l`articolo - Legambiente Pisa

Transcript

l`articolo - Legambiente Pisa
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,50
SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/
BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
ANNO XLIII . N. 12 . MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
EURO 1,50
SINISTRA
La linea Monti
Le buone ragioni
di Rivoluzione Civile
Alberto Burgio
Il premier inaugura la nuova stazione del Tav Torino-Lione tra gli scontri. Poi va a tutta
velocità contro il «pifferaio» di Arcore «che incanta i topini» sulle tasse: «Berlusconi
una volta l’ho votato anch’io ma ormai è solo un illusionista ringalluzzito» PAGINE 2, 3, 4
SENATO
Bersani chiede
il disarmo
unilaterale
agli arancioni
Intervistato dal Washington Post,
Pierluigi Bersani si dice pronto «a
firmare un patto» con Monti, dopo le elezioni, per «riformare e
ricostruire il paese». Dal movimento Rivoluzione civile guidato
da Antonio Ingroia il Pd si aspetta invece «collaborazione» nelle
regioni chiave - Lombardia, Campania e Sicilia - per evitare di
perdere la maggioranza in senato. In sostanza, il ritiro «unilaterale» delle liste «arancioni» almeno
in due regioni. Altrimenti ripartirà
l’offensiva sul «voto utile». Cauto
il magistrato candidato premier:
«Desistenza? Prematuro parlarne».
|PAGINA 2
LAVORO
«Un milione
di nuovi posti»
Il piano Cgil
per la sinistra
«Un milione di posti di lavoro nei
prossimi tre anni». La Cgil è pronta a svelare il suo nuovo «Piano
per il lavoro» a una kermesse
che si terrà a Roma il 25 e 26
gennaio: invitati a parlare dal
palco il segretario del Pd Pierluigi
Bersani e il leader di Sel Nichi
Vendola. Una sorta di «endorsement» ufficiale al prossimo (almeno auspicato) governo di centrosinistra. Il piano dovrebbe essere
finanziato con 80 miliardi di euro
da qui al 2015, recuperati da
una patrimoniale sui ricchi e un
fisco più equo: detassando dipendenti e pensionati. Ripartirebbe
subito anche il Pil. |PAGINA 3
LA PROTESTA NO TAV A TORINO/FOTO SECOLO XIX.IT
LA NUOVA GUERRA AFRICANA DELLA FRANCIA
Parigi intensifica i raid
e invia rinforzi in Mali
I
caccia francesi martellano nel nord del paese
le postazioni delle milizie jihadiste, che contrattaccano conquistando Diabali e promettono vendetta: scatta l’allarme terrorismo a Parigi. E
i 550 soldati impegnati nei primi quattro giorni dell’«Operazione Gattopardo» diventeranno presto
2.500. In vista degli scontri «di terra» Hollande cerca alleati in Africa disposti a sostenere l’escalation
militare e chiede al Consiglio di sicurezza di accelerare il «via libera» all’intervento. Per il presidente
primi «benefici politici» sul piano interno: il 63%
dei cittadini è con lui. E a sorpresa anche il 68% degli elettori del Front de Gauche si scopre a favore.
LEYMARIE, MERLO, SGRENA |PAGINA 7
TUNISIA |PAGINA 6
Due anni fa la scintilla
delle rivolte arabe.
Ma nel paese c’è poco
da festeggiare
ANNAMARIA RIVERA
È MORTO L’EX BR GALLINARI
INTERNET
L’incontro
di due percorsi
La vita ribelle
di Aaron Swartz
Giovanni Russo Spena
Benedetto Vecchi
on Prospero Gallinari ho avuto,
dall'inizio degli anni '90, un rapporto intenso. Le scelte politiche
ed il vissuto di Prospero erano, certo,
molto differenti dalle mie scelte. Prospero fondatore e dirigente delle Brigate Rosse; io, comunista pacifista e libertario,
che ho sempre pensato il conflitto, anche
il più radicale, come totalmente «altro» rispetto alla lotta armata. Eppure ho imparato a comprendere la dignità di Prospero, a maturare rispetto nei suoi confronti.
Lo conobbi all'inizio degli anni '90, in
una delle frequenti visite in carcere.
CONTINUA |PAGINA 14
stato un programmatore talentuoso e un attivista della Rete. Aaron
Swartz, si è tolto la vita nella sua
New York. Dopo aver sviluppato a 14 anni
la piattaforma Rss per la diffusione dei testi su Internet, ha combattuto per la libertà di circolazione dell’informazione assieme a molti altri attivisti. Accusato di aver
scaricato «illegalmente» materiale del Mit,
rischiava 50 anni di carcere. Voleva che la
conoscenza fosse di tutti e non recintata
dalle imprese per fare profitti. Non era un
eroe, ma solo un figlio del suo tempo.
Uno di noi, che aveva deciso di stare dalla
parte del torto.
CONTINUA |PAGINA 11
C
È
S
e c’è un elemento caratteristico
dell’attuale fase politica, questo è
la potenza determinante del sistema mediatico. L’Italia, l’Europa, tutto il
mondo capitalistico sono nella morsa
di una crisi che sta scomponendo le società. Da una parte, la povertà vera.
Strutturale, dilagante, senza prospettive di riscatto. Dall’altra, la concentrazione in poche mani di ricchezze immense, intraducibili in misure concrete. In mezzo, aree sociali precarizzate,
che vedono messi a rischio i fondamenti stessi della propria condizione di vita: il reddito, l’occupazione, i diritti essenziali.
Ma se il quadro è di per sé limpido
nella sua violenza, l’opinione pubblica
non riesce a farsene un’immagine chiara, e non sa intravedere vie d’uscita.
Oscilla tra angosce apocalittiche e attese fideistiche di uomini provvidenziali
(si pensi alla santificazione di Monti al
momento della sua incoronazione), appesa alla girandola di numeri che le viene quotidianamente propinata. Lo
spread, gli indici di Borsa, i tassi di cambio, numeri magici della cabala postmoderna. Quando diciamo che il 99% è
contro uno stato di cose voluto dall’1%,
ci raccontiamo una favola. Bella, ma, come ogni favola, ingannevole. Di certo la
stragrande maggioranza è scontenta e
spaventata, ma è anche confusa e disorientata. E non sa a che santo votarsi.
La cifra del nostro tempo è questa: la
cattura cognitiva dei corpi sociali, imprigionati in una gabbia – davvero un
pensiero unico – che ne deforma la visuale, impedendo loro di vedere la situazione in cui si trovano. Non c’è discorso più pertinente di quello che fa
Gramsci, nei primi anni Trenta, a proposito dell’«egemonia» come potente
strumento di direzione politica. Nella
consapevolezza – tratta appunto dalla
gestione totalitaria dei mezzi d’informazione – che la produzione di un’immagine univoca della realtà e il convergente occultamento di aspetti rilevanti sono strumenti-chiave dell’organizzazione del consenso «spontaneo» e del controllo autoritario della società.
Ora chiediamoci: tale stato di cose incide nella situazione politica italiana di
questi giorni? Influisce sulla campagna
elettorale in vista del voto politico del
24 febbraio? Incide eccome. A tal punto
che soltanto muovendo da questa premessa sembra possibile capire la posta
in gioco nelle elezioni.
Proviamo a dirla così, con una semplificazione che aiuta a cogliere il punto: sotto gli occhi degli italiani viene
quotidianamente squadernato un ricco
catalogo di banalità utili ad accreditare
l’idea che le maggiori coalizioni politiche (i tre poli, di centrosinistra, centro
e centrodestra) divergano tra loro in
modo significativo.
CONTINUA |PAGINA 15
REPORTAGE DAL GIAPPONE
La trappola nucleare
oltre Fukushima
YUKARI SAITO, MONICA ZOPPÈ l PAGINE 8, 9
INTERVISTA A OLIVIER ASSAYAS
Esplosione di cinema
nel Maggio francese
CRISTINA PICCINO l PAGINA 12
pagina 2
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
LA LINEA MONTI
Senato •
I democratici hanno chiuso le liste, ma si aspettano un aiuto
in Lombardia e Sicilia. Minacciano altrimenti l’offensiva sul voto utile
Offerte a destra,
appelli a sinistra
Bersani è «pronto a collaborare» con il professore dopo le elezioni.
Il premier ricambia concentrando i suoi attacchi su Berlusconi.
Il Pd ripensa tardi alle aperture di Ingroia: adesso chiede
alla nuova lista un disarmo unilaterale in un paio di regioni
ROMA
I
l Pd è «aperto alla collaborazione» con Monti dopo le elezioni,
chiuso a quella con «Rivoluzione
civile» prima, ma non per questo si fa
scrupolo di chiedere ad Antonio Ingroia un grosso, e unilaterale, favore.
I sondaggi sono quelli che sono e in
tre regioni Bersani vede il rischio di
una sconfitta, mentre può perdere al
massimo in una tra Lombardia, Campania e Sicilia se non vuole rinunciare a una maggioranza stabile in entrambe le camere. La richiesta è partita con toni ultimativi: se non vuole
aiutare Berlusconi, «Rivoluzione civile» deve farsi da parte, almeno in
Lombardia e Sicilia, regioni dove secondo i sondaggi non raggiunge la soglia di sbarramento dell’8%. Sebbene
venga presentata come una «desistenza», visto il differente meccanismo elettorale rispetto al 1996 - quando si sperimentò la desistenza originale tra Prodi e Bertinotti - e viste soprattutto le liste già chiuse dal Pd, la
proposta somiglia più a una richiesta
di resa. Ragione per cui è difficile che
possa andare in porto, anche se all’interno di «Rivoluzione civile» dipietristi e comunisti italiani consigliano di
non lasciar cadere la - tardiva - attenzione dei democratici. E lo stesso Ingroia si muove già da politico consumato: «I nostri primi avversari - ha
detto in tv ieri sera - sono il berlusconismo e il montismo. Parlare di desistenza è prematuro».
Anche Pierluigi Bersani ha dosato
con attenzione le parole, riferendosi
però a Monti in una nuova intervista
a un grande quotidiano internazionale. Stavolta il Washington Post, al quale il segretario Pd ha assicurato di essere «aperto alla collaborazione» con
il professore. Addirittura a «firmare
un patto» per «riformare e ricostruire
il paese». Poco dopo, anche lui impe-
gnato a tempo pieno in campagna
elettorale e di nuovo ospite di Porta a
Porta, Mario Monti ha deciso di passare all’attacco. Di Berlusconi. «Non
sarebbe in grado di tenere sotto controllo lo spread - dice - perché non è
credibile né creduto sul piano internazionale». Ma non basta, secondo il
presidente del Consiglio, Berlusconi
«è il principale responsabile dell’alto
livello delle tasse, ha governato otto
anni su undici». Le sue promesse insomma, «ricordano il pifferaio di
Hamlin». Tutt’altra musica invece
quando il professore guarda alla sua
sinistra. All’apertura di Bersani stavolta non replica chiudendo, si mantiene prudente e addirittura già vede il
segretario del Pd a palazzo Chigi: «Vedremo che cosa avrà da dire Bersani
o altri, Bersani è il più verosimile in
base ai sondaggi. Noi non saremo
mai la stampella di nessuno, vogliamo essere il pungolo di tutti».
Il confronto di Bersani con la lista
Ingroia invece non è diretto. Dopo
settimane in cui il leader Pd si è negato - Ingroia ha raccontato anche di te-
Franceschini sonda
l’Idv Orlando. Il pm
candidato premier:
«Desistenza?
Prematuro parlarne»
lefonate a vuoto - adesso il tentativo
di abboccamento è affidato a Dario
Franceschini. Che prima dai giornali
chiede un ritiro unilaterale degli
«arancioni» dalle tre regioni chiave,
poi chiama Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e uomo Idv nella cabina di regia della nuova formazione,
parlando di possibile desistenza. Sa
di trovare orecchie attente, ma non
tutti dentro Rivoluzione civile hanno
la stessa sensibilità. Certo non Rifondazione comunista, che non vuole alcuna collaborazione con i sostenitori
del governo tecnico, e nemmeno la
fetta di «Cambiare si può» che sta
rientrando nel movimento e nelle liste. Discorso diverso per Bonelli dei
Verdi, Di Pietro e Diliberto. Che però
non hanno una presa assoluta sulla
«ditta», prova ne siano le difficoltà registrate da Di Pietro a Milano.
Ingroia non è distante da queste disponibilità, in passato era stato lui a
tirare per un’apertura a i democratici. Ma non può certo concedere una
resa a Bersani in cambio di nulla. Se
le liste Pd resteranno chiuse come sono già adesso, anche ad alcune personalità borderline, il minimo che il movimento possa chiedere è un appello
pubblico alla collaborazione. Premessa di un’alleanza in parlamento. A
quel punto una trattativa sul filo di lana potrebbe forse aprirsi ancora, certo non in Campania dove la presenza
del sindaco De Magistris sembra garantire alte percentuali a Rivoluzione
civile. Proprio il primo cittadino di
Napoli, che a suo tempo auspicava il
dialogo con Bersani, adesso si dice
«fermamente contrario» alla desistenza, in quanto il nuovo partito deve re-
stare «alternativo al polo centrista di
Bersani e Monti».
Ed è assai probabile che sarà questo l’esito. Anche perché, come ricordato ieri sera ancora in tv da Nichi
Vendola, malgrado tutte le parole
gentili di Ingroia verso Sel, per il Pd
resta forte «il pregiudizio delle recenti polemiche con il Quirinale». Quelle
legate all’inchiesta sulle stragi, protagonisti proprio Ingroia e Di Pietro.
Senza contare che evitando qualsiasi
intesa con Ingroia, il Pd potrà ricorrere a un vecchio classico: l’appello a
non favorire Berlusconi nell’urna. Il
voto utile, ancora lui. a. fab.
PIERLUIGI BERSANI/FOTO LUIGI MISTRULLI
EMBLEMA. A DESTRA, NICOLA ZINGARETTI
Lombardia/ LA LISTA DI INGROIA SCARICA AGNOLETTO
Di Pietro-Cè, due rospi da ingoiare
per gli increduli elettori di sinistra
Luca Fazio
MILANO
C
i sono due rospetti da ingoiare. Uno più grosso dell’altro. E proprio in Lombardia, dove c’è
poco da stare allegri, con il centrodestra più
impresentabile e inquisito della storia che nonostante tutto ha ancora tre punti di vantaggio sul candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli (significa rischiare di non vincere anche le elezioni nazionali).
Il primo rospo, del tutto incomprensibile, non si
può proprio digerire. Si chiama Antonio Di Pietro e in
Lombardia è stato blindato da Antonio Ingroia al numero 3 della sua lista Rivoluzione Civile alla Camera,
proprio nel collegio di Milano. A farne le spese - ma
davvero qui non è solo una questione di poltrone ma
di puro masochismo - sarebbe Vittorio Agnoletto, lo
storico portavoce dei movimenti «segnalato» all’ex
magistrato di Palermo dopo un lungo percorso dall’assemblea milanese di Cambiare si può, la più numerosa d’Italia (Agnoletto ha preso 463 voti su 500 votanti). Però l’ex magistrato ieri, a sorpresa, si è rimangiato la parola data e ora Agnoletto è fuori. Non male
come prima apertura di credito ai militanti più fiduciosi di Cambiare si può, che si sono anche spaccati
sull’appoggio alla candidatura di Antonio Ingroia.
Non ci vuole un fine politico per capire che, qui a
Milano in particolare, si tratta di una mossa disastrosa, di un messaggio devastante per gli elettori di sinistra. Ma come? Ingroia toglie il milanese Agnoletto,
che rappresenta l’impegno per i diritti civili, il G8 di
Genova, i manifestanti, insomma quelli che hanno
preso le botte dalla polizia, e al suo posto mette Di
Pietro, l’ex poliziotto convertito alla politica, quello
che si è opposto all’inchiesta parlamentare sul massacro della Diaz? Questo è il ragionamento che, tra incredulità e sconcerto, sta montando in rete e non solo (cominciano a palesarsi affermazioni del tipo «io
Di Pietro non lo voto»). Per Luciano Muhlbauer, candidato alle regionali con la lista Etico a Sinistra di Andrea Di Stefano, «nella memoria di chi ha vissuto Genova è uno schiaffo in faccia, corriamo il rischio di
una forte astensione del movimento proprio nella regione cruciale per battere il centrodestra, è una follia». Ieri sera, i vertici del Prc, hanno fatto di tutto per
convincere Ingroia a tornare sui suoi passi, anche perché il partito di Ferrero vive (e subisce) con grande imbarazzo questa decisione da dilettanti allo sbaraglio.
Il secondo rospetto da ingoiare si chiama Alessandro Cè. In questo caso il mal di pancia dovrebbe venire agli elettori del centrosinistra, anche se nel tempo
sono stati abituati a ben altro. Ricordate? Si tratta del
leghista «eretico», già ex assessore alla sanità lombarda e poi parlamentare, che a suo tempo abbandonò
sia la Lega di Bossi & Maroni che la Regione di Formigoni. Ieri Cè ha presentato la sua lista Lombardi verso
Nord per sostenere il candidato del centrosinistra
Umberto Ambrosoli, il quale ha subito ricambiato
con parole fin troppo affettuose, non proprio una dimostrazione di grande forza: «Nella giunta regionale
si è distinto per la sua autonomia di valutazione, dobbiamo dare una una reale responsabilità agli enti locali e questo impegno è condiviso da chi da 20 anni discute di federalismo». Chapeau! Cè, che oggi si dice favorevole alla cittadinanza ai figli degli immigrati, è la
stessa persona che negli anni ha saccheggiato tutto il
raffinato campionario di insulti leghisti, lo stesso che
alla Camera si è distinto per la battaglia contro la fecondazione eterologa, «una prospettiva incivile e disumana». Ma si sa, col tempo si cambia, anche partito, e Ambrosoli deve avere un disperato bisogno di voti. Oggi l’avvocato decide anche sull’ingresso nella coalizione della lista radicale, anche se «ci sono punti in
cui non siamo in sintonia, come le posizioni sull’amnistia». Un problema non da poco, visto che la lista radicale si chiama proprio Amnistia, Libertà e Giustizia.
CAMPANIA
Preti e suore in arancione. I cattolici
che fanno il tifo per Rivoluzione civile
Negli ultimi giorni hanno fatto un mezzo passo indietro tattico, ma Vaticano e
Cei tifano Monti. Qualche vescovo invece, di nascosto, sogna ancora Berlusconi. E Bersani, per non essere scavalcato al centro, ha annunciato urbi et
orbi la candidatura di cattolici doc graditi alle gerarchie, come l’organizzatore
delle Settimane sociali Edo Patriarca e il direttore dell’Istituto Toniolo (l’Università Cattolica) Ernesto Preziosi. Ma c’è anche una parte del mondo cattolico, lontano dai palazzi del potere e
impegnato nel sociale, che si schiera con Rivoluzione Civile di Ingroia. L’annuncio arriva dalla Campania, dove
alcuni preti e religiose di base hanno sottoscritto un appello per Ingroia e in particolare per la candidatura alla
camera dello storico casertano Sergio Tanzarella, docente alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale (retta dai
gesuiti), autore di diverse monografie sulla storia del cattolicesimo, su don Milani, sulla pace e l’antimilitarismo,
già deputato con i Progressisti fra il ’94 e il ‘96. Fra gli altri hanno firmato l’appello, diffuso dall’agenzia Adista, il
parroco di Mercogliano (Av) don Vitaliano Della Sala, vicino ai movimenti no global; il prete anticamorra don
Aniello Manganiello; il gesuita padre Fabrizio Valletti, direttore del Centro Hurtado di Scampia; suor Rita Giaretta,
da 15 anni impegnata a Caserta per la liberazione delle donne costrette a prostituirsi dalle organizzazioni criminali e lo scorso anno protagonista di un duro attacco contro Berlusconi e i suoi comportamenti che «offendono e
umiliano la donna». Una scelta, spiegano, per «riaccendere le speranze in molti cittadini delusi e sfiduciati» e per
«rappresentare le esigenze di un Meridione abbandonato al clientelismo, alla camorra e alla rassegnazione».
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 3
LA LINEA MONTI
Regioni •
Il centrosinistra sbarra le porte a Pannella nel Lazio
e in Lombardia. Verso il no anche alla lista arancione
MARCHIONNE: ADDIO MONTI, ORA FIAT ATTENDE CHI VINCE
«La Fiat è filogovernativa per definizione, l’importante è che qualsiasi sia il
risultato elettorale ci sia la capacità di gestire il paese». Parlando al salone
dell’auto di Detroit, l’ad di Fiat Chrysler Sergio Marchionne non cambia di
una virgola la storica linea del Lingotto sul rapporto con la politica: Fiat sta
con chi governa. Punto. Ma siccome oggi non è ancora chiaro chi sarà il
prossimo presidente del consiglio, l’ad si mantiene più che prudente sulle
prossime politiche e non svela per chi voterà né concede endorsement che
potrebbero, in futuro, costare cari all’azienda. Nonostante Monti abbia
iniziato la sua campagna elettorale poche settimane fa proprio nello
stabilimento di Melfi, Marchionne non si sbilancia nemmeno sul Professore:
REGIONE LAZIO · Rottura Zingaretti-radicali, i due consiglieri sotto la scure delle regole Pd
Daniela Preziosi
«S
«Sono contento che lo spread sia sceso, dove potevo aiutare il governo di
emergenza l'ho fatto in modo aperto e anche a livello internazionale, d'ora in
poi però la scelta è degli elettori italiani». E ancora: «Sin da subito ho
riconosciuto a Monti la grande capacità di rimettere in piedi un paese in un
momento drammatico della sua storia. Ho difeso con tutte le mie forze
quell'esperienza di governo, continuo a farlo e lo farò sempre. Poi però
adesso s’è aperta una fase diversa, in cui si confrontano i programmi. E su
questo la Fiat non ha nulla da dire». No comment anche sull’impegno
politico di Passera e Montezemolo: «Candidarsi o meno sono scelte loro in
cui io non entro. Io faccio il metalmeccanico e sulla politica italiana sono un
pivello».
e le cose stanno così, non ci sono margini per allearsi», allargano le braccia i
collaboratori di Nicola Zingaretti. Lui,
il candidato presidente, si appella ai radicali,
«Cambiamo tutto, e tutti ci aiutino a cambiare
tutto. Conviene a tutti». Finirà che anche alla regione Lazio - come ormai ovunque - i radicali
non saranno alleati del Pd. Il che ha del bizzarro,
visto che nel 2010 la radicale Emma Bonino corse da presidente per il centrosinistra, con l’esplicito appoggio dello stesso Zingaretti. A questo giro però l’ex presidente della provincia di Roma
ha messo come condizione della corsa alla Pisana «il rinnovo totale» della maggioranza: ovvero
il veto su tutte le facce dell’ex opposizione alla
giunta Polverini, che non ha offerto grandi performance proprio sul capitolo della levitazione
dei fondi ai gruppi sul quale poi è salata la giunta. I radicali avevano contestato e reso pubblica
la vicenda, ma non è bastato per guadagnarsi
una deroga. «Porteremo alla Pisana tutti neoconsiglieri», spiega Zingaretti, «a un nuovo progetto
corrisponde una nuova squadra», e «non perché
io pensi che ci sia una loro responsabilità oggettiva» rispetto al caso fondi ai partiti. Altrimenti
dovrebbe «pensarlo» anche dei suoi del Pd.
Di responsabilità non si parla, il passato, per il
Pd, è una notte in cui tutti i mici sono bigi. Grazie a questa «regola» Zingaretti ha stoppato il ritorno alla Pisana degli storici capicorrente del
partito laziale, e il rischio di dover nominare in
giunta gli ex assessori di Piero Marrazzo. E poco
Rinnovamento alla democratica
importa se poi alcuni di loro, falciati dalla scure
del «rinnovamento» alla regione, abbiano dirottato voti e ambizioni alle primarie e siederanno
in parlamento. Così Astorre, che era nell’ufficio
di presidenza che ha deciso l’aumento dei soldi
ai gruppi e ha anche un’avviso di garanzia per
un’indagine sulla proroga di un dirigente regionale; e così Di Stefano, Luccherini, Valentini,
Scalia, Moscardelli. Esterino Montino, ex capogruppo, ha fatto un passo indietro ma ne farà
due avanti nella corsa a sindaco di Fiumicino;
anche Claudio Mancini, dalemiano, si è fatto in-
dietro, ma sua moglie è stata paracadutata in
Lombardia in quota «Se non ora quando», facendo imbufalire le femministe milanesi. «Io non
mi sono ricandidato per scelta politica», spiega
Enzo Foschi, il primo - e unico - ex consigliere a
farsi da parte senza chiedere compensa. «Noi
non abbiamo fatto il disastro della Polverini, ma
la nostra cultura di governo è stata assolutamente insufficiente, anche dall’opposizione. Un segnale andava dato. Presto dovremo introdurre
l’abitudine a dare valutazioni sul lavoro dei singoli consiglieri». Ma «presto» non è subito: per
ora il Pd ha preferito stendere un velo pietoso su
tutto il gruppo. E per non dare dei mascalzoni a
tutti i suoi, ha dovuto estendere il velo (e il veto)
a tutti i partiti della sua futura maggioranza.
Intanto dai radicale parte la contraerea. Da domenica Marco Pannella sacramenta contro i candidati presidenti di Lazio e di Lombardia, dove
con Ambrosoli si replica uno copione simile. Emma Bonino dalla radio è durissima: quella di Zingaretti «è una scusa umiliante per lui», «sa perfettamente che bene hanno fatto nei loro schieramenti a dire che chi è stato in consiglio regionale
con le mani in pasta senza aprire bocca non è
candidabile. Ma sa altrettanto bene che parec-
chi consiglieri del Pd o loro amici e consorti hanno trovato posizione di sicura elezione alla camera. Se comportarsi bene diventa un peccato da
scontare, la dice lunga sulla futura gestione». A
Torre Argentina non se l’aspettavano. Il primo incontro con Zingaretti era andato bene. Ma al secondo round, il comitato Zingaretti fa sapere, via
sms, che non erano graditi i due consiglieri
uscenti. Messaggio chiaro. «Pronto al passo indietro», dice di uno dei due, Giuseppe Rossodivita, «ma umiliarci sulla bandiera della trasparenza è insopportabile».
A Zingaretti del resto piaceva poco l’idea di imbarcare una lista ’avversaria’ del Pd alle politiche. E comunque, anche volendo, deroghe non
ne può fare, a rischio di riaprire la partita con i
suoi. Il che non gli ha impedito di imbarcare l’ex
forzista Michele Baldi nella «sua» lista civica. Del
resto, si giustificano dal Pd, anche i radicali hanno usato i soldi dei gruppi regionali per pagare il
congresso del partito transnazionale del 2011. «È
tutto online», replica Rossodivita, «era una sessione su ’regione e diritti umani’, e i relativi incontri preparatori tenutisi a Chianciano». Sarà
lui, al momento, a guidare la lista «Amnistia, giustizia e libertà» che correrà da sola nel Lazio.
La proposta /IL «PIANO LAVORO»: 80 MILIARDI PER LA CRESCITA
La polemica
Cgil: «Un milione di nuovi posti
con la patrimoniale e un fisco più equo»
Mirco Viola
ROMA
U
n grande «Piano per il lavoro»
finanziato da 80 miliardi di euro, che potrà portare alla creazione di un milione di posti di lavoro
nel prossimo triennio. Lo propone la
Cgil: l’anticipazione sul Corriere della
sera di ieri, la spiegazione dettagliata
verrà fornita nella prossima Conferenza di programma del sindacato, prevista il 25 e 26 gennaio a Roma.
Occasione per offrire un nuovo, a
questo punto ufficiale endorsement, al
prossimo governo (eventuale e sperabile, per la Cgil) dell’alleanza Pd-Vendola: alla Conferenza sono infatti stati
invitati a intervenire il segretario del
Pd Pierluigi Bersani, il leader di Sel Nichi Vendola, e anche l’attuale ministro per la Coesione sociale Fabrizio
Barca, destinato a un ruolo di spicco
nel prossimo esecutivo o comunque
ai vertici del Partito democratico.
PDL
Berlusconi teme il processo
Ruby. E le tasse sul «piffero»
Ospite di «Porta a Porta», Monti attacca Berlusconi
«vecchio illusionista ringalluzzito» che «ha già illuso gli
italiani tre volte», «la prima mi sono fatto illudere anch’io» e «certe parole pronunciate da quella bocca mi
fanno venire in mente il pifferaio magico che porta i
topini ad annegare». Rispondendo a Ilaria D’Amico nel programma «Lo spoglio» su Sky, il Cavaliere allora ribatte: «Non l’ho sentito Monti. Anche lui ha fatto illudere noi: è un bluff e ci siamo caduti tutti. Probabilmente vuole tassarmi anche il piffero». Più che per le tasse, Berlusconi, pur
confortato dalla risalita nei sondaggi, è preoccupato per il processo Ruby, «una montatura per
diffamare un avversario politico». La sentenza potrebbe arrivare prima delle elezioni. Ieri gli avvocati Ghedini e Longo hanno avanzato un legittimo impedimento di Berlusconi in quanto «capo
della coalizione» Pdl-Lega impegnato in una riunione sulle liste e chiesto di fermare il processo
per ragioni di «opportunità»: c’è la campagna elettorale. Ma Ilda Boccassini si è opposta: Berlusconi «non è segretario di partito né candidato premier». I giudici hanno poi respinto le richieste
perché una riunione sulle liste non è «legata all’attività parlamentare» e riguardo alla sospensione del processo «il Tribunale non può e non deve operare valutazioni di opportunità». Ghedini (e
il Pdl in coro) accusa i giudici di essere intervenuti «pesantemente nella campagna elettorale».
Per finanziare il piano non si propone di aumentare il debito pubblico –
in tempi di «rigore» appare impossibile – ma di rimodulare soprattutto la leva fiscale. Almeno 40 miliardi di euro
annui, secondo la Cgil, si possono recuperare attraverso una patrimoniale
sulle grandi ricchezze, un aumento
Susanna Camusso
presenterà il suo
progetto il 25 e 26
gennaio. Insieme
a Bersani e Vendola
dell’imposizione sulle transazioni finanziarie, l’introduzione di tasse ambientali («chi inquina paga»), un «piano strutturale di lotta all’evasione fiscale, contributiva e al sommerso»
che impiega oggi 3 milioni di lavoratori. Il nuovo fisco dovrebbe pesare, insomma, meno su dipendenti e pensionati, in modo da liberare oltretutto i
consumi, ed essere caricato maggiormente sulle grandi ricchezze.
La Cgil propone quindi il taglio di
due aliquote Irpef: la prima dovrebbe
passare dal 23 al 20%, la terza dal 38 al
36%, oltre ad aumentare le detrazioni
specifiche e i sostegni per i carichi familiari. Ma non basta.
Secondo la Cgil, altre risorse si possono drenare riducendo la spesa pubblica di 20 miliardi, tagliando tra l’altro 10 miliardi di incentivi alle imprese. Altri 10 miliardi si potrebbero recuperare da un migliore utilizzo dei fondi europei. In circa 4, massimo 5 anni,
si potrebbero destinare insomma fino
a 80 miliardi per la crescita.
Adottando la nuova politica fiscale
ed economica, secondo la Cgil si arresterebbe subito l’attuale recessione,
invertendo addirittura il segno già a
partire dal 2013, e ottenendo tutti segni «più» sul fronte della crescita: il Pil
crescerebbe già dell’1,6% nel 2013,
per passare poi a un incremento dell’1,5% nel 2014, fino a un +1% che si
porterebbe a casa nel 2015.
Analogo andamento positivo, il sindacato guidato da Susanna Camusso
lo prevede anche per l’occupazione:
che non continuerebbe a diminuire,
come danno tutti i principali indicatori, ma che invece inaugurerebbe una
stagione di ripresa. Anziché diminuire
dello 0,4% quest’anno, aumenterebbe
al contrario dell’1,5% (portando qualcosa come 350 mila nuovi posti). E segnando lo stesso andamento nei due
anni successivi, potremmo avere l’auspicato milione di posti a fine 2015.
Dove destinare, nello specifico, gli
80 miliardi previsti? Dai 4 ai 10 miliardi dovrebbero andare alla green economy, all’innovazione manifatturiera,
all’efficienza energetica (smart grid),
all’agenda digitale, alle infrastrutture;
e ancora: a prevenzione antisismica,
messa in sicurezza dell’edilizia scolastica, riorganizzazione del piano rifiuti, diffusione della banda larga, percorsi turistici integrati, trasporto pubblico integrato e sviluppo rurale.Tante di
queste voci non sarebbero altro che
un nuovo impulso ai lavori pubblici,
su cui la Cgil punta molto.
Dai 15 ai 20 miliardi l’anno dovrebbero andare alla «creazione diretta di
lavoro»: assunzioni nel pubblico (molte nei settori su citati), incentivi alle assunzioni e stabilizzazioni nel privato.
Con particolare attenzione alle donne
e ai giovani. E ancora: manutenzione
e bonifica dei siti industriali inquinanti, conservazione del patrimonio culturale, riqualificazione urbana, valorizzazione di parchi e riserve naturali.
Tra i 5 e i 10 miliardi, sarebbero da
destinare al sostegno all’occupazione
e agli ammortizzatori sociali (perché
se è vero che la crisi si attutirebbe, certo non verrebbe del tutto eliminata almeno nei suoi effetti). Altri 10-15 miliardi al potenziamento del welfare, e
infine ulteriori 15-20 miliardi al taglio
delle tasse su dipendenti e pensionati.
Lo scambio
ineguale
Sergio Cesaratto
N
ella sua non promettente intervista al Financial Times Stefano Fassina, responsabile economia e lavoro del Pd, riafferma la scelta del centro-sinistra di
non rinegoziare fiscal compact e pareggio di bilancio e ripropone ai tedeschi lo scambio fra cessione formale a Bruxelles della sovranità di bilancio con il porre fuori calcolo
del pareggio gli investimenti pubblici (la cosiddetta golden
rule) oltre che con un ruolo più attivo della Banca europea
degli investimenti. Fassina sostiene che il centro-sinistra
chiederà l’appoggio francese che tuttavia, ognuno sa, tale
cessione di sovranità, giustamente, non condividerà mai.
Ma perché Fassina già rinuncia a ogni rinegoziazione
proponendo cervellotici e irrealistici scambi coi tedeschi
senza neppure chiedere un chiaro ribaltamento delle politiche di austerità? (Si veda al riguardo l’ottimo articolo di
Lanfranco Turci su l’Unità di ieri). Nel denunciare il torto
marcio dei tedeschi avrebbe dalla sua fior di intellighenzia economica internazionale, rintuzzando così le accuse
di populismo che Monti gli fa, e anzi lui accusando il professore di incompetenza di fronte alla crisi. E potrebbe
poi propugnare un più
EurogrupFassina sul Financial autorevole
po (il consiglio dei ministri finanziari euroTimes sbaglia ricetta
peo) con compiti di coper l’Europa e non
ordinamento della politica fiscale, secondo
convincerà mai
una vecchia proposta
nemmeno la Francia
francese, dunque politicamente condivisibile da quel paese. I tedeschi non lo vogliono perché sarebbe riaffermare la pari dignità di una politica fiscale europea coordinata con la politica monetaria. Tanto più che
essendo poi l’Eurogruppo un organismo politico, esso sarebbe superiore alla Bce.
Dulcis in fundo, Fassina ritiene sufficientemente progressista rifiutare il taglio dei salari (la svalutazione interna) per
sostenere le esportazioni, ritenendo che il sostegno alla domanda interna sia necessario all’Italia. Ma argomenta poi
che questo sostegno sia da ottenersi attraverso una ripresa
degli investimenti scambiato con la moderazione salariale.
Parla così di «congelamento dei salari». Ma in questo modo siamo precisamente all’idea, contestata da Keynes, dell’incompatibilità fra crescita dei salari reali e investimenti
che è al cuore del Montismo. Ma insomma Fassina, davvero vogliamo lasciare a Berlusconi ogni argomento politico
ed economico che dia speranza agli italiani?
pagina 4
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
SOCIETÀ
TORINO · Scontri per la visita del premier che inaugura la nuova stazione di Porta Susa
Monti, spot ad alta velocità
Marina Della Croce
TORINO
S
i presenta a Torino in piena
campagna elettorale per inaugurare la nuova stazione dell’alta velocità a Porta Susa, ma l’accoglienza che Monti trova ad attenderlo non è forse quella che si
aspettava. Per motivi diversi, in
piazza contro di lui ci sono tutti. A
partire da un centinaio di No tav e
Cub che lo accolgono con uno striscione dedicato a lui e all’amministratore delegato delle Ferrovie:
«Monti e Moretti, truffatori perfetti». E poi: i lavoratori della De Tomaso, militanti della Lega insieme
ai Fratelli d’Italia di Ignazio La Russa, ma anche tassisti. Monti viene
accolto da urla e fischi, ma lui procede come se niente fosse all’inaugurazione della nuova stazione internazionale trasformata per l'occasione in uno spot elettorale pagato
dai cittadini. «Occorre vincere le
pulsioni istintive, però devastanti,
che talvolta hanno bloccato la realizzazione di infrastrutture che sono importanti per il sistema dei trasporti e la competitività del nostro
paese», dice riferendosi alle proteste della popolazioni della valle che
da anni contestano la costruzione
dell’alta velocità Torino-Lione.
Monti parla mentre fuori dalla
stazione polizia e no tav si fronteggiano. Tutto comincia quando un
gruppo di manifestanti cerca di aggirare lo sbarramento di agenti lanciando oggetti contro le forze dell’ordine che reagiscono con una carica di alleggerimento. A farne le
spese sono uno studente, colpito alla testa e portato in ospedale, e un
agente, ferito lievemente. Un altro
manifestante viene denunciato per
resistenza e travisamento.
Tafferugli di cui probabilmente
Monti neanche si accorge tutto preso com’è a inaugurare la nuova stazione insieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero (alla quale i manifestanti gridano ’Vai a lavorare’), al
sindaco della città Piero Fassino e
al presidente della Regione Cota,
quest’ultimo nella comoda veste di
leghista di lotta e di governo: «Questa stazione è un passo avanti importante, cambia del punto di vista
urbanistico e collega Torino al
mondo più velocemente», ha detto
Cota cambiando subito tono parlando di Monti. «Questo è il governo che ha aumentato pressione fiscale e fatto politiche sbagliate».
Il viaggio elettorale di Monti a Torino non poteva non suscitare pole-
FRANCIA-MATRIMONI GAY · Dopo la marea di destra
Ora tocca al Parlamento
La sinistra in piazza il 27
Anna Maria Merlo
PARIGI
L
LA CONTESTAZIONE DEI CANTIERI TAV IERI A PORTA SUSA A TORINO. A DESTRA, LA PROTESTA CONTRO LA DESTRA A PARIGI
miche. «Dietro il progetto della Torino-Lione c’è una ferocia ideologica che nasconde la volontà di sperperare denaro pubblico per un’opera inutile e dannosa e che sarebbe
un doppione di una linea ferroviaria esistente e sottoutilizzata», ha
detto il presidente dei Verdi Angelo
Bonelli. Che chiede: «Ma Monti ha
mai letto il progetto della tav in Val
di Susa o ha intenzione di fare campagna elettorale solo con slogan?
Vicino al tracciato della tav che costerà all’Italia non meno di 16 miliardi di euro, quasi quanto la cifra
incassata con l’Imu - ha proseguito
Bonelli - esiste già una linea ferroviaria per il trasporto merci potenziata di recente e che viene utilizzata solo per 2,5 milioni di tonnellate
quando ha una capacità di 20 milioni di tonnellate. Chi oggi continua
a promuovere la tav, offende le famiglie che non ce la fanno più».
Dubbi che non sfiorano né il
commissario intergovernativo Mario Virano, né il ministro dell’Ambiente Clini. Per il primo, infatti,
sulla Tav «non c’è più possibilità di
tornare indietro». Per Clini, invece,
dietro l’opposizione alla grande
opera non ci sarebbero problemi
ambientali: «Chi dice questo agita
problemi che che non ci sono», ha
detto ieri il ministro.
LAZIO · A volte ritornano, è Storace il candidato Pdl
Adesso è ufficiale: Francesco Storace sarà il candidato di Pdl e Destra alla regione Lazio. L’ex governatore torna così sul luogo del "delitto", avendo guidato la Pisana per cinque anni, fino alla vittoria alle elezioni del 2005 di Piero Marrazzo. Storace lasciò la regione con un buco sanitario tuttora critico di oltre 10 miliardi di euro. Finora il segretario
della Destra aveva proposto come sua vice Alessandra Mussolini. Per lui ieri il via libera
del Pdl annunciato via twitter e anche l’endorsement della presidente uscente Renata
Polverini. Sulla carta, dopo i casi Fiorito e il disastro della giunta di centrodestra, è difficile che Storace possa insidiare davvero Zingaretti. A convincere Berlusconi però è l’ipotesi che con la Destra alleata e l’«election day» politiche-regionali sia possibile anche nel
Lazio strappare seggi decisivi per il risiko del prossimo senato. Sul tormentatissimo ritorno alle urne in regione pende ora l’ultimo ricorso al Tar, quello sul taglio a 50 seggi per i
prossimi consiglieri decretato in extremis dalla giunta Polverini. Se il tribunale amministrativo dovesse bocciarlo, nel Lazio si potrebbe addirittura votare dopo le politiche.
TORINO
Protesta nel Cie, immigrati
danno fuoco ai materassi
Protesta la scorsa notte al Cie di Torino: alcuni
immigrati ospiti nella struttura si sono arrampicati poco dopo la mezzanotte lungo le recinzioni ed hanno incendiato alcuni materassi. Le
fiamme sono state spente dai Vigili del fuoco.
Nel frattempo all'esterno, una ventina di persone, che secondo alcune fonti graviterebbero nell'area dei centri sociali torinesi
hanno fatto esplodere dei petardi e issato su un albero uno striscione con la
scritta: «Solidarietà con chi si ribella». I manifestanti si sono poi allontanati
verso piazza Sabotino, dove sono stati identificati dalla polizia. Intanto a Pavia
una trentina di profughi nord africani hanno protestato occupando i binari della
stazione e interrompendo la circolazione ferroviaria tra Genova e Milano a partire dalle 13.40 di ieri. I profughi sono arrivati circa un anno fa prevalentemente
dalla Libia e sono ospitati in un albergo alle porte di Pavia senza sapere quale
sarà il loro futuro. Ieri mattina hanno organizzato un sit in in prefettura per ribadire la necessità di ottenere un fondo di sostegno che permetta loro di muoversi in autonomia: al momento infatti dispongono di un permesso di soggiorno
per motivi umanitari e di un titolo di viaggio valido per spostarsi e cercare lavoro in Italia. Poi sono andati in stazione, dove si sono spostati da un binario
all'altro bloccando tutta la circolazione dei treni che transitano a Pavia, sulla
tratta Milano-Genova. La protesta è finita in serata.
a ministra della giustizia, Christiane Taubira, ha affermato che
il governo resta «determinato» a
far passare la legge che istituisce il matrimonio per tutti e ha escluso il ricorso a un referendum, chiesto dalla destra. I commenti alla forte partecipazione alla manifestazione di domenica sono stati un pò oscillanti, tra chi, come
il ministro degli interni Manuel Valls,
ha ammesso che «la mobilitazione è
stata molto forte, ma questo fa parte
del dibattito», e chi, come la ministra
della Sanità Marisol Touraine, ha cercato di minimizzare, parlando di una
partecipazione «minore di quanto previsto dagli organizzatori».
Megaraduno? La «rete» cattolica
La battaglia delle cifre ha fatto seguito ai tre cortei paralleli di domenica a
Parigi: 340mila persone per la polizia,
800mila per gli organizzatori. Al dilà
dei numeri, è stata la più grande manifestazione della destra dall’84 (per la
scuola privata) e della prima prova di
forza dell’opposizione della presidenza Hollande. Il governo aveva sottovalutato la forza dei cattolici, che, al di là
della vetrina «moderna» rappresentata
dalla stramba umorista Frigide Barjot,
che è stata in prima linea nell’organizzazione, hanno fatto tutto il lavoro: sono i cattolici che hanno raccolto i soldi
(pare un milione di euro), organizzato
trasporto e servizio d’ordine, chiamato a raccolta i fedeli. Il cardinale di Pari-
Roma /NEL MIRINO LE DELIBERE ALL’URBANISTICA
Messaggio al sindaco Alemanno
«La città non è in vendita»
stelle inutilizzato sulla via Prenestina, all’ex clinica Villa Fiorita a Torrevecchia. Nell’appello, infatti, è forte il richiamo al blocco degli sgomberi poroma si mobilita per il diritto alla città. Sabatati avanti dalle forze dell’ordine in seguito a alle
to 19 gennaio un vasto schieramento di foroccupazioni. Da quel momento, sono state diverze sociali cittadine scenderà in piazza per
se le assemblee e i momenti di confronto cittadiaffermare che «Roma non è in vendita», come reni attorno alla necessità di «riappropriarsi della
cita lo slogan della manifestazione che partirà da
città» e di riusare il suo patrimonio invenduto,
Piazza Vittorio alle ore 15.
inutilizzato, abbandonato. Il punto di partenza
«Per il diritto al reddito, alla casa, alla salute, aldella mobilitazione è un «pacchetto» di 64 delibelo studio, alla cultura, dentro una città libera e sire in materia urbanistica, la cui discussione è inicura nei diritti di cittadinanza. Dove la sovranità
ziata proprio in questi giorni in consiglio comutorni agli abitanti sottraendola alle logiche di pronale. Nuove compensazioni concesse ai costrutfitto del capitale privato». Ampie le rivendicaziotori, cambi di destinazione d’uso come a Casal
ni della giornata di protesta.
Boccone dove a 220mila metri
Ampia anche la mobilitazione
di servizi e negozi viene
Sabato manifestazione cubi
prevista cha ha dato prova di
concesso di diventare case, ausé già sabato scorso nel corso
mento
di cubature come per la
contro il «piano
di una partecipata assemblea
centralità di Romanina, alienacemento», in prima
presso il cinema America occuzione e valorizzazione di immopato, nel quartiere romano di
bili pubblici come ex depositi
linea il movimento
Trastevere, dove si sono conAtac, l’azienda di trasporto
frontati movimenti per il dirit- per il diritto all’abitare pubblico, o l’area ormai in disuto all’abitare, studenti, centri
so da anni dell’ex Fiera di Rosociali, comitati cittadini, associazioni ambientama dove si pensa ad appartamenti di lusso. Molliste come Legambiente e Italia Nostra, moviti i progetti in variante o in deroga alla normativa
menti per l’acqua pubblica, lavoratori dei sindavigente. Se sommate, tutte queste delibere «procati di base, tra cui quelli dell’ospedale Cto e di
durranno un impressionante consumo di suolo»
Acea, la municipalizzata capitolina dell’acqua e
che Legambiente Lazio, nel dossier Roma al medell’energia, al centro, nei mesi scorsi, di un tentro cubo ha stimato in oltre venti milioni di metri
tativo di privatizzazione, non riuscito, da parte
cubi.
dell’amministrazione guidata dal sindaco Gianni
Per la mobilitazione, la questione urbanistica
Alemanno.
è centrale ma è legata direttamente a quella dei
Una partecipazione, quella dimostrata al cinediritti: «La precarietà, non solo lavorativa e abitama America, solitamente «negata dai processi detiva ma di vita, aumenta in maniera direttamencisionali che interessano l’intera città». In prima
te proporzionale all’uso del mattone: non c’è neslinea, quei movimenti per il diritto all’abitare che
suno sviluppo immaginabile per una città che
lo scorso 6 dicembre occuparono contemporaneusa il proprio patrimonio e il proprio suolo solo
amente sette stabili, dall’ex Hotel Congress, un 4
come scambio monetario».
Ylenia Sina
ROMA
R
gi, monsignor Vingt-Trois è sceso anche lui in piazza a salutare i manifestanti alla partenza del corteo. Dietro i
cattolici, hanno sfilato molti esponenti
dell’Ump, a cominciare dal contestato
segretario Jean-François Copé, che
spera di ritrovare un pò di fiato grazie
alla manifestazione, dopo gli scontri interni d’autunno. Un ramo del corteo
era del Fronte nazionale e del Blocco
identitario. La battaglia adesso passa
in parlamento. Anche se ci sarà un
nuovo appuntamento in piazza: il 27
ci sarà una manifestazione dei favorevoli al matrimonio per tutti, due giorni
prima dell’inizio del dibattito parlamentare. La destra ha già preparato
una raffica di emendamenti, circa 800,
farà ostruzionismo e avvierà una mozione che chiede il referendum.
L’Ump, che si rende conto che la maggioranza dei francesi è favorevole al
matrimonio gay, ha l’intenzione di proporre un’«unione civile», più solenne e
ampia del Pacs già in vigore, ma che
esclude la filiazione, a cominciare dall’adozione, che è invece parte integrante della legge del matrimonio per tutti.
Rischia la procreazione assistita
A fare le spese della forte partecipazione di domenica potrebbe essere la
procreazione medicalmente assistita
(pma) per le coppie di donne omosessuali. Già Hollande ha convinto i deputati socialisti a non presentare un
emendamento in questo senso (che
però verrà presentato dai Verdi), ma la
proposta potrebbe venire depennata
anche dalla prossima legge sulla famiglia, che dovrebbe venire discussa prima dell’estate. La sottosegretaria alla
famiglia, Dominique Bertinotti, assicura che la pma sarà contenuta nella legge sulla famiglia, che dovrebbe, tra l’altro, permettere di dare automaticamente la nazionalità ai bambini concepiti all’estero da cittadini francesi con
ricorso all’utero in affitto (oggi fonte di
lunghe battaglie giuridiche per queste
famiglie) e il riconoscimento del ruolo
di «genitore sociale» (diritti per chi si è
occupato del bambino senza avere legami biologici o giuridici). Ma l’estensione alle coppie omosessuali del diritto alla pma cambia radicalmente in
Francia questa questione: finora si è
trattato di una pratica medica destinata alle coppie sterili, domani dovrebbe
diventare un nuovo modo per fare dei
bambini. Cosa che la società francese,
a differenza per esempio di paesi come l’Olanda o il Belgio, non sembra ancora pronta ad accettare.
La chiesa cattolica francese ha avuto la preoccupazione di non chiudersi
in un’opposizione alla spagnola, dove
nel 2005 i cattolici si sono uniti alla destra in uno scontro frontale contro il
matrimonio gay voluto da Zapatero. E
hanno perso la battaglia. Anche in
Francia sul terreno c’è stata la giunzione con la destra e con gli estremisti (politici e religiosi). Un ramo del corteo di
domenica ha raccolto i tradizionalisti
di Civitas, gruppo che nel passato ha
anche fatto ricorso alla violenza (contro opere d’arte o spettacoli teatrali
considerati blasfemi). Per Civitas «il
ruolo della chiesa è di guidare gli stati
perché adeguino la legislazione alla
legge naturale». Con Civitas anche la
chiesa cattolica ufficiale condivide
l’idea che ci sia una «legge naturale»
con cui sarebbe in contraddizione il
matrimonio gay. Malgrado il fatto che
in Francia circa 200mila bambini già vivano in famiglie omosessuali. «La legge non crea nulla di nuovo per quanto
riguarda i modelli famigliari - spiega la
sottosegretaria Bertinotti – poiché essi
esistono già». Ed è quindi prima di tutto una questione di eguaglianza.
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 5
ECONOMIA
Freelance •
Il popolo dei consulenti e dei liberi professionisti non è stato risparmiato
dalla crisi. Un questionario fa il punto. Tra chi non paga c’è il pubblico: enti di ricerca, locali e università
AUTONOMI · Nei dati dell’indagine di Acta emerge una realtà sconcertante, ma ormai «normale»
DETROIT/MARCHIONNE SPIEGA IL PROSSIMO STEP
«Oggi lavoro gratis»
È la nuova partita Iva
«Fiat e Chrysler
un’unica azienda»
50%
SENZA COMPENSO
A un autonomo su due viene
chiesto di lavorare senza alcuna
retribuzione. I settori più colpiti:
editoria, archeologia, architettura
nel pubblico come nel privato
FOTO FRANCESCO CORRADINI-TAM TAM. A DESTRA,
L’AMMINISTRATORE DELEGATO DI FIAT E
PRESIDENTE/CEO CHRYSLER, SERGIO MARCHIONNE
Roberto Ciccarelli
C
resce la richiesta di consulenze
e prestazioni gratuite ai professionisti che lavorano a partita
Iva con le imprese private e con il settore pubblico. È uno degli aspetti più significativi dell'analisi condotta dall'Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (Acta) condotta su un
campione di 744 persone (il 52,7% sono donne), residenti al Nord (62,9%),
nate tra gli anni Sessanta e Settanta (rispettivamente il 29,8% e il 35,6%). Un
lavoratore autonomo su due ha ricevuto nell'ultimo anno una richiesta di lavoro extra e gratuito. Nel 15,9% dei casi emerge una realtà sconcertante, ma
sotto gli occhi di tutti: per i committenti, soprattutto enti di ricerca, università, enti pubblici e locali questa richiesta rientra nella normalità. Tra le partite Iva che lavorano nel campo dell'editoria, dell'archeologia e dell'architettura chi non accetta di lavorare gratis, soprattutto per un committente privato,
è costretto a fare i conti con la concorrenza del lavoro gratuito.
«È un processo in atto da anni – sostiene Anna Soru, presidente di Acta –
ma ora sta emergendo in maniera così forte da imporre l'adozione di misure che tutelino i lavoratori, ma anche
il mercato. Penso al salario minimo
proposto da Juncker, ma rifiutato dalla Cgil, all'equo compenso per i giornalisti. So di essere controcorrente,
ma penso che nelle professioni dovrebbero essere ristabilite le tariffe minime eliminate dalle liberalizzazioni
negli ordini professionali. Oggi c'è
una concorrenza al ribasso così forte
da determinare redditi sulla soglia di
povertà. Rispetto al reddito minimo,
non ho obiezioni ideologiche. In un
paese come il nostro dove c'è tanto lavoro nero,prima di istituirlo bisogna
vincere la guerra contro l'evasione fiscale, altrimenti si rischia di finire come nell'agricoltura dove tutti hanno
la disoccupazione».
I ritardi dei pagamenti sono un'altra
iattura per gli autonomi. Il 76% degli
interlocutori di Acta dichiara di non ricevere mai anticipi, mentre il 18% li riceve raramente e solo il 6% con una
certa regolarità. Questa situazione ha
provocato un'inflessione dei redditi così netta da rendere difficile anche il sostentamento. Le bollette, l'affitto di un
appartamento, di un ufficio o di una
postazione in uno studio, il cibo e anche i mezzi di trasporto sono voci importanti nel bilancio di una partita Iva.
Il 47,7% denuncia un reddito appena
sufficiente rispetto ai parametri medi.
I professionisti che subiscono i contraccolpi della crisi sono quelli che lavorano nelle aree creative come la pubblicità, l'editoria e il design.
Sicuramente migliore è la situazio-
ne di chi svolge attività più tecniche e
specializzate nel settore dell'Information technology (Itc), nell'ingegneria
oppure nel campo della consulenza di
direzione e strategica. Nel 27% dei casi
l'apporto di altri redditi familiari è determinante per sostenere un momento di grande difficoltà. Il 12,8% si affida
al sostegno della famiglia di origine.
Molto più raro è il ricorso ad altri reddi-
GESTIONE SEPARATA INPS
Cgil alla ricerca
dei contributi smarriti
Dopo la denuncia sulla gestione opaca dei
contributi dei lavoratori autonomi iscritti
alla gestione separata dell’Inps da parte
degli assegnisti di ricerca dell’università di
Pavia di Gap 11 (ne ha parlato Il Manifesto sabato 12 gennaio), la Cgil prende
carta e penna e scrive al presidente dell’ente previdenziale, Antonio Mastrapasqua:
«Si tratta di una lesione gravissima a danno di lavoratori precari la cui pensione rischia già di essere molto bassa. - afferma
il Segretario Confederale della CGIL, Vera
Lamonica - Non solo, questi lavoratori hanno già subito prime ripercussioni: infatti
alcuni denunciano di aver ricevuto indennità di maternità e malattia inferiori agli importi spettanti». A Mastrapasqua la Cgil
chiede un incontro dove fare chiarezza sulla vicenda «e che vengano adottati interventi urgenti per garantire l'accredito di
tutti i contributi pregressi, oltre che futuri».
Cgil, Inca e le categorie di riferimento invitano gli iscritti alla gestione separata a
recarsi presso i loro sportelli per verificare
la propria posizione contributiva. ro. ci.
ti da lavoro o a rendite finanziarie (solo il 3,7%).
Questo aspetto dimostra che le partite iva, a lungo considerate a sinistra
come a destra una figura intermedia
tra l'imprenditore e l'evasore fiscale,
sono in realtà donne e uomini che vivono del proprio lavoro. Un lavoro
che, come e più di quello dipendente
o salariato, è soggetto alle paurose
oscillazioni della domanda. Cresce anche la pressione sui prezzi, mentre la
contrattazione diventa sempre più
lunga e sfiancante per il 67,2% degli intervistati i quali, per tutelare la propria professionalità, non accetta i lavori sottopagati. Altri sono stati costretti
ad accettarli per timore di essere sostituiti, perdendo clienti. Per mantenere
le posizioni, in attesa di periodi migliori, è fondamentale rafforzare il rapporto di fiducia con i clienti, anche se ormai è molto difficile fidarsi dei rapporti verbali. Il 57% dei clienti non si vergogna di «prendere per il collo» i professionisti che non hanno altra scelta
che cedere ai ricatti. Una scelta difficile, ma necessaria imposta dalla riduzione dell'acquisto dei servizi o alla
cancellazione di attività.
Acta si occupa anche del problema
delle «false partite Iva». Dall'entrata in
vigore della riforma Fornero nello scorso luglio, i committenti hanno inaugurato stratagemmi e vere e proprie astuzie per aggirare le norme stabilite dalla
legge. Oltre il 35% prende tempo per
rinnovare il contratto, e spesso rinviano i contratti perché non conoscono
le conseguenze delle loro decisioni,
sempre più spesso chiedono al professionista consigli su come procedere.
Per i contratti che prima coprivano 12
mesi e oggi sono concentrati su 8 mesi
è stata eliminata la postazione fissa
che obbliga all'assunzione. Il campione analizzato da Acta rivela che il lavoro autonomo non risponde necessariamente ai parametri adottati dalla riforma La monocommittenza non è il criterio che distingue una «finta» partita
Iva da una «vera». La stragrande maggioranza degli intervistati conferma
che il lavoro viene pagato sulla prestazione, non sul tempo dell’impiego. Ai
singoli viene lasciata l'autonomia nel
decidere se, come e quando lavorare.
F
iat-Chrysler un’azienda unica, il sindacato fuori dall’azionariato. Dal salone dell’auto di Detroit, Sergio Marchionne
traccia il percorso futuro del gruppo automobilistico globale. «Veba non sarà azionista per sempre», dichiara l’ad Fiat e presidente/ceo di Chrysler. Fiat ha già oltre il 58% del capitale di Chrysler, ma il sogno di Marchionne è che le due aziende diventino
una sola, così come è avvenuto per Fiat Industrial e Cnh. «Saranno un’unica entità – spiega – ma
non so dire dove, come e quando. Se fosse dipeso da me lo
avrei fatto prima di Natale.
L’obiettivo è quello di creare una
sola azienda che produce vetture
in tutto il mondo». L’unico ostacolo è il fondo pensione dei lavoratori Chrysler, il Veba, diventato
azionista con il 41,5%, e che vuole uscire per bilanciare il proprio
portafoglio. Sulla valutazione della quota Veba su cui Fiat intende
esercitare l’opzione di acquisto,
Marchionne ha aggiunto che «occorre trovare un benchmark. Il processo è in evoluzione».
Il fondo dei lavoratori valuta Chrysler 10 miliardi, mentre per
Marchionne prima valeva poco più di 4 miliardi, ora circa 6 miliardi. Da qui la contesa sul prezzo. Fiat può acquistare fino al 3,3% di
Chrysler da Veba ogni sei mesi tra il 1 luglio 2012 e il 30 giugno
2016, fino a una quota del 16,6%, e Marchionne ha detto di voler
comprare. Nel mese di luglio, Fiat ha annunciato che avrebbe esercitato la prima opzione per aumentare la sua quota del 3,3% in
Chrysler, portando la propria partecipazione in Chrysler al 61,8%
dal 58,5%. Veba ha chiesto 342 milioni di euro, Marchionne ne ha
offerti non più di 139. Per un altro 3,3% Marchionne a gennaio ha
offerto 198 milioni di dollari. La questione ora giace presso il Tribunale del Delaware, che entro marzo dovrebbe sciogliere la riserva.
Nei giorni scorsi però il fondo Veba ha chiesto la registrazione
delle azioni Chrysler per poter intraprendere anche la strada della
quotazione, qualora il prezzo offerto dal gruppo o imposto dal Tribunale non rispecchi le sue valutazioni. Ma del suo 41,5% di Chrysler, in realtà, a Veba è consentito collocare in Borsa solo il 24,9%,
ovvero la parte non soggetta alla call option Fiat. «L’Ipo Chrysler è
tecnicamente fattibile tra 9 mesi», ha concluso Marchionne.
Pomigliano /DOPO IL REINTEGRO DEI 19 OPERAI FIOM
Il Lingotto a muso duro
non ritira i licenziamenti
Adriana Pollice
«L’
azienda non proceda
in modo unilaterale»,
è l’invocazione dei
sindacati del sì alla Fiat. Ieri mattina a Napoli fumata nera all’incontro avvenuto nell’ufficio regionale del Lavoro: ultimo giorno per siglare l’accordo relativo alla procedura di mobilità avviata dal Lingotto per 19 operai di Fabbrica
Italia Pomigliano, dopo essere stata costretta dal tribunale del Lavoro di Roma ad assumere 19 lavoratori Fiom, discriminati dall’azienda. Cisl, Uil, Ugl e Fismic
hanno sottoscritto un verbale di
mancato accordo, chiedono una
soluzione condivisa. I metalmeccanici Cgil non erano a quel tavolo ma a uno separato, convocato
due ore dopo, perché la regione
Campania segue il protocollo
Fiat senza fare una piega.
Il segretario nazionale della
Fim, Ferdinando Uliano, spiega:
«Abbiamo firmato intese che hanno consentito la ripartenza produttiva dello stabilimento, con
l’impegno di Fiat alla ricollocazione di tutti i lavoratori occupati a
Pomigliano entro luglio 2013».
Nell’impianto campano sono stati assunti in 3.140, di cui 2.150
contrattualizzati Fip e 990 Fiat
Group Automobiles, 1.400 sono in
cassa integrazione. Fuori dai cancelli attendono di firmare il contratto ancora in 2.400.
«Vista la crisi del mercato è difficile pensare che entro i tempi
previsti avvenga la ricollocazione
dei 1.400 lavoratori in cig – continua Uliano – per questo ritenia-
Confermato per ora lo
«scambio» con altri
19 addetti: esuberi.
Sono 2400 le tute blu
in attesa di contratto
mo si debba intervenire, non con
licenziamenti, ma con risoluzioni
che salvaguardino l’intera occupazione del sito campano di
Fiat». Soluzioni condivise chiede
anche Luigi Mercogliano, segretario regionale Fismic: «Tenuto conto che, secondo la legge, l’eventuale applicazione dei criteri di individuazione prevede l’anzianità
di servizio dei soggetti da licenziare, si determinerebbe l’impossibilità per gli stessi ad accedere alle
liste di mobilità o ad altri ammortizzatori sociali».
Da stamattina la Fiat potrebbe
procedere in modo unilaterale,
domani però il tribunale di Roma
dovrà pronunciarsi sul ricorso fatto dalla Fiom per l’annullamento
della procedura: la Fiat non ha
dichiarato nessuno stato di crisi, i lavoratori vanno in cig e poi
tornano a produrre, quindi non
ci sarebbero i presupposti. «Si
tratta piuttosto di una rappresaglia», spiega Francesco Percuoco. C’è poi molto da dire anche
sul verbale firmato ieri dalle sigle sindacali: «Ho letto il testo –
spiega il segretario generale della Fiom di Napoli, Andrea Amendola – e quello che c’è scritto è
gravissimo. Hanno messo nero
su bianco che in base agli attuali livelli produttivi c’è un’eccedenza di manodopera. Questo
significa mettere una pietra sopra alle assunzioni degli altri
2.400 lavoratori, che pure era
una delle condizioni per accettare il contratto Fip».
Per quanto riguarda i 19 operai
che rischiano il posto, Amendola
aggiunge: «Cisl, Uil, Ugl e Fismic
fanno propria la posizione della
Fiat, che individua un unico criterio per procedere al licenziamento, l’anzianità di servizio, quando
la legge stabilisce che bisogna
considerare anche i carichi familiari e la funzione. L’unico motivo
per cui chiedono all’azienda di
fermarsi è la mancanza di ammortizzatori perché, essendo stati assunti da meno di un anno,
non hanno diritto né alla mobilità né alla cassa integrazione. Con
un po’ di ammortizzatori invece
sarebbero licenziabili». Intanto i
19 operai, da quando hanno varcato i cancelli, sono tenuti isolati
dal resto dei colleghi: nelle aule a
fare formazione, la stessa già fatta
due anni fa, senza sapere quando
torneranno sulle linee e a fare cosa. Chiusi in una bolla, in attesa
che l’azienda individui un modo
per scaricarli di nuovo.
pagina 6
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
INTERNAZIONALE
PRIMAVERA 2011 · A due anni dalla cacciata del dittatore Ben Ali c’è ben poco da festeggiare
PALESTINA
Tunisia, anniversario amaro
Dopo il voto
israeliano,
«roadmap» Ue
Il 14 gennaio di due
anni fa la scintilla
tunisina delle rivolte
arabe. La ricorrenza
in un contesto di crisi
economica, forte
malcontento
popolare, scontri
violenti tra fazioni
religiose e politiche
e assenza di
prospettive
SUDAFRICA
Scontri tra polizia
e braccianti agricoli
GENNAIO 2011, RIVOLTA A TUNISI. SOTTO, SIDI
BOUZID, MAOHAMMED BOUAZIZI SI DÀ FUOCO.
SOTTO, EGITTO, IL RAÌS ALLA SBARRA/REUTERS
Annamaria Rivera
A
due giorni dal secondo anniversario della rivoluzione tunisina, il 12 gennaio scorso, un
ennesimo giovane disoccupato si è
dato fuoco in pubblico, questa volta
a Mnihla, quartiere povero e densamente popolato della periferia di Tunisi. Lo apprendiamo da una velina
di due righe, replicata tal quale da tutti i mezzi d’informazione: nessun
giornalista, nessuno dei tanto celebrati blogger si è dato la pena di percorrere i pochi chilometri dal centro
della capitale a Mnihla per andare a
informarsi sulla biografia, la sorte dello sventurato, le ragioni e le circostanze del suo gesto.
Ancora suicidi per fuoco
Questo suicidio per fuoco è solo il
più recente di una lunga serie che
ha continuato a snodarsi nel corso
della cosiddetta transizione. Esso,
tuttavia, non potrebbe essere più
emblematico. Proprio qui, giusto
due anni prima, il 12 gennaio 2011,
era scoppiata una delle rivolte popolari che, partendo dalle regioni dell’interno più povere ed emarginate,
sarebbero divenute il sollevamento
popolare che ha affossato il regime.
A Mnihla e Ettadhamen (che costituiscono un’unica municipalità), i rivoltosi saccheggiarono un magazzino, incendiarono una banca e si
scontrarono con la polizia, che uccise due giovani e ne ferì altri.
È molto probabile che l’anonimo
giovane disoccupato fosse uno di
quei rivoltosi. Il che la dice lunga sulla disperazione di massa per la rivoluzione tradita ed espropriata ai suoi
protagonisti: la racaille che niente ha
guadagnato da un’insurrezione pagata con un pesante tributo di sangue e
repressione. Questa «plebaglia», della quale sono parte tanti giovani disoccupati con un livello d’istruzione
alto, oggi vive una condizione ancor
più intollerabile: colpita dall’aumento vertiginoso della disoccupazione e
del costo della vita nonché dall’aggravarsi delle disparità sociali e regionali; emarginata in agglomerati urbani
abbandonati al degrado e alla povertà crescenti; stretta nella tenaglia tra
il salafismo dilagante nei quartieri popolari e l’arbitrio e la violenza delle
forze dell’ordine; sempre pronta, tuttavia, a ribellarsi, con sommosse ricorrenti ed effimere che quasi nessuno è in grado o vuole organizzare. Oppure, quando le organizza, è pronto
a sacrificarle sull’altare di qualche accordo col governo di turno.
È accaduto a Siliana alla fine di novembre quando, durante un lungo
sciopero generale sostenuto dall’Ugtt, la più importante centrale sindacale, la polizia ha ferito e/o acceca-
to con fucili a pallettoni quasi trecento manifestanti. Per aver denunciato
e condannato fermamente la violenza delle forze dell’ordine, il sindacato
ha subìto un attacco alla sua sede
centrale, a Tunisi, da parte degli scherani delle cosiddette Leghe di difesa
della rivoluzione (in realtà milizie al
servizio di Ennahda). Ma subito dopo la sua dirigenza nazionale, come
consueto nella storia dell’Ugtt, infine
ha ceduto: ha revocato lo sciopero generale nazionale, proclamato poco
prima, e lanciato la proposta del dialogo con lo screditato governo provvisorio di Jebali, peraltro formalmente
decaduto.
«La conquista del bla-bla»
Qualcuno ha scritto su Nawaat,
uno dei blog più noti e impegnati,
che la sola conquista della rivoluzione è stato il bla-bla: «Il piacere gratuito di conversare liberamente, di dire
tutto e qualsiasi cosa senza sentirsi
spiati». Il che è vero solo parzialmente. Se è innegabile che la rivoluzione
ha liberato la parola pubblica e infranto la cappa di paura, è altrettanto
evidente che la libertà di espressione
è tutt’altro che garantita, come ha denunciato in un rapporto di pochi giorni or sono anche Amnesty International. Si aggiunga che tuttora consuete
sono pratiche come la repressione
violenta delle manifestazioni, gli arresti illegali, la detenzione in prigioni segrete, perfino lo stupro, la tortura e
l’omicidio in carcere e nelle caserme
di polizia.
Ad apparati repressivi e giudiziari
rimasti sostanzialmente gli stessi si è
Giuseppe Acconcia
I
l processo a Mubarak è da rifare. Se il principale successo del
movimento sociale che ha
coinvolto l’Egitto, a partire dal 25
gennaio 2011, è forse proprio la
condanna all’ergastolo dell’ex presidente, la corte di Cassazione ha
disposto la scorsa domenica un
nuovo processo per Hosni Mubarak, e l’ex ministro dell’Interno, Habib el-Adly. L’84enne rais egiziano
si trova dal 27 dicembre scorso nell’ospedale militare di Maadi, in seguito ad una caduta nella prigione
di Tora, dove sconta la pena all’ergastolo per complicità nell’uccisione di circa 900 manifestanti durante le rivolte. Lo scorso due giugno,
anche el-Adly è stato condannato
al carcere a vita, mentre i figli di
Mubarak, Alaa, Gamal e sei funzionari del ministero dell’Interno sono stati assolti.
Secondo attivisti e forze di opposizione, dietro il nuovo processo, si
prepara l’impunità per il vecchio
Mubarak, dopo che gli islamisti
hanno incassato l’approvazione
della Costituzione che sancisce il
bando dei politici del Partito nazionale democratico (Pnd) dalla scena pubblica. Sin dal primo giorno
di arresti domiciliari a Sharm elSheikh, gli avvocati dell’ex rais hanno tentato di prendere tempo e di
umanizzare il «diavolo», rappresentandolo quotidianamente come
malato o in fin di vita.
Il revisionismo è dietro l’angolo.
mesi di prigione per essersi abbracciati per strada.
Insomma, a due anni dalla fuga di
Ben Ali ben poco c’è da festeggiare in
Tunisia. V’è chi è arrivato a scrivere
che il secondo anniversario della rivoluzione del 14 gennaio è un giorno di
lutto. E gli abitanti di Sidi Bouzid, la
città di Mohamed Bouazizi, hanno
deciso di boicottarne le celebrazioni.
In effetti la ricorrenza cade in un contesto di crisi e d’inflazione economica, di forte tensione politica, di scontri, anche assai violenti, tra fazioni religiose e politiche, di profondissimo
malcontento popolare e assenza di
prospettive.
aggiunto il bigottismo islamista quale strumento statuale di controllo e
repressione. A tal proposito basta ricordare tre episodi. Il 28 marzo 2012,
Ghazi Beji e Jaber Mejri, due giovani
di Mahdia, sono condannati a sette
anni e mezzo di carcere (il primo è
riuscito a fuggire in Europa, l’altro è
in prigione), per aver postato su Facebook immagini e scritti giudicati blasfemi. Fra settembre e ottobre scorsi,
una giovane che era stata fermata col
suo compagno e stuprata da tre poliziotti, è denunciata e processata per
oscenità in luogo pubblico, come ritorsione per aver osato rivelare la violenza subita e accusare i suoi stupratori. Per fortuna, incalzata dall’indignazione e dagli appelli internazionali, la Corte ha deciso per il non luogo
a procedere. Infine, è di pochi giorni
fa la notizia di una ragazza di meno
di vent’anni e del suo altrettanto giovane compagno condannati a due
Il Forum sociale a marzo a Tunisi
È in questo quadro, tutt’altro che
roseo, che si svolgerà a Tunisi, dal 26
al 30 marzo, il 12˚ Forum Sociale
Mondiale. In una fase migliore della
transizione, la Tunisia era stata scelta
a giusta ragione in quanto culla delle
«primavere arabe» e paese che vanta
un ricco tessuto associativo. Oggi che
le cose sembrano volgere verso un esito problematico e incerto, il Forum
potrebbe comunque agire da stimolo
per una nuova ondata di rivendicazioni e lotte popolari, questa volta organizzate. Purché esso si sottragga al rischio d’essere usato come fiore all’occhiello del nuovo regime. Non è
un’ipotesi peregrina: nella tradizione
dei regimi tunisini, di quello benalista
in specie, v’è l’abilità nel servirsi della
retorica dei diritti umani e della «società civile» per accreditarsi agli occhi
dell’Europa e delle istituzioni internazionali.
Ieri, la polizia sudafricana ha
sparato con proiettili di gomma
e gas lacrimogeni contro i braccianti agricoli, in sciopero per il
salario nella regione vinicola del
Cap occidentale (sud-ovest), dove le violenze sono riprese dopo
qualche giorno di calma, seguito alle ripetute proteste. Gli operai - in maggioranza stagionali hanno lanciato pietre contro
poliziotti e giornalisti nella città
di Villiersdorp. Chiedono il raddoppio del salario minimo giornaliero da 69 a 150 rands (da 6 a
13 euro) per il lavoro che svolgono nella principale zona di produzione vinicola e di frutta e
verdura del Sudafrica. Poco prima, la polizia era intervenuta
per disperdere un gruppo di manifestanti nella vicina città di De
Doorns, epicentro degli scioperi
e delle violenze la settimana
scorsa. Per via delle proteste, la
principale autostrada che collega il Cap a Johannesburg, la capitale economica del paese, è
rimasta chiusa per il sesto giorno consecutivo. Durante il fine
settimana, sembrava essere tornata la calma nell’attesa delle
trattative sindacali: che però
non hanno prodotto risultati e i
sindacati hanno deciso di proseguire gli scioperi, dichiarati a
novembre, e che potrebbero
mettere in pericolo le vendemmie. Già la settimana scorsa la
polizia aveva tirato proiettili di
gomma sui manifestanti che avevano risposto con lanci di pietre. Almeno 125 persone sono
state arrestate in tre giorni di
scontri. La regione del Cap occidentale fornisce il 60% circa delle esportazioni agricole del paese e dà lavoro a quasi 200.000
operai.
SUDAN
Rapiti quattro
operai cinesi
Nella notte tra l’altroieri e ieri,
un gruppo di ribelli armati ha
rapito quattro operai cinesi che
lavoravano alla costruzione di
una strada nel Darfur, nell’est
del Sudan, una zona sempre in
preda a turbolenze e che - negli
ulti anni - ha visto una recrudescenza di sequestri ad opera del
banditismo tribalista.
EGITTO · La sua condanna all’ergastolo era il successo della «primavera»
Mubarak, il processo è da rifare
L’ex ministro della giustizia, Ahmed Mekky, commentò la sentenza di ergastolo sottolineando come le assoluzioni per el-Adly e i
suoi sei assistenti avrebbero aperto la strada al perdono per tutti gli
imputati nel processo. A conferma
di queste parole, è arrivata lo scorso ottobre la sentenza che ha scagionato i leader del defunto Pnd
dalle responsabilità nella «battaglia dei cammelli», il giorno più duro delle rivolte, in cui si scontrarono in piazza Tahrir sostenitori e oppositori dell’ex presidente. Secondo la corte, la maggior parte dei testimoni ascoltati nel processo era
politicizzata. E quindi i temibili,
Safwat Sherif, ex presidente della
Shura, e Fathi Sorour, ex presidente del Moghles Shaab (Assemblea
del popolo) sono stati prosciolti.
È curioso che si voglia negare
proprio la responsabilità della polizia nelle violenze. A quasi due anni
dal 25 gennaio 2011, le rivolte egiziane e tunisine possono essere
raccontate come l’opposizione alle abitudini umilianti e degradanti
dei poliziotti nei quartieri popolari. Da poveri, disoccupati e venditori ambulanti, i poliziotti sono diffusamente percepiti come forza paramilitare che usa torture e violenze.
Gli agenti di polizia sono responsabili di controlli sulla riscossione
delle tasse, sul traffico, i prezzi degli alimentari nei mercati, la moralità e la difesa dei luoghi pubblici.
Per questo, sulle responsabilità
nelle violenze, i primi incriminati
sono proprio i poliziotti. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e Alessandria i
manifestanti attaccarono prima di
tutto un centinaio di stazioni di polizia, nei quartieri popolari di
Helwan, Embaba, Bab al Sharya,
Boulaq Dakrur e al-Mattarya.
Quando la situazione sul campo
apparve fuori controllo, la polizia
scomparve, l’esercito decise allora
di abbandonare Mubarak al suo
destino e di non sparare sulla folla.
A quel punto, la tv di stato e la
giunta militare per fermare l’occupazione dello spazio pubblico tentarono la carta del panico, puntando sul timore dei baltagi, i criminali. Tutti i manifestanti sono stati descritti come criminali. In realtà il
termine baltagi è molto vago, in alcuni periodi storici è stato associato ai salafiti, in quartieri popolari
viene ancora riferito a chi collabora o informa la polizia. Il culmine
delle violenze è stata la strage di
Port Said, lo scorso febbraio, in cui
sono stati uccisi 74 sostenitori della squadra dell’el-Ahly, da molti ricordata come la suprema vendetta
dei poliziotti contro gli Ultras, tra i
protagonisti delle rivolte.
Le responsabilità di Mubarak
nelle violenze di piazza sono ancora lontane dall’essere dimostrate o
accettate unanimemente. Ma i
danni che trenta anni di regime
hanno portato all’Egitto non si misurano in vittime. L’estensione dei
poteri di sicurezza a polizia e forze
paramilitari sono state la conseguenza diretta della ritrazione dello stato dallo spazio pubblico, causata dalle misure neoliberali esasperate, promosse da Mubarak negli anni Novanta.
Michele Giorgio
GERUSALEMME
«N
on dirò che avrei voluto essere con voi, sono con voi. Vi guardo
e vedo il sogno che attraverso le
vostre mani è diventato una realtà
radicata». Sono parole dello scrittore libanese Elias Khoury, parte
del messaggio (e del suo romanzo) inviato ai comitati popolari palestinesi che tra venerdì e sabato
avevano dato vita al villaggio di
tende «Bab al Shams» su di una
collina a Est di Gerusalemme, nel
delicato corridoio E1, dove il premier israeliano Netanyahu intende costruire migliaia di case per coloni. Una iniziativa alla quale 500
agenti della polizia di frontiera
israeliana hanno messo messo fine domenica, prima dell’alba, arrestando tutti i palestinesi e gli attivisti internazionali presenti a Bab al
Shams (i feriti sono stati sei). Netanyahu aveva chiesto lo sgombero immediato delle 20 tende, in nome dell’applicazione della legge
israeliana. Legge che procede a
due velocità: ridottissima quando
si tratta di evacuare i settler israeliani impegnati nella colonizzazione selvaggia della Cisgiordania parallela a quella approvata dal governo; molto alta quando a creare
l’avamposto sono i palestinesi.
«Dieci, cento, mille Bab al
Shams», scandiscono gli attivisti
di una’iniziativa che ha mostrato
le grandi potenzialità della resistenza popolare palestinese ma
anche i suoi limiti. Bab al Shams
ha attirato attenzione internazionale (specie sui social network) e
riscosso interesse in un buon numero di palestinesi. Ha sperimentato inoltre una modalità di lotta
che sembra dare parecchio fastidio all’occupazione israeliana. Allo stesso tempo non ha coinvolto
subito e in modo massiccio i grandi centri urbani della Cisgiordania, fondamentali per una mobilitazione popolare duratura.
Non aiuta l’atteggiamento dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen che da un lato appoggia queste iniziative e dall’altro le contiene, per impedire che possano trasformarsi nella scintilla della terza
Intifada palestinese contro Israele. Ambiguo rimane il ruolo dei
due grandi partiti di massa: Hamas non crede nella lotta popolare non violenta; Fatah non si fida
dei Comitati popolari e stenta a sostenere campagne di cui non può
prendere il controllo.
Dei 12 km quadrati del corridoio E1 pare si occupi anche la «roadmap» che, secondo quanto riferiva ieri (con allarme) il quotidiano
di Tel Aviv Yediot Ahronot, si preparebbe a presentare l’Unione europea subito poco dopo lo svolgimento delle elezioni politiche israeliane del 22 gennaio. Roadmap
frutto di una iniziativa di Parigi e
Londra e poi adottata dal «ministro degli esteri» dell’Unione, Catherine Ashton, abbastanza diversa, almeno nello spirito, da quella
partorita una decina di anni fa dal
Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue).
Quindi meno condizionata dalle
posizioni rigide di Israele. Tra i
punti del piano, ha scritto il quotidiano, ci sono la creazione di uno
Stato palestinese entro i confini
del 1967, con Gerusalemme Est (o
parte di essa) come sua capitale, il
congelamento di tutte le costruzioni progettate o in corso nelle colonie israeliane in Cisgiordania e lo
scambio di territori tra Israele e Palestina. Obiettivi da raggiungere
entro il 2013. «Gli europei non sono in grado di obbligarci a raggiungere un accordo, ma possono metterci in imbarazzo» - hanno spiegato a Yediot fonti vicine al governo «È ragionevole pensare che i palestinesi accetteranno un simile documento, per Israele sarà difficile.
Ci metteranno all’angolo». Secondo le stesse fonti, il presidente
americano Barack Obama potrebbe accogliere l’iniziativa dell’Ue
perchè si basa sulla soluzione a
due Stati e sul negoziato bilaterale
israelo-palestinese.
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 7
LA MIA AFRICA
Mali • I caccia francesi martellano il nord ma nel frattempo gli islamisti conquistano Diabali,
più a sud, e promettono vendetta. I 550 uomini impiegati nei primi giorni diventeranno presto 2.500
PARIGI
I
ribelli Tuareg dell’Mnla (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) hanno affermato ieri di essere «pronti ad aiutare» la
Francia nell’offensiva nel nord del Mali. La notizia, se confermata e se avrà seguito, potrebbe
rappresentare una svolta per l’intervento francese. Anche se l’Mnla già a dicembre si era impegnato a fermare le ostilità contro Bamako,
ma poi gli avvenimenti sono andati in tutt’altra
direzione e gli Usa hanno già speso 600 milioni
di dollari per addestrare dei combattenti Tuareg, che poi hanno disertato con il colpo di stato a Bamako del marzo 2012.
Ieri, i combattimenti si sono intensificati. I ribelli islamisti hanno conquistato Diabali, una cittadina a 400 km da Bamako, al di qua della porta
OPERAZIONE GATTOPARDO · L’intervento della Francia prosegue. La ricerca di alleati anche
SAHEL
Bombe e diplomazia
Parigi intensifica i raid
Ma il terrorismo
non si batte così
Secondo un sondaggio
anche la maggioranza
(68%) degli elettori
del Front De Gauche
approva l’intervento
del deserto. I francesi hanno bombardato più a
nord, a Douentza (800 km da Bamako), ma i ribelli avevano già abbandonato il terreno. In un
bombardamento vicino al confine algerino, il comandante del gruppo Ansar Eddine sarebbe stato ferito, il suo vice, Abdel Krim, ucciso.
Dal punto di vista militare, la Francia ha già
previsto di ampliare la presenza sul terreno dell’operazione «Serval» (Gattopardo): i 550 uomini impegnati nei primi giorni di bombardamenti diventeranno a breve 2500. Parigi, cioè, prevede ormai scontri a terra. E sul piano diplomatico cerca alleati, in Africa e in occidente. In Africa, la Francia ha ottenuto un tiepido appoggio
dall’Algeria, che ha permesso domenica il sorvolo del suo territorio. La Francia ha coinvolto
il Ciad, facendo di N’Djamena la principale base delle retrovie, da dove partono i caccia. Dal
Burkina Faso partono invece gli elicotteri. Da
Dakar, in Senegal, gli aerei spia. Coinvolto anche il Niger, paese della regione che interessa
soprattutto, poiché qui Areva estrae l’uranio indispensabile per far funzionare le centrali nucleari francesi. Con la ricerca di appoggi in Africa, la Francia sta correndo il rischio di far entrare in forza nella regione delle sue ex colonie dell’ovest la potenza regionale anglofona nigeriana, che ha promesso 600 uomini per la Cedao,
L’IMBARCO DELLE TRUPPE FRANCESI ALL’AEROPORTO DI NDJAMENA: DESTINAZIONE MALI
la forza africana che dovrebbe vedere la luce,
forse, con la prevista riunione di Addis Abeba
del 25 gennaio. Ieri sera, Hollande è andato a
Abu Dhabi, dove si tiene una conferenza internazionale sulle energie rinnovabili, per cercare
una sponda anche su questo fronte.
In occidente, la Gran Bretagna è già scesa in
campo con due C17 che forniranno aiuti logistici. Ma per ora non ha inviato truppe. Gli Usa
forniranno droni e aerei cisterna. La Germania
ha assicurato un «sostegno politico totale» alla
Francia: il ministro degli esteri, Guido Westerwelle, ha affermato che «la Germania non lascerà sola la Francia in questa situazione difficile», ma ha promesso solo aiuti logistici, umanitari e medici, mentre il ministro della difesa,
Thomas de Maizière, condiziona il supporto di
Berlino a «un consenso nazionale in Mali», perché «bisogna fare chiarezza su chi dirige il paese».
La Nato, pur appoggiando l’operazione, ha
fatto sapere ieri di «non essere implicata». Il mi-
nistro degli esteri, Laurent Fabius, ha annunciato ieri pomeriggio una riunione «nel corso della
settimana» tra i ministri degli esteri della Ue. A
Bruxelles c’è stata una riunione dei servizi della
Ue implicati nella prevista missione di formazione delle truppe del Mali: la missione sarà accelerata, ma, ha precisato Bruxelles, «non avrà
nessun ruolo di combattimento». Ieri si è tenuta una nuova riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, su richiesta della Francia. Parigi
aveva inviato una lettera per chiedere l’accelerazione dell’applicazione della risoluzione
2085, che autorizza la forza internazionale, che
dovrebbe vedere una forte presenza di militari
africani.
In Francia, dopo una riunione all’Eliseo tra i
ministri coinvolti, il primo ministro Jean-Marc
Ayrault ha ricevuto ieri sera i rappresentanti
dei gruppi parlamentari. Per rispondere alle critiche da sinistra (Verdi e Front de Gauche) sull’assenza di dibattito parlamentare prima dell’attacco di venerdì scorso nel nord del Mali,
Ayrault ha promesso un dibattito all’Assemblea in tempi brevi, ma senza voto. A causa delle reiterate minacce contro la Francia che provengono dai ribelli islamisti del Mali, le misure
antiterrorismo del piano Vigipirate sono state
rafforzate sul territorio francese. Secondo un
primo sondaggio, il 63% dei francesi approva
l’intervento. Sono a favore il 77% degli elettori
socialisti, il 63% di quelli dell’Ump e, sorprendentemente, il 68% di quelli del Front de gauche. Al Fronte nazionale i favorevoli sono il
53%. Oggi, il ministro della difesa, Jean-Yves Le
Drian presiederà agli Invalides la cerimonia di
omaggio al pilota Damien Bolteux, il primo
morto francese della guerra del Mali, deceduto
nel primo attacco di venerdì. a.m.m.
L’ANALISI · Dal rischio Afghanistan al ritorno politico interno, tutti gli interrogativi che pesano sulla scelta del presidente
Hollande fa il «duro»: attacco, dunque sono
Philippe Leymarie
PARIGI
L
a Francia ha deciso da sola la forma di un intervento militare in
Mali per fermare l’avanzata dei
miliziani jihadisti (...). Nonostante l’
union sacrée nell’Esagono, e un ampio
sostegno internazionale - compreso
quello africano - attorno a questa iniziativa del presidente Hollande, degli
interrogativi si pongono.
Le finalità della guerra: come in Libia,
nel 2011, esse sono confuse. Si è sentito di tutto: assicurare la sicurezza dei
cittadini francesi all’estero; (...) guerra
contro il terrorismo; (...) impedire la
presa di Bamako ecc. Se i jihadisti hanno sì cercato di avanzare verso il Sud,
non è dimostrato che avessero intenzione di andare fino a Bamako, la capitale (...). Ora si è agli attacchi contro le
posizioni di ripiego dei gruppi armati.
A quando la "pulizia" del terreno?
Le truppe inviate sul terreno: È proprio
quello che era stato evitato in Libia nel
2011. E quello che cercano di evitare
in generale americani, britannici, ecc.
Ma quello che non hanno potuto impedire i francesi in Mali (...).
La durata dell’operazione: essa è perlomeno variabile («il tempo che sarà necessario», «diverse settimane», «fino a
quando le forze dell’Africa occidentale
e l’esercito del Mali non daranno il
cambio», ecc.). Ma il tempo non gioca
necessariamente a favore di chi interviene, e che può ritrovarsi impantanato, con un’immagine di "occupante" –
come è stato in Afghanistan.
Gli obiettivi: inizialmente erano i combattenti sulla linea di demarcazione,
adesso sono le retroguardie dei movimenti jihadisti nei loro feudi del Nord
(...). Qui nulla è stato veramente nego-
ziato, discusso, approvato: è a discrezione della potenza che prende l’iniziativa, quasi in clandestinità. Una guerra
senza volto e senza immagine (...).
Le risoluzioni Onu: sulla loro interpretazione si basa in teoria la legittimità dell’intervento: se ne prende ciò che si
vuole con una modalità "di scivolamento", che ricorda anche qui il precedente libico. Così, la risoluzione 2085
del 22 dicembre era imperniata innanzitutto sul necessario negoziato politico, per separare la questione Tuareg
(rivendicazione nazionale o comunitaria, paragonabile alla questione kurda)
dalla costituzione di poli jihadisti (...)
Oggi Parigi pretende di agire all’offensiva nel nord del Mali sotto la copertura
di questa risoluzione che autorizzava
un negoziato politico e la messa in
csmpo di forze dell’Africa occidentale,
ma si riservava il via libera militare a
un momento successivo (…).
Le giustificazioni politiche: sono a geometria variabile, con un lato "grande
salto" della sinistra che assicurava, do-
po l’elezione di François Hollande, di
non volersi più comportare da "gendarme dell’Africa" (...). Ora, anche se
la causa sembra piuttosto giusta, la
Francia si ritrova nella posizione di agire in prima linea (...), con i suoi propri
mezzi, il suo know-how africano tradizionale (che risale ai tempi del colonialismo, in particolare per quanto riguarda la guerra nel deserto). L’immagine
rischia di restarle attaccata ancora a
lungo, e non mancheranno "amici"
della Francia a chiederle d’intervenire
SOMALIA · I miliziani pubblicano foto di un soldato francese ucciso
I ribelli al-Shabaab sfidano l’Eliseo
I
miliziani somali al-Shabaab hanno pubblicato su
Twitter le immagini del cadavere di un soldato circondato da equipaggiamenti militari. La didascalia
alla foto diceva: «Hollande, ne valeva la pena?». Secondo i
ribelli islamisti si tratterebbe del «comandante francese
ucciso durante il blitz di Bulo Marer», disposto dall’esercito francese (Dgse) nella notte tra venerdì e sabato scorso
per liberare l’ostaggio, Denis Allex, agente dei servizi segreti francesi in mano ai ribelli islamisti dal 2009. Il primo
ministro di Parigi, Jean Marc Ayrault, ha parlato di «messa in scena odiosa». «La nostra operazione ha fallito ma il
governo la rivendica pienamente perché non è compiacente verso i terroristi», ha aggiunto Ayrault. Nell’operazione, un soldato francese era stato ucciso e un secondo
militare, rimasto ferito, è ancora considerato disperso.
Ieri mattina, il portavoce degli al-Shabaab, Sheikh Abdiasis Abou Mousab, aveva assicurato che avrebbe mostrato le foto dei corpi dei francesi uccisi, uno dei quali
morto in seguito alle ferite riportate nel blitz. Mentre il ministro della difesa, Jean Yves Le Drian, aveva confermato
la morte dell’ostaggio e l’uccisione di un soldato nell’operazione. «Gli Shebaab si preparano a organizzare una
messa in scena macabra e indegna», ha proseguito Le
Drian in riferimento alle foto che sono state pubblicate ieri. Tuttavia, secondo gli al-Shaabab, l’agente Allex, catturato a Mogadiscio nel 2009, sarebbe ancora vivo. I ribelli somali hanno annunciato inoltre di aver deciso con «verdetto unanime» la sorte di Allex e hanno assicurato che renderanno pubblica la loro decisione nelle prossime ore.
Dal canto suo, il presidente americano Barack Obama
in una lettera inviata al Congresso, ha ammesso di aver
fornito «un limitato sostegno tecnico» alla fallita operazione francese per liberare l’ostaggio in Somalia. Ma le forze
aeree americane, si legge nella missiva, «non hanno preso direttamente parte all’assalto». Il blitz fallito era stato
deciso nel mese di dicembre, dopo che il ministro della
difesa di Parigi aveva ricevuto informazioni sul luogo di
detenzione di Allex. Tuttavia, secondo testimoni, gli insorti erano stati informati preventivamente su un possibile
atterraggio dell’elicottero militare francese nel villaggio
costiero meridionale di Bulo Marer. Le autorità francesi
hanno riconosciuto che la resistenza degli islamisti è stata più efficace del previsto. Nell’operazione sarebbero rimasti uccisi otto somali. giu. acc.
nell’interesse di questo o quel Paese.
Sul piano militare: (...) effettivi relativamente limitati dai due lati (qualche
migliaio), terreno conosciuto (il
Sahel) e «libero» (deserto), appoggio
sulla rete di basi e di truppe pre-posizionate a Libreville, N’Djamena, Gibuti (che fanno della Francia, più di cinquant’anni dopo le indipendenze, un
caso a parte). Se la Francia non si fosse lanciata , nessuno l’avrebbe fatto al
suo posto. Essa potrà compiacersi:
«Intervengo, dunque sono». Ma dovrà
far comprendere che non torna a essere un gendarme regionale, cosa della
quale - in realtà - non ha più veramente né i mezzi, né la volontà.
Il posizionamento offensivo: questo atteggiamento (già rilevato a proposito
della Libia nel 2011, e della Siria nel
2012) fa di Parigi il nemico n˚1 dei jihadisti, il nuovo «grande Satana», col rischio che i suoi cittadini all’estero o le
sue installazioni all’estero, in particolare in Africa, diventino potenziali
obiettivi; o che vengano presi di mira
obiettivi nell’Esagono (...).
Benefici politici per Hollande: (...) il presidente «normale» - più rosa che rosso, più socialdemocratico che socialista, piuttosto «moscio» in tutto - vi trova l’occasione di fare il duro, il risoluto, su un terreno sul quale è garantito
incontrare un vasto consenso, in un
clima di unanimità nazionale. (...) Unica incognita: se dovesse succedere
qualcosa agli ostaggi attualmente prigionieri nel Sahel, com’è accaduto
per l’operazione condotta sabato scorso in Somalia per liberare l’agente
francese (...), che ha avuto l’effetto disastroso che sappiamo.
traduzione di Ornella Sangiovanni
La versione integrale dell’articolo su
www.lemondediplomatique.fr
Giuliana Sgrena
L
a lotta al terrorismo, dall’11 settembre, giustifica
ogni avventura bellica. Anche se non si può fermare la spirale del terrore con la guerra: erano iniziati da poche ore i bombardamenti dei caccia francesi in
Mali quando è scattato l’allarme
antiterrorismo in Francia. All’intervento francese sono seguite
immediatamente le minacce del
Mojao (uno dei gruppi terroristi
che sta occupando il nord del Mali) e c’è da sperare che restino solo minacce.
Con l’intervento francese (appoggiato dagli Usa e da altri paesi europei, Gran Bretagna in testa) salta il dialogo tra jihadisti e
governo, sponsorizzato dal Burkina Faso che ora, a sua volta, annuncia l’invio di un contingente.
L’Ecowas (Comunità economica
degli stati dell’Africa occidentale)
stava già preparando un contingente di 3.300 uomini, ma il presidente Traoré ha preferito accelerare l’azione militare chiedendo
aiuto alla Francia, che ha risposto subito, avvalendosi anche della risoluzione approvata dall’Onu il 20 dicembre scorso.
L’attacco in Mali avviene a poche settimane dal viaggio del presidente Hollande ad Algeri, dove
parlando di «rispetto delle memorie, di tutte le memorie» aveva
cercato di migliorare i rapporti
con l’ex colonia. Da mesi l’Algeria è terrorizzata da un’internazionalizzazione del conflitto alle
sue frontiere e l’intervento francese apre la strada a un intervento occidentale più ampio. Ma Algeri, cambiando improvvisamente posizione, non ha condannato
l’intervento francese, considerando la richiesta del Mali un «atto
sovrano» e lasciando intravedere
un possibile intervento algerino
contro gli islamisti che occupano
il nord del paese confinante. Del
resto dal Mali partono le azioni
di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), formato nel 2006 dal
Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, una frazione dei Gruppi islamici armati
algerini.
L’intervento francese, annunciato quando era già in corso e
senza chiedere l’autorizzazione
del parlamento, risponde innanzitutto agli interessi della Francia
che in Mali sfrutta le materie prime, principalmente l’uranio. Proprio come era avvenuto nella crisi libica, la Francia si lancia per
prima ma non è escluso che venga seguita da altri paesi europei
che potrebbero impiegare le forze che stanno ritirando dall’Afghanistan. Peraltro proprio dalla
Libia sono arrivati molti jihadisti,
che dallo scorso marzo occupano il Mali settentrionale, e anche
le armi. Il Mali è un crocevia del
traffico di armi e droga, quest’ultima arriva in gran parte dal Marocco passando per il sud dell’Algeria. Il traffico si è ulteriormente
arricchito con il business dei sequestri.
Ora, l’intervento militare francese probabilmente provocherà
una nuova diaspora dei jihadisti,
ma sicuramente non la fine del
terrorismo.
pagina 8
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
REPORTAGE
Il Giappone nel
KYOTO
P
DOPO IL DISASTRO · Con il compiacimento dell’Aiea
Il governo minimizza
e l’atomo torna di moda
confonde le due mansioni», commenta
la signora Smith.
«Siete ancora a Fukushima? Anche i
a strategia è sempre la stessa: scaribambini? Ma perché non venite via?». Socare le responsabilità, confondere le
no domande logoranti per chi è rimasto
idee dando l’impressione che su
nella provincia giapponese teatro del disaogni questione ci siano i pareri pro e constro nucleare seguito al terremoto del
tro, spingere le vittime a litigare tra loro.
2011. Accentuano il senso di colpa, in parNon registrare dati, non lasciare prove e,
ticolare verso i figli. A sentirle ripetere si fiin ogni caso, temporeggiare. È questa la
nisce per smettere di portare la maschetattica adottata dalle autorità giapponesi
ra, di fare attenzione al livello delle radiaverso le vittime del disastro nucleare di
zioni e perfino di pensarci: insomma si coFukushima, mi dice Aileen Miyoko Smith,
mincia a far finta di nulla, più che altro
fondatrice e direttrice di Green Action,
per la sopravvivenza psicologica. Si litiga
un’organizzazione non governativa giaptra vittime, in famiglia e tra vecchi amici.
ponese, con base a Kyoto, che lavora da
Anche quando non si litiga, la reticenza e
più di vent’anni contro l’energia nucleare.
l’incomprensione tra chi resta e chi è anSecondo Aileen, nel caso di Fukushidato via crescono col passare del tempo;
ma vediamo usare le stesse strategie usaeppure fino all’incidente vivevano tutti in
te in passato con i malati della sindrome
armonia. Né sono necessariamente i più
di Minamata, causata dell’intossicazione
benestanti quelli che si sono trasferiti per
acuta da mercurio contenuto nei rifiuti
sottrarre i figli alle radiazioni: molti degli
industriali scaricati in mare, di cui i prievacuati di propria iniziativa infatti sono
mi casi sono stati risingle mothers, che
conosciuti nel 1956.
non avevano nulla
La
denuncia
di Aileen
Chi meglio di lei
da perdere - più libepuò descrivere il
Miyoko Smith, fondatrice re da vincoli, senza
meccanismo che locasa di proprietà né
di Green Action,
gora le vittime delun lavoro stabile e
lo sviluppo? Nata a
ben pagato.
organizzazione
Tokyo nel 1950 da
Intanto il governo
non governativa no-nuke centrale e le amminipadre americano e
madre giapponese,
strazioni locali hanAileen ha lavorato sin da giovanissima
no invitato gli abitanti a tornare, facendo
a fianco di Eugene Smith, mitico fotoleva sul loro amore per Fukushima. Hangrafo americano poi divenuto suo marino annunciato la sospensione di ogni aiuto. Andarono a vivere a Minamata, nelto finanziario a chi vuole allontanarsi dall’isola meridionale di Kyushu, da dove
la provincia, sostenendo che l’allarme è ordenunciarono al mondo non solo la
mai rientrato in molte zone grazie agli
malattia ma anche i crimini industriali
sforzi della decontaminazione. Il beneplae le vicissitudini delle vittime.
cito dell’Aiea alle autorità giapponesi è arAnche oggi, prosegue Aileen, vediamo
rivato in questo contesto.
le autorità minimizzare i danni; estenuare
Malgrado ciò, gli ultimi sondaggi effetle vittime affinché rinuncino a lottare per i
tuati da un quotidiano locale di Fukushipropri diritti; stabilire criteri tali da riconoma dicono che 3 abitanti nella provincia
scere il minor numero possibile di vittisu 4 auspicano la demolizione immediata
me. Altri tasselli di questa strategia: evitadi tutti i 6 reattori nucleari ancora esistenre che le informazioni arrivino oltre i confiti sul territorio (oltre ai 4 incidentati, già in
ni, e infine organizzare conferenze intervia di smantellamento). Ma questo contranazionali invitando esperti compiacenti.
sta con la politica del governo insediato
Proprio come la conferenza ministeriale
poche settimane fa a Tokyo. Vari ministri
organizzata dal governo giapponese e daldel governo Abe hanno già espresso la vol’Agenzia internazionale per l’energia atolontà di riprendere gli affari nucleari, azzemica (Aiea) a Koriyama, nella provincia di
rando il progetto di uscire dalla dipendenFukushima dal 15 al 17 dicembre scorso.
za entro il 2039 enunciato lo scorso autunL’incontro, con ospiti da 117 paesi e 13 orno dopo discussioni estenuanti. Il cambio
ganizzazioni internazionali, ha partorito
di rotta è stato accolto bene dall’amminiciò che la società civile temeva: una dichiastratore di un’altra provincia, Fukui, che
razione piena di autocompiacimenti che
ospita ben 14 reattori in uno spazio costiesdrammatizza la situazione attuale senza
ro di meno di 60 chilometri. All’inizio delalcuna attenzione alla popolazione che sul’anno il governatore Nishikawa ha ribadibisce le conseguenze del disastro.
to la richiesta di accelerare i tempi di riatti«Fukushima ci ha insegnato la necessivazione dei reattori attualmente fermi per
tà di separare l’organo di controllo da
controllo e di avviare la costruzione di
quello per la promozione dell’energia
nuovi impianti, senza risparmiare critiche
nucleare, eppure il governo giapponese
alle indagini geologiche in corso per verifiha ripreso il vecchio vizio: per minimizcare l’esistenza di faglie attive sotto alcuni
zare il disastro ricorre all’autorevolezza
reattori che potrebbero decretare la loro
internazionale dell’Aiea, un ente che
demolizione.
Yukari Saito
KYOTO
L
erché la provincia di Fukui insiste tanto
sul nucleare, nonostante il disastro visto a Fukushima? Per capirlo, è utile
una visita in zona. Con circa 800 mila abitanti
in poco più di 4.000 chilometri quadrati, la
provincia di Fukui dista circa 500 chilometri
dalla centrale di Fukushima Daiichi e si trova
nel nord dell’antica capitale Kyoto sul mar del
Giappone che lo divide dalla penisola coreana. Mi accompagnano nella visita Naomi
Toyoda, fotogiornalista residente in Tokyo,
autore di vari libri su Fukushima ed esperto
dell’uranio impoverito; e Masaru Ishichi, attivista locale, un signore sui sessant’anni che ci
porta in giro con la sua piccola utilitaria.
È una giornata di fine dicembre, buia e gelida, con raffiche di vento misto a neve e pioggia. Ma ogni tanto vediamo squarci di cielo celestino («qui l’inverno è sempre così» dice Masaru come se leggesse il nostro pensiero di
aver scelto un giorno sbagliato).
La prima tappa è Tsuruga Visitor Center,
una struttura museale nella centrale nucleare
di Tsuruga, con tre reattori di cui uno è in via
di smantellamento. Il museo, molto frequentato da gruppi scolastici, offre ricche informazioni rassicuranti e giochi divertenti oltre a
una vista panoramica dell’impianto che, ridipinto di recente, si presenta moderno e asettico. In realtà, il reattore numero 1 ha 43 anni
ed è tra i più vecchi al mondo ancora funzionante. La sua demolizione, inizialmente prevista per il 2009, è stata rimandata a causa del ritardo della costruzione di due nuovi reattori.
Nel frattempo alcuni ricercatori hanno denunciato l’esistenza di diverse faglie attive sotto il
complesso, rendendo incerto il futuro della
centrale. «La città vive una profonda crisi da
quando l’impianto è stato fermato dopo l’incidente di Fukushima, perché tutta l’economia
locale gira intorno alla centrale», ci spiega Masaru. «Non c’è una situazione peggiore che
non sapere se potranno riattivarlo o dovranno iniziare la demolizione».
Perché non si può decidere di smantellarla? È una scelta che offre buone prospettive
occupazionali per decenni e darebbe anche il
tempo di sviluppare un’economia alternativa
al nucleare. «In astratto lo sanno anche loro,
ma in concreto non riescono a immaginarlo,
non c’è una road map dettagliata», risponde
Masaru, e ci racconta la storia della costruzione di questa centrale, la prima nella zona.
«Dovete sapere che questa era una zona del
tutto abbandonata dalle amministrazioni. Gli
abitanti accettarono di ospitare il primo impianto in cambio di una strada asfaltata». Stiamo percorrendo una di queste strade, la statale 27, una corsia per ciascun senso di marcia.
Ancora oggi questa è l’unica via principale su
cui si verserà tutta la popolazione nel caso di
un’emergenza come quella di Fukushima.
«Le aziende elettriche, la Japan Atomic
Power Company e la Kansai Electric Power
Company, seppero ammorbidire la popolazione. Mandavano manodopera e denaro per le
feste locali, invitavano le ragazze dei villaggi
alle cene con i giovani dipendenti. Con questi
e altri espedienti astuti, le compagnie riuscirono a neutralizzare la diffidenza, che all’inizio
era molto diffusa nella comunità locale, e a ridurre a minoranza le opposizioni».
Costruita la prima centrale, i comuni limitrofi cominciarono a voler ospitare nuovi impianti, attratti dalla prosperità piovuta sul comune di Tsuruga anche grazie ai massicci incentivi pro-nucleare del governo, che divennero la risorsa principale nel bilancio degli enti locali. «Non è che la diffidenza verso il nucleare sia dissipata», precisa Masaru che ha vissuto sempre in queste parti. «Anzi, la gente diceva rassegnata, ‘avremmo fatto a meno del nucleare, se avessimo avuto una miniera d’oro’.
Ma, vedete, qui non c’è nulla a parte la pesca». Così spuntarono altri impianti, uno dopo l’altro: negli anni Settanta tre reattori a
Mihama, nella bellissima baia all’ovest di Tsuruga, seguiti dalla centrale di Takahama a
ovest, con quattro unità realizzate tra il 1979 e
1993 e altri quattro reattori a Ooi, a metà strada tra Mihama e Takahama. Infine all’inizio
degli anni Novanta sorse il famoso reattore
nucleare autofertilizzante di Monju, in una
piccola bellissima baia abitata da 15 famiglie
ma senza un accesso asfaltato, sul versante
opposto della penisola dove si trova la centrale di Tsuruga. «Anche la decisione su Monju
non è stata indolore. Alla fine in quella piccola frazione hanno detto: siamo già circondati
dalle centrali ed esposti al rischio; allora, che
senso ha resistere rinunciando al beneficio?».
Solo Obama ha rifiutato
Solo il comune di Obama, situato tra Ooi e
Mihama, ha resistito a questa micidiale tentazione e respinto più volte le offerte. Come ha
Viaggio nella provincia di Fukui,
a nord dell’antica capitale Kyoto,
che ospita 14 reattori
in meno di 60 chilometri e non riesce
a uscire dagli affari nucleari
fatto, questa piccola città portuale che nel medioevo fungeva da finestra aperta per la capitale Kyoto rivolta alla penisola coreana? «I pescatori locali erano spaccati in due gruppi», ricorda il nostro autista. «Parlo degli anni Settanta, l’epoca in cui tutti i comuni della zona
erano assiduamente corteggiati dalle aziende
elettriche. Il leader della cooperativa dei pescatori oppositrice al progetto andò a chiedere al parlamentare conservatore eletto nel nostro collegio se gli sarebbe piaciuto avere davanti a casa una centrale. Alla risposta negativa del deputato, il sindacalista gli comunicò
che gli abitanti erano disposti a fare a meno
del nucleare se lui avesse potuto garantirgli
una strada asfaltata. In numerose occasioni
successive, elezioni del sindaco o petizioni di
entrambe le parti, gli abitanti hanno espresso
volontà nettamente contraria alla costruzione, 13 o 14 mila contro e 3 o 4 mila a favore».
Mentre l’auto prosegue sulla statale bordata da cumuli di neve, l’autoradio trasmette le
notizie locali: «… dopodomani si riprendono
le indagini geologiche sotto la centrale di Ooi.
L’anno 2012 era iniziato con la notizia degli
stress test per questo impianto vista l’urgenza
di riattivarlo per evitare un blackout estivo,
ora chiuderemo l’anno con notizie che potrebbero determinare le sorti della centrale».
Le esperienze di Fukushima non spaventano Fukui? A quanto pare, il governatore qui
non le sente come minaccia seria e immediata, nonostante la forte perplessità espressa
dai governatori delle provincie confinanti, Shiga e Kyoto. Su questo punto la posizione di
Nishikawa si distingue anche dal suo omologo della provincia di Niigata, che ospita a
Kashiwazaki-Kariwa otto reattori della Tepco,
la compagnia elettrica proprietaria dell’im-
pianto di Fukushima-Daiichi. In Niigata, dopo il forte terremoto del 2007 che rivelò la fragilità della centrale, l’atteggiamento del governatore è diventato molto più cauto – là inoltre
gli abitanti hanno recentemente promosso
un referendum popolare sul futuro rapporto
della provincia con il nucleare.
«Ciò non significa che gli abitanti della provincia di Fukui condividano la percezione del
governatore», precisa Masaru. «Anche chi
non si oppone al nucleare qui ritiene ingiustificabile una concentrazione così alta di reattori sul nostro territorio. E in fondo sa che non
si può andare avanti con i rifiuti radioattivi e i
combustibili esausti che stanno riempiendo i
depositi. Prima o poi saremo costretti ad affrontare questo problema».
In realtà, nemmeno il governatore di Fukui
è attaccato al progetto nucleare in sé: a creargli la vera dipendenza è il giro di denaro. Nel
2010, su circa 188 milioni di euro di incentivi
per gli enti locali che ospitano gli impianti nucleari, oltre il 40% è entrato nella cassa della
Provincia (la percentuale sale al 60 % sugli ultimi 24 anni). Insomma: strade, servizi e posti
di lavoro si pagano solo con l’atomo in casa.
Ooi, la minaccia tra le montagne
Dei quattro siti nucleari visitati, il più impressionante è la centrale di Ooi. Dopo aver
corso per 15 minuti lungo la costa tortuosa
partendo dal centro di Obama, l’auto si ferma
in fondo a una stradina che finisce davanti a
un minuscolo frangi-onde circondato da piccoli promontori verdi, scuri: sembra di stare
sulla riva di un lago tra le montagne. D’improvviso eccolo: dalla nebbia emergono due
panettoni grigi, seminascosti dal promontorio di fronte a noi. Durante i dibattiti sulla riat-
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 9
REPORTAGE
lla trappola nucleare
FUKUSHIMA DOPO IL TERREMOTO /REUTERS
A DESTRA LA CENTRALE COLPITA,
IN BASSO PROTESTA ANTINUCLEARE
A TOKYO /REUTERS
tivazione delle unità tre e quattro di questa
centrale, mesi fa, gli abitanti di Obama chiedevano di avere voce in capitolo, perché esposti
a un pericolo maggiore e più diretto che gli
abitanti del comune di Ooi. Dopo questo sopralluogo il loro terrore si spiega.
Riaccompagnandoci alla stazione, Masaru
ci chiede consigli per rendere più efficace
l’opposizione locale contro il nucleare. Malgrado le numerose difficoltà, lui crede nella
possibilità di cambiare la situazione, perché
da anni pratica un dialogo maieutico con i sostenitori locali del nucleare: dice che quasi
nessuno gli chiude la porta in faccia, trova
sempre un terreno comune e sentimenti condivisibili con gli interlocutori. Il fotografo suggerisce di proporre all’amministrazione
un’evacuazione simulata nel raggio di 30 chilometri: «Servirà a tutti per rendersi conto del
grado di praticabilità, dell’inadeguatezza dell’infrastruttura – se ci fosse un incidente sulla
statale 27? Come faremmo a fuggire? – Sarà
chiaro l’impossibilità di proteggere tutti. Ditegli inoltre che non potranno ritornare a casa,
non per qualche giorno ma per diversi anni!
Molti si convinceranno che il denaro del nucleare non vale la vita».
La visita a Fukui riporta alla mente il confronto tra la storia di Minamata e le vicissitudini in corso a Fukushima. Aileen Miyoko
Smith, fondatrice e direttrice dell’organizzazione non governativa giapponese Green Action, che lavora da più di vent’anni contro
l’energia nucleare, non è l’unica a farci notare
le somiglianze tra le due esperienze. «Non riconosco nessuna differenza sostanziale tra i
casi dell’inquinamento industriale e quello
nucleare», dice anche l’avvocato Chuko Kondo che all’inizio degli anni Settanta diresse
un collegio difensore delle vittime di un altro
caso simile a Minamata, la malattia Itai-itai,
scoppiata a Toyama nel Giappone centrale.
Fu quel caso a segnare la prima vittoria processuale nella lunga storia di sconfitte subite
dalle vittime di inquinamenti industriali che
lo sviluppo seminava in varie parti dell’arcipelago. Oggi Kondo, a ottant’anni compiuti, si
dedica completamente a due processi contro
il nucleare: uno a Fukushima per la difesa dei
diritti di evacuazione, l’altro a Kyoto per la sospensione immediata della centrale di Ooi. «I
metodi dei carnefici sono sempre uguali, e pure le nostre difficoltà. Se il nostro caso di Itaiitai ha avuto una serie di fortune – i media dalla nostra parte, l’unità delle vittime e l’umanità dei giudici – , per le vittime di Minamata,
sparse in area più estesa e fatte litigare tra di
loro, la battaglia fu molto più lunga».
Il fatto che queste difficoltà aumentino anche a Fukushima, a quasi 22 mesi dal disastro, preoccupa molto Aileen e tanti altri attivisti. Occorre aiutare le vittime senza creare
ulteriori lacerazioni in famiglie, nelle scuole,
al lavoro e nel tessuto sociale. «I malati di Minamata hanno sofferto e soffrono ancora dopo 50 anni», ricorda Aileen. «Dobbiamo evitare che Fukushima riproduca una simile tragedia senza fine». yukari saito
IN VISITA UFFICIALE · Nella zone colpite
La decontaminazione
è solo di facciata
Monica Zoppè
FUKUSHIMA
S
ullo sfondo montagne innevate, boschi e ruscelli in parte ghiacciati. A fondovalle,
tra i campi nel riposo invernale,
gruppi di case sparse, ognuna con
il suo orticello, i vasi di piante e fiori, la bicicletta parcheggiata e il
sentiero di accesso che invita alla
porta. Solo che non c’è anima viva: tutto è come sospeso.
Siamo a Iitate, sui monti che separano i paesi della costa dall’entroterra in cui siede la città di
Fukushima. Viaggio con una delegazione internazionale, riunita grazie a un gruppo di associazioni
giapponesi contro il nucleare, che
ha organizzato Nuclear Free Now!,
conferenza globale per un mondo
libero dal nucleare. L’occasione
l’ha fornita il governo giapponese,
che insieme alla Agenzia Onu per
il nucleare (Aiea) ha indetto la
Conferenza Ministeriale sulla Sicurezza Nucleare (Fukushima Ministerial Conference on Nuclear Safety) con l’intento di tranquillizzare la popolazione e rilanciare il nucleare in Giappone. Tra gli scopi
della conferenza Nuclear Free
Now! c’è proprio quello di contrastare il tentativo di chiudere il sipario su Fukushima, magari dichiarando il «cessato allarme», e amplificare invece le voci delle vittime
locali, i cui problemi sono ben lontani dall’essere risolti.
La mia presenza, quale testimone della vittoriosa battaglia refe-
rendaria contro il nucleare in Italia, ha anche lo scopo di diffondere fuori dal Giappone la vicenda di
queste persone (centinaia di migliaia) che dopo il momento iniziale sono ora lasciate a se stesse, in
balia delle istituzioni governative.
Prima di partire, alcune raccomandazioni: «Questa zona è soggetta a continue scosse e rilasci di
materiale contaminato: se succede qualcosa seguite le istruzioni e
usate la maschera per evitare di respirare particelle radioattive. Al
rientro stasera pulite bene le vo-
FUKUSHIMA
stre scarpe e fate una doccia completa, lavando accuratamente soprattutto i capelli a cui possono
aderire le particelle». Incoraggiante. Per fortuna il giornale di oggi,
insieme alle previsioni del tempo
e al tasso di inquinamento, segnala che il livello di radioattività è limitato.
Durante il viaggio in pullman,
un giovane di Iitate, uno dei paesi
evacuati, ci racconta il momento
dell’esplosione, i giorni successivi
e infine l’evacuazione. Iitate, un
paese di circa 6.300 persone, dista
oltre 30 chilometri dalla centrale
di Fukushima Daiichi, ma si trovava sotto vento ed è stata colpita in
pieno dalla piuma radioattiva. I
primi ad afferrare la situazione furono i giovani, che hanno cominciato a organizzarsi prima delle
raccomandazioni del governo, arrivate con oltre una settimana di ritardo. Le indicazioni, riferisce la
nostra guida, furono di allontanarsi dal paese, ma entro il comune
di Fukushima, entro un raggio di
circa un’ora di spostamento. Tuttavia i rifugi di città erano già occupati dalle vittime del terremoto e
dello tsunami, e ci vollero oltre tre
mesi per trovare una sistemazione
a tutti gli abitanti.
Fatto sta che, una volta evacuati, gli abitanti di Iitate si trovano in
condizioni difficili: molte famiglie
vivevano in grandi case multi-generazionali, mentre i rifugi sono
di solito singole stanze sparse in
tutta la città. E va ancora bene
quando erano almeno vicini di casa. Sono assai frequenti i casi in
cui una persona – di solito il padre - è rimasto in zona, dove nonostante il divieto di residenza
molte aziende sono ancora attive,
mentre madre e figli si sono spostati in aree non contaminate.
Questo ha sfaldato il tessuto sociale, sia all’interno delle famiglie
che nelle comunità, in cui non c’è
accordo su quale condotta tenere. Infatti il governo riconosce un
risarcimento agli evacuati, ma solo quelli «autorizzati»; e la situazione potrebbe cambiare a breve, se
verranno innalzati i limiti di tolleranza sulle radiazioni e se saranno considerate abitabili alcune
aree «decontaminate».
Ma è possibile decontaminare
un’area di montagna? Il governo
giapponese ha inviato le ruspe per
asportare i primi 15-20 cm di terreno dai campi coltivati, nella speranza di ridurre la contaminazione e rendere vivibile l’ambiente,
ma l’impresa è disperata: si potranno lavare i tetti (col risultato
che la polvere radioattiva passa
nell’acqua e poi direttamente nella terra), si potrà accumulare suolo contaminato in grandi cumuli
(nessuno sa che fine faranno), ma
non sarà mai possibile lavare i boschi, i prati, i ruscelli. Per gli abitanti di Iitate la vita come prima è
ormai perduta per sempre. Anche
la gestione della «decontaminazione ambientale locale» è molto dibattuta: il lavoro stesso di rimozione della terra e lavaggio dei tetti è
pericoloso per chi lo conduce,
spesso giovani, e molti ritengono
che non sia risolutivo di nulla: anche ammesso che alcune aree ben
delimitate possano tornare «pulite», la parte fertile del suolo viene
rimossa, vanificando anni e anni
di coltivazioni spesso biologiche
e/o biodinamiche.
Infatti, questa comunità di montagna aveva sviluppato un sistema
di economia solidale e alternativa
grazie anche all’apporto di perso-
Chi è rimasto chi è
fuggito, quel che resta
delle comunità
che le autorità
tranquillizzano ma
non proteggono
ne che, un po’ come è successo da
noi, lasciavano la vita di città per
tornare a un modello più naturale,
coltivando la terra, raccogliendo i
frutti del bosco e cacciando i cinghiali che abbondano qui, come
nei nostri boschi. Era diffuso l’allevamento di mucche di qualità, famose in tutto il Giappone; alcuni
avevano galline o anatre, altri coltivavano i campi, lavoravano la legna e fabbricavano oggetti tradizionali. Spesso gli scambi tra paesani avvenivano in natura, secondo un’economia ricca più di qualità che di denaro, e un modello fatto di relazioni tra persone, di amicizie e discussioni, di condivisione
di beni come il bosco, i suoi frutti,
la legna...
Si capisce che per queste persone, finire in alloggi temporanei in
qualche periferia senza terra né
boschi equivalga alla distruzione
della loro vita. Molti oggi soffrono
per il fatto di essere lontani dalla
famiglia e senza alcuna attività, il
disagio di vivere chiusi in un appartamento, loro, abituati al lavoro magari duro, che dava un senso
alla loro vita di contadini - senza
parlare delle famiglie disperse.
Pochi chilometri e qualche valle
più in là, la situazione è diversa
ma non migliore. Oguni, frazione
nel comune di Date, è più vicina
alla città di Fukushima, a 55 chilometri dalla centrale esplosa; qui i
livelli di contaminazione sono stati evidenziati solo grazie all’intervento di un’associazione francese,
in seguito alle cui denunce, e con
gravissimo ritardo, le autorità hanno identificato una serie di punti
specifici per cui si raccomanda
l’evacuazione (Specific Spots Recommended for Evacuation): solo
intorno a metà giugno 2011, oltre
tre mesi dall’inizio dell’esposizione.
Qui alcune case sono state evacuate, mentre altre magari a pochi
metri di distanza sono state classificate «vivibili». I criteri adottati
dal governo per decretare l’evacuazione di alcuni nuclei familiari
comprendono fattori diversi, tra
cui la presenza di bambini e il livello di contaminazione. Tuttavia
questo ha significato disgregare il
tessuto sociale: perché questo «altrove» si può trovare a pochi chilometri come a diverse centinaia.
Qui gli abitanti si sono organizzati, hanno acquistato collettivamente uno strumento affidabile
per la misurazione della radioattività e hanno compilato una mappa dettagliata della valle. I contadini organizzati portano al centro
autogestito i loro prodotti prima
di mangiarli o di metterli sul mercato locale. Anche qui però il paesaggio è dominato dai grandi cumuli, coperti di teli blu, sotto i
quali è «nascosto» il suolo radioattivo. Quest’operazione è spacciata per «decontaminazione», al
punto che alcune aree in cui è stato raggiunto un livello di esposizione minore di 20 millisievert
(mS) annui, sono poi dichiarati
«puliti». Ma trasferire materiale
contaminato da un campo all’altro non risolve il problema, semplicemente lo sposta; d’altra parte
anche il livello di 20 mS annui,
che corrisponde al massimo ammesso in Italia per i lavoratori
esposti per ragioni professionali,
non è un livello di sicurezza accettabile per la popolazione.
Per questo ci sono associazioni
che cercano di organizzare soggiorni per i bambini in aree decontaminate. Infatti, se la provincia di
Fukushima conta in totale circa
160.000 sfollati ufficiali, di cui oltre la metà fuori dai confini provinciali, per Iitate, la frazione di abitanti che si sono allontanati è solo
dell’11%.
Durante la nostra visita ai paesi
della provincia di Fukushima, abbiamo incontrato diverse stazioni
di misurazione della radioattività,
disposte dalle istituzioni per monitorare la situazione. Nella delegazione con cui viaggio, che include
esperti provenienti da molti paesi,
molti sono attrezzati con contatori Geiger. Ebbene, in tutte le postazioni i dati rilevati dai nostri contatori sono sempre molto superiori,
a volte doppi, rispetto a quelli rilevati dagli strumenti ufficiali, che
sono spesso posizionati in modo
da attutire la radiazione, sopra
piattaforme di cemento, magari
con lastre isolanti nelle vicinanze.
Più che proteggere la popolazione, sembra che la maggiore preoccupazione delle autorità sia «tranquillizzare». E il governo, ci spiegano, sta spendendo cifre enormi in
questa operazione: 50 milioni di
yen per abitante (circa 440.000 euro). Molti la ritengono un’operazione di facciata, tanto più che anche nelle aree «ripulite» il livello di
radioattività è ridotto al massimo
del 40%. Con una cifra equivalente, se corrisposta alle famiglie, le
persone potrebbero davvero ricostruirsi una vita in un’area pulita,
portandosi dietro il bagaglio di
un’esperienza che, se ha segnato
tutto il Giappone, per gli abitanti
della provincia di Fukushima significa avere un nuovo scopo: combattere il nucleare sempre e ovunque.
pagina 10
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
CULTURA
ARCHEOLOGIA A RISCHIO
Quel black out
della civiltà
Orlando Cerasuolo
T
ra i vanti della cultura storica del nostro
paese vi è senza dubbio la Scuola archeologica italiana di Atene, un’istituzione attiva sin dal 1909. La Scuola, spesso chiamata
semplicemente con il suo acronimo Saia dagli
addetti ai lavori, promuove da oltre un secolo
gli studi archeologici, storici, filologici e architettonici dedicati alle antichità della Grecia e
del Mediterraneo centro-orientale e rappresenta la destinazione ideale per gli studiosi italiani
e stranieri che conducono ricerche e scavi archeologici in queste zone.
Le sue principali attività riguardano la formazione e la ricerca. La Scuola infatti, nella sua sede di Atene, offre un’intensa attività didattica,
tenuta da docenti di levatura internazionale,
che copre dalla preistoria micenea alla cristianità bizantina, dallo studio delle fonti antiche alla
ricerca archeologica, dalla topografia all’analisi
architettonica dei monumenti. La ricerca è, sin
dalle sue origini, un punto di forza della Scuola: scavi e indagini di superficie, realizzati con
le più aggiornate tecnologie e con il coinvolgimento di numerosi istituti universitari italiani,
sono stati condotti a Creta, a Lemno, ad Atene,
a Sparta, in Acaia e in Messenia, per limitarsi ai
progetti più recenti e ancora in corso.
I risultati di tutte queste attività sono costantemente rese note grazie ad una notevole produzione editoriale, che ha come elemento chiave il prestigioso Annuario della Scuola - di cui è
da poco uscito l’89˚ volume -, ed è arricchita da
altre due collane e da una lunga serie di monografie. Uno dei più recenti risultati, in questo
ambito, è quello della realizzazione di un primo atlante topografico dei monumenti di Atene nell’ambito della collana di «Studi di archeologia e di topografia di Atene e dell’Attica», fortemente voluto dal professor Emanuele Greco,
l’attuale direttore dell’istituto. Inoltre è stato recentemente aggiornato il portale internet della
Scuola (www.scuoladiatene.it), in cui possono
essere recuperate tutte le informazioni relative
alle molteplici attività in corso e dove, tra l’altro, è possibile scaricare in formato .pdf il notiziario della Saia.
Per chi frequenta in Italia il mondo dell’archeologia, la Saia rappresenta un istituto di eccellenza, da cui sono passati molti dei più illustri studiosi che oggi portano avanti università
e soprintendenze del nostro paese. Un legame
particolare esiste con l’Accademia nazionale
dei Lincei, uno dei più antichi e prestigiosi centri della cultura europea, che quasi ogni anno
mette a disposizione borse di perfezionamento
per trascorrere alcuni mesi alla Saia. Sono le
borse di studio «Clelia Laviosa», dalla studiosa
che con un lascito le ha rese possibili.
Ogni anno, una decina tra dottorandi e postdoc, condividendo tutti gli aspetti della vita
La Saia, scuola
archeologica
italiana di Atene,
lancia l’appello
per la salvezza.
È l’istituto
di eccellenza,
che ha formato
le migliori
professionalità
del nostro paese
quotidiana, hanno la possibilità di fare viaggi di
studio Grecia e in Asia Minore, assistere a conferenze, visitare mostre, e quindi portare avanti
i loro progetti di studio, ciascuno con diversi tagli metodologici e differenti orizzonti cronologici. Per periodi più brevi, la Scuola ospita decine
di dottorandi e laureandi di varie università italiane convenzionate con la Saia (come ad esempio Catania, Palermo, l’Orientale di Napoli o la
Ca’ Foscari di Venezia, la Sapienza di Roma, Salerno, Padova, Milano), ma anche architetti
che si occupano di restauri, conservazione e
studio dei monumenti e funzionari delle Soprintendenze archeologiche italiane, che qui
possono partecipare a corsi di perfezionamento. La presenza di studiosi stranieri rende l’istituto un’interessante miscela di competenze e
di interessi accademici. Il centro della vita alla
Scuola è senz’altro la grande biblioteca, che
contiene oltre cinquantatremila volumi, tra cui
alcune rarità e - ovviamente - le più recenti pubblicazioni italiane di archeologia. Il soggiorno
presso la Saia consente di avere accesso anche
agli archivi, che tra l’altro conservano alcuni
preziosi documenti delle attività eseguite dagli
italiani nel Dodecaneso durante il periodo di
occupazione militare, cioè tra il 1912 e il 1943, e
degli altri progetti condotti da coloro che hanno maggiormente dato impulso all’attività della Scuola, come ad esempio Federico Halbherr,
Luigi Pernier, Alessandro Della Seta, Doro Levi
e Antonino Di Vita.
Benché alcune delle scoperte effettuate dagli
italiani in Grecia siano ormai scritte nelle pagi-
ne della storia e riconosciute a livello internazionale, a cominciare dalla scoperta della Lunga Iscrizione di Gortina o da quella del celeberrimo Disco di Festo, non tutto ciò che riguarda
la Scuola archeologica italiana ad Atene è rose
e fiori, e questo nel pieno del quadro delle grandi difficoltà economiche e culturali che vivono
sia l’Italia che la Grecia di oggi.
La Scuola, come altri istituti culturali, soffre
ormai da alcuni anni di una grave crisi. Periodicamente, come i più attenti lettori sapranno, si
paventa il rischio di chiusura e si verificano costanti tagli che mettono in grande difficoltà anche la quotidiana gestione dell’istituto. Ciò avviene principalmente a causa dei drastici e deprecabili tagli che da decenni colpiscono i due
Ministeri cui è sottoposta la Saia: il Ministero
per i beni e le attività culturali (Mibac) e il Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca (Miur). Tra il 2001 e oggi, il finanziamento
pubblico alla Scuola è passato da un milione di
euro a circa trecentosettantamila euro (che è
quanto previsto nella legge di stabilità per il
2013), ben al di sotto di quanto sono le spese vive per il mantenimento della struttura e del personale. Proprio per questo motivo, il direttore
della Scuola, pochi giorni fa, ha nuovamente richiamato l’attenzione sul problema e ha lanciato una raccolta firme on-line che è opportuno
sostenere
(http://firmiamo.it/troppitagli—rischio-chiusura-della-saia).
Nella speranza che l’anno nuovo possa vedere un significativo cambio di «rotta», si può
chiudere con una nota positiva. Nonostante tutte le difficoltà di cui si è detto, proprio quest’anno si può festeggiare la riapertura della Scuola
di specializzazione in beni archeologici presso
la Scuola di Atene. Il bando si può trovare nel sito web e scade il 18 gennaio.
Si spera, quindi, che i quattro vincitori di tale
concorso possano negli anni futuri assistere ad
un miglioramento delle condizioni dell’istituto,
e della sua considerazione da parte degli amministratori centrali, e che più luminose prospettive si aprano per la gloriosa storia della Scuola
archeologica di Atene.
INTERVISTA · Parla il direttore Emanuele Greco
Lo studio dell’Acropoli
non si può monetizzare
Or. Ce.
E
manuele Greco, nato a Taranto il 18
dicembre 1945, è professore ordinario di archeologia classica all’università di Napoli «L’Orientale» e dal 2000 direttore della Scuola archeologica italiana
di Atene. Si occupa prevalentemente di topografia e urbanistica del mondo greco e
di colonizzazione greca dell’Occidente.
La Scuola archeologica italiana di Atene, così come altri prestigiosi istituti
culturali del nostro paese, vive periodicamente il rischio di chiusura e da alcuni anni subisce costanti tagli al bilancio.
Quali sono le motivazioni ufficiali di tale
politica amministrativa? Ma soprattut-
Bisogna interrogarsi su cosa
dobbiamo chiedere all’antico nell’era
dello spread e dell’alta finanza.
Anche la politica, con le sue riforme
scolastiche, ha molte responsabilità
to, la sola dimensione economica di istituzioni come la Saia è sufficiente a valutare i benefici della loro esistenza?
Un deputato della Margherita mi disse
anni fa, preso dallo sconforto, che evidentemente alla commissione bilancio tagliando i fondi alla Saia pensavano di dare un
serio contributo al risanamento del debito
pubblico. A parte la battuta, la Corte dei
conti, nella sua relazione annuale, chiede
in sostanza se valga la pena monitorare un
ente così povero la cui utilità sarebbe, oltre tutto, discutibile in base al rapporto costi-obiettivi. Ho protestato ricordando che
la Saia non è una fabbrica di bulloni ma
forma i giovani archeologi che sono destinati alla tutela del patrimonio dello Stato e
alle carriere universitarie, oltre a svolgere
e coordinare tutta l’archeologia italiana
nell’Egeo… io non sono in grado di monetizzare tutto ciò.
A scuola non si studiano più le lingue
antiche e la divulgazione culturale, e
archeologica in particolare, ha un carattere spettacolare, è priva di domande storiche e di contenuti. La vicenda della Saia sembra paradigmatica della perdita del valore del classico nelle società di oggi, in Italia come in Europa. Ciò sembra paradossale visto che le difficoltà sono economiche, ma hanno radici nella crisi culturale, di valori e di priorità....
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 11
CULTURA
A ROMA VANNO IN SCENA LE GIORNATE VIETNAMITE
Mostre, libri, convegni, film, forum sulla cooperazione. Dalle bellezze
naturalistiche alla lotta per la libertà, dagli anacardi all’eccellenza
industriale, la storia del Vietnam è più volte passata anche per
l’Italia. Dal 16 al 23 gennaio tutti avranno modo di scoprire in prima
LE PITTURE DEL SARCOFAGO
DI HAGHIA TRIADA
(XIV SECOLO A.C.);
LA GRANDE ISCRIZIONE DI GORTINA
(PRIMA METÀ DEL V SECOLO A.C.);
LA SFINGE IN TERRACOTTA DA UNO DEI
SANTUARI DELL'ISOLA DI LEMNO
(VI SECOLO A.C.)
TROVATA NEGLI SCAVI DEGLI ITALIANI
È IL SIMBOLO DELLA SAIA.
persona le mille sfaccettature di questa civiltà grazie alle Giornate
Vietnamite in Italia: in occasione del quarantesimo anniversario
dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra Vietnam e Italia,
l’Ambasciata della Repubblica Socialista del Vietnam in Italia ha,
infatti, organizzato, in collaborazione con enti e associazioni italiani,
una serie di eventi che animeranno la Capitale. Il calendario di
attività sarà aperto il 16 gennaio dalla mostra alla sede nazionale
della Cgil sulle solidarietà italiana negli anni ’60 e ’70 a sostegno
del Vietnam e dall’esposizione di quadri di pittori contemporanei
vietnamiti ospitata dalla sede della Provincia di Roma.
INTERNET · Il suicidio di Aaron Swartz, programmatore e attivista
L’enfant prodige che aveva
sfidato le major della Rete
linguaggio europeo dei diritti. Ma
la presidenza di Obama mette in
secondo piano la questione della
Rete. La crisi economica sta mettendo in ginocchio gli Stati Uniti e
a Washington pensano bene di
non inimicarsi nessuno nell’olimpo dell’alta tecnologia. Obama
guarda infatti a Apple, Google e Facebook come un possibile volano
per la ripresa americana. Convinzione che, a tutt’oggi, è stata smentita dalla realtà. Google sta ancora
cercando di capire come muoversi in una realtà che vede la convergenza tra telecomunicazioni e informatica. Apple ha perso il suo
guru. Il debutto in borsa di Facebook si è rivelato un flop.
Obama però ha compreso che
la Rete è diventato un potente medium e lo ha utilizzato tantissimo
nella campagna per il secondo
mandato. Aaron Swartz è diffidente, anche se dà il suo contributo. È
più interessato a condurre la battaglia contro un progetto di legge
chiamato Sopa – Stop Online Piracy Act -. Lavora a fianco di
Lawrence Lessig, prende la parola
in vari sit-in organizzati in giro per
gli Stati Uniti. Il suo volto esile, allungato, ma sempre sorridente diventa noto anche a chi non è un attivista digitale. Nei suoi speech invita a passare all’azione.
Fra le scoperte storiche
effettuate dagli italiani
in Grecia, la «Lunga
Iscrizione» di Gortyna
e il Disco di Festo
Lei tocca il cuore
della sciagura. Cominciamo dalla
pessima divulgazione fondata solo sul mistero e le scempiaggini derivate. Certo,
scontiamo anche una perdita di attenzione verso la storia antica di cui sono responsabili in primis gli addetti ai lavori che non
sanno trasmettere il senso delle loro ricerche in sintonia con le pulsioni culturali del
nostro tempo, lasciando il compito di divulgare agli imbonitori televisivi. E poi, diciamolo, anche la nostra classe politica
con le varie riforme scolastiche, ha le sue
responsabilità. Negli anni ’70-’80 quando
esplose l’attenzione per l’archeologia come scienza antropologica e fonte di storia
economica e sociale, al Bobo di Staino stralunato dal diverso orientamento della ricerca storica (niente Orazi e Curiazi, Muzio Scevola etc.) la figlia chiese se avesse
studiato la storia antica su Novella 2000.
Negli anni seguenti questa attenzione è venuta scemando a favore dei federalismi,
delle identità etniche e della storia di genere. Bisogna interrogarsi su cosa dobbiamo
chiedere all’antico nell’era dello spread e
dell’alta finanza. A qualcuno interessa ancora conoscere la storia dell’Acropoli di
Atene o esplorare il fascino eterno dei frontoni di Olimpia?
La Saia ha una funzione formativa di tipo
post-universitario. Nel quadro della disoccupazione e del precariato generale
che affrontano i neo-laureati, come giudica la preparazione universitaria antichistica, con una sempre maggiore divisione tra archeologia da campo e carriera accademica?
Altro tema di centralità assoluta che ha
agganci evidenti con tutte le altre sfere della formazione con il loro rapporto con il
mercato del lavoro. Di sicuro sappiamo
cha a fronte di un ricercatore universitario
lo Stato ha bisogno di almeno 10, se non
di più, funzionari preposti alla tutela. Forse sarebbe ora di intervenire con una programmazione più rigorosa, evitando il localistico proliferare delle scuole di specializzazione che sfornano centinaia di specializzati (a volte anche troppo rapidamente specializzati) destinati solo alla disoccupazione. Al tempo della riforma (la 382 del
1980) io ero tra i pochi contrari a quella separazione; almeno a livello della formazione generale sono sempre dell’opinione
che un archeologo debba avere una solida
preparazione culturale di base (che comprende le lingue classiche!)... le differenze vanno definite
dopo.
Lei vive direttamente la realtà
greca e guardare al di fuori del
proprio orto può
sempre essere
utile. Cosa ci può
insegnare l’esperienza ellenica nella gestione del patrimonio archeologico, ad esempio in
merito ad archeologia preventiva, apertura dei siti, allestimenti museali, permessi di studio, autorizzazioni di scavo?
Per rispondere bisogna tener conto innanzitutto delle specificità elleniche, a cominciare dal
numero degli abitanti (dieci milioni loro, sessanta
noi). Questo determina
una forte centralità della gestione, a volte eccessiva, anche se si tiene conto delle
differenze di grandezza. In
Grecia l’archeologia è un affare di Stato, gelosamente
amministrato e regolato da
leggi assai rigide, tutto sommato giuste e mirate al contenimento di quella che il nostro Pallottino
chiamava la libido effodendi. Di recente si
sono forniti anche di strumenti legislativi
sull’archeologia preventiva, anche se le
tecniche di scavo praticate a cominciare
dalle scuole straniere sono molto tradizionali.
È invece più che apprezzabile la capacità di organizzare mostre con grande efficacia comunicativa come quella sul relitto di
Anticitera al Museo nazionale di Atene. È
ovvio che in tempi di crisi l’attenzione
maggiore sia rivolta a quei grandi siti
(Acropoli, musei di Atene, Delfi, Olimpia
etc.) produttori di ricchezza grazie al turismo di massa.
Quasi mai si riconosce al patrimonio culturale un valore di risorsa non delocalizzabile e alla fruizione turistica una valenza strategica di primaria importanza,
con grandi potenziali economici. Non a
caso l’articolo 9 della nostra Costituzione affianca la tutela del patrimonio alla
promozione della cultura. Siamo oggi in
periodo di agende e di campagne elettorali, che politiche culturali suggerisce al
prossimo governo?
Dolenti note perché mai in nessun campo come quello dei beni culturali esiste
tanta distanza tra la elaborazione di modelli, denunce, progetti ed aspirazioni e la
pratica politica. Basta leggere la stampa
quotidiana per rendersene conto. Prepariamoci: nella campagna elettorale sentiremo dire le solite panzane sul patrimonio
culturale dello Stato che ha il 60, no il 70,
no il 75 % di quello mondiale, und so weiter come direbbe la Cancelliera. Fino al 22
febbraio a mezzanotte. Poi verrà, come
sempre il buio: per altri cinque anni.
La critica al Mit
DALLA PRIMA
Benedetto Vecchi
C’è sempre una zona
d’ombra in un suicidio.
Non bastano a spiegarlo
né lettere d’addio, né le parole degli amici più cari, dei familiari.
L’unica cosa certa è che qualsiasi
ragione per non togliersi la vita
perde valore agli occhi di chi ha deciso di aprire una porta, per chiuderla definitivamente alle proprie
spalle. Aaron Swartz, enfant prodige dell’informatica e attivista della
Rete si è ucciso negli Stati Uniti. In
molti si sono affrettati a dire che
negli ultimi mesi era depresso, nonostante la notorietà e un ragguardevole conto in banca, dopo che a
quattordici anni aveva sviluppato
un programma per la distribuzione dei contenuti in rete (Rss,
«Read simple Syndacation» o più
precisamente «Rdf Site Summery»), che consente di non solo di
poter aggiornare un sito, ma di poter conoscere commenti, variazioni a un contenuto pubblicato in
Rete. Aaron di anni ne aveva ormai ventisei, ma la sua giovane vita ha sempre viaggiato a «mille».
Capelli lunghi, viso esile e un sorriso che colpiva per la sua solarità,
Swartz ha cercato di trasformare
in realtà il motto della Rete: «The
information want to be free», l’informazione vuole essere libera.
La gallina dalle uova d’oro
Entrato all’Università di Stanford,
lascia le austere aule del campus
perché preferisce lavorare. Ha un
nome ormai noto nella Silicon Valley o la 128 route di Boston, i due
centri sinonimo di alta tecnologia.
Il suo ingresso nel mondo del lavoro passa attraverso la fondazione
di una piccola impresa di software, la Infogami, che si vuol specializzare nella memorizzazione e gestione di testi digitali. Dopo un anno, i finanziatori del progetto invitano Swartz ha fondersi con Reddit, società specializzata nella raccolta di news con una forte connotazione «sociale» o «comunitaria».
L’operazione non decolla e la fusione si rivela meno remunerativa
di quanto potessero sperare i suoi
protagonisti. Per quasi un anno, il
sito messo nato dalla fusione ha
pochissimi «frequentatori», che cominciano però a salire quando
Swartz prende in mano le redini
del progetto. Dopo un anno il sito
arriva ad avere oltre un milione di
contatti.
Il calendario ha girato da poco
tempo la boa del nuovo millennio.
La Rete parla il linguaggio dei social network e di Internet come
medium con la capacità di inglobare i vecchi media – giornali, tv e
radio -. Il nodo dei contenuti è essenziale: chi riesce a sbrogliarlo,
può diventare la gallina delle uova
d’oro. Facebook vuol diventare
quell’impresa; anche Google ambisce a ciò, forte di una base pressoché inarrivabile di utenti quotidiani; Apple ha assaporato il miele
dell’iTunes e parla sempre più frequentemente di volere vincolare
gli utenti a un’impresa che fornisce di tutto per stare in Rete – programmi e accesso ai contenuti -.
Sono imprese che hanno «modelli
di business » tra loro differenti, tutti si affannano per far profitti con
lo sciamare in Rete. È in questo
contesto che Aaron Swartz collabora a Wikipedia, dimostrando
l’affidabilità delle voci scritte da
«volontari». Entra in contatto con
Lawrence Lessig, il giurista che ha
sviluppato la licenza Creative
Commons per la distribuzione
«aperta» di software, musica, testi,
film.
Tra il docente di Harvard e poi
di Stanford e Swartz c’è forte empatia. Discutono molto su come
organizzare campagne di sensibi-
Accusato
di aver scaricato
materiali del Mit,
rischiava 50 anni
di carcere
lizzazione per contrastare la fobia
proprietaria sulla Rete. Swartz
non è però un teorico. Guarda con
simpatia la prima candidatura di
Barack Obama. Lo appoggia pubblicamente. Ma rimane nel backstage nel contribuire alla prima
campagna presidenziale del leader afroamericano. Nei primi mesi del primo mandato spera che
Obama mantenga fede agli impegni presi durante la campagna eletorale: nessun inasprimento delle
leggi sul copyright e maggiore attenzione al diritto di accesso alla
Rete come diritto universale, direbbe un esperto del compassato
Negli Stati Uniti, a differenza dal
vecchio continente, la libertà di accesso alla riviste scientifiche e alla
biblioteche digitali è un argomento che sta a cuore sia degli attivisti,
ma anche di una parte significativa della comunità scientifica. Inoltre, molte delle ricerche condotte
nei campus ricevono, sia pur indirettamente, finanziamenti pubblici. Pagare per accedere ai testi pubblicati è considerato «poco etico».
Swartz sa che uno dei maggiori
centri di ricerca del paese, il Mit,
pubblica riviste e ha biblioteche digitali a pagamento. Da qui la scelta di scaricare tutti i file della biblioteca digitale Jstor del Mit e renderli pubblici. Un gesto che costa
a Swartz pochi giorni di prigione.
Uscirà nel 2011 su cauzione. Giuristi, ricercatori, scienziati si schierano a suo favore. Il Massachussets
Institute of Technology decide alla fine che non lo perseguirà in tribunale. Non la pensa così la polizia, che qualifica il gesto di Swartz
come criminale e pericoloso per la
società più o meno come un omicida, uno stupratore. Lessig invita
Obama a ricorrere alla Corte suprema: il presidente statunitense
ha scelto però il silenzio. Alla prima udienza le accuse vengono
confermate: Swartz rischia cinquanta anni di prigione per un
processo che doveva svolgersi il
prossimo aprile. Chi lo avvicina
parla di un giovane sempre più depresso. Sta lentamente scivolando
in un buco nero. Ieri la notizia del
ritrovamento del corpo nella casa
di Brooklyn. Il primo reperto della
polizia parla di suicidio per impiccagione.
Il sorriso di Swartz si è così spento. L’omaggio viene dalla Rete. Lessig lo chiama figlio, i suoi familiari
puntano l’indice contro la polizia
e il Mit. Migliaia di messaggi si diffondono di nodo in nodo per la Rete. Anonymous «defaccia» alcuni
siti del Mit; a New York la veglia funebre si è trasformata in un happening per la libertà di circolazione e
diffusione della conoscenza. Non
era un eroe. Solo un figlio del suo
tempo, che ha deciso di stare dalla
libertà di circolazione delle informazioni e della conoscenza. Uno
di noi, che senza clamore è stato
anche dalla parte del torto.
pagina 12
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
VISIONI
Intervista •
Olivier Assayas parla di «Qualcosa nell’aria», nelle nostre sale giovedì.
Gli anni Settanta in Francia tra autobiografia, scoperta del cinema, invenzione del mondo
Cristina Piccino
ROMA
S
ul banco Gilles incide la A di
anarchia mentre il professore
legge un passo di Blaise Pascal: «Tra noi e l'inferno o tra noi e il
cielo c'è solo la vita, che è la cosa
più fragile del mondo». Gilles e i
suoi amici la vivono a perdifiato. Siamo all'inizio degli anni Settanta, nella provincia francese, il Maggio 68 è
ancora lì, sogno vitale di un'utopia,
gesto reale di una possibile rivoluzione. Gilles, Christine, Jean Pierre,
Alain, Maria sono liceali che hanno
fatto propria l’«aria» (e la sfida) del
tempo: la politica, la lotta contro l’ordine poliziesco, le scoperte della vita. Libertari contro i dogmi del partito comunista, diffidente nei loro
confronti, dei genitori, del sistema...
In una manifestazione a Parigi
proibita dalla prefettura (siamo nel
1971) un ragazzo, Richard Deshayes, anarchico, perde un occhio
per un colpo di granata sparato dalle brigate speciali in piena faccia. Il
movimento dei liceali scende in
piazza, Gilles e gli altri si scontrano
coi trotzkisti che vogliono assorbirli
nello schematismo ideologico ..
Après Mai, tra i migliori titoli dello
scorso concorso veneziano, arriva
nelle nostre sale (giovedì prossimo,
in 35 copie, distribuisce Officine
Ubu), un film appassionante in cui
il regista, Olivier Assayas, ripercorre
un’epoca chiave della nostra Storia
tra autobiografia e l’autofinzione di
una sincera prima persona. Dietro
alla figura di Gilles, il protagonista, è
facile intuire lo stesso Assayas: l’aspirazione di fare film, i dischi (Syd Barrett, MC5, Kevin Ayers), le letture (Simon Leys, Ashbury, Debord), la passione per la pittura. Protagonista è
dunque la generazione più giovane
del Maggio, a cui Assayas (classe
1955) appartiene, cresciuta in quel-
Maggio 68, racconto
amoroso della giovinezza
«Vivevamo un momento
di assoluta libertà
e di caos creativo.
Ma il dogmatismo
politico ha creato
barriere, è diventato
anche un dogmatismo
dell’immaginario»
l'epoca di battaglie, cambiamenti
ma anche disillusioni in cui ogni scoperta, un libro, un film, un incontro
erano un pezzo di vissuto, qualcosa
di intimo e insieme collettivo, un
personale/politico che affermava
uno stare al mondo.
Gilles ha una ragazza Laure, bella
e magrissima, che lo lascia per andare a Londra regalandogli Gasoline di
Gregory Corso. Poi c'è Christine,
che sembra non dubitare mai dell'impegno nella sua dolce fermezza,
il primo bacio con lei è nella sala bu-
ia (barthesiana seduzione laterale)
davanti allo schermo. Gilles è irrequieto, vorace, da Gli abiti nuovi di
Mao, critica alla Rivoluzione culturale cinese, a Orwell ai situazionisti e
Deleuze, ogni lettura è una rivelazione. Alla battaglia politica alterna lunghi momenti di solitudine lavorando ai suoi quadri.
Più che un film «storico» però
Qualcosa nell’aria è (quasi) un romanzo di formazione, il racconto
della giovinezza coi suoi slanci e i
suoi errori, come sempre nel cinema di Assayas, radicati profondamente nell'epoca che affronta. Ed è
questa la sua magia, e la sua libertà,
che permette al regista di evitare la
retorica della «ricostruzione» filtrata
dal presente. È invece il cinema la
lente attraverso la quale il movimento di quel tempo scorre, tra gli omaggi cinefili, Rossellini e il suo Viaggio
in Italia, e lo scontro interno al movimento che diviene lo scontro tra
l’idea di un fare cinema «impegnato», appiattito sulla realtà, e quello
di un cinema che il mondo, appunto, lo reinventa. L’immaginazione al
potere.
Ne parliamo con Olivier Assayas,
nel passato anche critico per i
Cahiers du cinéma, arrivato a Roma
insieme a due dei suoi splendidi attori, complici ineguagliabili in questa avventura, tutti non professionisti a parte Lola Creton (vista in Un
amore di gioventù di Mia Hansen Love; da Clément Metayer, Carole
Combes, India Salvor Menez, Félix
Armand...
UNA SCENA DA
«QUALCOSA
NELL’ARIA»;
A DESTRA,
I PROTAGONISTI,
LOLA CRÉTON
E CLÉMENT
MÉTAYER;
ACCANTO,
IL REGISTA
OLIVIER ASSAYAS
«Dopo Carlos (storia del terrorista
internazionale, ndr) avevo voglia di
un film intimo, di raccontare la storia della mia vocazione, perché sono diventato regista e non pittore,
come volevo in un primo tempo.
Poi, scrivendo la sceneggiatura, mi
sono accorto che quel che veniva
fuori era la storia della mia generazione cresciuta negli 70 che sono stati un grande momento di libertà, di
caos creativo e di anarchia. Ed è proprio quell’energia creativa diffusa,
che si è esplicata nell’arte, nella musica, nella vita sociale e nella politica, ciò che di quegli anni ancora colpisce come un unicum irripetibile».
Possiamo anche dire che «Qualcosa nell’aria» lega il Maggio 68 al
racconto di una giovinezza, come
già accadeva in uno dei suoi precedenti film, «L’Eau froide»?
In un certo senso sì anche se con
sfumature molto diverse. Tra i due
film c’è stato un breve racconto,
Une adolescence dans l’aprés-Mai
(2005) che è ancora differente, ed è
senz’altro il più autobiografico perché la scrittura costruisce una relazione a sé con l’autobiografia che
mi ha permesso di riconciliarmi con
quel periodo. Quando ho girato
L’Eau froide ero ancora a disagio
con tutto ciò che lo rappresentava,
le atmosfere, i colori, i vestiti. AprésMai invece è completamente immerso in quegli anni, volevo anzi restituirne visivamente e sensorialmente l’atmosfera.
Gilles, il protagonista, che è un
po’ il suo alter ego, ama Debord e
vorrebbe dipingere. Poi, come lei,
arriva al cinema ...
Però sono sempre debordiano come a diciassette anni quando ho conosciuto oltre a Debord la scuola di
Francoforte, Marcuse... Forse è stata
la solitudine a spaventarmi nel lavoro dell’artista, come dice il personaggio del film. Ricordo le ore solitarie
nel mio studio con le mie ossessioni: non lo sopportavo anche se dipingere era una qualcosa di vitale
per me. Il cinema invece è un’arte
che ha bisogno di una dimensione
collettiva, e io volevo esplorare quello che avevo intorno, spingermi più
lontano. Non ho mai pensato al cinema in modo introspettivo, al contrario è per me uno strumento con
cui avanzare nella comprensione
del mondo, che mi ha portato a girare in altri paesi come l’Asia.
E al centro del suo film c’è il cinema. Il diverso modo di interpretare l’immaginario, tra rappresentazione della realtà, impegno e invenzione sembra riflettere anche
le diversità del movimento e di lettura del 68.
È una questione centrale nel film,
anzi direi che questa dialettica ne è
stato il punto di partenza. Ci sono
qui due aspetti distinti.La delflagrazione del Maggio 68 in Francia, e della Summer Love in America, è un
momento culturale di bellezza e di
utopia. Un momento di assoluta libertà, di caos quasi anarchico in cui
viene messo in discussione tutto, ovviamente anche le strutture politiche tradizionali. Nel dopo-Maggio,
la militanza almeno in Francia, si
struttura in piccoli partiti molto rigidi, e se l’energia creativa del Maggio
68 sul piano artistico significava una
reinvenzione del mondo, il dogmatismo politico dell’estrema sinistra
nel dopo-Maggio ha prodotto anche un dogmatismo nella pratica
del cinema. C’è un vero e proprio antagonismo tra la controcultura del
Maggio francese o anche americana
o inglese e il dogmatismo politico di
un certo documentario sociale dell’epoca. Che, retrospettivamente,
ha un suo valore, allora infatti non
esistevano canali televisivi o di informazione che parlassero delle fabbriche e degli operai, ma era però molto diverso da un desiderio cinematografico.
Mentre tornava a quegli anni, le è
capitato di porsi delle domande
sul presente, su cosa ne è stato
di quell’energia, di quella voglia di
cambiamento?
La militanza e l’impegno politico
negli anni Settanta, specie subito dopo il Sessantotto, appartenevano alla maggioranza se non alla totalità
della gioventù. In questo senso possiamo dire che è stata una rivoluzione riuscita perché ha trasformato
nel profondo il paesaggio culturale,
le relazioni, il modo di rappresentarsi ... Il fallimento è stato invece sul
piano della politica e credo che la
causa principale di questo sia stato
il terrorismo. Ciò che accadeva in
Italia, in Germania, in Giappone ha
spaventato tutti. Anche laddove come in Francia è stato meno forte, si
è diffusa la stessa paura, e soprattutto l’idea che in quell’utopia ci fosse
qualcosa di sbagliato. La realtà è entrata con violenza nel sogno e a un
certo punto il divario tra queste due
dimensioni è diventato troppo forte, incolmabile.
Ci parli del suo lavoro con gli attori, che sono bravissimi. Come ha
costruito il rapporto tra loro e i personaggi del film?
Tutti i personaggi sono ispirati a figure reali, e scrivere il film mi ha anche permesso di riflettere meglio su
alcune dinamiche del tempo. Per
esempio il ruolo delle donne e il machismo che c’era nel movimento, i
maschi erano i militanti e le ragazze
avevano invece un ruolo secondario
nonostante condividessero lo stesso
grado di educazione politica. Da qui
è nato il femminismo. Gli attori sono per me essenziali, e una volta
scelti - il casting segna una tappa
cruciale della lavorazione - cerco
che le cose accadano, che tra il personaggio e il protagonista si crei una
relazione. E questa può essere molto diversa dalle idee astratte che avevo prima del processo di lavoro anche se deve rispondere all’immagine complessiva. È importante perciò creare l’ambiente giusto intorno
ai personaggi, specie se è un storico
come questo, e da qui lasciarli interpretare.
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 13
VISIONI
VASCO ROSSI
L’annuncio lo ha direttamente postato su Facebook. Il rocker di Zocca torna ad esibirsi dal vivo, dopo
i due anni di standby dovuti alla malattia e alle ricadute che avevano fatto temere il peggio.
«Le date - annuncia - saranno a giugno e vi verranno comunicate presto!». Nel frattempo Vasco Rossi
è in studio di registrazione dove sta completando un brano che sarà pubblicato a fine mese.
JON FINCH
L'attore britannico Jon Finch, interprete shakespeariano, è morto all'età di 71 anni. Scarsa ma
intensa la su attività su grande schermo, i suoi principali ruoli furono quelli in «Macbeth» di Roman
Polanski (1971), «Domenica maledetta domenica» (1971) di John Schlesinger, e, l'anno seguente,
in «Frenzy» di Alfred Hitchcock. Ultima apparizione al cinema, ne «Le Crociate» di Ridley Scott.
GOLDEN GLOBE
Affleck con Argo
«beffa» Spielberg
L
IL CAST DI «REVOLUTION» NELL’EPISODIO PILOTA, A DESTRA BEN AFFLECK
TV · Da stasera alle 21.15 su Steel la nuova serie prodotta da J.J. Abrahms
«Revolution», l’America
ha staccato la spina...
Nefeli Misuraca
P
er quanto gli italiani possano
amare la mamma, la lasagna e
la casa che le contiene entrambe, non hanno mai elaborato una parola comparabile a quella inglese di
«home». Per noi la casa è sempre il focolare domestico, per gli americani,
invece, quello che chiamano home
è soprattutto il luogo che non c’è –
che non c’è ancora, che non c’è più
–, un luogo da trovare, da costruire
e, soprattutto, quello a cui tornare. È
sempre l’eterno tema di una perduta età dell’oro, di una terra promessa e mai raggiunta, o raggiunta e poi
perduta a ossessionare l’America.
Per gli americani del villaggio globale home è divenuto il mondo, la terra messa in pericolo dalle minacce
all’ambiente (come testimonia il popolarissimo documentario cinematografico Home dedicato proprio alla Terra in pericolo), e sempre più
Il pianeta è senza
energia e niente
è più come prima.
Così gli uomini
ripensano la vita
opere televisive, ultimamente, si sono riferite a come sarà il pianeta terra. Le opere che descrivono il mondo che verrà sono di due generi, che
convergono l’uno verso l’altro e hanno inventato questo strano ibrido: il
docu-fiction.
Come Life After People, per esempio, il docu-fiction dell’History
Channel Life After People che consta
di una serie di documentari che tentano di riprodurre attraverso tecniche digitali l’aspetto del mondo dopo una repentina scomparsa dell’uomo, in cui il documentario si mescola alla messinscena narrativa per atti-
IN ONDA
«Bread and roses», il cinema militante
di Ken Loach sbarca in California
Su La 7 torna «Saving Hope», la nuova serie targata Ctv e Nbc, interpretata da Erica Durance (Smallville). Prodotta da Ilana Frank e
David Wellington, segue le vicende della dottoressa Alex Reid (Durance), la cui vita personale e professionale viene sconvolta quando il suo fidanzato, Charlie finisce in coma. «Amabili resti» di Peter
Jackson (2009) è la proposta in seconda serata - ore 23.10 - di
Italia 1. Dal best seller di Alice Sebold, la «vendetta» dello «spirito»
14enne Susie Salmon, violentata e uccisa, che cercherà di trovare
pace per sé, suo padre e tutti i suoi cari. Su Rai4 alle 21.10 «Bittersweet life», dove un capobanda sospetta il tradimento della compagna con un altro uomo. Sontuosa la regia del coreano Kim Jee-woon, affascinante il protagonista (Lee Byiun-hun). «Bread and roses»
- La7d ore 23.10 - vede un inusuale Ken Loach ambientare un suo
film in California, ma il tema è sempre quello del lavoro, che magari c’è ma è supersfruttato. Come accade ad alcuni immigrati reclutati da una ditta di pulizie. Con Elpidia Carillo e Adrien Brody.
rare nuovo pubblico, e serie tv che,
viceversa, usano uno sfondo documentaristico. A loro volta le fiction
hanno assunto una valenza quasi documentaristica. Una straordinaria
quantità di serie sul classico scenario da day after con forti influenze
dai sogni elettrici di Philip K. Dick,
specie quelli di Cronache del dopobomba. I parametri sono sempre gli
stessi: per un motivo spesso oscuro
la terra perde la tecnologia e perdendo la tecnologia perde l’ordine costituito che su questa si reggeva, dunque tutto quello che lo rendeva un
“mondo moderno”; un esiguo manipolo di uomini cerca modi di sopravvivenza in un ambiente dai tratti primitivi; la necessità di scoprire cosa
sia accaduto si mescola a quella di
salvare uno o più dei membri di
maggiore importanza del gruppo.
Lost, la creatura-parametro televisivo di J.J. Abrahms, che è madre e matrice di tutte queste serie del dopobomba, è anche quella in cui è meno importante lo sfondo documentaristico. Invece Jericho, per esempio,
ha raccontato in uno stile curiosamente simile a quello da Far West i
tentativi di un paesino di riorganizzarsi dopo un’esplosione nucleare
che li ha tagliati fuori dal mondo. E
ancora il jurassico flop di Spielberg
Falling Skies del 2011, nonché del
suo curioso Terra Nova.
Il problema di molte di queste serie, tuttavia, è che non si concertano
sull’elemento che sarebbe il più interessante, e cioè come facciano gli uomini a sopravvivere in una città invasa dagli zombie o in subcontinenti
in cui non c’è più acqua potabile –
tutti questi aspetti vengono messi in
secondo piano e la narrazione si concentra su aspetti narrativi spesso tan-
Rai1
6.45 UNOMATTINA Attualità
10.00 UNOMATTINA OCCHIO
ALLA SPESA Rubrica
10.25 UNOMATTINA ROSA
Attualità
11.00 TG1 Informazione
11.05 UNOMATTINA STORIE
VERE Rubrica
12.00 LA PROVA DEL CUOCO
Varietà
13.30 TG1 - TG1 ECONOMIA
Informazione
14.10 VERDETTO FINALE
Attualità
15.15 LA VITA IN DIRETTA
Attualità
18.50 L'EREDITÀ Gioco
20.00 TG1 Informazione
20.30 AFFARI TUOI Gioco
21.10
DON MATTEO 8
Telefilm
23.30 PORTA A PORTA
Attualità
1.05 TG1 NOTTE CHE TEMPO FA
Informazione
Rai2
13.00 TG2 GIORNO Info
14.00 SELTZ Rubrica
14.40 SENZA TRACCIA
Telefilm
15.25 COLD CASE Telefilm
16.10 NUMB3RS Telefilm
17.00 RAI PARLAMENTO ELEZIONI 2013 Att.
18.00 RAI TG SPORT - TG2
Informazione
18.45 SQUADRA SPECIALE
COBRA 11 Telefilm
19.35 IL COMMISSARIO REX
Telefilm
20.30 TG2 - 20.30 Info
20.55
CALCIO, COPPA
ITALIA: TIM CUP
QUARTI DI FINALE
INTER - BOLOGNA
Evento sportivo (Dir.)
23.00 TG2 - TG2 PUNTO DI
VISTA Informazione
23.15 I VISITATORI ALLA CONQUISTA
DELL’AMERICA FILM
con Jean Reno
a sorpresa è che il plurinominato, sponsorizzato Lincoln di Steven Spielberg - che per l’occasione domenica a Los Angeles aveva uno sponsor d’eccezione come Bill Clinton a presentarlo - non
ce l’ha fatta a vincere il Golden Globe. Incoronato al Beverly Hills Hotel
- dove si è svolta la cerimonia - è stato Argo, il film di Ben Affleck che
racconta la storia vera di una riuscita operazione dei servizi segreti americani durante la rivoluzione khomeinista in Iran. «È un film per tutti,
non solo per un pubblico americano - sottolinea Affleck dopo aver ritirato il premio- Non è fatto con l'idea di trasmettere un messaggio politico o di insegnare qualcosa; volevo raccontare i fatti e lasciare poi libero
il pubblico di riflettere sul tema del film con la speranza di toccare le
corde delle persone». A parziale risarcimento per Spielberg, la vittoria
di Daniel Day Lewis come «attore protagonista». Anne Hathaway - è miglior attrice non protagonista per il (breve) ruolo dell'operaia Fantine
ne Les Miserables, adattamento in musical dell’opera di Hugo, dove si è
imposto anche Hugh Jackman, miglior attore brillante.
Nel corso della serata condotta da Tina Fey e Amy Poehler, con l’appendice del coming out di Jodie Foster di cui parliamo a
fianco, due premi anche per
Django Unchained, di Tarantino, Christoph Waltz migliore
attore non protagonista, e lo
stesso Tarantino per la migliore sceneggiatura originale. Un
Golden Globe per il discusso
Zero Dark Thirty di Kathryn
Bigelow, conferito a Jessica
Chastain come «migliore attrice drammatica». Miglior film
straniero - ed è probabile che sia l’antipasto degli Oscar - a Michael Haneke con il suo Amour. Adele, vince per la migliore canzone originale
con Skyfall, tema dell’ultimo 007. I Golden globe per la tv hanno visto
l’affermazione per il secondo anno di Homeland, che si aggiudica i 3
premi maggiori: miglior serie tv drammatica, miglior attrice (Claire Danes) e miglior attore protagonista (Damian Lewis). La seconda stagione
andrà in onda in esclusiva per l'Italia su Fox (canale 111 di Sky) dal 30
gennaio, ogni mercoledì alle 21. Due i premi conquistati da Girls, lanciato da Mtv Italia (canale 8 del Dtt) miglior serie nella categoria Comedy e
Musical e miglior attrice di serie Comedy e Musical a Lena Dunham.
to triti da essere quasi ridicoli. Viviamo in un mondo elettrico, dice la voce fuori campo all’inizio di ogni episodio di Revolution – la nuova serie
partita il 17 settembre negli Usa e
che approda ogni martedì da stasera
alle 21.15 su Steel (bouquet Mediaset Premium), e vi facciamo affidamente per ogni cosa. E poi l’elettricità è scomparsa e tutto ha smesso di
funzionare. Non eravamo preparati
a tutto questo. La paura e la confusione hanno portato il panico. I più
fortunati sono riusciti a lasciare le
città. Il governo è crollato, l’acqua e
il cibo sono diventati introvabili…».
Prodotto da J.J. Abrahms, Revolution risente molto dell’influenza di
Lost: la derivazione è molto chiara
nel presentare un mondo in cui gli
uomini devono reinventare il modo
di sopravvivere, ma, contrariamente
alla serie più seguita degli ultimi dieci anni, Revolution ha, pur nel suo
approccio distopico, la natura di un
documentario. Tutto ciò che accade
nel telefilm è probabile – e, purtroppo, anche prevedibile – e tutto ciò
che accade è ritratto in un ambiente
documentaristico. Revolution, per
esempio, ha un’eroina prevedibilmente carina invece di un eroe,
Tracy Spiridakos, che è però altrettanto inespressiva. La recitazione
Rai3
12.00 TG3 Informazione
12.25 TG3 FUORI TG
Attualità
12.45 LE STORIE - DIARIO
ITALIANO Attualità
13.10 Prima tv LENA Soap
14.00 TG REGIONE - TG3
Informazione
15.10 LA CASA NELLA
PRATERIA Telefilm
16.00 COSE DELL'ALTRO
GEO Documentario
17.40 GEO & GEO Doc
19.00 TG3 - TG REGIONE
Informazione
20.00 BLOB Varietà
20.10 COMICHE ALL'ITALIANA Documenti
20.35 UN POSTO AL SOLE
Soap
21.05
BALLARÒ
Attualità
22.50 TRIBUNE ELETTORALI
- INTERVISTE Attualità
23.30 VOLO IN DIRETTA
Varietà
Rete4
12.55 LA SIGNORA IN
GIALLO Telefilm
14.00 TG4 Informazione
14.45 LO SPORTELLO DI
FORUM Real Tv
15.30 Prima tv Mediaset
RESCUE SPECIAL
OPERATIONS Telefilm
16.35 MY LIFE Soap
16.50 UN NAPOLETANO NEL
FAR WEST FILM
con Eleanor Parker
18.55 TG4 Informazione
19.35 TEMPESTA D'AMORE
Soap
20.30 WALKER TEXAS RANGER Telefilm
21.10
... ALTRIMENTI
CI ARRABBIAMO!
FILM con Terence Hill,
Bud Spencer
23.30 I BELLISSIMI DI R4
Rubrica
23.35 COMMANDO FILM
con Arnold
Schwarzenegger
Il vero coming out
è voltare pagina
Giulia D’Agnolo Vallan
N
on surrealmente kolossal come Clint Eastwood con sedia
alla convention repubblicana,
ma quasi altrettanto spiazzante e magnifico nelle verità della sua confusione, il discorso di Jodie Foster (sei minuti e più, quasi senza respirare ma privo
di un’esitazione) è stato il momento
più alto della settantesima cerimonia
dei Golden Globes –meglio di Bill Clinton (accolto da una standing ovation),
venuto a presentare Lincoln che poi
però non ha vinto. Il discorso con cui
l’attrice/regista ha accettato il premio
alla carriera della Hollywood Foreign
Press è stato alto non perché Foster ha
fatto per la prima volta in pubblico un
riferimento alla sua omosessualità, cosa risaputa da anni, e che lei non ha
mai cercato di nascondere. Ma perché
questa grandissima star del mistero
trasparente, che protegge con ferocia
la sua privacy senza però lasciar trapelare di volerla «difendere», ha optato
per un coming out più totale, completo. Disegnato secondo le sue regole. E
che ha lasciato tutti a chiedersi cosa voleva dire. Ma, soprattutto, cosa farà
adesso. Gli amici (Mel Gibson e Robert
Downey Jr, perché come Liz Taylor, Foster ama chi cammina sull’orlo del baratro), i figli (da sempre immuni agli
obbiettivi dei paparazzi, ma che domenica sera sorridevano al tavolo del Beverly Hilton), l’ex compagna Cydney
Bernard («la mia ex partner in amore,
ma la mia miglior amica in assoluto da
20 anni. Sono così orgogliosa della nostra famiglia moderna»), una madre
forse malata («so che sei da qualche
parte dietro a quegli occhi blu»)… Foster li ha citati e ringraziati tutti…svuotando in pochi minuti un potenziale
da decenni da tabloid. «No, questa sera non ascolterete un grande discorso
di coming out. Perché quello è successo secoli fa, nell’età della pietra», ha anche detto. E ancora: «ma non piangete
perché il mio reality è così noioso….
Ho dato tutto ciò che avevo da quando
ho 3 anni. 47 anni sono un reality lungo abbastanza». «Questa mi sembra la
fine di un’era e l’inizio di qualcosa di
nuovo. Eccitante e pauroso. E adesso?», ha aggiunto in chiusura. Quello
che succederà adesso Jodie Foster non
lo ha specificato. E forse non lo lo sa
neanche lei. Il suo non sembrava un discorso di addio alla carriera. Quanto il
segno di una determinazione di cambiare (qualcosa) rimanendo più che
mai fedele a se stessa.
del cast è sommaria (sguardi corrucciati in primo piano che qualche nota musicale deve riempire di drammaticità), e l’intera vicenda è scritta
tristemente con poca grazia. Durante la ricerca del fratello rapito dalla
Milizia che ha preso il potere sulla
terra, la Spiridakos («Charlie») incontra prima suo zio – che si rivela essere l’originale ideatore della milizia
ora pentito, poi una ribelle dalla pelle particolarmente lucida ma dai modi che tradiscono un quoziente intellettivo basso. L’unica cosa interessante della serie è che, di fatto, i protagonisti sono dei terroristi e non si
tirano indietro quando devono compiere delle imboscate o mettere a repentaglio la vita di altri civili. Del resto Revolution non si lascia sfuggire
nessun fraintendimento, storico, ideologico o culturale che sia, incluso
quello secondo cui la frase «il fine
giustifica i mezzi» sia stata veramente scritta da Machiavelli. Insomma,
in Revolution si torna a parlare di casa (genitori morti e fratello da ritrovare), di una casa che non c’è più, di
case fisicamente distrutte dalla guerra, di case impossibili perché nessuno riesce veramente a intrecciare
rapporti che costruiscano una famiglia, che è poi, forse, la traduzione
più giusta della parola «home».
Canale5
8.40 LA TELEFONATA DI
BELPIETRO Rubrica
8.50 MATTINO CINQUE
Attualità
11.00 FORUM Real Tv
13.00 TG5 Informazione
13.40 BEAUTIFUL Soap
14.10 CENTOVETRINE Soap
14.45 UOMINI E DONNE
Talk show
16.15 AMICI Reality show
16.55 POMERIGGIO CINQUE
Attualità
18.50 AVANTI UN ALTRO
Gioco
20.00 TG5 Informazione
20.40 STRISCIA LA NOTIZIA
Attualità
21.10
JODIE FOSTER
Prima tv Mediaset VI PRESENTO
I NOSTRI FILM con
Ben Stiller, Teri Polo
23.15 50 VOLTE IL PRIMO
BACIO FILM
con Adam Sandler
1.10 TG5 NOTTE Info
Italia1
8.45 EVERWOOD Telefilm
10.35 E.R. - MEDICI IN
PRIMA LINEA Telefilm
12.25 STUDIO APERTO
Informazione
13.00 SPORT MEDIASET
Notiziario sportivo
13.40 CARTONI
14.55 Prima tv FRINGE
Telefilm
15.45 WHITE COLLAR
Telefilm
16.30 CHUCK Telefilm
18.05 LA VITA SECONDO JIM
Telefilm
18.30 STUDIO APERTO
Informazione
19.20 C.S.I. Telefilm
21.10
NEXT FILM con
Nicolas Cage,
Julianne Moore
23.00 Prima tv Mediaset
AMABILI RESTI FILM
con Rachel Weisz
1.25 SPORT MEDIASET
Notiziario sportivo
La7
11.00 L'ARIA CHE TIRA
Attualità
12.20 TI CI PORTO IO... IN
CUCINA CON VISSANI
Rubrica
12.30 I MENÙ DI BENEDETTA
Rubrica (R)
13.30 TG LA7 Informazione
14.05 GAMBIT - GRANDE
FURTO AL SEMIRAMIS
FILM con Shirley
MacLaine
15.50 Prima tv La7 IN PLAIN
SIGHT Telefilm
16.50 IL COMMISSARIO
CORDIER Telefilm
18.50 I MENÙ DI BENEDETTA
Rubrica
20.00 TG LA7 Informazione
20.30 OTTO E MEZZO
Attualità
21.10
GREY'S
ANATOMY Telefilm
23.00 Prima tv SAVING
HOPE Telefilm
23.55 OMNIBUS NOTTE
Attualità
Rainews
18.30 TRANSATLANTICO
Attualità
19.00 NEWS Notiziario
19.25 SERA SPORT
Notiziario sportivo
19.30 IL CAFFÉ: IL PUNTO
Attualità
20.00 IL PUNTO
ALLE 20.00 Attualità
METEO Previsioni
del tempo
(all’interno)
20.58 METEO Previsioni del
tempo
21.00
NEWS LUNGHE
Notiziario
21.26 METEO Previsioni del
tempo
21.30 VISIONI DI FUTURO
Attualità
21.56 METEO Previsioni del
tempo
22.00 VISIONI DI FUTURO
Attualità
22.26 METEO Previsioni
del tempo
pagina 14
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
COMMUNITY
REGGIO EMILIA
LAZIO
Martedì 15 gennaio, ore 18
LA VIA DELLA COCA LA VIA DELLA
COCA Paolo Berizzi presenta il libro inchiesta «La bamba» (Dalai). Intervengono Elsa
Gati e Paolo Mezzana. Si tratta di un reportage firmato da un giornalista di inchiesta e
da un fotoreporter. Un collage di storie nato
da testimonianze sul campo e frutto di un
lavoro di ricerca nei luoghi della cocaina.
Intervengono Elsa Gati e Paolo Mezzana.
■ Via V. E. Orlando, 78, Roma
Martedì 15 gennaio, ore 20.30
NON SIAMO JAMES BOND Presso il
cinema Kino (via Perugia, 34), sbarca, in
contemporanea al cinema Apollo 11 (c/o
Itis Galilei, via Conte Verde, 51), il film «Noi
non siamo come James Bond», di Mario
Balsamo e Guido Gabrielli, recentemente
vincitore al Torino Film Festival del Premio
della Giuria presieduta da Paolo Sorrentino.
A entrambe le presentazioni interverranno il
regista del film Mario Balsamo, il regista e
direttore della Scuola Volontè, Daniele Vicari e il Presidente del Centro Sperimentale di
Cinematografia, Stefano Rulli. Alle ore 20 il
saluto all’Apollo 11, mentre al Kino i tre
presenteranno il film alle ore 20.30; gli
incontri post-proiezione si terranno, sempre
alla presenza di Balsamo, Vicari e Rulli
all’Apollo 11 alle 21.15 e al cinema Kino
alle ore 23.45.
■ Roma
LOMBARDIA
Sabato 19 gennaio, ore 21
SERATA ARRIGIONI Organizzata alla
Camera del Lavoro la serata «Restiamo
umani: in ricordo di Vittorio Arrigoni». L’evento prevede una rappresentazione teatrale
del gruppo Ibuka Amizero «...Abbiamo un
antenato marinaio?», parole , voci e teli
colorati legati alla striscia di Gaza e alla
figura di Vittorio. A seguire Egidia Beretta,
madre di Vittorio, presenterà, insieme a
Massimo Cirri, il suo libro «Il viaggio di Vittorio».
■ Camera del Lavoro Metropolitana,
Corso di Porta Vittoria, 43, Milano
PUGLIA
Mercoledì 16 gennaio
LA PRATICA DELLE DONNE Si apre
domani (16 gennaio-22 febbraio) il Festival
dei Saperi e delle pratiche delle donne. Nel
segno di Carla Lonzi. Figura di forza e intelligenza politica, nonché apprezzata critica
d'arte, Carla Lonzi ha dato vita al gruppo
milanese di Rivolta femminile. Quest'anno il
Festival affiancherà alla riflessione sui Saperi quella relativa alla Pratica, intesa come
ricerca di uno scambio equilibrato fra conoscenza e condizione materiale, soggettiva e
collettiva.
Maggiori informazioni e programma all’indirizzo web: www.cdcdonne.com
■ Sala Conferenze Centro degli Studenti, Università di Bari, piazza C. Battisti, Bari
TOSCANA
Mercoledì 16 gennaio, ore 16.30
CICALE OPEROSE Incontro con Anna
Santoro, autrice del libro «La nave delle
cicale operose. Una narrazione» (ed. Robin,2012 collana La biblioteca di domani).
■ Centro Donna Liliana Paoletti Buti,
largo Strozzi 3, Livorno
UMBRIA
Venerdì 18 gennaio, ore 17,30
ERESIA CRISTIANA Presentazione del
libro di Alessio Passeri «L'eresia cristiana di
Pier Paolo Pasolini. Il rapporto con la Cittadella di Assisi» (Mimesis Edizioni).
■ Libreria Musica & Libri, via S. Costanzo 16, Bastia Umbra
L’ex Br stroncato
da un infarto
dona le proprie cornee
P
rospero Gallinari è morto ieri mattina
a Reggio Emilia, in seguito a un arresto
cardiaco, mentre si accingeva a raggiungere la fabbrica dove lavorava come operaio addetto agli imballaggi. Il malore è giunto improvviso ma non inaspettato. Da molti
anni Gallinari era affetto da una grave cardiopatia che gli aveva procurato più di un infarto e qualche ischemia. Per questi motivi si
trovava agli arresti domiciliari nella propria
abitazione (con il permesso di uscita per motivi di lavoro) dove continuava a scontare la
condanna ai numerosi ergastoli che aveva subito per la sua militanza nelle Brigate Rosse.
Di questa organizzazione, Prospero Gallinari è stato uno dei dirigenti più conosciuti e
rappresentativi. Era nato a Reggio Emilia nel
1951, da famiglia contadina e comunista, e
aveva partecipato a tutte le vicissitudini di
quel gruppo dell’”appartamento”, che incarnava l’elemento di congiunzione fra la tradizione della rivoluzione tradita, diffusa nell’ambiente resistenziale del PCI, e quella della contestazione radicale confluita nella lotta
armata all’indomani della rottura del ’68.
Inoltre, aveva ricoperto ruoli operativi e dirigenti nella struttura delle Brigate Rosse, durante il periodo del sequestro Moro e della
più ampia diffusione dell’organizzazione
clandestina.
Arrestato una prima volta nel 1974 a Torino, era evaso dal carcere di Treviso all’inizio
del 1977. La sua militanza successiva si svolse essenzialmente a Roma, la cui “colonna”
diresse fino al momento della seconda cattura, avvenuta nel 1979 a seguito di una sparatoria con la polizia, da cui uscì gravemente ferito alle gambe e alla testa.
Le deposizioni dei pentiti lo indicarono
non solo come un componente del nucleo
che gestì l’azione di via Fani e il sequestro del
dirigente democristiano, ma anche come
l’autore materiale della esecuzione di Aldo
Moro. Solo nel 1994, a seguito della pubblicazione del libro-intervista realizzato da Carla
Mosca e Rossana Rossanda con Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, lo stesso
Moretti si assunse la responsabilità diretta
dell’uccisione del Presidente della DC. La cosa fece scalpore. Ma Gallinari non aveva mai
ammesso o disconosciuto l’addebito dell’azione, considerando fuorviante la questione delle responsabilità individuali, nell’ottica
della più tradizionale militanza comunista.
Nel frattempo, in carcere, era intervenuto
il peggioramento delle sue condizioni fisiche,
a seguito del primo infarto subito già nel
1983. Erano gli anni del declino della forza
delle organizzazioni clandestine, delle grandi
campagne di arresti e delle prime espressioni
dei movimenti di dissociazione. In questo
contesto, Gallinari rimase fino all’ultimo un
militante in servizio permanente effettivo.
Condivise le traversie dell’ultima parte della
vicenda delle BR, la cui storia dichiarò conclusa soltanto nel 1988, dopo il debellamento
delle due frazioni in cui la sua organizzazione risultava a quel tempo divisa.
Grazie a una campagna in favore della sua
scarcerazione, nella quale risultarono impegnati il manifesto e numerosi esponenti politici e culturali della sinistra, uscì in libertà per
motivi di salute nel 1996. Dopo alcuni anni
venne però trasferito agli arresti domiciliari,
dove tuttora si trovava. Nel 2006 pubblicò
presso la casa editrice Bompiani il libro Un
contadino nella metropoli, che sottotitolò
semplicemente Ricordi di un militante delle
Brigate Rosse. Volle scrivere queste memorie
da solo, senza edulcorazioni o sensazionalismi giornalistici, fedele agli ideali di vita che
aveva appreso fin da bambino.
Ha lasciato disposizioni per il trapianto delle cornee. La data dei funerali è ancora da stabilire.
VENETO
Sabato 2 febbraio
FOLK FEST Dal 2 febbraio al 16 mazo si
tiene la diciottesima edizione del Vo’on the
Folks. Una rassegna dedicata alla world
music che dal 1996 porta a Brendola (Vicenza) un variegato caleidoscopio sonoro
con artisti provenienti dai cinque continenti,
presentando alla Sala della Comunità musiche, colori e culture diverse, unite nel nome
della libertà espressiva. con Rondeau De
Fauvel (Italia – sabato 2 febbraio), Buda
Folk Band (Ungheria – sabato 16 febbraio)
Hevia (Spagna – sabato 2 marzo) e Tannahill Weavers (Scozia – sabato 16 marzo).
La cornamusa asturiana di Hevia, l’elettronica medievale dei Rondeau de Fauvel, le
sonorità mitteleuropee dei magiari Buda
Folk Band e la secolare tradizione celtica
degli scozzesi Tannahill Weavers danno vita
al Vo’ on the Folks 2013.
■ Sala della Comunità - Brendola
(Vi)
il manifesto
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
benedetto vecchi (presidente),
matteo bartocci, norma rangeri,
silvana silvestri, luana sanguigni
il nuovo manifesto società coop editrice
REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE,
00153 Roma via A. Bargoni 8
FAX 06 68719573, TEL. 06 687191
E-MAIL REDAZIONE [email protected]
E-MAIL AMMINISTRAZIONE
[email protected]
SITO WEB: www.ilmanifesto.it
TELEFONI INTERNI
SEGRETERIA 576, 579 - ECONOMIA 580
AMMINISTRAZIONE 690 - ARCHIVIO 310
POLITICA 530 - MONDO 520 - CULTURE 540
TALPALIBRI 549 - VISIONI 550 - SOCIETÀ 590
LE MONDE DIPLOMATIQUE 545 - LETTERE 578
iscritto al n.13812 del registro stampa del
tribunale di roma autorizzazione a giornale murale
registro tribunale di roma n.13812 ilmanifesto
fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge
07-08-1990 n.250
DIR. RESPONSABILE norma rangeri
CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ
poster pubblicità srl SEDE LEGALE, DIR. GEN.
00153 Roma via A. Bargoni 8,
tel. 06 68896911, fax 06 58179764
E-MAIL [email protected]
TARIFFE DELLE INSERZIONI
pubblicità commerciale: 368 € a modulo
(mm44x20)
pubblicità finanziaria/legale: 450€ a modulo
finestra di prima pagina: formato mm 65 x 88,
colore 4.550 €, b/n 3.780 €
posizione di rigore più 15%
pagina intera: mm 320 x 455
doppia pagina: mm 660 x 455
DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. RIVENDITE,
ABBONAMENTI: reds, rete europea distribuzione
e servizi, viale Bastioni Michelangelo 5/a
00192 Roma
tel. 06 39745482, fax 06 83906171
certificato n. 7362 del 14-12-2011
ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo
260€ semestrale 135€ versamento con bonifico
bancario presso Banca Etica intestato a
“il nuovo manifesto società coop editrice”
via A. Bargoni 8, 00153 Roma
IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228
copie arretrate 06/39745482
[email protected]
Tutti gli appuntamenti: [email protected]
STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130,
Roma - litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060
Pessano con Bornago (MI)
chiuso in redazione ore 21.30
tiratura prevista 52.031
La morte di Prospero Gallinari
Di seguito due capitoli tratti
dal libro di Prospero Gallinari «Un contadino nella metropoli» ricordi di un militante
delle Brigate Rosse edito da
Bompiani nel 2006
«Ha da gnir sbafioun...»
L
a città assorbe il luglio ’60,
e l’esito delle lotte alle Reggiane, con morti, licenziamenti e numerose condanne al
carcere per chi aveva combattuto
e sofferto in quei conflitti. Viene
ripulita anche la Direzione locale
del Partito, secchiana e controllata a stento dal centro nazionale
durante i primi anni del dopoguerra. La Reggio comunista si riduce progressivamente a una zona nella quale il malessere politico viene vissuto singolarmente da
tantissimi vecchi compagni che
si sentono traditi. Traditi gli ideali, tradite le speranze, traditi gli
sforzi che, durante la Resistenza
e negli anni immediatamente successivi, tanto erano costati e dei
quali resta in mano ai militanti di
base o agli “epurati” solo un pugno di mosche.
Spesso questa rabbia non esprime proposte o nuovi orizzonti politici, ma solo mugugni, accuse di
tradimento rivolte ai burocrati
delle nuove classi dirigenti delle
cooperative e del Partito... «chian
fat carera» (che hanno fatto carriera). «Ha da gnir sbafioun », ha
da venire baffone (Stalin) è la conclusione di molte discussioni. Eppure sono recriminazioni dotate
di enorme importanza per noi
giovani, che le ascoltiamo con avidità. Sentire questi uomini parlare della Resistenza e dei suoi valori, apprendere dell’espulsione
che i partigiani avevano subito
dai posti di spicco nelle aziende e
negli uffici dello stato, capire che
quei posti erano stati riconsegnati agli individui che li avevano amministrati durante il fascismo e la
Repubblica di Salò, è impressionante. Ascoltare la vicenda delle
grandi fabbriche del Nord, difese
dalla Resistenza col sangue dei
suoi combattenti, e poi riconsegnate a imprenditori che, quasi
sempre, come Valletta, avevano
collaborato attivamente col regime fino al 25 aprile del ’45, infiamma la nostra indignazione.
La stessa Costituzione, pur essendo il risultato di una mediazione
tra le forze politiche dell’immediato dopoguerra, viene invocata
davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per sottolineare come le sue parti autenticamente
democratiche e “progressive” siano bellamente ignorate dai governi in carica.
Eccolo il malumore che porta
questi compagni anziani a parlare di Resistenza tradita. Un malessere ostinatamente argomentato,
ma che, poi, lascia la loro vita nel
disagio e nell’impotenza... in attesa di tempi migliori.
Per noi giovani, invece, quei
tempi migliori già albeggiano.
Forse non in Italia o nel piccolo
recinto reggiano in cui continuiamo disciplinatamente a militare,
ma senza dubbio in quel mondo
delle lotte comuniste e anti-coloniali, di cui apprendiamo le novità dalle letture e dalle discussioni
fatte in sezione o alla Casa del Popolo. Diviene contraddittoria e
opaca la luce dell’URSS, dopo le
trasformazioni causate dal XX
Congresso e in seguito all’esito
della crisi dei missili a Cuba. Sale
l’ascendente della Cina maoista, i
cui sviluppi (condizionati come
siamo dalle posizioni del Partito)
cogliamo però ancora parzialmente. Sono invece il dispiegarsi
ROMA, 1987. AULA BUNKER DEL FORO ITALICO, PROCESSO MORO-TER ALLE BRIGATE ROSSE/FOTO STEFANO MONTESI
del filo rosso della Rivoluzione cubana e la possente spinta anti-coloniale del Terzo Mondo, a entusiasmarci senza riserve. C’è lo
schiaffo della Baia dei Porci,
quando, nel 1961, l’esercito cubano respinge l’attacco dei mercenari anti-castristi. C’è la rivoluzione che si estende in America Latina e in Africa. Le guerre di liberazione del Congo, dell’Algeria, dell’Angola, della Guinea-Bissau,
producono eroi politici quali Patrice Lumumba, Agostinho Neto
o Amilcar Cabral. Capiamo che è
giusto lottare e che è possibile vincere. E, su tutto, dal 1964 in poi,
inizia a svettare l’interesse per
quella parte del Sud-Est asiatico
che porta il nome di Vietnam:
una terra in cui era già stata vinta
una importante battaglia contro
il colonialismo francese. L'eroismo di quel popolo, tuttavia, de-
ve ancora misurarsi con la piovra
più grande dell’imperialismo,
quella americana. Un conflitto
per la vita e per la morte, che, negli anni seguenti, porterà i vietnamiti a divenire la luce di tutti i movimenti e di tutte le speranze rivoluzionarie.
Anche per noi, per l'Occidente,
saranno anni in cui la ruota della
storia prenderà a girare a velocità
particolare.
RICORDO
Il pacifista e il brigatista,
colloqui di umana tenerezza
DALLA PRIMA
Giovanni Russo Spena
Soffriva molto di patologia cardiaca,
ma rifuggiva da autocommiserazioni e
vittimismi. Nacquero settimanali discussioni, tra due percorsi di vita differenti.
Da un lato un pacifista che riteneva il cortocircuito della lotta armata un sostitutismo, una
espropriazione dei movimenti, la prospettazione implicita (nel raccordo tra mezzi e fini)
di una società comunista autoritaria. Dall'altro una persona che aveva sacrificato la vita
propria ed altrui scegliendo la lotta armata,
convinto che fosse l'unico mezzo per il fine rivoluzionario. Una scelta di cui non si pentiva
(aborriva benefici giudiziari e penali), da cui
non si dissociava strategicamente. Ma riteneva la lotta armata sconfitta, finita; diceva spesso: «è una storia che non c'è più; quella di oggi è un'altra storia».
Ricordo quei colloqui, a volte aspri, con
umana tenerezza. In essi si articolava la complessa grammatica di quell'«album di famiglia» di cui parlò Rossana. Avvertivo che, comunque, Prospero faceva parte della mia storia, pur nei diversi vissuti comunisti. Io giovane universitario che andava a scuola di lotta
di classe dai delegati di fabbrica dell'Italsider
di Bagnoli e dell'Alfa Sud; Prospero, giovane
comunista proletario cresciuto in una sezione
reggina del Pci emiliano.
Mi preme qui ricordare che la cosa che lo faceva incazzare (l'unica, che io ricordi) era la dietrologia (nata intorno al processo Moro) che descriveva la lotta armata come eterodiretta, proiezione di apparati dello Stato italiani o stranieri. E l'uccisione di Aldo Moro come azione voluta dalla Trilaterale, all'interno della quale i brigatisti erano stati solo manovalanza incolta ed
inconsapevole. Mi ripeteva spesso: «Abbiamo
fatto certo molti errori, anche di incomprensioni ed ingenuità, come il non aver compreso fino in fondo l'importanza delle accuse di Moro
prigioniero ai poteri istituzionali, ma sempre
fummo autonomi, non eterodiretti».
Intorno a Gallinari (e Ricciardi) nacque
un'ampia e difficile iniziativa garantista che vide Rossana Rossanda, il manifesto, molti intellettuali battersi perché la pena carceraria venisse sospesa per la grave malattia, che rendeva insopportabile la condizione di detenzione. Ponemmo un tema rilevante dello Stato di diritto,
l'«habeas corpus», la fedeltà alla concezione costituzionale della pena: risocializzazione, non
vendetta di Stato. Alla fine Prospero uscì dal carcere. Ebbe un primo infarto qualche anno fa.
Quando ero, per assemblee a Reggio o dintorni, veniva a trovarmi. Ma ora parlavamo di
politica, di conflitti, di sindacato, di organizzazione dei movimenti. I rancori, le demonizzazioni personali sono pessima politica, che
non va confusa con giudizi storici e politici
pur molto differenti. Anche per questo Prospero mi manca.
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
pagina 15
COMMUNITY
Dopo cinque anni,
usciamo dalle catacombe
SESSUALITÀ
Edoardo e Diletta,
la diversità tranquilla
Andrea Bagni
Chiediamoci anche oggi (come faceva Gramsci negli anni ’30), quanto incide sulle elezioni la produzione
di un’immagine univoca della realtà. Utile a nascondere quel che è in gioco con il voto (occupazione, reddito,
istruzione, salute), e a confondere, con differenze marginali, quel che in realtà unifica i tre grandi
schieramenti in campo (austerità e fiscal compact). Per questo è importante scegliere a sinistra la lista
antiliberista, senza indulgere a un sentimento "grillino" di antipolitica
Q
DALLA PRIMA
Alberto Burgio
L’attenzione pubblica è deviata con cura verso questioni di dettaglio (dalle regole
delle primarie all’interscambio trasformistico tra l’uno e l’altro polo),
mentre si nasconde che in queste
elezioni è in gioco la vita stessa – l’occupazione, il reddito, la salute,
l’istruzione – di decine di milioni di
cittadini. Agli italiani è così impedito
di vedere l’essenziale: il fatto che tutte le maggiori forze politiche concordano sulla lettura della crisi e sulle ricette per affrontarla. E che per questa ragione esse hanno convintamente sostenuto Monti per oltre un
anno, rivendicando come necessarie misure che hanno esasperato le
ingiustizie (tagliando pensioni, salari e servizi), colpito diritti (l’articolo
18), depresso l’economia e aggravato la situazione debitoria del paese,
senza scalfire di un millimetro rendite e grandi patrimoni (anzi, procurando loro ulteriori benefici).
Non è forse così? Del centrodestra
e del Terzo polo lo sappiamo sin
troppo bene. Con una mano demagogicamente deprecano le conseguenze della crisi (è necessario lisciare il pelo all’elettorato), con l’altra arraffano i dividendi delle politiche di
«austerità»: l’anarchia del mercato,
lo strapotere dell’impresa, la libertà
di evadere o eludere il fisco, la privatizzazione delle risorse e delle istituzioni – non ultime le scuole, tanto care al Vaticano, che in queste elezioni
gioca un ruolo determinante a sostegno di Monti e del fido Casini. E il
centrosinistra? Diciamo le cose come stanno: non è lo stesso Bersani a
ripetere, un giorno sì e l’altro pure,
che austerità e rigore non si toccano, salvo farfugliare che cercherà di
ridurre il tasso di iniquità delle decisioni di Monti (sino a ieri in predicato di atterrare sul Colle col suo beneplacito)? Il Pd non considera forse irrinunciabili le norme – dal pareggio
di bilancio al fiscal compact – che daranno al prossimo governo, chiunque lo dirigerà, un alibi di ferro per
perseverare nella macelleria sociale?
Il segretario democratico non vede
nel «libero mercato» la panacea per
la fantomatica crescita? Non procla-
ma che l’articolo 18 va bene così come l’ha conciato la professoressa
Fornero? E non definisce con orgoglio il proprio partito come il più europeista, il che non significa soltanto Maastricht e Lisbona, ma anche
Merkel, Barroso e la dittatura del debito? Quanto a Sel, la firma in calce
alla carta d’intenti ha messo in mora
ogni buon proposito e riduce le parole del suo leader a un fiato di voce.
Sel si è impegnata a seguire le decisioni del Pd e i suoi dirigenti sanno
che al dunque dovranno attenervisi.
Per disciplina e «senso di responsabilità».
Insomma, il «rigore» piace a tutti,
o quasi. Non piace a Grillo, ma il suo
movimento vede la degenerazione finanziaria solo per massimi sistemi,
senza coglierne le drammatiche ricadute sul terreno dei diritti del lavoro.
Non piace soprattutto a Rivoluzione
civile, che dell’anti-montismo fa la
sua bandiera. E qui il discorso chiama in causa noi, la sinistra coerentemente antiliberista e per ciò stesso
esterna ai tre poli della «strana maggioranza» del cosiddetto governo tecnico: partiti, sindacati, associazioni
e movimenti ancora vivi ma stremati dopo cinque anni di trionfante bipolarismo coatto e di lotte combattute alla macchia, con risorse minimali e nel silenzio della «grande» informazione.
Rivoluzione civile è ad oggi la sola
forza di qualche rilievo che ponga
un discrimine netto: rifiuto del neoliberismo (cioè primato del lavoro e
dei suoi diritti, secondo quanto prescrive la Costituzione), fine della sovranità del capitale finanziario (spesso colluso con le mafie), restituzione
dello scettro alla cittadinanza. Certo,
nemmeno questo progetto è immune da pecche, ma di sicuro la critica
di essere subalterno alla teologia del
libero mercato non può essergli rivolta. Il programma di Rivoluzione
civile parla di diritti del lavoro e solidarietà; di scuola e sanità pubbliche;
di lotta alle mafie e di questione morale; di laicità e parità di genere; di disarmo, di libera informazione e di difesa dell’ambiente. C’è in questo decalogo qualcosa che non va, o manca qualcosa di essenziale?
Senonché la proposta di Ingroia
incontra anche a sinistra riserve e
freddezza. La cosa è sorprendente, e
forse per capirne le ragioni non basterebbero gli strumenti tradizionali
dell’analisi politica. Limitiamoci alle
obiezioni fondamentali. Basta coi
magistrati in politica, si dice. E poi:
Ingroia non si è sbarazzato dei partiti, è fissato con la mafia, è (o aspira a
essere) anche lui un leader, nel segno della personalizzazione della politica. Tutto ciò è, francamente, paradossale. È paradossale che si accusi
la magistratura di protagonismo, invece di prendersela con quei settori
della «società civile» che latitano, in
tutt’altre faccende affaccendati. E lo
è altrettanto – degna del peggior grillismo – l’accusa di non respingere i
partiti della sinistra, come se in tutti
questi anni essi non avessero fatto il
possibile per sostenere movimenti
e lotte. Chi poi lamenta una monomania antimafia, dove crede di vivere? Forse presta fede alla rassicurante favola della «criminalità organizzata», e ignora che mezza Italia è governata da un doppio Stato che decide, ricicla, fa politica a tutti gli effetti, sequestrando la democrazia di
questo paese. Soltanto l’ultima delle critiche sembra avere qualche
fondamento. Ma poiché la personalizzazione della politica è un sintomo grave della transizione post-democratica in corso da un trenten-
Camminare
sulla Shoah
L’inciampo
della memoria
ROMA
La memoria è dura come
una pietra. Sampietrini rivestiti di
una placca d’ottone incastonati
a via Arenula 41, di fronte al
portone di alcuni deportati ad
Auschwitz. L’idea delle «memorie
d’inciampo» è dell’artista
tedesco Gunther Demnig, a cura
di Adachiara Zevi.
Foto Vincenzo Tersigni-Eidon
nio, proprio per questo non è giusto farne carico all’ultimo arrivato,
né pretendere che una proposta politica appena nata vi si sottragga, rinunciando all’unico strumento in
grado di darle in tempi brevi un minimo di visibilità.
Allora, cerchiamo di non guardare fissi il dito che invano indica la luna. Sono cinque anni che la sinistra
italiana attende di uscire dalle catacombe. E se è certamente vero che il
voto di febbraio non risolverà tutti i
problemi – ché anzi il duro lavoro comincerà dopo – è altrettanto indubbio che senza un successo di Rivoluzione civile la sostanziale morte della sinistra politica in Italia sarebbe,
per lungo tempo, una certezza. È singolare che tanti sembrino non capire che oggi un’esigenza prevale su
tutte le altre: unire le opposizioni di
sinistra contro Monti e i suoi eredi,
più o meno progressisti. Far sì che
tornino a pesare le ragioni del lavoro, dei giovani, delle donne e del
Mezzogiorno, antitetiche a quelle di
tutti coloro che hanno governato in
questi decenni, nel segno della sovranità del mercato. Ora, sul filo di
lana, ci si presenta una possibilità
per riuscirvi. Una possibilità – l’ultima – che sarebbe davvero imperdonabile sprecare.
uando mi è capitato di
sentire le ragazze e i ragazzi parlare delle loro storie
sentimentali, dei loro rapporti di
coppia (che cominciano prestissimo e subito coinvolgono le famiglie – con mio notevole stupore)
sono stato spesso colpito dalla rappresentazione femminile dei ragazzi-che-non-si-innamorano,
che vogliono "soltanto quello",
che non parlano dei loro affetti
profondi. Che non parlino ci credo, me ne accorgo anch'io, anche
a partire dai testi da scrivere in
classe. C'è una specie di autocensura. Forse anche un'autodifesa:
quello che conta davvero non si
può mettere in piazza a scuola,
dove è questione di voti e sopravvivenza, mica di vita. Ma questa è
una lettura ottimistica. Perché mi
sembra ci sia anche una sorta di
analfabetismo maschile dei sentimenti. La mancanza di un codice
accessibile e condiviso – ammesso dalla comunità universale dei
maschi – per dirli. E allora "esporsi" sarebbe clamoroso, non si
può fare, tutti ti guarderebbero. E
però che i ragazzi non si innamorino mi sembra una sciocchezza.
Che abbiano tutta questa spavalderia sessuale, impensabile: casomai oggi sono le ragazze – almeno per quello che posso giudicare
dal mio osservatorio, una scuola
superiore con netta prevalenza
femminile – decisamente più sicure e protagoniste dal punto di vista anche della sessualità e della
seduzione.
Per i ragazzi spesso è il gruppo
maschile che funziona da soggetto collettivo e da guscio protettivo.
E credo sia anche in questa insicurezza di fronte alla nuova libertà
femminile la radice di molta violenza, in particolare di branco. Le
comunità danno e tolgono (soprattutto agli altri/e), non sono semplici da maneggiare.
Però poi ogni tanto arrivano anche segnali in controtendenza rispetto a certe chiusure, esclusioni,
bullismi. Perlomeno in queste
scuole miste e non di frontiera, dove la presenza delle ragazze addolcisce in parte almeno il mondo.
Edoardo in prima aveva fatto subito un grande effetto. Nella settimana iniziale di scuola tutti sapevano, insegnanti e studenti, l'intera sua vita: la famiglia separata, la
mamma pallosa, il padre lontano
«che non si vede mai e vorrebbe
comandare», il nuovo uomo della
mamma, amicone. Lui con un sacco di acciacchi di salute, narrati
con tutti i dettagli clinici, anche
quelli un po' imbarazzanti. Un tipo teatrale e creativo, dai risultatati scolastici così così perché di
quei creativi che gli fa fatica ritornare su quello che fanno: la cura
delle cose, il labor limae, lo studio
metodico, non sono per loro.
In terza si mette con Diletta,
una tipetta niente male della sua
classe. Capelli ogni due mesi di colori diversi, fosforescenti quasi –
modello Losey, Il ragazzo dai capelli verdi. Tagli asimmetrici, una
volta tutti da una parte, qualche
mese dopo dall'altra. Sopra ritti.
Bella coppia.
Poi lui va sei mesi via dall'Italia
per un progetto europeo che non
ricordo come si chiama. Vuole
mettersi alla prova. Al ritorno però
il mondo grande mette in crisi le
micro-relazioni di un tempo. Lui è
cambiato, lei pure. Come deve essere in fondo. E non si tratta solo
della relazione.
Diletta scrive in un testo che
ora ha una storia, un'adolescente
come lei con cui si trova molto bene. Io sottolineo il solito errore, le
dico, lo sai che non ci vuole l'apostrofo sull'articolo maschile. Lei dice sì, lo so, però quella è proprio
una ragazza profe, la mia amica,
stiamo insieme da un po' e va tutto bene finalmente. Io chiedo scusa per la sfiducia, ho pensato subito a un problema di ortografia invece che a un non-problema di
sessualità. E però mi colpisce la naturalezza tranquilla.
La mamma, poi, nell'ora di ricevimento, mi dice che la figlia l'ha
proprio detto durante un attivo di
classe, a tutte e tutti. Ha fatto outlet, come dice Zalone. Ci teneva.
La signora precisa che lei non è come sua figlia, e forse vuol dire che
non è colpa sua, ma conclude che
se è felice insomma pazienza.
Il colpo di scena è che anche
Edoardo adesso sta con un ragazzo e anche lui l'ha detto pubblicamente, me lo racconta l'insegnante di ginnastica.
In gita, scherzando, dico a Diletta, Diletta non è ci hai fatto una
croce sopra perché pensi che tutti
i maschi sono come quello lì, lui è
un caso particolare. Lei ride e dice, lo so profe, ma ne ho provati
anche altri. Anche lui è stato con
altre ragazze dopo, ma non è roba
per noi.
Sono due tipi così, che provano.
La cosa che mi ha colpito e mi è
sembrata bella è questa leggerezza del loro discorso. Hanno parlato in un attivo di classe (almeno
lei, lui non sono sicuro) quando di
solito è un gran casino e si parla solo di dove andare in gita, con chi,
di che dire al professore che massacra la classe di compiti e voti.
Me li immagino loro due che
parlano delle loro nuove storie.
Non avranno detto che si amano
o roba del genere perché non ce li
vedo a usare parole così grandi.
Anche per loro scatta un'autocensura (sacrosanta tutto sommato)
rispetto al rischio della retorica.
Lei con i capelli ritti di tutti i colori, lui che fa battute o straparla delle sue malattie.
Mi piace immaginare che nell'attivo si sia fatto silenzio, ma non
un religioso silenzio. Non la sacralità che cancella il naturale e umano. E poi tutta la classe che avrà
detto, Va be' state con altri due.
Ma che diciamo in consiglio a
quello di tedesco. E chi fa la lista
per le merende. Piccole rivoluzioni crescono. Inattese e grandi.
pagina 16
il manifesto
MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013
L’ULTIMA
storie
POPEYE/BRACCIO
DI FERRO,
«CIRCONDATO»
DAI MANIFESTI
DI RIVOLUZIONE CIVILE
Nicolò Martinelli
«N
on pensi di essere un po’
troppo grande per i
cartoni animati?». Chi di noi non si è mai
sentito rivolgere questa
frase, magari da un genitore o da un nonno che sì,
magari li riteneva pure carini, ma pur sempre roba
da infanti. Il mondo degli adulti
è dominato da problemi lavorativi, tasse, scelte politiche ed economiche, dove, a detta di qualcuno, non c’è spazio per la fantasia. Poi sono arrivati i manga, i
Simpson e via dicendo. Fumetti
e cartoni, certo, ma dotati anche
di contenuti per adulti, e in alcuni casi anche di forte critica sociale. Emblematica è in questo senso
la serie animata South Park, una violenta critica alle contraddizioni della società americana.
Nel disco Libertà obbligatoria del
1976, Giorgio Gaber cantava di come si
possa fare politica con i fumetti. A quanto pare qualche sostenitore della Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia ha preso
alla lettera questo suggerimento, e sen-
Cartoon
za farsi sfuggire l’occasione, ha dato il
via ad una campagna via internet che
utilizza i supereroi come testimonial
d’eccezione.
Nell’era del web 2.0, la comunicazione
attraverso internet ha assunto un’importanza fondamentale nelle campagne elettorali. Che sia ideata da costosi professionisti o da semplici militanti dotati di fantasia, il fine di una campagna virale è
quello di impressionare positivamente
gli utenti della rete allo scopo che essi facciano circolare l’informazione. Alcune
hanno un grande successo, come quella
che ha portato all’elezione di Barack Obama. Altre si rivelano dei clamorosi flop,
come il video, ispirato allo spot pubblicitario del formaggio Panda, della passata
campagna di tesseramento ai Giovani
Democratici, in cui un giovane dai modi
bruschi faceva dispetti a coloro che decidevano di non rinnovare la tessera, in
modo simile all’orso protagonista della
pubblicità. Il principio alla base di questa tecnica comunicativa è «che se ne parli bene o se ne parli male, purché se ne
parli». Principio molto ben conosciuto
da Silvio Berlusconi, che in questi anni
ha costruito la propria immagine anche
grazie ai continui attacchi dei propri avversari politici, diventando onnipresente
nel dibattito politico italiano.
Chi invece fatica in questa operazione
D’ELEZIONE
I SUPEREROI PROTAGONISTI
DELLA POLITICA SU WEB 2.0
Gaber in «Libertà Obbligatoria» cantava
di come si possa parlare
alla società con i fumetti. Forse
parlava con qualche anticipo
della famiglia «politicamente
scorretta» dei Simpson, ma a quanto
pare qualche sostenitore
della Rivoluzione Civile di Ingroia
lo ha preso alla lettera, dando il via
a una campagna via internet
che utilizza i personaggi delle strip
come testimonial di eccezione
è la sinistra, che oramai da 5 anni lamenta di una scarsissima attenzione dei
mass-media nei propri confronti, in un
circolo vizioso di oscuramento mediatico e risultati elettorali deludenti. E del resto il richiamo proveniente dall’Agcom
parla da solo: a fronte del tempo dedicato ai due principali partiti, lo spazio dedicato a forze quali Rivoluzione Civile è stato ben più modesto, magari relegato alla
mattina o alla tarda notte.
Con pochi soldi e uno scientifico oscuramento mediatico rispetto alle altre coalizioni in campo, la Rivoluzione Civile di
Ingroia tenta quindi la carta di parlare al
cuore degli elettori. E per infiammare i
cuori, cosa c’è di meglio dei fumetti e dei
cartoni animati, che hanno segnato l’in-
capace di sollevare temi importanti
quali il riassetto idrogeologico del territorio, la lotta alla criminalità organizzata e alla speculazione edilizia, fino
alle battaglie del mondo del lavoro.
Una rivisitazione in chiave fumettistica di quella «semplicità che è difficile a farsi» di cui parlava Bertolt
Brecht, e di una sequenza di immagini semiserie che illustrano un
programma politico molto meglio di tante parole.
Non è la prima volta che il binomio di fumetti e lotta politica
viene utilizzato con successo,
basti pensare all’enorme diffusione che hanno avuto le maschere di V per
Vendetta con l’esplosione del fenomeno
Anonymous, il collettivo di hacker-attivisti che in modo simile a questo vendicatore mascherato attacca all’improvviso i
centri nevralgici del potere economico e
politico mondiale.
Non è un mistero invece, che l’estrema destra abbia tentato più volte di appropriarsi di Capitan Harlock, il
celebre pirata spaziale
protagonista
dell’omonimo manga, nonostante i
contenuti
veicolati
dal fumetto
non abbiano nulla a
che spartire
con il fascismo.
Anche
qui la lotta è stata dura,
contro gruppi e
collettivi di sinistra, che per non lasciare Capitan Harlock in mano alla destra, lo hanno utilizzato essi per primi
quale simbolo di lotta contro la guerra
e il neoliberismo, come dimostra, tra le
altre, l’esperienza di RadioHarlock, web
radio versiliese legata ai gruppi giovanili della sinistra.
Questo a dimostrazione che la politica si fa anche attraverso la costruzione
dell’immaginario collettivo, di quella cultura nazional-popolare di cui parlava
Gramsci. Ed è innegabile che la cultura
fumettistica, rientri esattamente in questa categoria. Certo, a questa battaglia
possono essere mosse critiche, tra cui,
fanzia di milioni di persone? Le
storie narrate quasi sempre
hanno al centro protagonisti
umili e squattrinati, che grazie ad un’intelligenza fuori
dal comune, imprevisti superpoteri, o un semplice colpo di fortuna, riescono a superare mille
difficoltà. In poche parole, personaggi che
rappresentano quel
quarto stato che
compare sul simbolo della lista di Ingroia, che si ergono a paladini degli sfruttati e degli
oppressi, quasi a
voler comunicare una similitudine
con l’ex-magistrato
palermitano, a suo
modo un eroe dell’antimafia. Accade così
che il corrucciato nano Brontolo, minatore
sessantenne colpito dagli effetti della riforma Fornero, decida di votare Rivoluzione Civile perché non sopporta l’idea di dover andare in pensione a 70 anni.
Oppure che dire dello sfortunato Zio
Paperino, che nonostante i propri 40 anni, è costretto a svolgere lavori umili e
precari per mantenere i tre nipotini? Desidera un lavoro fisso che gli è negato
dalle leggi Treu e Biagi e dalla manomissione dell’art. 18, e voterà Ingroia nella
speranza che le assunzioni a
tempo indeterminato diventino la normalità.
SUPERMAN
«Il nucleare non è una
scelta sicura», dice lo spensierato Homer Simpson, responsabile della sicurezza
in una centrale atomica. E
La corte d'appello ha dato ragione alla Warner, sentenzianproprio come nella serie anido che nella causa del 2008 contro la famiglia del creatore
mata di Matt Groening, diedi Superman, Jerry Siegel, la DC Comics sosteneva a ragiotro parvenze di utilità delne la validità dell'accordo stretto nel 2001 con la famiglia
l’energia nucleare, si nasconSiegel. È l'opposto di quanto aveva deciso il giudice nel
de solo la bramosia di profit2008, permettendo ai Siegel di tenere i diritti di alcune
ti del perfido signor Burns.
caratteristiche chiave del personaggio di Superman, incluso
Questo fenomeno, rigoroil costume, il personaggio di Clark Kent, la storia delle sue
samente non ufficiale e parorigini come descritto nelle prime edizioni di Action Comitito dal basso per evidenti racs. Con questa decisione, quindi, è stato confermato definigioni di diritto d’autore, fa
tivamente che la Warner Bros, (che possiede la DC Comics)
affidamento su una rete di
è la sola proprietaria di Superman e di tutte le sue incarnamilitanti che di propria
zioni. Gli eredi dei co-creatori di Superman non riavranno
spontanea iniziativa creano
quindi la proprietà di alcun elemento legato al supereroe.
immagini con i più svariati
personaggi e le diffondono
attraverso i social network,
non ultima, quella di chi ritiene poco nocosa che rende molto arduo ad eventuabile «strumentalizzare» per interessi eletli censori identificare una fonte univoca
torali, personaggi al di sopra delle parti,
a cui addossare la responsabilità di evenquali gli eroi dei fumetti. È una diatriba,
tuali violazioni del copyright.
quella sulla neutralità dell’arte, che è vecPassando da Thor, il supereroe Marchia quanto il mondo. Ma per chi fa polivel che combatte mafia e corruzione
tica per passione, come gli anonimi milicon il suo temibile martello magico, per
tanti che hanno dato origine a questa
arrivare al nonno di Heidi, montanaro e
campagna, la neutralità è sinonimo di inconvinto militante No Tav, la campagna
differenza. E si sa, a sinistra c’è chi gli invirale della lista Rivoluzione Civile appadifferenti li odia.
re da subito accattivante e ironica, ma
La Warner vince la battaglia
legale contro gli eredi. È tutto suo