valori di tolleranza,
di rispetto reciproco, di valorizzazione
della persona, di affermazione dei suoi
diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti
dell'autorità, di solidarietà umana, di rifiuto
di ogni discriminazione, che connotano
la civiltà italiana. Questi valori, che hanno
impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono
ed emergono dalle norme fondamentali
della nostra Carta costituzionale, accolte
tra i 'Principi fondamentali' e la Parte I
della stessa, e, specificamente, da quelle
richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano". Il fatto poi che questi valori e queste
35
tradizioni abbiano una origine religiosa
non mette in discussione, anzi semmai
ribadisce, l'autonomia dell'ordine temporale rispetto all'ordine spirituale: si tratta
infatti del contesto culturale fatto proprio
e manifestato dall'ordinamento fondamentale dello Stato italiano, cioè recepito
nella Carta fondamentale. Essi, pertanto,
andranno vissuti nella società civile in
modo autonomo (perché il recepimento
nella Costituzione li fa divenire sostanzialmente originari e non derivati da altri
insegnamenti o religioni) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere "laicamente" sanciti per tutti, indipendentemente dall'appartenenza alla religione che
li ha ispirati e propugnati. Se fino a questo
punto si può concordare con il filo logico
del C.d.S, la sua successiva affermazione
desta molti e giustificati dubbi: "nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare
un altro simbolo, in verità, che si presti,
36
più di esso, a farlo; e l'appellante del resto
auspica (e rivendica) una parete bianca,
la sola che alla stessa appare particolarmente consona con il valore della laicità dello
Stato". Tuttavia, questo è il vulnus del
ragionamento, indicando solo due soluzioni il Giudice sostiene la più verosimile
senza approfondimento alcuno. Nella
scuola si formano le giovani generazioni,
perché non deve essere esposto un simbolo
che ricordi i valori fondanti di libertà,
eguaglianza e rispetto che connotano la
nostra civiltà? Perché pretendere che lo
Stato e i suoi organi si astengano dal fare
ricorso agli strumenti educativi considerati
più efficaci per esprimere i valori su cui lo
Stato stesso si fonda? Perché non affermare
i valori espressi dalla Costituzione sottolineandone il loro alto significato? Ma il
Crocifisso riporta ai valori della Costituzione o è più semplicemente il simbolo di
una religione? Questo è il punto fonda-
mentale per un dibattito politico e culturale
nel quale è lecito far sentire la propria voce.
E' indubbio che il valore o l'interpretazione
di un simbolo possa cambiare con il tempo.
Il fascio littorio anticamente rappresentava
l'autorità del Console romano, ed in definitiva di Roma stessa, mentre oggi il fascio
rimanda puramente e semplicemente al
fascismo. Ma come cambia l'accezione
comune del valore e del significato di un
simbolo? Vengono alla mente le tre regole
della comunicazione per Platone: comprendere il problema, comprendere
l'uditorio, spiegare il problema rettamente
inteso in relazione all'uditorio. Ciò posto,
appare assai affrettato il mutamento dei
termini e di interpretazione operato dal
C.d.S. è infatti lecito chiedersi se un bambino delle elementari vedendo il Crocifisso
pensi al "luogo ove è posto", o se assai
semplicemente, associ ciò che vede dietro
alla cattedra con il Crocifisso che vede
normalmente nelle chiese. Ma soprattutto
è lecito chiedersi quale alunno, durante
l'ora di insegnamento delle religione cattolica, scorga qualche differenza tra il Crocifisso che porta al collo il prete che insegna
e quello affisso sulla parete.
In conclusione: i simboli possono cambiare
senza dubbio significato, o può cambiare
la loro comprensione nel tempo, ma non
è con un tratto di penna che ciò avviene.
Il C.d.S. ritiene (a nostro avviso giustamente) che debba esservi un simbolo che riporti
e trasmetta i valori fondanti della nostra
civiltà; tuttavia se il Crocifisso in sé è senza
dubbio espressione di una sola religione
soprattutto in Italia, quali possono essere
i simboli che potrebbero meglio rappresentare una giusta esigenza? Il pensiero
politicamente corretto vorrebbe senza
dubbio una parete nuda per non rischiare
di offendere qualcuno o che altri sia "tagliato fuori". Ma in subordine, anche altri
elementi rappresentativi del pensiero occidentale possono essere proposti: la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino che come tutti sanno proclama
come riassunto e compendio della Rivoluzione francese Libertà Uguaglianza Fratellanza (assieme al Codice napoleonico
queste sono le basi della nostra civiltà). O
anche la Dichiarazione Internazionale dei
Diritti dell'Uomo dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite.
Certo è che nessuno di questi due possiede
la valenza, il significato e la profondità
simbolica di quello che può essere l'unico
simbolo efficacemente esposto: la croce.
Infatti il momento culminante della rivelazione biblica è la resurrezione (Paolo "Se
cristo non è risorto, vana è la nostra fede").
Il Crocifisso per così dire "fotografa" una
situazione precedente la Resurrezione:
Cristo in croce. Ma il messaggio della salvezza è successivo alla semplice esecuzione
di un condannato: è la Resurrezione e
l'ascesa al cielo. Non il Crocifisso, ma la
croce è in realtà l'unico simbolo unificante.
Peraltro la croce è il più universale tra i
simboli elementari, non solo in ambito
cristiano. Già prima del cristianesimo essa
era colma di significati (essere umano
stilizzato, viandante che raggiunge la meta:
forma umana stilizzata). Rappresenta anche l'orientamento nello spazio, il punto
d'intersezione tra le linee alto-basso e
destra-sinistra, è l'unificazione di molti
sistemi dualistici sotto forma di una totalità,
che corrisponde alla forma umana con le
braccia aperte. Anche il paradiso biblico,
con i quattro fiumi che da esso hanno
origine, fu rappresentato in questa forma.
In conclusione, il C.d.S. è sicuramente nel
giusto quando individua un elemento simbolico che dia continuità ai valori fondanti
della nostra società nell'insegnamento agli
studenti, ma forse erra avocando a sé la
diversa interpretazione di un simbolo strettissimamente connesso dalla popolazione
italiana ad una ben specifica Chiesa. Tuttavia apre un dibattito che non deve essere
ignorato. Sia per dare la diversa interpretazione del Crocifisso, ove ciò sia possibile,
o per sostituirlo con altro e più riconosciuto
simbolo. Dibattito che può essere portato
(e perchè no?) anche in sede legislativa.
________________
Note
1
Decisione n.556 del 13 febbraio 2006
Con ordinanza del 13 dicembre 2004, n.389
3
Artt.3 e 19 della Costituzione, art.9 della Convenzione dei diritti dell'uomo resa esecutiva in Italia
con legge 4 agosto 1955, 848.
4
Art.97 della Costituzione
5
1854, governo Cavour
6
Dizionario Enciclopedico Treccani
2
P.32: Corpus Hypercubus, Salvator Dalì, olio su tela,
1954, Metropolitan Museum of Art, New York; p.33:
Il sole di mezzanotte, fotografia, coll. priv; p.34: Mano
decorata con henné, Punjab, India (foto P.Del Freo);
p.35: Un ripetitore di Radio Vaticana; p.36: Antartide,
coll. priv; p.37: Il Cristo giallo, Paul Gauguin, 1889,
olio su tela, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo.
37
38
L
a prospettiva di questo mio intervento non è storica e non ha neppure finalità valutative. Fra gli scritti
di carattere storico sulla Massoneria indico
in lingua italiana quelli di Aldo A. Mola, di
L. Pruneti, di G. Giarrizzo e di G. M. Cazzaniga. Per quanto riguarda i giudizi di
valore sull’operato di essa, su ciò di cui può
andare legittimamente fiera e sulle polemiche più o meno giustificate che ha suscitato,
lascio la cosa alle valutazioni personali, tanto
più legittime quanto più seriamente meditate. Il mio intento è altro. Vorrei prendere
in considerazione quegli elementi costituenti
la visione dell’uomo e della società che dal
‘700 a oggi s’incontra nella Massoneria e
inoltrarmi brevemente nel nostro presentefuturo globalizzante e globalizzato, per
capire quale contributo essa possa ancora
dare alla convivenza e allo sviluppo individuale. Nel passaggio dalla Massoneria operativa a quella speculativa e contemplativa
c’è l’assunzione di quel ricco patrimonio di
idee di razionalità e tolleranza che, nate
nell’Inghilterra del ‘600, si svilupperanno
nel secolo successivo anche nell’Illuminismo
francese. La cassa di risonanza di una visione
dell’uomo che progressivamente si libera
dalla superstizione e dal fanatismo è l’Enciclopedia o Dizionario Ragionato delle Arti e
dei Mestieri, alla cui realizzazione lavorarono,
oltre all’instancabile Diderot, anche altri
massoni, o vicini alle idee massoniche, come
D’Alembert, Helvetius, Lalande, Voltaire e
Condorcet. E’ in questo periodo che viene
elaborata una visione dell’uomo e della
società che vale in larga misura anche oggi
nella Massoneria. Sostanzialmente, e facendo riferimento alla prolusione del 1737
dello scozzese Ramsey alla Gran Loggia di
Parigi, la Massoneria persegue il fine dell’unità di tutti gli uomini di spirito illuminato
e solida morale grazie ai nobili principi della
Virtù, della Scienza e della Religione. Da
essi si apprende ad amarsi universalmente
– senza per questo rinunciare all’amor di
patria, anzi presupponendolo - e s’impara
a sposare gli interessi della Fratellanza con
quelli dell’intero genere umano. I pilastri
civili della tolleranza fra gli uomini e del
rischiaramento progressivo della mente con
il duro lavoro della conoscenza, l’emancipazione dell’umanità dal servaggio dell’ignoranza e dell’oppressione sociale, divengono
da allora in poi ineliminabili riferimenti per
i massoni e scandiscono il ritmo del loro
perfezionamento individuale. Uscire da
quella colpevole condizione di minorità -
come Kant dirà nel suo scritto del 1784,
Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? - in cui l’uomo è venuto a trovarsi,
avere il coraggio di servirsi della propria
intelligenza, non sarà soltanto il compito
del miglior Illuminismo, ma già era e continua ad essere l’impegno della Massoneria
più consapevole. Volendo approfondire la
visione dell’uomo che la Massoneria contribuisce a sviluppare ci si dovrà concentrare
sul principio del cosmpolitismo e sulla
concezione dell’individuo. Dalla tradizione
e dall’Illuminismo inglese, la Massoneria
prende e fortifica la concezione dell’individuo come un ente, per così dire, incomprimibile e inviolabile da qualsiasi autorità
esterna. Non si può far violenza al foro
interno; neppure ciò che eventualmente
fosse buono, giusto e vero può essere imposto ad alcuno con la forza, soltanto il
convincimento e la persuasione sono canali
legittimi del passaggio di un contenuto
morale o di verità da un uomo all’altro.
Inoltre, in linea di principio gli uomini tutti
costituiscono una unica ecumene e lo scopo
della fratellanza è lavorare alla realizzazione
effettiva di questo principio. Inizia qui a
delinearsi quella dimensione cosmopolita
che verrà sempre più caratterizzando la
Massoneria e che agli inizi dell’800, Fichte
così condenserà: “l’amor di patria è la sua
impresa [della Massoneria], il cosmopolitismo il suo principio.” Che riguardo alla
condizione della Germania dell’epoca Fichte
39
pensasse all’amor di patria come un’impresa
di cui la Massoneria dovesse farsi carico
non meraviglia, ma quel che è veramente
importante è che, in questo contesto, egli
dichiari il cosmopolitismo il principio della
Massoneria. Fichte è stato un filosofo e
quindi sapeva bene il valore delle parole e
che cosa implicasse fare del cosmopolitismo
il principio della Massoneria. Il ‘principio’
per un filosofo non indica soltanto la dimensione temporale di ciò che sta all’inizio
o ciò che per me vale e rispetto a cui non
sono disposto a deroghe, ma indica soprattutto ciò che regge qualcosa, ciò che ne è la
ragion d’essere. Inoltre, nel linguaggio filosofico di Fichte ‘principio’ equivale spesso
anche a ‘fine’. In altre parole, la Massoneria
non avrebbe senso se non fosse cosmopolita,
se il suo fine terreno non fosse l’umanità
intera. E’ questo che in sostanza Fichte vuol
dire. Prima di Fichte noi incontriamo però
altri pensatori che su questi temi si sono
impegnati a fondo. Su alcuni di loro vale la
pena di sostare per avere le idee un po’ più
chiare sul variegato, per molti aspetti, e, per
40
altri, abbastanza unitario, arcipelago della
Massoneria. Voglio brevemente soffermarmi, innanzitutto, su colui che L. Mittner ha
chiamato “l’anima più virile del Settecento
tedesco; campione risoluto, intransigente,
eroico della verità”, vale a dire Gottlob
Ephraim Lessing. Anche se massone praticante per breve tempo, Lessing - come del
resto anche Fichte - non venne mai meno
ai principi dell’Istituzione. In Ernst e Falk,
oltre all’invito ad agire per una società giusta,
c’è la riflessione sul non scambiare per giusto
e buono ciò che tale è ritenuto nel luogo in
cui siamo nati e cresciuti. Nel capolavoro
Nathan il saggio (1779) Lessing reputa frutto
di mentalità meschina le barriere nazionali,
confessionali e sociali; ma, forse, il tema che
ha maggiore importanza per l’argomento
che stiamo affrontando è la recisa affermazione che l’uomo si giudica dal comportamento e dalla schiettezza del carattere e non
da ciò che dice o professa. E’ del tutto evidente qui la volontà di superare le contingenze occasionali e ambientali che ci fanno
credere qualcosa piuttosto che qualcos’altro
per andare alla radice della pianta umana
e cogliervi gli elementi fondamentali di
unione e di reciproco riconoscimento. C’è
insomma, in questa posizione di Lessing il
rivolgersi all’intenzione e alla volontà profonda che costituisce ogni individuo, di là
da quegli elementi culturali che lo antecedono e in cui si è dovuto formare. Solo ciò
che è in potere dell’uomo lo caratterizza
veramente: la sua volontà di bene e l’intenzionalità di fondo in cui si inserisce e acquista
davvero senso ciò che egli crede. E’ chiaro
allora in che modo Lessing abbia elaborato
quella intangibilità dell’individuo di cui
sopra si diceva e come egli sia uno degli
artefici di un orizzonte cosmopolita del
penare e dell’agire. Anche il suo contemporaneo Herder insisterà sul tema, quando
inviterà la Massoneria, “società visibile –
invisibile”, a ritornare sul terreno della
ragione e a non seguire riti e fantasticherie
remote o del tutto inventate. Dovranno
essere, per Herder, le tre luci: Filosofia,
Poesia e Storia a formare quel triangolo
sacro che brilla su una società cosmopolita,
il cui motore deve essere l’idea umanitaria.
Ritornando ora a Fichte, è importante sottolineare che per lui la Massoneria non è
fine a se stessa, ma tende alla generale elevazione del grado di formazione dell’uomo.
L’obiettivo che Fichte pone alla Massoneria
è quello di un’umanità finalmente giunta
ad essere una comunità puramente morale,
consolidata in uno Stato di diritto, in cui
l’essenza razionale dell’uomo domini sugli
elementi irrazionali che pur lo compongono. In Goethe troviamo una ricca presenza
di quel corredo di convinzioni e tensioni
che caratterizzano la Massoneria di fine
Settecento e inizio Ottocento e che sono
fondamentali per venire in chiaro sulla
“visione della vita” che essa come Istituzione
ha proposto. Dico a ragion veduta “come
Istituzione” perché è noto che la Massoneria
non impone a nessun aderente uno specifico
credo. Tuttavia, se ci rivolgiamo all’ordinamento, ai rituali e alle opere specificamente
massoniche, credo che sia legittimo parlare
di una “visione della vita” massonica. E in
Goethe, dicevo, noi ne cogliamo molti tratti
caratteristici e direi persino la fisionomia
che per molto tempo l’ha individuata. Nella
poesia Symbolum Goethe identifica il vagare
del massone al travaglio stesso del vivere, e
invita, pur col poco discernimento che ci
è dato del futuro, a vivere coraggiosamente
e in modo operoso1. Nel Wilhelm Meister
troviamo detto che “qualsiasi cosa riesca
ad afferrare o a maneggiare l’uomo, al singolo non basterà mai. La società sarà sempre
il bisogno più grande per un uomo di valore.
Tutte le persone capaci devono mantenere
dei contatti tra di loro, così come in un
cantiere il committente va in cerca dell’architetto e questi del muratore e del carpentiere.” In altri versi, dove saluta i Fratelli,
Goethe, nel mentre che fa esplicito riferimento al segreto massonico, proclama la
realtà silenziosa e operante del Tempio fra
gli uomini2. Sono presenti in questi riferimenti goethiani alcuni elementi del pensare
e credere massonicamente: l’operare in
silenzio e senza sosta per il miglioramento
proprio e della società; l’idea di una catena
di uomini i cui singoli, ovunque si trovino,
si raccordano fraternamente nel pensiero
e nell’azione; la segretezza: non come elemento di nascondimento, ma in ragione
della consapevolezza che soltanto chi ha
deciso di fare lo stesso percorso è in grado
di comprendere e non fraintendere; l’immagine del mondo come grande cantiere
di lavoro per il massone; infine, l’anelito a
una crescita conoscitiva costante, la vita,
intesa come personale ricerca della verità
che è vera soltanto se laboriosa e indefessa
conquista. Al riguardo, possiamo tornare
a Lessing perché nessuno ha esposto tanto
chiaramente questa posizione. “Se Dio
tenesse nella sua destra ogni verità e nella
sua sinistra l’unica e sempre mobile aspirazione alla verità, sia pur con l’aggiunta di
sbagliare sempre e in eterno, e mi dicesse:
scegli, io mi getterei umilmente in ginocchio
alla sua sinistra e direi: Padre, dammi questa!
La verità pura è riservata a Te soltanto!”
Vale la pena spendere ancora qualche parola
su questa concezione della verità come
ricerca e non come elargizione da parte di
Dio o di qualunque altro. C’è al fondo del
pensiero di Lessing, di Goethe, di Fichte, e
in generale della Massoneria, l’assunzione
che l’uomo si fa nel suo scegliere e operare,
che si diviene uomini mediante il proprio
fare volere sentire, mediante la giusta misura
del proprio raggio d’azione, che si deve sì
ampliare costantemente, ma in ragione di
una vigile consapevolezza, costantemente
informante l’azione e scaturente dall’azione.
È, appunto, l’immagine del mondo come
cantiere e come spazio che deve diventare
luogo individuato, dimora, che agisce qui;
e solo nell’esercizio dell’arte e degli utensili
da costruzione che, nel mentre che vengono
usati, commisurano all’Opera, l’uomo misura e si misura, si fa facendo la società in
cui si fa. Infine, la consapevolezza che, come
ben nota Lessing, pur cercando sinceramen-
te, si potrebbe però errare in eterno, è il
fondamento della tolleranza massonica.
Tolleranza che, diversamente da quella
politico-sociale non è concedere alla diversità
di essere, ma elemento costituente lo stare
insieme degli uomini, poiché verità e giusta
opinione potrebbero essermi sempre sfuggite, anche se sempre sinceramente cercate,
e ogni altro potrebbe essere, in linea di
principio, un potenziale suggeritore di un
miglior comportamento e di un’opinione
più fondata.
***
Una visione del mondo che ha questi elementi costituitivi quali contributi può dare
a un tempo di globalizzazione? Quale utilità
possono avere uomini che ad essa si ispirano,
là dove sono in atto epocali cambiamenti
e processi come l’unificazione del mercato,
la perdita di alcune caratteristiche e prerogative degli Stati nazionali, la rinnovata
importanza e richiesta di modificazione
degli organismi sovranazionali e la mondializzazione di alcuni problemi, come l’inquinamento del pianeta, la tutela dei patrimoni
dell’umanità, l’eventuale convergenza sui
diritti umani? E’ fondamentale, per capire
le possibilità presenti e future della Massoneria, non soltanto familiarizzarsi con la
visione della vita in essa diffusa, ma anche
41
- per così dire - con la “mente” massonica,
o per lo meno con ciò che leggendo i testi
massonici ogni studioso, quale io sono in
questo momento, può venire a saperne.
Credo che si debba dire, per ridurre all’osso
l’argomento, che la mente di chi si confronta
con il patrimonio culturale e spirituale
massonico, sia una mente educata a coagire
con il simbolo. Ora, pensare simbolicamente
non è affatto una caratteristica del pensiero
arcaico, che verrebbe superata dallo sviluppo
del pensiero razionale, ma è invece una
dimensione della mente umana, così come
da tanto tempo la conosciamo. Si potrebbe
facilmente mostrare quanto ci sia di metaforico, analogico, simbolico anche nel linguaggio scientifico (pensiamo ad espressioni
come ‘‘buchi neri’’, ‘‘stringhe’’, etc.), ma è
decisivo dire che noi rispondiamo alla domanda di senso del mondo sempre anche
in una dimensione simbolica. Poiché, come
potrebbe la pura logicità dare risposte a
quella domanda, se essa invoca - e non può
non farlo, altrimenti sarebbe una pura
descrizione del mondo e non una donazione
di senso al mondo - qualcosa che del mondo
non si vede e non si tocca? Il senso del
mondo, infatti, non è il mondo! D'altronde
anche l’arte, per non parlare della religione,
hanno la loro specificità di senso e valore
nella dimensione simbolica. E’ dunque
evidente che una simbolicità ricca, coagente
con le procedure logiche, permette di vivere
una vita dagli orizzonti più vasti e dalla
trama più densa. Una cultura che abbia
una simbolica piatta e uniforme, limita le
possibilità del farsi umano. Inoltre, nelle
relazioni personali, la comprensione della
simbolica della mente altrui genera una
42
coordinazione simpatetica con l’altro, che
è decisiva per la capacità di ascolto, senza
cui nessuna procedura logica può mostrare
la sua cogenza. Di fatto, il simbolo non è
una verità statica o imposta, ma il riferimento per un processo di comprensione operante in cui il capire si commisura progressivamente con ciò che c’è da capire. Di più,
il simbolo mentre lascia sussistere le diversità
interpretative secondo il grado di sviluppo
individuale, indica al contempo l’ulteriore
cammino da fare in vista di una interpretazione unificante. Non c’è, forse, niente di
più efficace nel processo di interculturalizzazione, oggi tanto invocato e necessario,
che la comprensione delle e l’azione sulle
diversità simboliche, per mettere davvero
in dialogo le differenze etniche e culturali
che devono convivere. I chiarimenti logici
arrivano in genere già sempre in ritardo e
non possono comunque cambiare da soli
la posizione di qualcuno, poiché il livello
simbolico va più in profondità di quello
logico-razionale. Ora, il ricco (come varietà
e capacità produttiva di riflessione) patrimonio simbolico della Massoneria potrebbe
divenire un canale importante per la comprensione delle differenze e per le strategie
di convivenza. Una mente educata dall’azione e all’azione simbolica ha senz’altro una
funzione importante nel duro e necessario
dialogo fra le tradizioni e provenienze diverse che la globalizzazione impone. Tanto
più se si considera che questo patrimonio
simbolico non attinge a una tradizione
soltanto, è diffuso fra gli uomini, e solo
dall’esterno può sembrare una composizione eclettica (come diceva Croce). Basta non
avere pregiudiziali logiciste (superficiali
quanto lo sono le specularmente opposte
tradizioni esoteriste) per rendersi conto,
anche come semplici studiosi ripeto, che il
simbolismo massonico ha una soddisfacente coordinazione ed è capace di far crescere
gradualmente chi vi si confronta. E vengo
con questo discorso all’ultimo punto. Un
simile percorso educa al pensare dubitando.
Credo che nessun atteggiamento mentale
sia oggi più proficuo di questo per resistere
agli integralismi, ai fondamentalismi e alle
certezze disperate che alimentano le teste
unidimensionali e fanatiche. Proprio la
prismaticità della mente umana educata ai
percorsi dei simboli e il principio massonico
del cosmopolitismo non ‘freddo’ e non
‘pigro’ (come Fichte avvertiva), possono
risultare alimento prezioso per quel pensiero
dubitante che apre davvero al confronto.
Mi pare essere questo il contributo che la
Massoneria può portare ai faticosi e difficili
percorsi verso l’interculturalità: rafforzare
l’operoso pensiero dubitante contro le certezze omicide e contro il passivo scetticismo
suicida; poiché come diceva Leopardi, “la
nostra ragione, non può assolutamente
trovare il vero se non dubitando; ch’ella si
allontana dal vero ogni volta che giudica
con certezza; e che non solo il dubbio giova
a scoprire il vero […], ma il vero consiste
essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa,
e sa il più che si possa sapere.”
______________
Note
1“Des Maurers Wandeln/Es gleicht dem Leben/Und
sein Bestreben,/Es gleicht dem Handeln/Der Menschen
auf Erden/Die Zukunft deckt/Schmerze und Glücke.
/ Schrittweis dem Blicke,/ Doch ungeschrecket/Dringen
wir Vorwärts…” “Il vagare del massone/alla vita è
uguale,/ e il suo travaglio/ è uguale all’agire/degli
uomini sulla terra./Il futuro cela/dolori e gioie./Scarsa
è la vista, ma procediamo/senza temere…”
2 “Heil uns! Wir verbund’ne Brüder/Wissen doch, was
keinen Weiß!/ Ja, sogar bekannte Lieder/ Hüllen sich
ins unsern Kreis./ Niemand soll und wird es schauen,/
Was einander wir vertrant,/Denn auf Schweingen und
Vertramen/ Ist der Tempel aufgebant.” “Salute a noi,
fratelli uniti! Che sappiamo ciò che ad altri è ignoto/
Sì, persino i canti noti/ sono oscuri nella nostra
cerchia./ Nessun deve e potrà vedere,/ quale fede fra
noi ci lega, / poiché il Tempio è costruito/ sul silenzio
e sulla fede.”
P.38: Scultura del Brunelleschi, piazza del Duomo,
Firenze; p.39 e 40: Scatola appartenuta a G.Garibaldi,
metallo, intarsi e lacca, collez. privata; p.41 e 42: Il
giardino di Villa Francesca a Livorno; p.43: Interno
di Villa Francesca a Livorno (foto p.38: P.Del Freo;
rimanenti: P.Del Freo/Silvia Braschi)
43
L
e Constitutions del 1723
e la diffusione europea
della Massoneria
Nel febbraio 1723 viene annunciata la
pubblicazione dei nuovi ordinamenti massonici, sotto il titolo di The Constitutions of
the Freemasons Containing the History, Charges, Regulations, etc., of that most Ancient and
Right Worshipful Fraternity, for the Use of
the Lodges. Dedicated to his Grace the Duke
of Montagu the last Grand Master, by Order
of his Grace the Duke of Wharton the present
Grand Master, authorized by the Grand Lodge
of Masters and Wardens at the Quarterly
Communication. Order'd to be publish'd and
recommended to the Brethren by the Grand
Master and his Deputy. Printed in the Year
of Masonry 5723; of our Lord 1723. [Le Costituzioni dei Liberi Muratori contenenti la
Storia, i Doveri, i Regolamenti, ecc., di quella
molto Antica e Onorevole Fraternità, per
l’uso delle Logge. Dedicate a sua Grazia il
Duca di Montagu ex Gran Maestro, per
ordine di sua Grazia il Duca di Wharton,
Gran Maestro attuale, autorizzate dalla Gran
Loggia dei Maestri e Sorveglianti all’Assemblea Trimestrale. Pubblicate d’ordine del
Gran Maestro e del Suo Deputato e raccomandate ai Fratelli. Stampate nell’Anno
Massonico 5723; 1723 di Nostro Signore].
Gli ordinamenti sono articolati in:
1) History: il racconto delle origini;
2) Old Charges: i “Doveri di un Libero Muratore estratti dagli antichi documenti di
Logge d’oltremare, e di quelle di Inghilterra,
Scozia e Irlanda, a uso delle Logge di Londra:
da leggere quando si fanno nuovi Fratelli o
quando il Maestro lo ordini”.
I Doveri sono fissati in 6 punti: I) Di Dio e
Della Religione; II) Del Magistrato civile
supremo e subordinato; III) Delle Logge; IV)
Dei Maestri, dei Sorveglianti, Compagni e
Apprendisti; V) Della condotta dell’Arte nel
lavoro; VI) Del comportamento, ossia 1-nella
Loggia allorché costituita / 2-dopo che la Loggia
è chiusa e i Fratelli sono usciti / 3-quando i
Fratelli si incontrano senza estranei, ma non
in una Loggia / 4-in presenza di estranei non
Massoni / 5-in casa e nelle vicinanze / 6-verso
un Fratello sconosciuto;
3) General Regulations: i Regolamenti Generali “compilati per primo nell’anno 1720 da
George Payne quand’era Gran Maestro ed
approvati nel giorno di San Giovanni Battista
nell’anno 1721”. Sono qui definite le prerogative del Gran Maestro, dei Maestri [Venerabili], le modalità per l’ammissione di nuovi
Fratelli, la composizione della Gran Loggia
44
e le sue competenze, le norme per l’elezione
e l’insediamento del Gran Maestro, per un
totale di 32 articoli;
4) Post scriptum sul “modo di costituire una
nuova Loggia, come praticato da Sua Grazia
il Duca di Wharton, attuale Ill.mo Gran
Maestro, secondo le antiche usanze dei
Muratori”;
5) Approbation: il decreto di “solenne approvazione dell’opera” firmato dal Gran
Maestro Filippo duca di Wharton, dal Deputato Gran Maestro Jean-Theophile Désaguliers, dai Grandi Sorveglianti Joshua Timson e William Hawkins, nonché da tutti
i “Maestri e Sorveglianti delle Logge
particolari” riuniti in assemblea. L’elenco
dei firmatari indica in 20 le logge in quel
momento all’obbedienza della Comunione;
6) quattro Songs (canti), con testi e musiche,
da intonare in diverse occasioni:
- The Master’s Song or, the History of Masonry
(Canto del Maestro, ovvero La Storia della
Massoneria) “da cantarsi con coro quando
il Maestro [Venerabile] lo autorizzi”. Il canto
è articolato in gruppi di strofe concluse da
un versetto di ritornello (Chorus), dopo
ciascuno dei quali è prescritto un brindisi,
nell’ordine: I) al Gran Maestro in carica; II)
al Maestro e ai Sorveglianti di Loggia; III)
in ricordo di quanti hanno “sempre diffuso
l’Arte”, IV) in ricordo di “quanti hanno
fatto rivivere l’antico stile augusteo”;
- The Warden’s Song or, an another of Masonry (Canto del Sorvegliante, ovvero un’altra
Storia della Massoneria) “da cantarsi e suonarsi alla Assemblea Trimestrale”;
- The Fellow-Craft’s Song (Canto del Compagno d’Arte) “da cantarsie suonarsi alla
Gran Festa [Agape solenne per la Grande
Assemblea annuale del 24 giugno]”;
- Enter’d Prentice’s Song (Canto dell’Apprendista ammesso) “da cantarsi quando i lavori
sono terminati e con l’autorizzazione del
Maestro”.
Nell’edizione 1738 delle Constitutions i canti
saranno portati a undici. Il compito affidato
ad Anderson è ufficialmente quello di comparare le “Antiche Costituzioni” e di sottoporle ad accurata revisione, poiché esse “in
Inghilterra sono state alquanto interpolate,
alterate e miserevolmente corrette, non solo
con falsa ortografia, ma persino con molti
falsi e gravi errori nella storia e nella cronologia, attraverso lungo tempo, per ignoranza
di trascrittori, nelle epoche oscure, prima
della rinascita della Geometria e dell’antica
Architettura, a oltraggio di tutti i Fratelli
istruiti e giudiziosi, per cui anche gli ignoranti
furono tratti in inganno”. Nelle diverse
stesure della “leggenda delle origini” si era
inevitabilmente accumulata una quantità
di divagazioni, grossolanità e anacronismi
nella presentazione di fatti e personaggi,
imputabili più che altro alla natura fluida di
materiali elaborati in chiave mitica piuttosto
in termini storici, quindi con tutte le instabilità proprie di una tradizione orale periodicamente fissata per iscritto. L’operazione
di restauro voluta dai vertici della Grand
Lodge mira a restituire alla trama narrativa
delle origini una qualche credibilità storica,
in una versione che apparisse ufficiale e
definitiva. Non di meno, nel ridisegnare il
profilo storico, morale e operativo della
Massoneria gli ideologi dello scisma del 1717
intendono altresì tirare quanta più acqua
possibile al mulino della nuova istituzione,
per farne la depositaria unica della tradizione
muratoria e della sua interpretazione autentica. Nel ricostruire il quadro delle origini
Anderson segue la linea Poema Regius –
Manoscritto di Cooke – Manoscritto Grand
Lodge n°1 e rimette un po’ d’ordine nella
cronologia del mosaico storico-leggendario,
ricollocando ad esempio Euclide nella sua
giusta posizione, al tempo di Tolomeo I
d’Egitto fra i secoli IV e III a.C. (per il Ms.
Grand Lodge il “maestro delle sette arti”
precederebbe i re biblici David e Salomone).
Qualche tendenziosità emerge sui fatti più
recenti, laddove si esaltano i meriti dei sovrani
Giacomo I, Carlo I e Carlo II per aver
“grandemente incoraggiato gli uomini dell’Arte” e fatto prosperare l’Architettura, e
per contro si sottolineano i demeriti del
cattolico Giacomo II sotto il quale “le Logge
caddero molto nell’ignoranza non essendo
opportunamente frequentate e coltivate”.
A ridare impulso alla Muratorìa e al più
puro stile architettonico (lo Stile Augusteo
di derivazione palladiana coltivato da Inigo
Jones e Christopher Wren) è poi ‘‘l’illuminato esempio del glorioso principe (che da
molti è ritenuto Libero Muratore)” Guglielmo d’Orange, re d’Inghilterra dal 1688 al
1702, il quale “pur essendo principe guerriero, aveva molta inclinazione per
l’Architettura”; e analoga sollecitudine nel
“far rifiorire l’antico stile” è attribuita anche
al regnante Giorgio I.
Va da sé che questa lettura degli eventi
equivale a dichiarare che la nuova Massoneria non coltiva nostalgie giacobite; anzi,
come precisa il II dei Charges: ‘Un Muratore
è un pacifico suddito dei Poteri Civili, ovunque egli risieda o lavori, e non deve mai
essere coinvolto in complotti o cospirazioni
contro la pace e il benessere della nazione...
poiché la Muratorìa è sempre stata danneggiata da guerre, massacri e disordini, così gli
antichi Re e Principi sono stati assai disposti
a incoraggiare gli uomini dell’Arte, in virtù
della tranquillità e lealtà con cui essi hanno
risposto nei fatti agli artifici sottili dei loro
avversari, promuovendo la Fratellanza che
è sempre fiorita in tempi di concordia’. Se
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le corporazioni muratorie, in quanto società
di mestiere, erano aggregazioni omogenee
per condizione sociale degli appartenenti,
la nuova Massoneria propone il rivoluzionario principio della trasversalità rispetto
alle classi sociali, alle posizioni politiche e
religiose; una comunione di ideali civili e
morali, piuttosto che di interessi, fondata
sul rispetto dei valori e delle convinzioni
individuali. Tale principio cardine del sistema
massonico è espresso nel Charge VI/2: ...Di
conseguenza né ripicche personali, né liti
devono essere introdotte in Loggia, e tanto
meno controversie di qualunque genere in
materia di religione, di nazionalità, o di
politica dello Stato, essendo noi Muratori
devoti esclusivi della Religione Universale...
siamo inoltre di tutte le nazioni, lingue, stirpi
e idiomi, e ci siamo dichiarati avversi a ogni
politica, riconosciuta come ciò che non ha
mai favorito il benessere della Loggia, né
giammai lo favorirà; e l’unico criterio di
distinzione fra i Fratelli dev’essere quello del
“valore reale e merito personale”, fermo
restando per ogni Libero Muratore l’obbligo
“di farsi carico attivamente delle funzioni
che gli sono pertinenti, istruendosi secondo
le consuetudini tipiche di questa Fratellanza”
(Charge IV). Testo di riferimento per l’istruzione massonica rimane The Book of Constitutions che il Gran Maestro Duca di Wharton dispone “sia accolto in ogni Loggia
particolare della nostra Giurisdizione come
le Costituzioni dei Liberi e Accettati Muratori
uniche vigenti, da leggersi quando si fanno
nuovi Fratelli o quando il Maestro lo riterrà
opportuno, e che i nuovi Fratelli dovrebbero
esaminare prima di essere ammessi” (Approbation). Lo spirito di tolleranza che in-
46
forma le Constitutions deriva in parte dagli
indirizzi del pensiero contemporaneo che
in Inghilterra fanno capo a John Locke e
Isaac Newton (a loro volta ispirati a Francis
Bacon); gli stessi indirizzi sviluppati nelle
teorie dei philosophes francesi e nella dottrina
del deismo, che alle barriere confessionali
delle religioni storiche oppone l’idea razionale
di una religione naturale e universale. Al di
là della speculazione filosofica, era ancora
troppo recente lo scampato pericolo di una
nuova guerra civile per motivi confessionali
perché la questione della religione non si
ponesse come prioritaria nel presentare al
mondo la nuova comunione massonica.
Infatti il primo dei Charges è quello, tanto
discusso, ‘‘concernente Dio e la religione’’:
Un Muratore è tenuto, per sua condizione,
a obbedire alla legge morale; e se egli intende
rettamente l’Arte non sarai mai uno stolto
ateo, né un empio libertino. Sebbene anticamente i Muratori fossero dovunque obbligati a seguire la religione della loro Patria
o Nazione, quale essa fosse, oggi si reputa
più opportuno vincolarli soltanto a quella
Religione sulla quale tutti gli uomini convengono, lasciando a essi le loro particolari
opinioni; vale a dire essere uomini buoni e
leali, o uomini di onore e onestà, quali che
siano le denominazioni o le convinzioni che
li distinguono; per cui la Muratorìa diviene
il Centro di Unione e il tramite per instaurare
amicizia autentica fra persone che sarebbero
altrimenti rimaste in perpetuo distanti. Molto attento a non sbilanciarsi con le parole,
Anderson conia la formula (di matrice deista) della “Religione sulla quale tutti
convengono”, al di là di ogni fazione; e
prudentemente elimina dalle sue Constitu-
tions ogni invocazione a Dio, alla Trinità e
ai santi che tradizionalmente apre le formule
di giuramento presenti nelle “costituzioni
gotiche”. Nella stessa prospettiva minimale,
e di profilo volutamente basso per evitare
rischiose esposizioni, si inquadra anche il
concetto di divinità che in seguito la Massoneria identificherà nel “Grande Architetto
dell’Universo”, con espressione tratta dal
solco della propria tradizione, ma anche
assai somigliante al Dio “matematico”
newtoniano che “regge tutte le cose non
come anima del mondo, ma come Signore
dell’Universo” (Principi matematici di filosofia naturale, 1713). Prodotto del proprio
tempo nelle idealità che ne costituiscono il
tessuto connettivo, la Massoneria di Anderson (ma più ancora del suo patrono e ispiratore Désaguliers) cerca di armonizzare le
nuove basi di pensiero con il retaggio della
muratorìa corporativa, ossia con le
“memorie generali e fedeli tradizioni di
molte età”, estratte da “antichi documenti”,
cui fa riferimento l’intestazione delle Constitutions. Gli operattives, che in quelle tradizioni
ripongono la loro identità, possono ancora
contare su un buon numero di esponenti
nelle fila della Grand Lodge, per quanto essa
sia saldamente in mano agli “accettati”; e in
ogni caso contemperare le diverse esigenze
e sensibilità rientra nello spirito “ecumenico”
dell’istituzione. Assorbendo nei propri ordinamenti la componente “operativa” della
tradizione, la Grand Lodge cerca altresì di
legittimare se stessa quale organismo di
riferimento per l’intera comunità massonica
(e con questo disegno potrebbe aver qualcosa
a che fare l’incendio, ritenuto doloso, alla
sacrestia della cattedrale di St. Paul che nel
1720 distrugge parzialmente l’archivio degli
antichi documenti massonici fatti raccogliere
nel 1718 dall’allora Gran Maestro George
Payne e in custodia alla Loggia Goose &
Gridiron; incidente forse provocato per
reazione a qualche contrasto sulla progettata
pubblicazione di quei materiali, o per togliere
di mezzo documenti inopportuni. Qualche
ombra in più sull’episodio viene poi da un
passo delle Constitutions edizione 1738, dove
si parla di manoscritti “sconsideratamente
bruciati per eccesso di scrupolo da alcuni
Fratelli per evitare che finissero in mani
estranee”). Oltre alla “leggenda delle origini”,
debitamente emendata, nella carta costituzionale della Grand Loggia vengono accolte
molte delle norme di mestiere desunte dagli
Antichi Doveri. Il Charge III compendia
nell’ultimo ben noto capoverso i requisiti
tradizionali del Libero Muratore: Le persone
ammesse quali membri di una Loggia devono essere uomini buoni e leali, nati liberi,
giudiziosi e riservati come si conviene a
un’età matura, non servi o donne, né immorali o tali da suscitare scandalo, anzi di
buona reputazione. Ripreso presso che alla
lettera dal Ms. Grand Lodge n. 1 è poi il passo
seguente del Charge IV: ‘...nessun Maestro
può prendere un Apprendista se non ha per
lui lavoro a sufficienza, e comunque a condizione che si tratti di un giovane perfetto,
esente da difetti fisici o mutilazioni che
potrebbero impedirgli di apprendere l’Arte,
di servire il committente, di divenire a sua
volta Fratello e poi Compagno d’Arte a
tempo debito, purché abbia servito per il
periodo di tempo stabilito dal costume del
paese e discenda da genitori onesti’. Si noti
che non viene qui quantificata la durata
dell’Apprendistato, fissata invece con precisione negli ordinamenti precedenti. Per
evitare quella che rispetto alla lunga storia
di autonoma sovranità delle singole logge
poteva apparire come una eccessiva concentrazione di potere nel nuovo organismo
centrale, si preferisce demandare ogni decisione in materia alle consuetudini locali; che
è come dire ai regolamenti delle “logge
particolari”, comunque tenute, come s’è
visto, “a praticare per quanto possibile i
medesimi usi”. In linea generale, come stabilisce il titolo XXXIX e ultimo delle General
Regulations, spetta alla Grande Assemblea
annuale “il potere e l’autorità di fare nuove
norme o di modificare quelle esistenti” ma,
nello spirito di “Uguaglianza e Fratellanza”
che contrassegna il dettato delle Costituzioni,
tutte le innovazione e modifiche devono
essere sottoposte all’attenzione di tutti i
Fratelli, anche dell’Apprendista più giovane,
prima del banchetto e per iscritto; essendo
indispensabili l’approvazione e il consenso
della maggioranza dei Fratelli per renderle
operative e vincolanti. L’istituzione adotta
il sistema a due gradi ApprendistaCompagno e su questo basa la struttura
gerarchica dell’istituzione, definita ancora
al Charge IV: ‘Nessun Fratello può divenire
Sorvegliante se prima non ha svolto come
si conviene le incombenze di Compagno
d’Arte, né Maestro [Venerabile] se prima
non è stato Sorvegliante, né Gran Sorvegliante fino a quando non sia stato Maestro di
una Loggia, né Gran Maestro a meno che
non sia stato Compagno d’Arte prima della
sua elezione, non sia nobile di nascita, o
gentiluomo di altissima distinzione, studioso
insigne o architetto di prim’ordine o altro
virtuoso, non sia nato da genitori onesti, e
non goda di straordinaria considerazione
presso le Logge. E per il migliore, più agevole
e onorevole adempimento dei suoi doveri
d’ufficio, il Gran Maestro avrà il potere di
designare il suo Gran Maestro Aggiunto,
che al momento della scelta deve essere, o
essere stato, Maestro di una Loggia particolare’. Ad Anderson riesce abbastanza convincente, almeno nella forma espositiva, il
lavoro d’incastro fra i principi della tradizione muratoria e le disposizioni inerenti
l’assetto ideale e organizzativo della nuova
Massoneria, ma in alcuni casi anche questo
equilibrismo si rivela inefficace. Tutto il
Charge V (Della condotta dell’Arte nel lavoro)
è un insieme di norme attinenti l’esercizio
del mestiere e incoerenti con un tipo di
operatività non più materiale qual è quella
di un sistema di logge ormai netta prevalenza
di ‘‘accettazione’’. Così, ad esempio, le disposizioni sotto riportate non possono trovare concreta applicazione nel contesto della
Grand Lodge, a meno di non volgerle in un
più pertinente senso simbolico-morale:
- ogni Muratore dovrà lavorare con onestà
in tutti i giorni feriali onde poter vivere
dignitosamente nei giorni sacri al riposo
[ovvero, come detto al Charge IV: Ogni
Fratello deve attivamente farsi carico delle
funzioni che gli appartengono];
- tanto il Maestro quanto i Muratori che
ricevono il salario pattuito saranno fedeli al
committente e coscienziosamente porteranno a termine l’opera e […] riceveranno
docilmente il salario senza mormorii o ribellioni, né abbandoneranno il Maestro
prima che il lavoro sia ultimato [è il principio
dell’aumento di paga, basato unicamente
sul merito personale e sull’assidua applicazione nel lavoro];
- tutti gli arnesi impiegati nel lavoro dovranno essere approvati dalla Gran Loggia [equivale a quanto dispone il citato titolo XI delle
General Regulations circa l’uniformità dei
comportamenti e delle pratiche in tutte le
logge];
- nessun manovale [cowan] dovrà essere
impiegato in lavori propri dell’Arte muratoria, né i Liberi Muratori lavoreranno con
coloro che liberi non sono, se non per inderogabili necessità, né istruiranno i manovali
e i muratori non accettati nel modo che
farebbero con un fratello o un compagno
[la norma è ripresa dal Ms. di Shaw e può
più propriamente tradursi in quanto disposto al Charge VI/4-5: Dovete essere circospetti
nelle parole e nel comportamento, in maniera che l’estraneo più acuto non possa
ravvisare o scoprire ciò che non è opportuno
venga manifestato... in particolare non mettete a parte degli affari della Loggia né la
vostra famiglia, né gli amici e i vicini, ma
saggiamente tutelate l’onore vostro e quello
dell’antica Fratellanza]. Quello della Grand
Lodge of London era pur sempre una struttura
sperimentale, da collaudare in opera; e anche
il dispositivo delle Constitutions era da rimettere a punto ancor prima della pubblicazione
nel 1723, come par di capire dalla nuova
versione uscita però soltanto nel 1738, “con
diverse aggiunte e rifacimenti” resi necessari
dai mutamenti di scenario nel frattempo
intervenuti. Se quello del 1717 è uno scisma
nella forma, in quanto atto di separazione
da un sistema comunque dotato di una
propria identità storica e culturale, non si
47
può dire lo sia nella sostanza, dal momento
che le quattro logge londinesi si danno un
inquadramento del tutto inedito e atipico
rispetto alla tradizione muratoria britannica.
L’iniziativa incontra un indubbio favore
nella Massoneria londinese, vista la ventina
di logge che si aggregano alle quattro fondatrici entro il 1723, ma non tutto il corpo
massonico del Regno Unito riconosce il
nuovo organismo. Il fronte dissidente è
aperto dalla Loggia di York, una delle più
antiche e prestigiose, che rifiuta di sottomettersi all’autorità della Grand Lodge e nel 1725,
in palese rivalità con essa, cambia il proprio
titolo distintivo da The Ancient and Honourable Society and Fraternity of Freemasons
meeting since time immemorial in the City of
York (Antica e Onorevole Società e Fraternità
dei Liberi Muratori sedente da tempo immemorabile nella Città di York) in Grand Lodge
of All England meeting in the City of York
(Gran Loggia di tutta l’Inghilterra sedente
nella Città di York), dandosi anche una
propria costituzione in 19 articoli raccolti
sotto l’intestazione
ARTICLES agreed to be kept and observed by
the Ancient Society of Freemasons in the City
of York, and to be subscribed by every Member
thereof at their admittance into the said Society.
ARTICOLI che si è convenuto di stabilire e
osservare da parte della Antica Società dei
Liberi Muratori della città di York, e che
devono essere sottoscritti da tutti i Membri
all’atto della loro ammissione in detta Società.
Come in una reazione a catena nello stesso
anno anche l’Irlanda fonda una propria
Gran Loggia, seguita nel 1736 dalla Scozia e
da insediamenti massonici costituitisi anche
all’estero. Non senza un velato tono di biasimo la Grand Lodge of London prende atto
della situazione, pur rivendicando per sé
una posizione dominante, come appare da
questa integrazione alla versione 1738 delle
Costitutions :
Tutte le Logge straniere (quelle le cui Deputazioni hanno ottenuto l’autorizzazione della
Gran Loggia di Londra) sono all’obbedienza
del Gran Maestro d’Inghilterra. Ma l’antica
Loggia di York, e le Logge di Scozia, Irlanda,
Francia, Italia, ecc., ostentando indipendenza,
si sono poste all’obbedienza dei propri Gran
Maestri, benché abbiano Costituzioni, Doveri e Regolamenti uguali nella sostanza ai
loro Fratelli d’Inghilterra. Con la costituzione
di numerose Gran Logge nel Regno Unito
e all’estero (anche queste di matrice inglese)
la formula inaugurata dalla Massoneria di
Londra viene implicitamente riconosciuta
48
come la più consona allo spirito dell’epoca,
ma l’inveterata tradizione di sovrana autonomia delle logge britanniche rappresenta
al momento un ostacolo insormontabile
sulla via di un’unica grande comunione
massonica di tutto il Regno Unito. Vi è però
un altro versante di dissidenza, più convinto
e agguerrito di quello genericamente indipendentista. È un’opposizione di natura
ideologica, proveniente dal fronte dei tradizionalisti operattives, d’ispirazione cattolica
e giacobita, che ritengono gli “accettati” veri
e propri eretici e traditori dell’originario
spirito muratorio. Per lo più da questo fronte
provengono vari libelli polemici e satirici
contro la Massoneria di accettazione, che
cercano di “colpire al cuore” mettendone
in piazza costumi, rituali, parole e segni di
riconoscimento. La più nota di queste divulgazioni appare il 20 ottobre 1730 sotto
il titolo Masonry dissected (Massoneria dissezionata) a opera di Samuel Prichard. Le tre
ristampe ufficiali, più altre clandestine, entro
la fine dello stesso mese attestano il clamoroso successo dell’opera e l’interesse dell’opinine pubblica per la questione. Sperando di
“dare piena soddisfazione a tutti gli amanti
della verità”, l’autore si propone di offrire
della nuova Massoneria una descrizione
universale e genuina di tutte le sue componenti, dalle origini al presente. Così com’è
stabilito nella Comunione di Logge regolari
[Constituted Regular Lodges] della Città e del
Paese. Secondo i diversi gradi di ammissione.
Dando un resoconto imparziale delle regolari
procedure per l’iniziazione di nuovi membri
nei tre Gradi della Massoneria, cioè I. Apprendista Ammesso, II. Compagno d’Arte,
III. Maestro. Una prima ‘‘rivelazione’’ importante riguarda l’esistenza del Grado di
Maestro, del quale viene riportato, come
per i primi due gradi, anche un rituale in
forma catechistica che appare già completamente definito nel suo impianto simbolico,
a conferma del fatto che già prima del 1730
il 3° grado era di fatto entrato nella pratica
delle logge. Qualche danno, pur di poco
conto, queste rivelazioni riescono a farlo,
costringendo la Grand Lodge a prendere
immediati provvedimenti di “copertura”
contro “tutti i nemici palesi e occulti della
Società”; ad esempio, la modifica di parti
dei rituali o l’inversione delle Mason’s Words
di Apprendista e di Compagno divenute di
pubblico dominio, “per evitare che falsi
Fratelli vengano ammessi nelle Logge
regolari”. L’animosità del fronte d’opposizione agli “accettati” si può cogliere dai toni
sarcastici che improntano l’esposizione di
Prichard: Al presente la Massoneria non è
composta da costruttori, com’era nella sua
condizione originaria, quando qualche domanda di catechismo bastava per conferire
a un uomo la qualifica di massone operativo.
L’espressione Massoneria Libera e Accettata
(quale oggi è) non si è sentita che negli ultimi
anni; né si è parlato di Logge in comunione
[Constituted Lodges] o di Assembleee trimestrali fino al 1691, quando signori e duchi,
avvocati e negozianti, e altri lavoratori di
condizione inferiore, facchini compresi,
furono ammessi a questo Mistero o nessun
Mistero; essendo accolti i primi con quote
d’ingresso assai elevate, i secondi a cifre
moderate, gli ultimi per sei o sette scellini,
per i quali essi ricevono quel marchio d’onore
che, come essi dicono, è più antico e più
rispettabile della Star and Garter [l’Ordine
della Giarrettiera] e la cui antichità, secondo
le regole della loro tradizione, risalirebbe
addirittura ad Adamo; e su questo lascerò
allo spassionato Lettore ogni conclusione.
Prichard riporta al 1691 l’inizio del fenomeno
delle “accettazioni”, ma il riferimento è più
che altro simbolico, poiché a quella data
risale la fondazione della St. Paul Lodge, vale
a dire la Goose & Gridiron capofila del movimento scissionista partito nel 1717. Ciò
rende di tutta evidenza il bersaglio degli strali
lanciati dalle pagine di Masonry Dissected o
di opere consimili come Jachin e Boaz o
Three Distinct Knocks (Tre colpi distinti)
apparse in seguito; ma ci voleva altro per
compromettere, almeno in Inghilterra, il
primato della Gran Loggia di Londra, divenuta solida sponda del regime hannoveriano
e suo utile complemento sociale e culturale.
La vera controffensiva dei tradizionalisti
doveva però ancora venire; e a innescarla
saranno ancora una volta eventi politici. Fra
1745 e 1746 si consuma - come nel 1690 con un’altra disfatta, questa volta sul campo
di Culloden, l’estremo tentativo giacobita
di riconquistare la corona d’Inghilterra perduta nel 1688. Tramonta così ogni residua
speranza di riconsegnare il trono agli Stuart,
e con essa anche le aspettative dell’ala massonica tradizionalista che faceva molto affidamento sul ritorno al potere della vecchia
dinastia. A quel punto non rimane ai dissidenti che serrare le fila e costituirsi a loro
volta in organismo obbedienziale, allineandosi a quella che era ormai la formula vincente della Massoneria. Il 5 febbraio 1752
nove logge formate per lo più da irlandesi
danno vita a una nuova Gran Loggia che
l’anno seguente prende il nome di Grand
Lodge of Free & Accepted Mason of the Old
Institution (Gran Loggia dei Liberi e Accettati
Muratori d’Antica Regola). Di qui la denominazione di Antients (Antichi) che d’ora
innanzi contrassegnerà questo versante della
Massoneria, mentre gli avversari verranno
denominati anche in senso denigratorio
Moderns. Nel 1756 gli Antients si danno una
propria carta costituzionale, redatta dal Gran
Segretario Laurence Dermott e pubblicata
sotto il titolo di AHIMAN REZON or a help
to all that are (or would be) Free and Accepted
Masons, containing the Quintessence of all
that has been Published on the Subject of Free
Masonry with many Additions which render
this Work more Usefull than any other Book
of Constitutions. [HAIMAN REZON
[espressione ebraica equivalente a “Fratello
per scelta”] ovvero un aiuto per tutti quelli
che sono (o vorrebbero essere) Liberi e
Accettati Muratori, contenente la quintessenza di tutto quanto è stato pubblicato in
tema di Libera Muratorìa, con molte aggiunte che rendono questo lavoro più utile di
qualunque altro Libro di Costituzioni. Il
confronto si porta ora su un piano di parità,
se non nella consistenza numerica, almeno
negli ordinamenti. Gli Antients si danno
subito da fare per estendere la propria influenza dentro e fuori il Regno Unito. Non
era poi incolmabile lo svantaggio rispetto ai
Moderns, poiché logge d’inclinazione giacobita erano già sparse per l’Europa, a partire
ovviamente dalla Francia, rifugio degli Stuart,
dove nel 1725 era nata la prima Loggia, detta
di Saint-Thomas, alla quale la Grand Lodge
of London risponde l’anno dopo con la sua
Le Louis d’Argent (dal nome della locanda
che la ospita). Molto spesso sono i contingenti militari britannici di stanza nei territori
d’oltremare gli efficienti canali di propagazione della Muratoria Libera e Accettata.
Dopo Parigi nuovi insediamenti massonici
si aprono a Madrid e Gibilterra (1728), in
Russia e a Firenze, primo insediamento
massonico italiano (1731); nel 1733 si inaugura a Boston la prima Loggia d’oltreoceano,
fra 1734 e 1737 l’espansione prosegue in
altre città italiane fra cui Roma, Milano e
Napoli, a Stoccolma, Amburgo, in Olanda
e Polonia. Quel poco che nei territori europei,
Francia e Germania in testa, era rimasto
delle antiche corporazioni muratorie non
offriva sufficienti motivi di richiamo all’aristocrazia e agli intellettuali locali, molto
attratti invece dalla massoneria di accettazione che arrivava da Londra. La competizione fra le Grand Lodges britanniche, dell’una e dell’altra parte, porta a un sensibile
incremento nel numero delle Officine fondate nella madrepatria come in altri paesi.
Nel 1813, quando i due fronti decidono
finalmente di porre fine alle reciproche
ostilità e di fondersi in un unico organismo,
i Moderns si presentano alla Grand Assembly
of Freemasons for the Union of the Two Grand
Lodges of England con 1085 logge complessive (387 in patria) e gli Antients con 521,
metà delle quali in territorio inglese. Da
questo raduno nasce la United Grand Lodge
of England, frutto di un compromesso in
base al quale viene formalmente fissato al
1717 (data di fondazione della prima Grand
Lodge) l’inizio dell’era massonica moderna,
mentre la componente tradizionalista prevale
nella riforma dei rituali e nella definitiva
incorporazione nel sisema del grado di Maestro.
P.44-49: Tarsie lignee del Duomo di Bergamo, Lorenzo
Lotto, XVI sec.
49
50
Q
uel 19 marzo 1862 a Filippo Napoleone Nicolai sembrò un’occasione davvero particolare. Prosindaco di Spoltore, paese del Primo
Abruzzo Ultra, da qualche mese dopo le
dimissioni di Giovanni de Sanctis, esponente di primo piano del “Partito della
Porta”, ovvero della coalizione che raccoglieva nelle sue fila l’élite progressista e
liberale che aveva alimentato il movimento
risorgimentale entro la Confraternita di
Santa Maria del Suffragio, ubicata appunto
al Largo della Porta, pensò che la festa di
San Giuseppe, da sempre Patrono della
folta schiera degli artigiani spoltoresi, potesse diventare un momento di autodeterminazione rispetto alla questione romana
che due anni prima, il 26 marzo 1860, con
il breve Cum Cattolica Eclesia, Pio IX aveva
di fatto incominciato.
La Confraternita, ancor prima del Partito
della Porta del resto, per decenni era stata
l’espressione, per così dire visibile, della
Carboneria e della Scuola di Salomone,
segretissima Loggia massonica del paese.
Forte di una posizione pubblica favorevole,
in quanto amministratore del paese, priore
di Santa Maria del Suffragio e fors’anche
maestro venerabile, ruolo a cui sembra
fosse succeduto al fratello Felice Maria
Baldassarre morto nel 1854, nonché padre
di don Bonaventura giovanissimo guardiano del convento di San Panfilo fuori le
mura (altro covo di giacobini e liberali),
zio di Achille Panfilo Melchiorre Urbano,
figlio di sua Sorella Gemma Letizia e capitano della Guardia Nazionale, Filippo
Napoleone prese penna e carta e scrisse in
questi termini al Signor Prevosto, Reverendissimo Parroco del Comune di Spoltore, al secolo don Nicola Rapini.
Amministrazione Comunale di Spoltore,
protocollo n.357
Spoltore 18 marzo 1862
Signore,
Domani 19 andante ricorre la festività del
glorioso Patriarca San Giuseppe. Se come
Cristiani dobbiamo onorare il Padre del
nostro Redentore Celeste, a Noi Italiani tutti
corre il doppio dovere di solennizzarla perché
onomastico di un Eroe, qual è Giuseppe
Garibaldi che segna un’epoca nei fatti di
questa Terra incancellabile alla memoria
dei Posteri.
Per questo Eroe siamo rigenerati e per lo
stesso si cammina a gran passi onde formarci
in una sola famiglia nella prima idea del
Redentore che ne stese le fondamenta con
principi e dottrina, procurando di riunirci
ad un sol volere e ad una sola legge.
Mi lusingo che Ella, penetrata da una tale
verità, voglia benignarsi di disporre che
domani alle ore sette, sia in questa Chiesa
Madre cantato l’Inno Ambrosiano in ringraziamento all’Altissimo, dei favori compartitici per mezzo dell’Eroe anzidetto, prevenendola, che all’oggetto, ho invitato il
Capitano di questa Guardia Nazionale, il
Municipio, Funzionari diversi e questi Re-
verendi Padri per assistervi.
Per il Sindaco
L’Assessore facente funzione
Filippo Napoleone Nicolai
La garbata, almeno nella forma, letterina
dovette far balzare il cuore, d’indignazione
s’intende, del buon prevosto a cui la scomunica comminata dal Papa ai governanti
italiani responsabili dell’annessione dei
territori che avevano costituito l’ormai
disperso Stato Pontificio, doveva risuonare
ben chiara e, agitandosi in mille pensieri,
51
all’ombra del bel coro dei canonici, pensava
sul da farsi. Un Te Deum per Garibaldi,
per il capo di quei facinorosi miscredenti
che non solo a parole andavano predicando contro la Chiesa, per quel frammassone
dichiarato anzi Gran Maestro della Massoneria Italiana.
Un Te Deum per Garibaldi in un anno
che vedeva quarantatrè vescovi in esilio,
venti in carcere, sedici espulsi, centinaia
di sacerdoti incarcerati e decine fucilati
nelle operazioni di repressione al brigantaggio meridionale? Solo un giorno per
decidere; e quando avesse detto di no si
sarebbe trovato contro tutto il paese. Gente
testarda questi suoi concittadini, gente
abituata a rifiutare i sacramenti, come tutto
52
il Capitolo si affrettava a registrare nel Liber
defuctorum “sine sacramentos ob suam
incuriam atque incuriam suorum”, ma
gente che poi pretendeva di essere sepolta
con i dovuti onori in Sancta Maria de
Suffragio, gente del “Partito della Porta”,
ora tutto stretto intorno ad una di quelle
teste gloriose dei Nicolai.
Giacobini, giansenisti, carbonari, frati,
priori e massoni da sempre. E tanto per
restare nel computo del secolo, il Prevosto
cominciava a rinumerare le gesta di Michele (padre di Filippo Napoleone) innalzatore nel ’98 di alberi della libertà, capopopolo nella sommossa del pane nel 1801
e che, tornati gli amati francesi a Napoli,
nel 1812, non aveva esitato a chiamare il
primo figlio maschio con quell’esecrato
nome di Napoleone, facendolo battezzare
per di più, richiesta ovviamente la necessaria dispensa, non dal Prevosto, ma dal
Cappellano della Confraternita di Santa
Maria del Suffragio, una specie di pantheon
familiare da quando, nel 1571, l’oratorio
era stato restaurato dal canonico dom
Domenico Nicolai che, a futura memoria,
aveva inciso data e nome sull’architrave
della porta. Ed era di qualche giorno, precisamente del 29 febbraio, l’ultimo fattaccio
pensato ed attuato proprio da Filippo
Napoleone, quando radunato con un pretesto il gruppo dei filo-borbonici in municipio, aveva chiamato i carabinieri per
tenerli sotto la minaccia delle baionette
finché non avessero desistito dal considerare re ancora Francesco II, mentre gli
alleati di quel ‘‘forsennato’’ mettevano
sotto assedio l’intero paese.
Bell’esempio di libertà, aveva commentato
don Nicola, trascrivendo la cronaca di quel
“giorno del giudizio”, sul libro del Capitolo.
Ma tant’è: ora a capo della Guardia Nazionale c’era il nipote di Filippo, - la lettera
al riguardo parlava chiaro, lasciando intendere senza mezzi termini che sarebbero
venuti tutti in chiesa pronti ad usare di
nuovo le baionette, - cosicché bisognava
far di necessità virtù e chinare la testa.
Probabilmente il Generale in camicia rossa,
-in quel marzo era a Torino dove sembra
stesse trattando con il re e il Rattazzi l’organizzazione di una seconda spedizione,
al grido di “Roma o Morte”- non seppe
mai di quel solenne Te Deum cantato sotto
le volte della Chiesa Madre, anche ammesso che la piccola armata dei cinque garibaldini spoltoresi che erano partiti con i
Mille, si fosse impegnata ad inviargli un
dispaccio. Giuseppangelo Muziani, Callisto
Appignani, Achille Falasca, Leandro Spina,
Valentino de Leonardis, questi i nomi dei
valorosi, del resto erano impegnati, con
Filippo Napoleone ovviamente, ad animare il Partito della Porta nell’opposizione
dello sparuto gruppo dei conservatori che
formavano il Partito della Piazza, le tornate
della Confraternita e, c’è da crederlo, anche
quelle della Scuola di Salomone, impegno
che una diecina di anni dopo darà vita alla
Società Operaria di Mutuo Soccorso con
l’immancabile bandiera rossa e azzurra e
le due mani intrecciate nel saluto simbolico
della laica fratellanza universale.
Garibaldi, dal canto suo, di là a qualche
mese sarebbe stato ferito in Aspromonte,
arrestato e rinchiuso nella fortezza di Varignano, ma l’inno ambrosiano, gli incensi,
a metà devoti, a metà patriottici voluti dal
Partito della Porta di Spoltore dovettero
portagli bene se quel 20 settembre del 1870
furono proprio due garibaldini, Nino Bixio
ed Enrico Cosenz, ambedue generali di
divisione, ad entrare da Porta Pia a Roma,
finalmente capitale d’Italia.
P. 50, 52 e 53: Oriente dell’Aquila, particolari (foto
P.Del Freo); p.51: Biglietto autografo di Victor Hugo
a G.Garibaldi.
53
È
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interessante indirizzare lo sguardo
alla sfera personale di Garibaldi,
perché il mito, la leggenda dell’ “Eroe
dei due mondi” nasce non solo dalle battaglie
condotte in Europa ed in Sud America, ma
anche dall’aver frequentato, convissuto o
sposato donne che hanno saputo dargli
appoggio, aiuto e comprensione. Sono peraltro sicura che, se fosse nato e vissuto ai
giorni d’oggi, sarebbe stato inseguito da
paparazzi e ‘sbattuto’ sulla prima pagina
delle riviste cosiddette di gossip (al pari di
calciatori o quant’altro) proprio per il suo
comportamento di ‘sciupafemmine’! Si dice
infatti che abbia avuto nella sua vita, più
donne di quanti peli della barba avesse in
volto. Sicuramente Don Giovanni con il
suo Catalogo, al confronto, sarebbe apparso
quasi monogamo!
Anita Ribeira
Ma, c’è sempre un ma; rifugiatosi in Brasile
per sfuggire alla condanna a morte comminatagli dai Savoia, un giorno del 1839 conosce Ana Maria de Jesus Ribeira da Silva e tra
di loro nasce una forte passione.
Anita, così chiamata da Garibaldi, si rivela
presto la sua compagna (cum-panis) ideale:
infatti è pronta a condividere con lui passione
politica, ideali per cui combattere, fatiche,
fame, imprese guerresche ed ogni cosa nel
bene e nel male, in guerra e in pace. E’ di
temperamento battagliero-focoso nel vero
senso della parola, sa sparare ed il suo fucile
è sempre pronto. Vale la pena di citare una
frase scritta dallo stesso Garibaldi dopo uno
scontro con le navi dell’armata imperiale
brasiliana: “Anita fu l’eroina sublime di questo
combattimento. In piedi sulla poppa, nel bel
mezzo della mitraglia compariva dritta, calma
e fiera come una statua di Pallade”. In poche
parole è stata la sola donna che abbia saputo
vivere pienamente e alla pari al suo fianco
e se è vero il detto: ”Dietro ad ogni uomo
di successo, c’è sempre una grande donna”,
nel caso di Anita possiamo anche dire che
“Dietro ad una donna diventata leggenda,
mito, c’era un uomo che le ha lasciato lo
spazio necessario, affinché si compisse questo
iter di crescita e di partecipazione alla pari”.
Nella loro vita in comune non mancarono
comunque motivi di gelosia e quando Anita
si accorgeva dell’attenzione del marito per
un’altra donna, pare che si presentasse da
lui con due pistole cariche nelle mani: una
da scaricare sulla rivale ed una sul fedifrago!
Possiamo quindi affermare che la loro unione fosse vivace, carica di passione e di partecipazione da ambo le parti ed inoltre, fu
arricchita dalla nascita di
quattro figli: Menotti, Rosita,
Teresita e Ricciotti. Dopo i
primi anni passati in Brasile,
in Urugay ed in Europa, dove
fecero base a Nizza per un po’
di tempo, si trasferirono in
Italia dove Garibaldi ricominciò a combattere a Firenze,
in difesa della Repubblica
Romana e Anita lo raggiunse
poco prima che Roma cadesse
in mani francesi e fossero
costretti alla fuga. Anita, ormai
rosa dalla malaria, perde il figlio del quale è incinta e, colpita dalla setticemia, muore
senza cure e senza conforto il
4 agosto 1849. Muore la donna
e rinasce il mito. In una enciclopedia che raccoglie biografie
di donne italiane, lo scrittore
e giornalista Giovanni Russo
conclude quella dedicata ad
Anita Garibaldi con queste
parole: ‘‘Il suo ruolo di compagna di Garibaldi nelle battaglie ha fatto sì che fosse
considerata come la Madonna
laica del nostro Risorgimento
e l’ha fatta assurgere a simbolo
del coraggio femminile, un
simbolo che nessuna donna italiana è riuscita
ad eguagliare.” Possiamo anche non condividere questa considerazione dell’autore,
ma ci aiuta a capire come mai ancora oggi,
a distanza di 158 anni dalla sua morte, sia
ancora così presente nella memoria collettiva
popolare. La perdita della sua prima moglie,
non attenuò la passione di Garibaldi per le
donne. Egli passò dall’una all’altra, spaziando
da frequentazioni di donne umili a quelle
di nobildonne, in relazioni di ogni tipo e di
ogni durata, ed anche nello stesso periodo.
A questo punto mi sembra giusto tralasciare
tutte le apparizioni più fugaci, per porre lo
sguardo sulle donne che hanno lasciato un
segno nella sua vita.
Emma Roberts
Un incontro speciale avvenne a Londra dove
conobbe e frequentò Emma Roberts una
colta e vedova nobildonna inglese; la relazione durò due anni e Garibaldi la chiese in
moglie; peccato che contemporaneamente
avesse messo incinta la cameriera Battistina
Ravello (o Raveo), (che diede alla luce poi
una bimba di nome Anita) e che per questo
motivo la Roberts rifiutò il matrimonio,
rimanendo però legata a lui da profonda
amicizia, tanto da assumersi l’impegno di
seguire l’educazione scolastica e le cure
mediche del figlio Ricciotti.
Marie Esperance von Schwartz
Un’ altra donna importante fu Maria Esperance von Schwartz scrittrice anglo-prussiana
che lo avvicinò per il desiderio di scrivere
una biografia su di lui; la loro relazione durò
tra attrazione ed ammirazione e si tramutò
in affetto poiché venne respinta la proposta
di matrimonio fatta da Garibaldi. Ma anche
Maria Esperance si offrì in seguito di aiutarlo
nell’educazione della figlioletta Anita, che
studiò grazie a lei in un collegio svizzero.
Giuseppina Raimondi
Nel frattempo conobbe la marchesina Giuseppina Raimondi e si innamorò di lei,
dichiarandole il suo amore in una lettera
nella quale mise in risalto la differenza di
età, il dovere assunto nei confronti di una
donna plebea dalla quale ebbe una bambina,
ed infine il rischio che un giorno qualcuno
potesse accusarlo, sposando una nobile, di
avere tradito la causa del popolo italiano per
il quale aveva dichiarato di essere pronto a
morire, ma che, comunque, tutto
ciò non lo distoglieva dal desiderio
di prenderla in moglie. Si incontrarono, lei cedette ad una notte
d’amore nel dicembre del 1859 e
si sposarono il 24 gennaio del 1860.
All’uscita dalla chiesa, un amico gli
consegnò una lettera nella quale
lo metteva al corrente dello stato
di gravidanza della marchesina, in
seguito ad una relazione con un
brillante ufficiale di cavalleria, Luigi
Cairoli. Lo smacco subito è forte;
forse è la prima volta che il conquistatore di terre e di donne affronta una situazione così umiliante. Chiede quindi il divorzio e
la vicenda si protrae per vent’anni,
prima di riuscire ad ottenere
l’annullamento del matrimonio,
rato e non consumato, il 14 gennaio 1880.
Francesca Armosino
Ma, se questa ultima relazione fu
così avvilente per Garibaldi, il destino gli aveva però preparato un
lieto fine. Francesca Armosino, la
balia piemontese chiamata a Caprera dalla figlia Teresita per aiutarla
a crescere i nove figli (ai quali se
ne aggiunsero altri sette) divenne
dal 1865 la compagna degli ultimi
anni della sua vita. Donna dalla forte personalità, seppe stargli al fianco dedicandosi
completamente a lui, alla cura della sua
salute e della sua serenità e gli diede tre figli:
Clelia, Rosita e Manlio. Si sposarono ad
annullamento ottenuto nel 1880, due anni
prima della morte di Garibaldi. Francesca
gli sopravvisse per più di vent’anni e conservò
il ricordo ed i cimeli dell’Eroe dei Due Mondi. Mi sembra singolare che la vita affettiva
di Garibaldi appaia così, come se fosse compresa fra due parentesi rappresentate dalle
due donne dal carattere molto forte e più
importanti della sua vita: Anita, che ha
partecipato alla fase più combattiva e più
coinvolgente e Francesca a quella più tranquilla, avviata verso la vecchiaia ed agli affetti
familiari. Come se il Conquistatore avesse
avuto la necessità di essere, con queste due
compagne di vita, non più il dominatore,
ma il dominato.
P. 54: Gioiello con ritratto di Clelia Garibaldi, collez.
privata; p.55: Ritratto con dedica autografa di Teresita
Garibaldi (riproduzioni: foto P.Del Freo).
55
56
C
onobbi la Signorina Clelia Gonella
qualche anno fa. L’occasione fu una
cena conviviale cui entrambe partecipammo. Amici comuni mi chiesero la
cortesia di darle un passaggio in macchina.
All’ora stabilita la raggiunsi a casa sua, a Villa
Francesca in via del Parco, una delle tante
traverse a mare in cui, a Livorno, si nascondono, talvolta insospettabili, belle ville ottocentesche con grandi parchi, ultime testimonianze di un passato storico di città vivace
e cosmopolita frequentata volentieri, a partire
dalla metà dell'Ottocento, da una ricca borghesia, non solo livornese, per il suo clima
così felice e per il suo mare così bello. La
signorina Clelia, i capelli candidi e i modi
gentili, la figura esile ed elegante, direi aristocratica, nascondeva un temperamento
fiero e volitivo che ebbi modo di apprezzare
più avanti, nei pochi anni in cui la frequentai.
Ci piacemmo subito. Forse, le nostre comuni
origini piemontesi, ci facilitarono il dialogo
dei primi momenti, velati da un leggero
imbarazzo. Ebbi la netta impressione di
riconoscere, nei suoi tratti somatici e nel suo
accento, qualcosa di familiare che mi riportava indietro, verso i ricordi dell’infanzia.
Conversammo tutta la serata, piacevolmente
e con un certo entusiasmo. Nel salutarmi,
mi invitò ad andarla a trovare a Villa Francesca, la casa comprata nel 1888 da Francesca
Armosino, l’ultima moglie di Garibaldi che
gli dette tre figli: Rosa (morta nel 1870, in
tenera età), Clelia e Manlio. L’acquisto le fu
consigliato proprio da Garibaldi e ciò risulta
da una lettera che Clelia stessa scrisse nel
1954 alla Direzione della Biblioteca Labronica
di Livorno: Ricordo che quando fu certa la
istituzione in Livorno della Regia Accademia
Navale, Garibaldi, forse presago della sua non
lontana fine, diceva a mia madre: Francesca,
quando Manlio studierà all'Accademia Navale, tu con Clelia senza lasciare del tutto
Caprera, state presso di lui a Livorno. È una
bella città, il suo popolo generoso ha dato molti
volontari alle mie bandiere e molto sangue
alla patria. Ho laggiù amici sinceri e carissimi
che vi aiuteranno. Fu così che prendemmo
domicilio a Livorno... e scegliemmo il sobborgo
di Ardenza ove allora abitava il valoroso
colonnello Andrea Sgarallino... e nella cui
vicinanza avevano le loro ville i fratelli Orlando,
legati a Garibaldi da profonda, sincera amicizia. Quando varcai quel portone non ero
consapevole di ciò che mi aspettava oltre
quella soglia. Storie affascinanti... storie vere!
In effetti ancor oggi, in questo luogo, si
respira l'aria del passato, dove voci e suoni
hanno un’eco lontana e i gesti paiono essere
quelli di un rito antico. Vidi la signorina
Gonella venirmi incontro, nell’ampio ingresso in penombra, dove gli arredi evidenziavano quel gusto ottocentesco, un po’ tetro
e severo, addolcito dal fascio di luce che
entrava da una porta aperta sul giardino.
Salito un ampio scalone ed entrate in casa,
mi condusse nel salotto inondato di sole e
lì, suonate da un vecchio grammofono, mi
accolsero le note dell'Inno di Garibaldi cantate da Enrico Caruso. Lo faccio ascoltare, mi
disse, ad ogni ospite che entra per la prima
volta qui dentro. Sa... per creare l’atmosfera...
Ero emozionata. Nella stanza, che fu già
camera da letto di Manlio, i mobili, gli oggetti
di famiglia. Un importante buffet e contro
buffet acquistati da donna Francesca nel
1910 a Torino. Su uno di questi, sui vetri
smerigliati, spiccavano in bella grafia le cifre
F.G. Alle pareti un ritratto di Francesca, una
grande fotografia di Garibaldi con dedica
autografa ‘Alla mia Francesca’ e la firma. E
poi tanti cimeli, l’album di famiglia, lo spadino da accademista di Manlio, le foto di
personalità andate in visita a Caprera, i libri
e i carteggi (pubblicati da Maria Falcucci
Grassi ne I Quaderni della Labronica n° 55,
Livorno 1993), alcuni di Garibaldi stesso,
altri inviati a lui, ad Anita a Francesca da
Ugo Bassi, cappellano militare dei garibaldini,
Victor Hugo, Giuseppe Mazzini, Nino Bixio,
Francesco Crispi, Aurelio Saffi ed altri. Ricordi di una vita, ciascuno con la sua storia,
testimonianze di eventi che hanno fatto
dell'Italia quella che è o, forse, che avrebbe
dovuto essere.
La signorina Clelia, Clelietta, per distinguerla
da donna Clelia, snocciola velocemente i
suoi ricordi come i grani di un rosario. Figlia
di Gemma Armosino, a sua volta figlia di
57
un fratello di Francesca, entrò in casa Garibaldi ancor giovane, nel 1932 come dama
di compagnia. A tal proposito, nonostante
la parentela fosse lontana, ama ricordare
che Clelia Garibaldi era solita presentarla
come nipote da parte del cuore, e ciò dicendo
le si illuminano gli occhi di una vivida luce
che rivela l’orgogliosa consapevolezza, ora
che donna Clelia non c’è più, di essere l’ultima, legittima erede di questa famiglia, la
‘sua famiglia’. Di lei dice che era colta e
intelligente, appassionata di lirica e discreta
pittrice, di carattere forte e disponibile agli
incontri. Specie a Caprera, accoglieva con
amabile cordialità, indifferentemente, tutti
coloro che andavano a porgere un rispettoso
saluto alla tomba del padre. Lì, infatti, trascorrevano la maggior parte dell'anno, mentre i loro soggiorni a Livorno erano limitati
quasi sempre ai mesi invernali, quando non
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erano impegnate in frequenti viaggi all’estero.
Mentre racconta, movendosi con discrezione
fra una consolle dorata e una deliziosa dormeuse, come se stesse percorrendo il dedalo
di un labirinto, va a prendere una cartella
in cui sono contenute e, gelosamente custodite, le ultime lettere delle tante che furono
donate alle varie istituzioni pubbliche. Me
le porge ed io, cosciente di varcare le soglie
del tempo, sfoglio quelle carte ingiallite con
la delicatezza che si usa quando si ha fra le
mani un oggetto prezioso, quasi le accarezzo.
Le leggo avidamente, in particolare quelle
in cui si fa riferimento alle vicende familiari
che maggiormente angustiarono Garibaldi
dopo il fallimento del matrimonio con la
marchesina Raimondi nel 1860, matrimonio
rato e non consumato. Egli, avendo chiesto
l’annullamento, temeva che questo non
venisse concesso prima della sua morte e
che quindi non sarebbe stato libero di sposare
la sua fedele Francesca e, soprattutto, di
legittimare i suoi figli. A Caprera, tormentato
da tanto affanno scrisse: In questo giorno io
legittimo i miei figli Manlio, Clelia ed Anita
e che m’importa che l’Italia abbia un governo
codardo e retrivo e vi siano magistrati venduti
e impostori che si chiamano preti? Io legittimo
i miei figli. Altrove, da una lettera inviatagli
nel Luglio 1874 da Francesco Crispi, famoso
giurista a cui Garibaldi si era rivolto nella
speranza che lo aiutasse ad ottenere
l'annullamento, si deduce quanto gravosa
fosse per lui questa preoccupazione, al punto
da essere disposto a farsi protestante o mussulmano se ciò avesse sortito un qualche
risultato. Ma Crispi, realisticamente, così gli
rispose: Con la signora Raimondi non fu
possibile un accordo. Andai nel luogo ci ricevette
in Firenze l’avvocato della signora. Non fu
possibile persuadere lei e lui per un giudizio
di annullamento del fatale matrimonio... Non
è questione di religione... In ogni modo che
cosa intendete per legittimazione dei figli?
Lasciare il vostro nome e i mezzi per vivere?
Il nome? Essi lo avranno se voi lo volete. Andate
allo stato civile, dichiarate al sindaco che i due
nati sono figli vostri. Il nome vostro in loro
impresso così non potrà essere raschiato nemmeno col rasoio. Legalmente, dunque, senza
il consenso di entrambi il vincolo matrimoniale non poteva essere sciolto e Garibaldi,
deciso ad ottenerlo, pensò anche di chiedere
la cittadinanza francese essendo Nizza, sua
città natale, passata alla Francia nel 1860.
Con questa speranza si rivolse a Victor Hugo,
la cui affettuosa amicizia è testimoniata da
queste poche righe inviate a Garibaldi nel
Novembre del 1876: Caro Garibaldi, i vostri
bei ritratti sono arrivati. I ragazzi li hanno
ricevuti con un bacio. Vi invio il bacio dell’infanzia alla gloria, dell’innocenza alla virtù e
degli angeli all’eroe. Il vostro amico Victor
Hugo. Parole da poeta più che altro, toccanti
e solenni, che sanno cogliere la grandezza
dell'Eroe, la sua forza, il suo coraggio. Garibaldi fu padre affettuoso con i propri figli.
La signorina Gonella racconta che donna
Clelia ricordava spesso i momenti trascorsi
con lui a Caprera. Le notti d’estate, quando,
su una scogliera vicino alla casa, sedeva
accanto al padre che, suo primo maestro, le
insegnava i nomi delle costellazioni e lei
piccina, avvinta dal sonno, non faceva che
sognare stelle, stelle, stelle... Così dicendo, la
signorina Gonella mi porge il libro Mio
Padre, (Firenze 1948, Vallecchi Editore) che
Clelia Garibaldi le dettò negli ultimi anni di
vita e che raccoglie i ricordi più belli e
personali del suo rapporto con papà,
come era solita chiamarlo. A proposito
di stelle, mi dice, legga questa breve
poesia che a donna Clelia non piaceva
affatto, e che fu tra le prime cose che il
babbo le insegnò: Luna, romito, aereo,
tranquillo astro d’argento/ Come una
vela candida navighi il firmamento/ e in
tua carriera antica segui la terra e il ciel.
Ma la mia attenzione è focalizzata sull’epistolario, ne sono conquistata. Più
leggo e più mi accorgo che queste frasi,
scritte con inchiostro di china ormai
sbiadito, in realtà sono incise sulla
scacchiera della storia; hanno una vita
propria, posseggono il fascino delle
grandi imprese che, rilette col senno di
poi, non hanno più né tempo né luogo;
sono, di per se stesse, eterne e, in qualche
modo appartengono a tutti, anche a
me. In questo strano miscuglio di carte,
in cui s’intrecciano e si sovrappongono
gli ideali patrii, la ragion di stato, le
strategie belliche, gli affetti gli amori, è meglio
entrare in punta di piedi, con riserbo e
deferenza. Mi capita sott’occhio un breve
biglietto che Garibaldi scrisse nel Dicembre
del 1870 da Autun alla sua Francesca: carissima, incarico Marchi d’inviarti dodici tricots,
per te, per Lina, per le bambine, per tua madre,
tua cognata e quattro per Mariangela. Li
pagherò io. Un bacio alle bambine ed un caro
saluto a tutti di casa, Tuo Giuseppe Garibaldi
Curioso immaginare l'Eroe dei due Mondi
che si preoccupa di spedire dodici tricots alla
famiglia ma, nello stesso tempo, emozionante esplorare questo spaccato di vita privata e carpirne i segreti per condividerne
l’umana quotidianità. All’epoca di questo
scritto, Manlio non era ancora nato. Venne
alla luce il 23 Aprile 1873 e non v’è dubbio
che, benché ancora fanciullo, Garibaldi
riponesse in lui non le speranze di un padre
comune, bensì quelle di un padre condottiero di popoli. Basta leggere la poesia che
nel 1880 dettò al maestro Giuseppe Tinelli
di Cremona, per il compleanno di Manlio.
O Manlio figlio mio tu venturoso / Nascesti
a gaudio degli innamorati / Di te parenti, e
imbalsamata / Seminata di fior la via trovasti
/ Ne tuoi anni primeri, alla virtude / Accingiti
ed al culto sacro-santo / Di questa Italia sventurata. Un giorno / Di tiranno stranier, se il
mercenario / Ricalcherà quest’ubertose e belle
/ Nostre contrade, alla vendicatrice / Schiera
dei prodi volerai, redenta / A far la patria
nostra, e pur redenti / Ciocché resta di schiavi
a noi fratelli. Nel Gennaio dello stesso anno,
giunto ormai l’atteso annullamento, era
stato finalmente possibile celebrare il matrimonio con Francesca. Esultarono tutti coloro che si erano adoperati perché si realizzasse il sogno di Garibaldi, ormai vecchio e
malato. Ne fa fede la lettera inviata a Francesca dal Dott. Riboli il giorno delle nozze:
Oggi 26 gennaio 1880 la vostra stella, Donna
Francesca, ha toccato l’apice della gloria. Fate
che i vostri cari figli siano degni di un tanto
Padre. Fate ch’Egli ad ogni istante sia felice,
e che mai nube alcuna oscuri la maestosa sua
fronte. Per Lui, per i figli vostri, per voi stessa
non obliate mai, Donna Francesca, chi lo ha
amato. Per me un bacio a lui coi figli vostri.
È certo che Garibaldi lo volle fortemente, e
fortemente lo gridò al mondo, come mi par
d’intuire leggendo un’altra sua lettera redatta
a Caprera nel 1877 ed anch’essa conservata
a villa Francesca, scritta con la stessa forza
e lo stesso impeto con cui doveva aver affrontato le sue tante battaglie.
Caprera 25 Aprile 1877 Testamento
1° Al cospetto dell’Infinito e dell’umanità
intiera - io riconosco come legittima mia sposa
Francesca Garibaldi e come legittimi miei figli
Manlio e Clelia Garibaldi.
2° Io lego tutto il mio dovere a cotesta mia
famiglia, ed agli altri miei figli: Menotti Ricciotti
e Teresa
3° Considerando Stefano Canzio marito di
Teresa indegno di contare tra i miei eredi, per
avermi rubato tra le altre cose, ed oltre a cento
e ottanta milla lire - la mia stella dei Mille
- raccomando a Menotti esecutore testamentario - o a chi per lui - che giammai
Stefano Canzio, possa abitare nella mia
proprietà di Caprera.
G. Garibaldi
La mia visita in via del Parco sta per
finire. È quasi sera e oltre i vetri della
finestra s’intuisce la luce del crepuscolo.
La signorina Clelia sembra appagata,
pare che i ricordi le diano forza e che
il suo vivere sia sereno, all’ombra di
questo passato. A me non resta che
leggere per ultima la lettera che Ugo
Bassi scrisse ad Anita nell’Aprile del
1849, inizia così: Alla donna di Garibaldi.
L’Eroe sta bene, e lieto in compagnia con
noi che lo seguitiamo fedeli, come il fiato
segue la vita. Egli ne ha condotti per
attraverso valli e monti difficili, terribili,
per bufere e piogge, e tempeste furiose,
immense... L’Uomo che rapisce a sé tutti
i cuori delle province, in cui tutti i presenti
italiani ritrovano la bellezza e la luce della
speranza, l’uomo che i popoli adorano, e i re
temono, Quest’Uomo salvatore è suo fedele
di Annetta: suo dopo l’Italia.
È vero, di tutti Garibaldi è stato l’Eroe. Di
quegl’uomini che partirono per un destino
incerto, di quelle donne, madri e mogli e
figlie, che videro andare i propri cari ma che
spesso, troppo spesso, non li videro tornare.
Di queste donne, molte ne hanno condiviso
gli ideali e la sorte: come compagne di battaglia o come compagne di vita, armate di
coraggio, di spirito di sacrificio, di passione
politica, di amor di patria, di amore e basta.
Ed è proprio a due di queste, che all’Eroe
‘donarono’ il proprio cuore, che si deve la
sopravvivenza di ciò che fu della sua vita
privata, ultime eredi e vestali di un passato
da non dimenticare. Il destino ha voluto
legarle per sempre anche con lo stesso nome,
singolare coincidenza. Clelia Garibaldi e
Clelia Gonella non solo hanno conservato
con dedizione la memoria storica di quegli
accadimenti, molti lo hanno fatto. Hanno
fatto di più. Ne hanno reso vivo, vitale e
imperituro il ricordo, custodendone gli
aspetti più intimi del quotidiano: la famiglia
che a lui apparteneva. Lì, in quella vecchia
casa, tutto sembra irreale, sembra che ogni
cosa sia in attesa che l’Eroe ritorni. Forse,
davvero, l’Eroe è ancora con noi!
P.56-59: Interni e arredi di Villa Francesca a Livorno
(foto: P.Del Freo/Silvia Braschi)
59
60
E
ra una notte cupa e tempestosa”, si
potrebbe dire ossequienti all’incipit
più celebre del mondo, ma noi diremo in tutt’altro modo. Durante la cupa
tempesta di una notte di giugno, due figure
correvano appaiate sui loro destrieri percorrendo alla luce ineguale dei lampi i sentieri
della Maremma. Avvolte in scuri mantelli si
materializzavano come un’emanazione disperata del buio sul terreno bagnato, facili
bersagli dei rovesci di pioggia che li colpivano
continuamente. - “Troviamo un posto per
fermarci” gridò uno. - “Non si può qui,
cerchiamo più avanti” rispose l’altro. La corsa
proseguì per un certo tempo quando uno
dei due cavalli si impennò. Qualche soffocata
bestemmia accompagnò il tentativo del cavaliere di ridurre a ragione l’animale. Riuscì
solo a farsi scrollare di sella ed a cadere in una
pozzanghera di fango. L’altro accorse subito
cercando di sollevarlo, ma si prese uno sgarbato spintone dall’infortunato che imprecando qualcosa in una specie di genovese stretto
si rimise in piedi con agilità. Disse quindi: “Ora è il momento di fermarci, c’è qualche
riparo qui intorno dove gli austriaci non ci
buschino? Hai un’idea di dove ci troviamo?”
- “Credo vicino a Talamone, qui abbiamo
degli amici, ma a quest’ora di notte…” - Il
‘genovese’ ribattè stizzito: - “Ti pare che sia
il caso di fare gli educati, vediamo di raggiungere qualcuno che ci aiuti, credo che il cavallo
si sia azzoppato” - In effetti pareva che il
cavallo, dopo l’impennata, avendo infilato
la zampa in una buca, stentasse a riappoggiarla
sul terreno. Quello che era rimasto incolume
disse: - “Guarda Ribeira, mi pare di vedere
una luce laggiù, sembra avvicinarsi. Che fa
qualcuno con una lanterna accesa sotto la
pioggia?” - “Non è il momento per fare
un’indagine, cerchiamo di capire solo se è
un austriacante.” - Trascinarono i cavalli fuori
dal sentiero dietro una macchia scura di
cespugli, tutto accadeva con estrema difficoltà
per via del fango e delle tenebre. - “I coltelli
Orrigoni, qui non possiamo usare altro, vieni
mettiamoci qui” e si assestarono sotto le
fronde di un leccio, vicini, con le lame rilucenti
pronte, due briganti. Attendevano forse di
uccidere un uomo o forse di chiedergli aiuto.
Come avrebbero potuto distinguere l’amico
dal nemico? - Ribeira ebbe un’idea: - “Senti,
sbarra la strada con questo tronco e ascoltiamo
cosa dice, forse capiremo di chi si tratta e
allora o coltello o aiuto”. - Orrigoni ubbidì
all’istante, dopo pochi minuti di lavoro il
sentiero era diventato impercorribile. Dietro
alla lanterna sembrava arrivassero a piedi due
persone perché le voci di un dialogo si percepivano già nitide. - “Ce l’abbiamo fatta signor
conte, deve pensare solo a quello, anche se ci
si bagna e domani avremo un accidente
pensate a Lui, Lui non si agiterebbe per nulla”
- L’altro rispose: - “Abbiamo fatto una cosa
necessaria, la merce deve essere vicina al porto
sennò non valeva niente averla custodita
tanto tempo”. - “Siamo quasi arrivati” interloquì il primo e prese a fischiare sommessamente un motivo che in quei giorni tutti
cantavano e lo cantavano sotto le mura di
Roma, durante gli assalti disperati a Villa
Pamphili, tra il boato dei cannoni [Addio
mia bella addio, C.A.Bosi, 1848, ndr]. I due
nascosti con i loro coltelli branditi sentirono
e capirono di esser salvi ancora una volta. Un
motivo musicale, certamente popolare, non
propriamente bello, ma più trascinante delle
opere di Verdi rivelò che i viandanti notturni
erano italiani, e per di più patrioti. Orrigoni
balzò fuori dalla macchia e si parò dinanzi ai
sopraggiunti, con le mani alzate, dicendo in
fretta prima che questi imbracciassero i fucili:
- “In nome del general Garibaldi vi chiediamo
aiuto, stiamo cercando di raggiungere Roma”
- Quello che era stato apostrofato come
“signor conte” rimase per un attimo interdetto. Pensò: - ‘E se fosse un agguato degli
austriacanti, come faccio a sapere di chi si
tratta. Forse ci hanno spiati e con un trucco
vogliono scoprire dove nascondiamo le armi’.
- Mentre il suo compagno teneva la mano
pronta sullo schioppo a pallettoni, ebbe un
momento di incertezza, temeva di tradire se
stesso e tutti i fratelli garibaldini che gli avevano
affidato la delicatissima missione di nascondere le munizioni nei pressi di Talamone.
Dalla sua prudenza dipendeva la sicurezza
di pochi e malandati fucili, che in confronto
a quelli francesi facevano ridere, ma che erano
gli unici su cui poteva contare l’Eroe per i
rifornimenti sotto le mura di Roma. Orrigoni
misurava il conte e il conte misurava con gli
occhi Orrigoni, mentre il famiglio teneva
sempre imbracciato lo schioppo. La situazione
sembrò durare un’eternità quando dalla
macchia uscì l’altro, Ribeira, che era rimasto
nascosto fino a quel momento. Con la solita
determinazione nella voce disse: “Por Josè,
por l’Italia” e così dicendo si tolse il cappello
a larghe falde che copriva per intero il suo
viso. Ne liberò una lunga massa di capelli
bruni lucidi e mossi, da creola, che guarnivano
il viso dai lineamenti minuti. Non era più
necessaria alcuna presentazione. “Anita”
esclamò il conte e si inginocchiò davanti a lei
sotto la pioggia sferzante.
Anita Ribeira Garibaldi e Felice Orrigoni
furono ospitati e rifocillati quella notte dal
conte Carlo Maria Aperti nella sua casa di
caccia vicina a Talamone. Trovarono ricetto
tra lenzuola pulite odorose di spigo e cenarono
con pane fresco e prosciutto di cinghiale.
Anita bevve contro le sue sobrie abitudini,
che condivideva con L’Eroe, un bicchiere di
vino scuro maremmano per reintegrare quelle
energie che una delle sue molte gravidanze
le lesinava. Voleva raggiungere Josè per non
abbandonarlo mai più, combattuta tra l’amore per i figli e una gelosia indomabile. I due
ripartirono all’alba di una giornata di giugno
che aveva recuperato un sole smagliante dopo
la tempesta della notte.
P.61: Il temporale; p62: Anita Garibaldi al Gianicolo,
Roma (p.60 e 61: foto P.Del Freo)
61
62
I
n vita fu l’uomo più popolare d’Italia,
dopo la sua morte il più celebrato.
Piazze vie monumenti parlano di lui
con il linguaggio della pietra: a volte fiorito
e ridondante, a volte sintetico, perché il suo
solo nome, Garibaldi, dice tutto. Merita
soffermarci nell’esame di alcune epigrafi
poste alla base dei monumenti che lo celebrano ma anche dei testi di semplici targhe
commemorative di un passaggio o di un
evento bellico. L’Eroe vi appare come una
sorta di semidio onnipresente, prodigioso,
puro, coraggioso fino alla sfida, è il personaggio che ha toccato il cuore del popolo e
di cui molti partiti politici hanno invano
cercato di appropriarsi per la magia indiscussa
del suo magnetismo. Mai più nato un uomo
così nella nostra terra. Lasciamo ora parlare
gli italici marmi. Giovanni Bovio, massone,
scrisse i testi per alcune significative epigrafi.
- Dovunque l’anima d’Italia si fa persona un
monumento, un busto, una pietra affermano
che Giuseppe Garibaldi fu Idea ed Uomo.
- A Mazzini e Garibaldi. Negli ideali della
storia, né miti della leggenda, c’è una linea
oltre cui comincia il delirio. Questa linea
toccarono Mazzini e Garibaldi, nell’anima
del popolo viventi.
- Uno sii di fede e di armi o popolo. Uno sarai
di patria e di leggi. Così da questa casa parlò
Giuseppe Garibaldi e XIV giorni appresso al
Volturno la parola fu storia.
- A Giuseppe Garibaldi nelle storie capitano
unico, che restituì non conquistò.
Su una casa di Poggibonsi in provincia di
Siena si legge per la penna di Francesco
Domenico Guerrazzi libero muratore:
- Cercato a morte dagli Austriaci, dagli italiani
uomini derelitto, qui una donna, Giuseppa
Bonfanti, ospitava Giuseppe Garibaldi nel
1849 e provvedeva alla salvezza di lui. L’eroe
nel 19 agosto 1867 di qui ripassando, rivide
la casa e la donna, questa della vita tutelata
ringraziando e lodando della virtù sua anco
fra le antiche, rarissima. Alcuni cittadini di
Poggibonsi, perché si perennasse il fatto, alla
casa ospitale questa lapide si ponesse curarono
il 4 luglio 1870.
Sempre di Guerrazzi è quello scritto che si
legge sull’Ossario di Mentana:
- La bocca di questo sepolcro manda ai viventi
una voce che dice ‘Siate men vili e fate, oh fate!
che noi per la patria e per la libertà non siamo
morti invano.
Ancora di pugno del letterato toscano si
legge a Viterbo:
- Correndo gli anni di Cristo 1876, in Bagnorea,
noi iniziammo la guerra pel riscatto di Roma.
Combattemmo tre dì, al terzo, abbandonati
da tutti, oppressi dal numero perimmo. Le
reliquie disperse da rabbia sacerdotale, religione
patria raccolse e qui testimoniano il popolo
eroe unico in Italia avere tracciato il cammino
per Roma col proprio sangue, che piangerebbe
perduto se la speranza sedutasi su la nostra
fossa non ci placasse dicendo ‘Pace o esacerbati
spiriti fraterni, i giorni dell’obbrobrio passeranno, dal nostro martirio sta per nascere il
dì della gloria, sperate’.
A testimonianza dei numerosissimi letti in
cui dormì l’Eroe, che lasciò tali reliquie in
tutta la penisola, si legge in un nobile palazzo
di Velletri la seguente epigrafe di Ettore
Novelli:
- In questa camera Ferdinando II di Borbone,
la notte del XVIII di maggio MDCCCIL,
dinanzi a poche schiere di volontari, non trovò
sonno in mezzo al suo esercito. Vi riposò
vincitore la notte appresso Giuseppe Garibaldi.
Pio IX, da Portici a Roma tornando, vi sognò
grandezza e stabilità di regno fra spade straniere. Vi tornò nel MDCCCLXXV e vi dormì,
libera e sicura la patria, Giuseppe Garibaldi.
Non vi dormirà più nessuno.
Seguono altri sonni rubati all’incalzare del
nemico. Lorenzo Stecchetti lasciava due
interessanti epigrafi a Sant’Alberto di Romagna:
- In questa casa nella notte dal IV al V agosto
MDCCCIL, fra le ore 9 pom. e le 11 ant.,
Garibaldi, fidando bene nei patrioti di Sant’Alberto, posò sicuro il capo, cercato a morte
dagli austriaci, dal prete, dal boia.
- Garibaldi fu sicuro in questa casa dalle ore
11 pom. alle 7 ant., il V agosto MDCCCIL,
e sulla piazza erano gli austriaci e il prete
vigilava qui accanto, indarno, ché i patrioti di
Sant’Alberto tolsero il profugo eroe al piombo
straniero, al capestro del Vicario di Cristo.
Terminiamo questo breve scorrere di testi
con due epigrafi che sembrano meglio riassumere lo spirito garibaldino teso all’azione
veloce, mirata ed intrepida. La prima si trova
su un casa di Mirandola (Modena):
- Garibaldi nell’anno 1859 fermate le vincitrici
schiere sabaudo-franche dal fedifrago patto
di Villafranca, libere le masnade austro-estensi
di rioccupare le nostre terre, incitò da questo
balcone i militi del popolo alla resistenza con
le solenni parole ‘Meno evviva, più fatti’.
La seconda è a Gibilrossa (Palermo)
- Da questa rupe il 26 maggio 1860 Giuseppe
Garibaldi diceva a Bixio le fatidiche parole:
‘Nino, domani a Palermo’.
P.62: Pisa, lungarno; p63: Particolare di un monumento
a Garibaldi, Cascina, Pisa (p.62 e 63: foto P.Del Freo)
63
A
liquandoque dormitat Homerus”.
Così dicendo il professore
d’italiano richiuse le pagine
dell’ultimo tema in classe e bollò definitivamente il frutto dei miei sforzi sulla
poetica pascoliana. Intanto io guardavo
attraverso la finestra i tratti della primavera che mi veniva negata dalle ore di
studio e di concentrazione su quella dolciastra e lacrimevole cavallina storna. Mi
sentivo stanca, mortificata e inutile, seduta
davanti ad un museale banco di legno.
Era un complicato assemblaggio di assi
impreziosito da incastri, cunei, piccoli
recessi in cui riporre la merenda ed un
appoggio per i piedi fatto come la pedana
di una doccia. Avevo preso l’abitudine di
64
usare il piano inclinato a mò di tavoletta
cerata, con una punta vi disegnavo casse
da morto. Non perché mi piacessero le
casse da morto, ma perché intravedevo
in esse il simbolo del mio concetto di
scuola e poi erano semplici, quattro tratti
ed avevi fatto il tuo lavoro. Non solo, ma
tutti capivano perfettamente di cosa si
trattasse. Avevo anche scoperto che quelli
del secondo turno non occupavano il
mio banco perché erano convinti che
portasse jella. Così quell’archeologico
oggetto ligneo era diventato tutto mio, il
momento di una tormentata creatività,
eloquente testimone dell’approccio funebre che il vetusto liceo Tasso offriva alla
mia tenera anima. Sognavo lo studio
dell’università, quando avrei potuto finalmente spaziare tra le materie che amavo
ed il mio Homerus si sarebbe risvegliato.
Oggi capisco che quelle ore lunghe e
frustranti mi avevano insegnato due cose
fondamentali: l’uso del simbolo e la necessità del maestro. Non che il professore
di lettere non fosse un maestro, lo era
certo, ma non era il maestro. Tautologia?
No, per niente. Il maestro è cosa completamente diversa da un insegnante che a
fine mese riscuote lo stipendio del Ministero. Il maestro indica la strada e poi
senza commenti, senza giudizi, ti guarda
sorridente per vedere se ha comunicato
il suo amore per la conoscenza, se ti ha
fatto capire la logicità con cui cresce un
pensiero. Attende la tua domanda. Se poi
tu non ci arrivi, riprova e ti suggerisce di
nuovo un’altra angolazione dalla quale
attaccare la reticente cavallina storna,
finché non si trova la strada. Soprattutto
si astiene dal pronunciare epicedi come:
“Aliquandoque dormitat Homerus” beffardo epitaffio per onesti sforzi. Vedo che
ho usato il termine epicedio. Credo che
non sia venuto fuori a caso, ancora oggi
il ricordo di quella faccenda mi suggerisce
immagini e locuzioni funebri. Morte delle
emozioni, morte degli entusiasmi, coltre
per il feretro dell’intelligenza non risvegliata. Ed ecco che nascevano le bare, di
tutte le misure, forse in rapporto alla
delusione del giorno. Ed ecco che un
graffito semplificato diventava espressione
di un malessere e di una delusione: avevo
scoperto il simbolismo come modo per
dire con l’anima, senza passare nella mediazione straniante della parola. Quella
esperienza fu ideale per entrare nelle due
cose: il simbolismo come mezzo espressivo e il desiderio del maestro. I simboli,
oggi, li frequento, ci parlo, li interrogo
quotidianamente e me ne intendo, oggi,
di falsi maestri. E’ così che quando Luigi
Pruneti mi si parò davanti, per i casi della
vita, riconobbi il maestro, quello vero,
quello che lucidamente aspettavo. Poche
parole, più intenzionate a risvegliare suggestione e passione che ad elencare fatti
e concetti, mi fecero capire che il maestro
era stato raggiunto. Ora doveva essere
interrogato, ascoltato, dovevo trovare in
me lo spazio per la nuova impresa: bisognava raccogliere le sue provocazioni,
seguire i suoi indirizzi. Luigi Pruneti per
fortuna è uno scrittore. Penna originale
e poliedrica ha il dono di saper mettere
ordine in uno scibile dove l’approssimazione regna sovrana. Nel campo delle
scienze tradizionali la confusione è tanta.
Oriente che si scontra con Occidente,
storia che combatte con mistero, miti
contro fatti, filosofia che guerreggia con
la frase fatta, insomma virtù contra furore,
per dirla come un cammeo mediceo. Il
bel motto sintetizza ciò che accade nei
meandri di quel labirinto dove Guénon
trovò i percorsi della sua ricerca. Eppure
a dispetto della sua opera di certo monumentale e che ha molto di luce anche se
non si possono negarle alcune ombre, il
dilettantismo culturale di chi ama metterci le mani è imperante. La confusione
è tanta, l’orpello prevale sull’essenza.
Nonostante i basilari lavori di Mircea
Eliade o di Elémire Zolla, intorno al termine Tradizione sembra che si siano fatti
gli esercizi più strenui e meno premianti.
Confusa con Tradizionalismo, Tradizioni
popolari, Racconti delle nonne, Abitudini
ecc, la Tradizione andava ridefinita. Bisognava formulare gli indici di questa difficile lettura, puntualizzare cosa fosse il
“regno della quantità” ridare un significato ai passi perduti. Affascinante lemma:
la sala dei passi perduti. Soffermiamoci
a studiarlo meglio. Viene in mente l’Isola
che non c’è di Peter Pan, l’Isola del giorno
prima di Umberto Eco, e poi, perché no,
La Nuova Atlantide di Bacone, perduti
in qualche recesso della mente. Si fanno
65
strada così nell’immaginario i luoghi della
fantasia o dell’utopia, immersi nelle nebbie di ricordi ancestrali o mal delineati
da visioni oniriche. Forse però non si
tratta di questo. Riflettiamo. I passi che
si perdono sulla via del non ritorno sono
quelli che conducono al tempio massonico dove si va a cercare la luce. Se la luce
appare all’ingresso, indietro non si torna,
non si può fingere di non sapere ciò che
alla mente è apparso brillante e nitido.
Può accadere subito se si è predisposti e
se si ha accanto il maestro ed allora i passi
dall’ombra verso la luce si perdono irrecuperabili. Un frutto maturo non può
tornare acerbo, ma deve entrare in gioco
il maestro. Ha il compito di suggerire
dove il passo, può appoggiare più sicuro,
senza insidie o melme che affossino il
piede. Con agilità, orma dietro orma, ciò
che è superato deve perdersi quando si
raggiunge il limen dietro il quale brilla la
personale ricerca non è fatta di assiomi,
non è composta da rivelazioni, non fornisce paradigmi, santini o totem, ci indirizza solo a pensare. Ci potrà parlare di
storia, di luoghi, di personaggi, sempre
con l’intento di offrire materia per il
pensiero, ma mai cercando di imporre i
suoi contenuti. Quanta strada abbiamo
percorso da quella remota cavallina storna
sulla quale il professore voleva che gli
raccontassimo, pari pari, quello che lui
ci aveva elargito, dall’alto della cattedra,
nella lezione precedente. E il nostro Homerus dormiva, oh come dormiva! In
massoneria Homerus deve svegliarsi, deve
perdere i passi di accesso alla soglia della
luce, deve vivere di vita propria sulle
tracce di percorsi additati come quelli
connaturati alla sua vera essenza.
La vera essenza di Homerus sta nella sua
creatività, ossia in quella capacità di produrre pensiero derivata dalla sua origine
causa quando afferma di costruire templi
alla virtù e scavare oscure nonché abissali
prigioni al vizio. Ora che abbiamo precisato il compito del maestro in generale
diciamo anche come il maestro Luigi
Pruneti lo svolga. Gli scritti che seguono
sono nati in vari momenti del suo iter, a
partire dal 2000 ad oggi. Nello stesso
periodo hanno anche visto la luce opere
come “La Sinagoga di Satana” fondamentale storia dell’antimassoneria, “La via
segreta”, collage di scritti esoterici,
“Memorie di Atlantide ed altri racconti”
in cui fantasiosamente viene descritta la
via iniziatica ed i suoi rischi, quindi la
serie di “Toscana dei misteri” e “Firenze
dei misteri”.
I suoi lettori richiedevano però precisi
pronunciamenti sulle fondamenta della
massoneria e dunque nascevano parallelamente ai libri anche questi saggi brevi.
In un momento storico in cui è necessario
luce. Questo percorso non si può fare da
soli perchè da soli non si comincia a
studiare, è necessaria l’indicazione del
maestro, la trasmissione del metodo,
l’esatta ricomposizione delle fonti che
diano una spiegazione a tutto ciò ci si
offre come simbolo portatore di messaggi.
“Sta attento, anche questo è un simbolo”
deve dirci il maestro. “Perchè?” chiederemo noi. “Per la sua storia” ci dirà, per
esempio, il maestro. Così noi studieremo
la storia, cercheremo nelle sue pieghe i
modi dimenticati, raccoglieremo informazioni da chi conosce la materia da più
tempo, vi rifletteremo sopra. Tutto questo
mentre il maestro ci osserva sereno e
produce il frutto della sua personale ricerca. Ci accorgeremo allora che la sua
ed inserita nel disegno nobilmente architettato da chi tiene in mano le leggi dell’evoluzione. Ogni Homerus ha la sua
creatività, nulla è scontato, nulla è omologabile. Il maestro deve risvegliare la
creatività individuale. Oggi occorrono
idee. Non serve a niente la ripetizione di
antiche locuzioni se queste non producono nuove idee. I manierismi sono la
morte del pensiero ed il massone non
può cadere nel loro tranello perché tutta
la Tradizione diventerebbe così tradizionalismo e quindi negherebbe la sua stessa
ragion d’essere. Perciò ci vuole il maestro
per spiegare la Tradizione. Ecco siamo
arrivati al punto: il maestro ha il compito
di spiegare la Tradizione, ossia l’obiettivo
e il metodo che la massoneria chiama in
che la guida non si perda e che la strada
ben imboccata non si confonda con altre,
abbiamo sentito la necessità di ricollegare
tra loro queste pagine ed offrirle ad una
lettura autonoma.
Vi si può apprezzare la chiarezza espositiva veicolata da uno stile immaginifico
e ricco che però nulla toglie alla limpida
lettura del messaggio. Una parte essenziale
è rappresentata dalla bibliografia che è
una vera e propria dichiarazione di metodo.
Attraverso le note il lettore può adire ad
una completa elencazione dei testi e degli
autori più accreditati per approfondire
la materia trattata. La preziosità di queste
pagine sta nel fatto che sono nate da
osservazioni sul campo e da esigenze
66
legate all’esperienza nelle logge. Sono le
risposte ai perché scaturiti spontaneamente dal rapporto fraterno con tanti che
ponevano al maestro le loro domande.
Nell’antico schema di quel responsorio,
che il magistero comporta, si dipana un
discorso che tocca alcuni temi portanti
nella via iniziatica. Apre la trattazione il
tempo e la sua scansione con particolare
attenzione verso i solstizi. I concetti di
ciclicità e di illuminazione introducono
quindi ad uno studio specifico della Tradizione. Sembra che, passato attraverso
il filtro di una civiltà barbarica che ne ha
modificato i connotati, tutto il più profondo significato della Tradizione sia stato
violentato e, camuffato da altri fenomeni
per poter sopravvivere, oggi sia giunto a
noi come un complesso messaggio da
decrittare. Le forme che lo soffocano
devono essere rimosse per comprendere
l’intimo valore celato. Poiché la massoneria basa i suoi fondamenti sulla Tradizione, fare in modo che questa riemerga
è il lavoro più utile al fine di ben comprendere quale sia lo scopo della sua stessa
esistenza.
Questo è l’obiettivo di tutta la produzione
latomistica di Luigi Pruneti. Attacca le
tematiche specifiche variamente e quindi
ne offre al lettore un’angolazione sempre
diversa, mostrando così la polivalenza e
l’attualità del fenomeno culturale massonico.
Con saggezza e sistematicamente ripresenta più volte il problema della vera
conoscenza, che non può essere confusa
con l’erudizione, e paziente, stimola il
maestro interiore a farsi strada tra le
brume della cultura d’accatto. Non serve
aver letto Sant’Agostino per apprezzare
la genialità del sistema. Non serve aver
imparato a memoria le dolciastre cavalline
storne di ogni tempo, per scoprire quanto
sia gratificante invece arrivare a produrre
idee, per risvegliare Homerus il creativo.
Per capire basta accogliere le parole di
Luigi Pruneti.
Anna Giacomini
P.64: Busto di Omero, Louvre, Parigi; p.66: Aldo A.Mola, Anna
Giacomini e Luigi Pruneti (foto P.Del Freo); p.67: L’Apoteosi
di Omero, J.D.Ingres, 1827 olio su tela, Louvre, Parigi.
67
Dalle parole del Gran
Maestro Luigi Danesin il 16 marzo 2007
I
Manuela Forlani
nostri libri sono un bene prezioso,
molte nostre sedi possiedono già un
locale adibito a biblioteca, consultabile da parte dei fratelli, purtroppo altre
sedi ne sono sprovviste ed è necessario rimediare a questa lacuna. Da qui i due precisi
inviti del GM: il primo alla lettura, come
momento essenziale del cammino iniziatico;
il secondo alla costituzione di fondi librari,
là dove non ci sono, o all’incremento di
quelli già esistenti, ai quali ciascuno di noi
è chiamato a contribuire donando libri di
interesse massonico od esoterico. Diversi di
noi hanno ad esempio più copie di uno
stesso libro: non è dunque un gran sacrificio
donarne una alla biblioteca comune. Sicuramente non importa qui ribadire il carattere
speculativo della nostra Istituzione e la rilevanza del Libro come compagno di percorso
nel viaggio verso la Conoscenza. Il libro è
vivo, brilla di luce propria e non aspetta altro
che di schiudersi per aprire nuovi orizzonti.
Alcuni dei presenti alla riunione hanno
rilevato che al giorno d’oggi la maggior parte
68
delle ricerche culturali e scientifiche si effettua
su Internet. Questo è sicuramente vero,
almeno per un primo approccio con la
ricerca, ma l’approfondimento deve essere
confortato dal libro. I dati acquisiti dalla rete
telematica risultano sempre sommari e superficiali, non supportati da un adeguato
apparato bibliografico o di note, e soprattutto
sono sempre freddi, perché manca loro
l’energia e la vita che la pagina scritta racchiude in sé. La parola scritta è sempre stata
ritenuta viva dagli iniziati: in essa si condensa
l’energia intellettuale e vitale di chi l’ha
dettata. Così nel libro sacro, sia esso la Torah,
i Vangeli o il Corano, si racchiude l’essenza
stessa della divinità e della profezia. Per
questo ogni libro, sia manoscritto che a
stampa, trasmette qualcosa. Se il libro è
usato, vi si imprime anche una parte della
sapienza e dell’energia vitale di chi lo ha letto
con interesse. Questo non vale per la parola
trasmessa in rete, resa arida e sterile dall’intelligenza artificiale, dove le lettere sono
sostituite dai bit. Eppure anche la rete è
importante per un primo approccio e soprattutto per la ricerca e l’archiviazione dei
dati. A tale proposito si è pensato di creare
un catalogo informatico dei testi attualmente
in dotazione alle singole sedi, catalogo che
permetterà all’utente, dalla propria postazione PC, di trovare il libro che interessa
nella sede più vicina alla propria zona. Il
catalogo non dovrà tuttavia essere una semplice indicazione bibliografica, col titolo ed
il nome dell’autore, ma costituire una vera
e propria guida all’individuazione del contenuto del testo. Dovrà dunque contenere,
oltre al nome dell’autore, al titolo ed all’edizione, anche la materia trattata da ciascun
libro, attraverso una breve scheda esplicativa
del contenuto, in modo da indirizzare al
meglio la ricerca. Le schede potrebbero essere
realizzate dagli utenti stessi, sia come contributo al fondo bibliotecario accompagnando
la donazione del libro, sia come Tavola di
lavoro conseguente alla lettura dell’opera.
Un’iniziativa dunque di grande importanza,
alla quale ciascuno di noi deve sentirsi fiero
di contribuire, come un tempo i maestri
d’opera con orgoglio realizzavano il loro
filare di pietra per costruire insieme con
quelli degli altri fratelli le grandi cattedrali.
La biblioteca nazionale
‘‘Giovanni Ghinazzi’’
della G.L.D.I.
Vittoria C.Zarattini
Presentazione
Se è vero che la Tradizione è trasmissione del
pensiero, della vita e dei valori della nostra
Obbedienza, anche i luoghi e gli spazi in cui
la cultura massonica viene conservata e tramandata costituiscono un bene prezioso da
salvaguardare, aggiornare, valorizzare, oltre
che un riferimento per ricerche e approfondimenti. La storia del Locum di raccolta di
scritti e dell’Armarium dove venivano collocati, nasce nel ‘500, ma già a partire dal
Medioevo esisteva, accanto alla Biblioteca
privata, dove l’accesso era aperto a persone
con particolari requisiti, la Bibliotheka pubblica. A sottolineare l’importanza che in
quell’epoca veniva attribuita alla gestione
delle Biblioteche, si ricorda il caso della Biblioteca Marciana di Venezia, fondata nel
1468 per iniziativa del Cardinale Bessarione
che volle ne fosse affidata la gestione alla
Repubblica di Venezia e non al Monastero
di S. Giorgio, per garantirne l’autonomia
necessaria a mantenere e a trasmettere opere
di differente ispirazione. Al giorno d’oggi fa
specie che in un poderoso volume dove sono
riportate tutte le Biblioteche esistenti in Italia,
uscito di recente quale supplemento ad un
quotidiano di grande tiratura, non sia stata
indicata, pur nelle limitatezza dello spazio
consentito, nessuna Biblioteca di orientamento massonico, notoriamente dotata di un
patrimonio librario e documentario unico
nel suo genere, quando la Biblioteca Nazionale di Francia attesta, negli elenchi ufficiali
a disposizione dei media, ben 55.000 volumi
a titolo massonico.
Con detta premessa l’apertura al pubblico
della Biblioteca Nazionale della Gran Loggia
d’Italia, intitolata al Gran Maestro Giovanni
Ghinazzi, avvenuta il giorno 16 marzo c.a.
alla presenza del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Danesin, del
Gran Bibliotecario Roberto Palma, dei membri della Consulta Nazionale Permanente
per le Biblioteche, di autorevoli rappresentanze
massoniche, di numerosi fratelli e sorelle e di
rappresentanti della stampa, si pone in termini di fruizione di una risorsa unica e
irripetibile per il suo patrimonio librario che
copre interessi vastissimi con testi di storia,
filosofia, esoterismo, statuti, rituali, regolamenti, costituzioni, documenti e manoscritti,
collezioni di riviste, atti di convegni, enciclopedie e quant’altro. Particolarmente interessante il materiale (volumi, riviste e documenti) proveniente dall’estero, che attesta espressioni della cultura e della tradizione massonica
europea, ed in particolare del Mediterraneo.
Sono presenti non pochi volumi rari e preziosi,
tra cui, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo, l’Opera Omnia di Giosuè Car-
ducci, oggetto di un accurato restauro conservativo, un tomo della quale porta la dedica
autografa dell’autore al Gran Maestro Adriano Lemmi, il Theatrum Chemicum una
ristampa anastatica di un’opera in 6 volumi,
apparsa la prima volta in 4 volumi nel 1602
e nell’edizione attuale tra il 1659-1661, la
preziosissima The History of Freemasonry
di Robert F. Gould, Les Vojages de Cyrus
di M. Ramsay, edito ad Amsterdam nel 1728,
importanti testi di e su Leo Taxil, ed inoltre
documenti che coprono il periodo dal 1908
al 1925, con i Sovrani Gran Commendatori
Saverio Fera, Leonardo Ricciardi, William
Burgess, Vittorio Palermi e del periodo clandestino fascista. La lista è ancora lunga e
finalmente consultabile.
Schedatura, catalogazione e allestimento
Buona parte dei volumi schedati e catalogati
provengono da donazioni di sorelle e fratelli,
altrettanti da acquisti recenti. Le schede
evidenziano i seguenti dati: titolo, eventuale
sottotitolo, autore, editore, lingua del testo,
anno di pubblicazione, caratteri particolari
della pubblicazione (volumi rari, copie anastatiche, ecc.) e ovviamente il codice di collocazione con l’indicazione se il volume è prestabile o consultabile. I criteri messi in opera
per l’allestimento delle vetrine rispondono ai
seguenti dati:
- le vetrine sono numerate con numero progressivo romano a partire da quelle inferiori;
- i ripiani di ogni vetrina sono numerati con
le lettere maiuscole dell’alfabeto in ordine
progressivo a cominciare dall’alto verso il
basso;
- i volumi sono schedati con numero progressivo dalla prima vetrina alla ventiseiesima a
partire dall’alto verso il basso;
La ricerca dei volumi è attiva per titolo e/o
autore; in seguito sarà rilevabile anche per
categoria.
Obiettivi
Tra gli obiettivi di partenza quello del work
in progress attestato da:
- aggiornamento di schedari e cataloghi, con
breve bibliografia ragionata e indicazione
del numero di volumi presenti per titolo. Si
intravede la necessità di elaborare un catalogo
dell’excursus storico dell’Obbedienza, attestante le tappe evolutive ed il cammino in
corso attraverso i testi scritti da fratelli e sorelle
corredati di una breve bibliografia ragionata;
- informazioni bibliografiche per gli utenti
da pubblicare su Officinae, con presentazione
di titoli ragionati;
- schedatura e catalogazione delle nuove
opere affluenti alla Biblioteca Nazionale per
donazione e/o acquisto;
- attivazione di un collegamento in rete con
le Biblioteche dei vari Orienti dell’Obbedienza
che permetta la fruizione di tutto il nostro
Patrimonio librario;
- riproduzione di documenti;
- attivazione di un servizio relazioni interne
che dia spazio a Seminari, Conferenze, Tavole
Rotonde, aperti anche al pubblico profano,
su tematiche cardine dell’Obbedienza attestate dal nostro Patrimonio librario, ivi compreso quello dei vari Orienti della G.L.D.I.;
- attivazione di un servizio relazioni esterne
che preveda dei percorsi formativi ad hoc,
ad esempio siglando dei Protocolli d’Intesa
con le Università per la messa a disposizione
di borse di studio destinate all’elaborazione
di tesi su tematiche di carattere massonico;
- rapporti con le Obbedienze del Mediterraneo, allo scopo di arricchire la nostra Biblioteca
di testi, documenti e notizie bibliografiche
veicolati dai nostri rappresentanti presso le
suddette Obbedienze attraverso scambi di
idee e di risorse;
- collaborazioni, ove possibile, con Rappresentanze Istituzionali nazionali e locali e con
Organizzazioni culturali.
La finalità principale di questo lavoro è volta
a far vivere la Biblioteca in termini di risorsa,
in quanto depositaria della cultura e della
tradizione massonica, di comunicazione in
quanto canale privilegiato per la diffusione
della nostra cultura e tradizione, di veicolo
di socializzazione in quanto motore di interscambi attivi di cultura massonica, in particolare con il mondo profano, nella prospettiva
- ci si augura - che venga superato quel
gradino di indifferenza o di sospetto comune
a molta parte del mondo esterno, fiduciosi
che “...Bisogna conoscersi e conoscendosi
stimarsi e stimandosi amarsi ed amandosi
dimostrare al mondo circostante che ogni
più grande conquista, scientifica o sociale,
diviene vana o addirittura dannosa quando
l’umanità non sia legata dallo spirituale
vincolo di un profondo amore”.
(da Giovanni Ghinazzi, Discorso ai Fratelli
della Comunione, Roma 31 marzo 1968 in
“Giovanni Ghinazzi, Gran Maestro della Gran
Loggia d’Italia” di Luigi Pruneti, Introduzione
di Luigi Danesin, Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della G.L.D.I.)
P.68: Biblioteca Nazionale della GLDI, Roma, particolare.
69
Tacuinum templare, a tavola con i monaci guerrieri
Alex Revelli Sorini - Susanna Cutini; ali&no
editrice, Perugia 2006, pp.126
T
acuinum templare di Alex Revelli
Sorini e Susanna Cutini può
darci molte risposte ai numerosi
interrogativi che ci suggerisce la storia
dell'ordine templare.
Nello scorrere le pagine del libro non si
trovano solo ricette di piatti più o meno
legati a qualche antica tradizione gastronomica, ma anche le disposizioni dettate
dalla Regola, che, messe a confronto con
i cibi ingeriti, ci mostrano una sapienza
alimentare che desta sorpresa.
Per esempio, l'uso parco delle carni di
cui nel Medioevo si abbondava e che in
oriente a causa del clima era molto limitato, è uno degli elementi igienici che
subito si fa strada tra le molte suggestioni.
Il pesce, spesso allevato, i legumi e i vegetali erano ingredienti fondamentali
della dieta templare.
Nulla di meglio per tenere
il fisico sempre pronto alla
battaglia: i grassi potevano
appesantire e rendere
poco efficienti i cavalieri
che in qualsiasi momento
della giornata dovevano
essere pronti a difendersi
o a correre in aiuto di chi
lo richiedesse sulle rotte
della Terra Santa.
Sobrietà ma varietà e sicuramente pochi digiuni
costituivano le caratteristiche principali dell’alimentazione templare.
Ogni atto legato al
"manducare" avveniva in
nome di Dio e secondo
norme precise, per quella
sacralità che pervadeva
ogni azione del monacocavaliere.
Esso appariva così preso
dai suoi voti religiosi da
considerare gli atti della
sua vita di guerriero come
destinati alla glorificazione di Dio.
Anche la condivisione del
piatto con il confratello e
la destinazione di parte del
cibo ad un povero, dovevano sempre ricordare
come la carità e l'amore
70
In questo numero di Officinae puntiamo lo
sguardo su una curiosità. Cosa mangiavano
gli uomini che hanno fatto la storia? Il nostro
cervello funziona per le sostanze nutritive che
gli forniamo e dunque si potrebbe ipotizzare
che l'alimentazione abbia una qualche influenza su certe tendenze o caratteristiche
espresse dalla mente umana? Se così è, viene
da chiedersi se il misticismo degli anacoreti
fosse in qualche modo stimolato dagli elementi
nutritivi poverissimi che quei digiunatori
assumevano. Ci si domanda se i guerrieri
dell'antichità nei loro pasti rituali consumati
durante i propiziatori sacrifici agli dei non
dovessero alle carni sanguinolente ed alle
libagioni di merum o di mulsum la loro
storica audacia. Ed i Templari uomini rotti
alle fatiche più strenue, alle marce nel deserto,
alla vita in climi che non erano certo quelli
temperati delle loro terre natali, a cosa dovevano la loro invincibilità o per lo meno il loro
celebre valore guerriero? Forse anche una
dieta ben calibrata favoriva lo sprezzo della
fatica e la fede nella loro missione?
fossero le ragioni dell'agire cavalleresco.
Forse erano principi non sempre effettivamente applicati, ma certo la Regola li
ribadiva. Manduca panem tuum cum silentio era il principio cenobitico cui i
templari si riferivano.
Anch'essi infatti usavano il criptico linguaggio dei gesti per comunicare le proprie esigenze ai fratelli serventi.
Un linguaggio simbolico, misto di allusioni concrete e di più profonde implicazioni, rendeva universale la comunicazione poiché alla stessa tavola sedevano
cavalieri delle più varie provenienze e
quindi di lingue diverse.
Vietato ogni eccesso si potrebbe dire, sia
nella quantità che nella privazione del
cibo. Perché non solo veniva imposto di
non eccedere ma anche di non denutrirsi
con eccessive mortificazioni, del tutto
inadatte alla vita attiva e faticosa del
crociato.
Tutto era posto "nella disposizione e nella
discrezione del Maestro, perché quando
voglia <il convivio> sia composto di
acqua, quando con benevolenza comanderà, di
vino opportunamente
diluito".
Viene da pensare che il
detto "bere come un
templare" si possa riferire
solo alle mutate condizioni di vita dopo la battaglia di Acri, quando
tutto l'ordine si ritirò nelle
commende d'Europa ove
senza i doveri della guerra
ma, nell’opulenza di una
ricchezza notevolissima, i
leggendari crucesignati si
abbandonarono agli eccessi, causa principale
della loro rovina.
I due autori hanno pubblicato una collana di
analoghi saggi tutti dal
piacevole titolo di Tacuinum, che fornisce l’impressione dell'appunto
estemporaneo e della
nota.
Ma l'impressione viene
puntualmente contraddetta dal disegno ben
studiato ed altrettanto ben
documentato che emerge
fin dalle prime pagine,
anche se sfogliate con la
curiosità del gourmet alla
ricerca di novità.
Garibaldi a tavola
a cura di Clelia Gonella; Belforte editore,
Livorno 2002, pp.80
G
aribaldi a tavola’ è un libro di
cucina sui generis nel quale la
storia privata e familiare di
Garibaldi si fonde con ricette
gustose e abbastanza semplici a
farsi.
Nel libro sono state raccolte in modo
organico le ricette tratte da un quaderno
della figlia Clelia, con la copertina foderata con carta da pacchi, sulla quale era
stato scritto "Ricette Cucina".
Insieme al libro "Mio padre" di Clelia
Garibaldi ci consente di conoscere i piatti
preferiti da Giuseppe, buona parte dei
quali sono stati trasfusi nel ricettario e
da lui apprezzati.
Garibaldi, infatti, per ragioni di famiglia,
amava la cucina ligure e nizzarda unita,
però, a quella piemontese che la moglie,
Francesca Armosino, gli preparava.
Gradiva particolarmente il minestrone
alla genovese e le trenette con il pesto, la
bouillabaisse, la zuppa di pesce alla marinara, lo stoccafisso, il
baccalà, il grongo in
burrida, il pesce lesso,
le frittate di carciofi e
questi ultimi sia cotti
che crudi, le insalate
con erbe selvatiche e
ravanelli, i fichi, che
mangiava con la buccia
che riteneva la parte
più gustosa, le arance,
i fichi d'india. Beveva
poco vino che spesso
annacquava, gradiva il
thea, che prendeva nel
pomeriggio, il mate e,
d'estate, l'orzata, che
veniva fatta dalla moglie con le mandorle di
Caprera; dopo ogni
pasto sorbiva il caffè nel
quale, con civetteria,
era solito intingere la
barba per scurirla, e si
concedeva un sigaro.
Smise di fumare per
amore del piccolo
Manlio che non gradiva l'odore del Toscano.
Quando a casa c'erano
un po' di soldi si
mangiava la carne di
manzo altrimenti, per
le feste, c'erano i polli della fattoria; si
consumavano anche tordi, beccacce o
pernici cacciati da Menotti.
Donna Francesca faceva il burro e i formaggi, in particolar modo la ricotta e il
pecorino, che veniva mangiato con i baccelli.
Se c'erano ospiti, normalmente, veniva
loro offerto quello che era stato preparato
per la famiglia. Così, alcune persone capitate all'improvviso, dopo una traversata
con il mare un po' vivace, dovettero mangiare delle abbondanti porzioni di bouillabaisse e, malgrado lo stomaco in disordine, per educazione, manifestarono il
loro apprezzamento.
Ad altri venne data la bouillabaisse e
dopo pecorino con i baccelli crudi. Clelia
si accorse che i commensali facevano
finta di mangiarli ma, in realtà, se li mettevano nella tasca della giacca o nelle
maniche non gradendoli.
A dei visitatori venne offerto di raccogliere e mangiare i fichi de "La bellona",
una pianta che era stata portata da Nizza
e che era ancora viva negli anni cinquanta; uno di costoro, che aveva raccolto e
sbucciato il frutto e gettato la buccia al
suolo, venne quasi redarguito dal padrone di casa che disse:"Per Dio! avete gettato
la parte migliore"; l'ospite, con mossa
fulminea, si chinò, raccolse la buccia con
la terra e la ingoiò prima ancora che
Garibaldi potesse dire qualcosa!
Garibaldi era di gusti semplici ed essenziali, tenero, affettuoso e allegro con la
moglie e i figli, specialmente con i piccoli
Manlio e Clelia verso i quali era prodigo
di consigli ed insegnamenti.
Clelia, infatti, imparò dal padre a leggere,
scrivere e far di conto.
I bambini ricambiavano l'amore paterno
e gareggiavano fra loro per pescare pesci
che venivano fritti, Clelia pescava i gamberi e, con una canna spaccata in cima,
i ricci, di cui il padre era particolarmente
ghiotto; tirava la sfoglia con il mattarello
per le tagliatelle, faceva gli agnellotti e
quando, una volta alla settimana, veniva
cotto il pane, nel grande forno che era
in giardino, preparava per il padre dei
panini e dei canestrelli.
Le insalate di campo con i ravanelli erano
raccolte dai figli che prendevano anche
corbezzoli, mirto o more
che venivano consumati
come frutta.
Tutto questo inorgogliva
enormemente i due
bambini che si sentivano
parte essenziale del menage familiare.
Nei momenti di serenità
ed allegria Garibaldi ballava con la moglie o cantava per i familiari delle
romanze o delle antiche
canzoni francesi o spagnole con la voce da baritono leggero.
In sintesi la vita familiare
di Garibaldi era improntata ad una grande semplicità e schiettezza ed i
suoi gusti alimentari
erano legati oltre che alle
tradizioni familiari anche
alla disponibilità economiche e dei prodotti che
si trovavano a Caprera
nella casa-fattoria dove,
dopo aver fatto l'Italia, si
era ritirato a vivere a soli
cinquantatré anni, pur
non disdegnando, quando
necessario, di riprendere
la vita attiva.
Sergio Gristina
71
Fregi di Loggia
R.L. ‘Giovanni Bovio’, Or. di Bari
La R\L\pubblicata in questo numero è intitolata a Giovanni Bovio, eminente figura di politico,
pensatore e Massone pugliese. Era un uomo di cultura enciclopedica e di memoria prodigiosa. La storia
conserva il ricordo delle sue battaglie civili e della sua profonda onestà e incorruttibilità, riconosciuta
anche dai suoi avversari.
Nel Gioiello di Loggia viene citata una sua frase: ‘Anarchico il pensiero’, la cui valenza iniziatica non
deve sfuggire: esiste un ambito della mente che non può essere assoggettato a regole date, a schemi
precostituiti. In questo spazio sacro non vige alcun governo (ana-archè) se non quello della propria
libertà di ricerca e del proprio potere creativo.
Sulle due facce del Gioiello sono poi rappresentati una serie di strumenti dell’antica Arte Muratoria
(compasso, livella e maglietti su una faccia, squadra, compasso e campana sull’altra.
ad oggi l’elenco delle Logge già pubblicato...
R\L\1349
R\L\1442
R\L\1216
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R\L\1462
R\L\1181
R\L\1485
R\L\1323
R\L\1136
Cartesio O\di Firenze
Nino Bixio O\di Trieste
Scaligera O\di Verona
Minerva O\di Torino
Sile O\di Treviso
Luigi Spadini O\di Macerata
Enrico Fermi O\di Milano
Kipling O\di Firenze
Iter Virtutis O\di Pisa
Venetia O\di Venezia
La Fenice O\di Forlì
Goldoni O\di Londra
Horus O\di R.Calabria
Pisacane O\di Udine
Mozart O\di Roma
Prometeo O\di Lecce
Salomone O\di Catanzaro
Teodorico O\di Bologna
Fargnoli O\di Viterbo
Minerva O\di Cosenza
Federico II O\di Jesi
Giovanni Pascoli O\di Forlì
Triplice Alleanza O\di Roma
Garibaldi O\di Castiglione
Astrolabio O\di Grosseto
Augusta O\di Torino
Voltaire O\di Torino
Zenith O\di Cosenza
Audere Semper O\di Firenze
R\L\1154
R\L\1284
R\L\1330
R\L\1511
R\L\1383
R\L\1227
R\L\1296
R\L\1353
R\L\1472
R\L\1329
R\L\1334
R\L\1526
R\L\1450
R\L\1486
R\L\1375
R\L\1477
R\L\1529
R\L\1506
R\L\1209
R\L\1452
R\L\1308
R\L\1473
R\L\ 567
R\L\1518
R\L\1195
R\L\1239
R\L\1447
R\L\1124
R\L\1364
Justitiam O\di Lucca
Horus O\di Pinerolo
Jakin e Boaz O\di Milano
Petrarca O\di Abano Terme
Eleuteria O\di Pietra Ligure
Risorgimento O\di Milano
Fidelitas O\di Firenze
Athanor O\di Cosenza
Ermete O\di Bologna
Monviso O\di Torino
Cosmo O\di Albinia
Trilussa O\di Bordighera
Logos O\di Milano
Valli di Susa O\di Susa
Cattaneo O\di Firenze
Mozart O\di Genova
Carlo Faiani O\di Ancona
Aetruria Nova O\di Versilia
Giordano Bruno O\di Firenze
Magistri Comacini O\di Como
Libertà e Progresso O\di Livorno
Uroborus O\di Milano
Ugo Bassi O\di Bologna
Ravenna O\di Ravenna
Hiram O\di Sanremo
Cavour O\di Vercelli
Concordia O\di Asti
Per Aspera ad Astra O\di Lucca
Dei Trecento O\di Treviso
R\L\1411 La Fenice O\di Livorno
R\L\1316 Aristotele II O\di Bologna
R\L\1292 La Prealpina O\di Torino
R\L\1274 Erasmo O\di Torino
R\L\ 612 Hiram O\di Bologna
R\L\1457 Garibaldi O\di Toronto
R\L\ 903 Sagittario O\di Prato
R\L\1179 Giustizia e Libertà O\di Roma
R\L\1417 Le Melagrane O\di Padova
R\L\1431 Luigi Alberotanza O\di Bari
R\L\1430 Antares O\di Firenze
R\L\1318 Cidnea O\di Brescia
R\L\1286 Fratelli Cairoli O\di Pavia
R\L\ 582 Nazario Sauro O\di Piombino
R\L\1479 Antropos O\di Forlì
R\L\1108 Internazionale O\di Sanremo
R\L\1530 Giordano Bruno O\di Catanzaro
R\L\1458 Federico II O\di Firenze
R\L\1574 Pietro Micca O\di Torino
R\L\1222 Athanor O\di Brescia
R\L\D. 6886 Chevaliers d’Orient O\di Beirut
R\L\1120 Giosuè Carducci O\di Follonica
R\L\1534 Orione O\di Torino
R\L\1268 Atlantide O\di Pinerolo
R\L\1384 Falesia O\di Piombino
R\L\1516 Alma Mater O\di Arezzo
R\L\1593 Cavour O\di Arezzo
R\L\1178 G.Biancheri O\di Ventimiglia
R\L\1336 Sibelius O\di Vercelli
R\L\1516
R\L\1382
R\L\1285
R\L\1540
R\L\1405
R\L\1456
R\L\1383
R\L\2683
R\L\1545
R\L\1582
R\L\1567
R\L\1600
R\L\1551
R\L\1550
R\L\1602
R\L\1521
R\L\1570
R\L\1620
R\L\1390
R\L\1622
R\L\1271
R\L\ 109
R\L\1293
R\L\1669
R\L\1547
R\L\1675
R\L\1414
C.Rosenkreutz O\di Siena
Virgilio O\di Mantova
Mozart O\di Torino
Ausonia O\di Siena
Vincenzo Sessa O\di Lecce
Manfredi O\di Taranto
Cavour O\di Prato
Liguria O\di Ospedaletti
S.Friscia O\di Sciacca
Atanor O\di Pinerolo
Ulisse O\di Forlì
14 juillet O\di Savona
Pitagora O\di Cosenza
Alef O\di Viareggio
Ibis O\di Torino
Melagrana O\di Torino
Aurora O\di Genova
Silentium... O\di Val Bormida
Polaris O\di Reggio Calabria
Athanor O\di Rovigo
G. Mazzini O\di Parma
Palermo O\di Palermo
XX Settembre O\di Torino
La Silenceuse O\di Cuneo
Corona Ferrea O\di Monza
Clara Vallis O\di Como
Giovanni Bovio O\di Bari