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RASSEGNA STAMPA lunedì 30 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA L’ARCI SUI MEDIA LOCALI INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI E LAICITA’ SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 28/03/15, pag. 6 Meglio il «processo di Tunisi» Filippo Miraglia*, Walter Massa** Immigrazione . Una contromisura alla volontà dell’Italia e della Ue di delegare ai regimi africani il rispetto dei diritti L’Europa è in guerra contro un nemico immaginario. Dal nostro punto di vista è una constatazione e non solo uno slogan. Una constatazione che si fonda principalmente su una vera e propria distorsione della realtà, costruita dai governi europei ed alimentata dall’approccio sensazionalistico di molta stampa. Così, di fatto, si rende incomprensibile all’opinione pubblica la saldatura tra la crisi economico/politica di molti paesi di provenienza (del continente africano principalmente) e il fenomeno migratorio che da diversi anni trova, nel nostro Paese, uno dei canali d’ingresso preferenziali verso l’Europa. Questo è uno dei punti di debolezza del lavoro che da anni svolgiamo come movimenti sociali/società civile/ movimento antirazzista europeo. Una difficoltà che ci impedisce di orientare il dibattito pubblico, ancora oggi fondato su un approccio sicuritario. Una difficoltà che in questi ultimi anni si è moltiplicata a causa della congiuntura economico e sociale che ha indebolito progressivamente buona parte delle nostre società. Da qui occorre ripartire per produrre in Europa e in Italia una alternativa alle attuali politiche sull’immigrazione, invertendo una rotta divenuta insostenibile e omicida. Basti pensare a ciò che continua ad accadere nel Canale di Sicilia, alle centinaia di vittime e di scomparsi che contiamo anno dopo anno. Partendo da Tunisi, insieme alle tante reti internazionali di cui facciamo parte, abbiamo deciso di aprire uno spazio di riflessione pubblica al Forum Sociale Mondiale, in questi giorni, con la società civile africana ed europea. Con l’obiettivo di promuovere un processo dal basso quale contromisura al processo di Khartoum, che è una iniziativa del governo italiano alla quale hanno aderito tutti i Paesi membri dell’Unione europea, la stessa Commissione Europea e molti Paesi africani d’origine e transito dei migranti, che punta ad esternalizzare le frontiere, trasferendo la responsabilità del rispetto dei diritti umani, del principio di non respingimento e del diritto d’asilo ai Paesi partner africani, in alcuni casi governati dagli stessi dittatori (è il caso di quello eritreo) che sono la principale causa dei flussi di rifugiati. È in parte ciò che abbiamo iniziato a fare lo scorso 3 ottobre a Lampedusa con Sabir, chiamando a raccolta centinaia di organizzazioni sociali e ponendo al centro delle nostre riflessioni la deriva neo colonialista dei governi europei, la loro assoluta incapacità nell’affrontare un vero e proprio caso umanitario e soprattutto i suoi tragici effetti. La nostra proposta, accolta con interesse dalle tante reti presenti a Tunisi, si pone l’obiettivo di proporre alternative praticabili alle soluzioni ingiuste e sbagliate proposte dai governi dentro il quadro del processo di Kartoum. Lavoriamo dunque per ribaltare questa visione dell’Europa, provando a rendere più evidenti le connessioni tra crisi dei paesi e processi migratori, di fatto sempre più assimilabili a veri e propri processi di espulsione, su cui, peraltro, le mafie di mezzo mondo speculano abbondantemente nel più totale silenzio delle istituzioni. Questo spazio di iniziativa, che abbiamo voluto chiamare il «processo di Tunisi» punta ad ottenere come risultato più importante l’accesso legale alle frontiere, superando di fatto le 2 politiche di chiusura e di respingimento e sottraendo in tal modo le persone in cerca di protezione o in cerca di lavoro al rischio di morte e al ricatto di chi specula sulle leggi proibizioniste. Ciò che avviene da decenni per le merci e per le transizioni finanziarie deve riguardare le donne e gli uomini in fuga dai propri paesi. Questo anche per uscire dalla logica emergenziale sulla quale sono basati da anni i processi di gestione delle frontiere e di prima accoglienza. Una visione delle frontiere basata sul principio universale della solidarietà e della tutela dei diritti umani, della sicurezza delle persone e non dei confini, è ciò che serve anche al nostro paese per evitare ancora morti nel Mediterraneo. * vicepresidente nazionale Arci ** coordinatore Arci Immigrazione e Asilo Da Radio Vaticana del 28/03/15 Tunisi. Chiude il Forum sociale, marcia contro il terrorismo Istituzioni italiane in visita in Tunisia: oggi Matteo Renzi e Laura Boldrini ieri con una delegazione di parlamentari italiani, che ha reso omaggio alle vittime del Bardo visitando il Museo. Sempre a Tunisi in queste ore si sta chiudendo la 13.ma edizione del Forum delle Associazioni del mondo, seguito per noi da Silvia Koch. Ecco alcune delle iniziative circolate durante i lavori: Si chiama "watergrabbing.net" ed è una delle più vivaci iniziative condivise durante il Forum qui a Tunisi. Si tratta, spiega Luca Ranieri dell'organizzazione Cospe, di una piattaforma online dove è possibile denunciare tutti i casi di accaparramento illegittimo delle risorse idriche ai danni delle comunità limitrofe, che per natura dovrebbero invece a averne pieno accesso. Tribunale per migranti deceduti e dispersi Passando al filone delle migrazioni, l'idea di un Tribunale internazionale dei popoli per le persone decedute, e per i dispersi in rotta verso l'Europa, è la soluzione proposta dalle associazioni di familiari delle vittime per stimolare, attraverso la creazione di una documentazione riguardo i casi di sopruso, un graduale miglioramento del Diritto nazionale ed internazionale in tema di migrazioni. “Bisogna smettere di parlare di numeri e dare un viso a queste vittime, voce alle loro famiglie, e responsabilità agli Stati che non fanno abbastanza per evitare le morti in mare. "Bisogna fare rete”, ci dice Edda Pando dell'Associazione Arci. E l'invito è lo stesso per tutte le aree tematiche. I temi del Forum Sport quale strumento di dialogo e fratellanza, bioenergie e cambiamento climatico, necessità di soluzioni politiche e condanna dell'uso delle armi, economie solidali, le donne protagoniste nella vita sociale e politica, i media e la libertà di stampa, le giovani democrazie nate dalle rivoluzioni a sud del Mediterraneo. E' un mondo che cambia e le istanze del Forum con esso, adattandosi di anno in anno alle nuove esigenze, o rinnovate emergenze. Geograficamente parlando, il Forum si è concentrato sul Nordafrica, con focus su Tunisia, Egitto e Libia, sul Medio Oriente, e parliamo soprattutto di Iraq, Siria, Yemen, Palestina e Afghanistan. Il mondo delle "primavere arabe" è il vero protagonista quest'anno: lo era anche nella precedente edizione, tenuta nel 2013 già in Tunisia, ma proprio quel Forum stimolò l'articolazione di una società civile in una serie di associazioni autonome, oggi attori attivi del cosiddetto movimento Altermondista. La marcia contro il terrorismo 3 Partecipano al Forum anche alcuni parlamentari europei, in una delegazione delle Sinistre e dei Verdi, che si è impegnata a farsi promotrice presso le istituzioni di alcune specifiche istanze. I vari coordinamenti tematici sono ora al lavoro per elaborare conclusioni e proposizioni, da rivendicare presso coloro che governano la politica e l'economia mondiali. Ma si riuniranno, fra poco, nel cuore di Tunisi, per esprimere solidarietà al popolo palestinese, in occasione della marcia che per tradizione chiude l'evento del Forum. http://it.radiovaticana.va/news/2015/03/28/tunisi_chiude_il_forum_sociale,_marcia_contro_ il_terrorismo/1132826 Da Redattore Sociale del 27/03/15 Maratona in bicicletta per i diritti dei migranti: domani la prima tappa Si chiama “Migranti e migrati” la nuova campagna lanciata da Viandando, Arci, Amnesty e Libera che punta ad accendere i riflettori sul fenomeno migratorio attraverso il viaggiare lento. Chiunque può partecipare “donando” le sue pedalate e postandole sui social network ROMA – Una maratona ciclistica, o meglio una "raccolta di chilometri" da fare rigorosamente in bici, per accendere i riflettori sul tema dell’immigrazione in Italia. Si chiama “Migranti e migrati, #12000km in bici” l’iniziativa lanciata da Viandando, Arci, Amnesty International, Libera, Università popolare dello sport e Libera accademia di Roma, con il patrocinio del Coni, che intende promuovere attraverso il viaggiare lento un nuovo modo di guardare ai flussi migratori. Il viaggio, che toccherà diverse tappe, da Nord a Sud della penisola, prenderà il via domani dal Molise, quando la ciclista Gaia Ferrara percorrerà i primi 60 chilometri in sella alla sua bicicletta. L’atleta, che già lo scorso anno ha compiuto un’analoga impresa per i fantasmi di Portopalo, percorrendo da sola 1.200 chilometri, quest’anno parteciperà alla speciale raccolta, realizzando due viaggi : uno al sud e uno al nord, per un totale di duemila chilometri. “Quasi un anno fa ho fondato l’associazione Viandando – spiega Ferrara - che si occupa di cicloturismo e di progetti sociali legati al viaggio. E dopo l’avventura per ricordare i migranti morti a Portopalo, abbiamo deciso di lanciarne un’altra più ambiziosa, per fare in modo che in tanti decidano di prendersi del tempo, per riflettere su queste tematiche. Questa, infatti, è una campagna che vuole sensibilizzare intorno al tema delle migrazioni in modo intellettualmente onesto, raccontando il bene e il male. Quindi in questi chilometri percorsi ci saranno anche molte storie e testimonianze, perché il nostro obiettivo è ripartire dalle persone e dalla dignità”. Alla raccolta di chilometri possono partecipare tutti: chiunque può infatti decidere di “donare” le sue pedalate filmando la sua impresa e raccontandola sui social con l'hastag #12000km. L’iniziativa si svolgerà fino alla fine alla metà di giugno. “Questa è un’iniziativa encomiabile – sottolinea il presidente del Coni Giovanni Malagò -. I valori che muovono Gaia Ferrara sono quelli che dovrebbero essere alla base di tutto il nostro movimento perché a noi non interessa solo vincere le medaglie d’oro, ma anche essere testimonial di questo tipo di progetti”. “Non abbiamo faticato ad accogliere la proposta di Gaia – aggiunge Sergio Giovagnoli di Arci - il tema da lei scelto ci riguarda molto. Noi siamo impegnati nell’accoglienza ma anche nella campagna per lo ius soli e all’interno dell’iniziativa vorremmo organizzare a Roma un giro in bici che colleghi i vari centri di accoglienza e un campo rom”. Alla presentazione è intervenuta anche Laura Renzi di Amnesty International: “nell’ultimo anno 4 i flussi migratori verso il nostro paese sono aumentati. A febbraio sono già 2800 le persone che hanno rischiato la vita in mare per arrivare sulle nostre coste e 329 i morti. Si tratta di una questione talmente importante che bisogna portare avanti tutte le iniziative per parlare di diritti dei migranti”. All’iniziativa dà il suo supporto anche l’Unione nazionale proloco e la Federazione Ciclistica italiana. (ec) Da Adn Kronos del 27/03/15 "Non da sole!". Stasera la prima cena di solidarietà per riaprire o sportello di ascolto del Centro antiviolenza La Nara a Carmignano. Appuntamento ogni mese fino a luglio “Non da sole! Una cena al mese contro la violenza sulle donne” è lo slogan delle cene di solidarietà promosse dall'assessorato alle Pari opportunità del Comune di Carmignano con l'obiettivo di riaprire lo sportello di ascolto del Centro antiviolenza “La Nara” nel territorio del Comune. “Cominciamo stasera al circolo Arci di Carmignano, ma l'appuntamento si rinnoverà ogni mese fino a luglio in tutti i circoli del territorio – spiega l'assessore Sofia Toninelli – Per realizzare questo obiettivo abbiamo in programma molte altre iniziative, ad esempio una mostra-mercato di libri organizzata da genitori nel salone consiliare, le magliette promozionali e anche una serata organizzata dal Lions Club”. Toninelli prosegue sottolineando che attualmente il centro La Nara segue 12 donne residenti a Carmignano, ma la presenza di uno sportello sul territorio facilita enormemente il lavoro delle operatrici e permette un ascolto e una risposta alle richieste sicuramente più adeguata. La prima delle cinque cene di solidarietà si terrà dunque stasera alle 19.30 al circolo Arci di Carmignano (15 euro per primo, pizza, dolce e bevande). Gli appuntamenti proseguono venerdì 17 aprile al circolo Arci di Bacchereto, venerdì 15 maggio all’Arci di Poggio alla Malva, venerdì 12 giugno al circolo Anspi di Seano e si concludono venerdì 10 luglio al circolo Mcl di Santa Cristina a Mezzana. http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/economia/2015/03/28/non-sole-stasera-primacena-solidarieta-per-riaprire-sportello-ascolto-del-centro-antiviolenza-nara-carmignanoappuntamento-ogni-mese-fino-luglio_PakfZ4mDSGJeguyxGbLscK.html 5 L’ARCI SUI MEDIA LOCALI Da la Stampa – Torino 7 del LUNEDÌ 30 AL CIRCOLODEI LETTORI UNINCONTROE UNFILM LA LAICITÀ CONTRO I FANATISMI PATRIZIA VEGLIONE Affermare la laicità per contrastare il sorgere di movimenti politici e Stati di estrema destra, che utilizzano la religione per la supremazia politica. Su questo delicato terreno muove la serata organizzata dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, in collaborazione con Arci. Lunedì 30 marzo dalle 18, al Circolo dei Lettori di via Bogino 9, sarà presentato il «Manifesto per la laicità», preceduto dalla visione del film «Laicité Inch’Allah!». Un tema estremamente attuale, che trova maggiore incisività a pochi giorni dalla strage compiuta a Tunisi dai terroristi dello Stato Islamico (Isis). Intellettuali e attivisti per i diritti universali e civili si confronteranno proponendo la separazione della religione dallo Stato; l’abolizione delle leggi religiose nel diritto di famiglia, civile e penale; la libertà di religione e ateismo come fatto privato; la parità tra donne e uomini. Una testimonianza sul desiderio di laicità anche da parte del mondo mussulmano, sarà portata, alle 18, dalle interviste realizzate dalla regista Nadia El Fani, che introdurrà la proiezione del suo film assieme a Inna Shevchenko (Ucraina), presidente di Femen e all’algerina Marieme Helie Lucas, portavoce di Secular is women’s issue. «Laicité Inch’Allah!», sottotitolato in italiano, è un interessante documento nel quale cinque anni fa ad agosto la regista filma, in pieno Ramadan, una Tunisia che sembra aprire al principio della libertà di coscienza il suo rapporto con l’Islam. Tre mesi dopo, scoppia la rivoluzione tunisina. Il dibattito e la presentazione del Manifesto saranno introdotti alle 21 da Tullio Monti, presidente della Consulta. Interverranno la giornalista e femminista Monica Lanfranco, MaryamNamazie (Iran/GB), portavoce di One Law for All. La conclusione è affidata a Giulio Ercolessi della Federazione Umanista Europea. Sarà attiva la traduzione simultanea dall’inglese e dal francese e il servizio di interpretariato nella lingua dei segni italiana per sordi. Ingresso libero. Info 011/020.85.00. Da La Nazione (Montecatini) del 24/03/15 MARGINE COPERTA IL COMUNE DÀ IL VIA LIBERA ALL’UTILIZZO PER L’ATTIVITÀ SPORTIVA DI TANTI GIOVANI CALCIATORI Il centro «Renzo Brizzi» riapre dopo i danni della tempesta LA BUFERA di vento del 5 marzo (nella foto) sembrava aver «ucciso » i sogni della Polisportiva Margine Coperta. Ma la forza di volontà e il grande impegno di tutte le componenti ha fatto sì che nella giornata di sabato Marzia Niccoli, sindaco di Massa e Cozzile, abbia firmato un’ordinanza della riapertura del centro sportivo «Renzo Brizzi» in specifico «limitatamente agli edifici e alle aree limitrofe della palestra, degli spogliatoi, degli spogliatoi del campo sportivo, della tensostruttura e degli spogliatoi annessi». La riapertura non è totale e il lavoro da fare è ancora lungo, in particolare sulla struttura delle tribune, ma per il momento, essendo passati solo 20 giorni da quella tremenda nottata, si può essere soddisfatti. E il primo vero segnale che il centro tornerà alla vita quasi normale verrà dato domani pomeriggio, quando i bambini della scuola calcio della società 6 neroazzurra rientreranno al centro sportivo «Brizzi» per poter effettuare i primi allenamenti dopo esser stati per quasi tre settimane ospiti di altre società del comprensorio. L’AMMINISTRAZIONE comunale, attraverso un investimento di circa 70mila euro e l’aiuto di molti volontari (tra cui tanti genitori di ragazzi tesserati della società) in questo periodo sono riusciti a togliere travi e detriti dal centro sportivo, riportandolo a un aspetto quasi normale dopo la bufera di vento. Fra le strutture che per il momento non hanno avuto l’ok c’è anche il locale adibito a bar/club house, da sempre posizionato sotto la tribuna centrale, anche se si sta lavorando alacremente perché pure questa struttura riesca a tornare al più presto agevole. E l’aver riaperto in parte il centro sportivo ha portato un’altra buona notizia, che noi come giornale avevamo già anticipato alcuni giorni orsono e cioè che l’edizione numero 30 del Trofeo Renzo Brizzi e la numero 19 del Memorial «Federico Pisani», torneo a carattere internazionale riservato alla categoria esordienti 2002, si potrà svolgere regolarmente da venerdì 3 a lunedì 6 aprile, come sempre nel lungo week end pasquale. E in contemporanea si giocherà anche il 7° Memorial Michele Meoni per la categoria giovanissimi 2000. Durante tutto il periodo dei tornei i titolari del bar/club house, pur in emergenza, organizzeranno chioschi esterni per la consumazione di cibi e bevande e durante la pausa dell’ora di pranzo offriranno questo servizio al circolo Arci di Margine Coperta con la collaborazione dei titolari di questa attività. David Ignudi Da Corriere Fiorentino del 24/03/15 Landini fa il pieno Ma la Cgil: un partito no Al teatro Puccini, le 630 poltrone della platea e della galleria sono tutte piene. In duecento sono costretti a stare in piedi. Il pienone è per il segretario Fiom, Maurizio Landini, a Firenze ieri sera per presentare la sua «Coalizione sociale». Ad ascoltare ci sono suoi convinti sostenitori, e tanti che nutrono un dubbio: ma questo è un movimento sociale o un partito politico? A parlare di «ambiguità» è il segretario generale della Camera del lavoro di Firenze, Mauro Fuso, uno degli esponenti Cgil che sono venuti «per ascoltare, per capire» : «Se quello di Landini è un progetto oppositivo al governo - dice - è legittimo, ma non è un progetto sindacale. E questa l'unica distanza tra Cgil e Fiom». Sulle prime tre file di poltrone c'è scritto «riservato», ma l'unico nome che compare scritto è proprio «Mauro Fuso». Oltre a lui, della Cgil ci sono anche Mario Batistini, Marco Benati, Carla Bonora e Marcello Corti. E se il palco è vietato ai politici, in sala si avvista la senatrice ex M5S Alessandra Bencini, mentre le sue colleghe Alessia Petraglia e Marisa Nicchi, di Sel, sono tra i tanti che non sono riusciti a entrare in teatro, causa ressa, così come il deputato Filippo Fossati. Tra gli «esclusi» anche i consiglieri comunali Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella verdi, e il consigliere regionale Mauro Romanelli. Ci sono il sindaco di Calenzano, Alessio Biagioli, la consigliera regionale Daniela Lastri dopo le sue tensioni con il Pd («nel vuoto della sinistra quella di stasera è un'occasione importante»), e l'ex sindaco di Greve Alberto Bencistà. Anche il neo candidato governatore di Sì, Tommaso Fattori: «Come si lega il mio progetto per le regionali con Coalizione sociale? Se non esiste una forza capace di cambiare l'agenda politica, non è possibile una scelta diversa, di sinistra». Sul palco, accanto a Landini, a parlare c'è il segretario locale di Fiom, Daniele Calosi, e anche Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, che nega la natura elettorale del progetto Landini: «La politica si fa anche come società civile, non c'è bisogno di entrare in Parlamento». Con lei Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci, e Silvano Sarti, di Anpi, che si presenta in sala con una foto di Oscar Luigi Scalfaro, il «difensore della 7 Costituzione»: «L'Anpi è contro le politiche economiche del governo senza garanzie sul lavoro, c'è una degenerazione della società». Sul palco, anche don Andrea Bigalli di «Libera» e Nicola Moscardi, portavoce dei docenti contrari alla riforma della scuola. E Landini? Parte all'attacco. «Quella che vedo è una politica padronale, il governo non parla con i sindacati - tuona - Ci sono milioni di persone che non hanno rappresentanza, questa frammentazione determina una riduzione dei diritti». Landini dice che non pensa a un cartello elettorale: «Ci sono una serie di battaglie comuni che devono diventare strategiche». Quanto a Matteo Renzi, il nome più evocato, Landini gli dedica una battuta: «Dice che cancellare l'articolo 18 è di sinistra, allora io o non so più il significato delle parole, o non sono di sinistra». Giulio Gori FIRENZE Del 24/03/2015, pag. 6 Da Sel ai no-dem,è la festa rossa sperando che rinasca la sinistra IL FOCUS MASSIMO VANNI MA QUELLO là non è Gianfranco Gensini, ex preside di medicina e uomo forte della sanità toscana? Ma sì è proprio lui, Gensini e consorte. Professore, ma che ci fa qui, da quando è un landiniano?«Sono venuto ad ascoltare», dice tirando fuori un tono neutrale accademico. Nel senso che è meglio ascoltare Landini che Renzi? «Ascolto anche Renzi», aggiunge il prof. Però che sorpresa. Tommaso Fattori no, non è propriamente una sorpresa: «Questo è il progetto più interessante che si vede in giro», dice il candidato governatore della sinistra no-dem, uno dei primi ad arrivare. «Questa è la gente che c’interessa », si guarda intorno soddisfatto il responsabile dei comitati Tsipras Massimo Torelli. È il pienone del Teatro Puccini. Platea strapiena, soppalco strapieno. Gente in piedi. Dentro un migliaio, fuori almeno duecento che trovano la porta chiusa. E un’aria da amarcord, perché per una sera le mille sinistre che ogni giorno si becchettano sono di nuovo assieme. C’è chi è cresciuto col Pci ma c’è anche la nuova sinistra. Dal Chianti arriva un gruppo di Rifondazione guidato da Marcello Vanni: «Almeno una bandiera di Rifondazione qualcuno poteva portarla». Quasi si trattasse di partecipare ad una festa. Festa rossa finalmente. Mezzo stato maggiore di Sel, dall’ex sindaco Carlo Moscardini all’ex assessore di Matteo Renzi in provincia Marzia Monciatti e all’ex soprintendente Giorgio Bonsanti. Soprattutto tanti volti che negli appuntamenti della sinistra non si vedevano più: «Molti li rivedo dopo tanto tempo», sussurra Daniela Lastri. Resistenti, disillusi o dissidenti. Rivoluzionari dormienti o semplicemente arrabbiati. Antirenziani di tutta Firenze unitevi alla Coalizione sociale. Unitevi e aderite alla manifestazione di sabato prossimo a Roma. E se, come dice Lastri, una che ha buttato alle ortiche un posto in lista col Pd alle regionali e non riprenderà la tessera, qualcuno pensa che essere al Puccini «è come tornare indietro nel tempo», si sbaglia di grosso: «Per me è andare avanti, gettare il cuore oltre l’ostacolo di una sinistra che si è piegata al pensiero liberista». Ma in platea c’è anche la sinistra che sa già di voler guardare dall’esterno: «Sono qui semplicemente per ascoltare, perché fa bene anche alla Fiom. La proposta non mi convince, rimango sul piano sindacale. A fare bene il sindacato si fa già una buona coalizione sociale», dice il segretario della Camera del lavoro Mauro Fuso. Non 8 è l’unico presente della Cgil. Con lui ci sono Fabio Giovagnoli, presidente dell’Ires Cgil toscana, Marco Benati segretario della Fillea di Firenze, Barbara Orlandi della segreteria della Camera del lavoro, l’ex segretario Fiom Marcello Corti. Non c’è la Sinistra- dem ma ci sono pezzi significativi della minoranza. Tra gli altri è annunciato il parlamentare Filippo Fossati: «Al solito arriverà in ritardo, ci tiene alle sue abitudini», dicono gli amici. Poteva mancare Sinistra-dem? Non solo perché D’Alema sembra adesso dare il via alla rinata dell'ala sinistra. 'Non so dove porterà la coalizione sociale ma finalmente si rivede un po' di movimento', dice seduto in platea Claudio Martini, ex capo di gabinetto del sindaco Domenici. E poco più in là tiene banco perfino Ugo Barlozzetti, comunista eretico noto per la ricostruzione delle battaglie con i soldatini: «Sono venutoper un moto del cuore», confessa. Sul palco parlano Silvano Sarti dell’Anpi e Francesca Chiavacci presidente nazionale dell’Arci. «Sono qui ad ascoltare», è la frase che rimbalza da un angolo all’altro della platea. Quasi un inconfessato pudore, da parte di quella sinistra in cerca d’identità che da tanto tempo non riesce più a trovare la bussola. «Qui mi sento a mio agio», sorride prima di salire sul palco Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia. Enrico Rossi non c’è e non appare neppure sedotto dalle sirene dalemiane: «La sinistra del Pd si è riunita per la prima volta ma a guidare le danze sono sempre gli stessi che negli, ultimi anni hanno portato alla sconfitta», scrive su facebook. «E non si va da nessuna parte se non si esprime un nuovo gruppo dirigente». Da Cn24 del 31/03/15 All’Arci “Depth Calling Gaza/Atene/Sarajevo”, documentari d’autore “Depth Calling Gaza/Atene/Sarajevo”. Per il ciclo dei tre appuntamenti con il documentario d'autore, martedì 31 marzo e martedì 7 Aprile, alle 18 presso la sala "Carlo Giuliani" della Sede Arci di Crotone, in Via Lucifero, 15, "CTRL+ALT+CANC - Arresta il Sistema" di Anna Coluccino *** CTRL: Del danaro e d’altri miti | È il capitolo dedicato al controllo, ovvero all’economia, alla speculazione finanziaria e alla politica che ad essa si sottomette. Tutto è raccontato dal punto di vista di militanti e cittadini attivi; attivi anche solo nel libero esercizio del pensiero. Non c'è giudizio sul loro punto di vista, ma c'è assoluta consapevolezza di aver raccontato solo una porzione di mondo e non il suo complesso. ALT: Del rifiuto e d’altre resistenze | È il capitolo dedicato alla contestazione, all'obiezione, alla resistenza di piazza rabbiosa e arrembante. Si mostra il fiorire di iniziative comunitarie e personali, politiche e sociali che hanno caratterizzato tutta la resistenza greca alla crisi. Da qui, emerge chiaro un punto: esiste comunanza di intenti, la consapevolezza cresce, manca l'organizzazione e l'adesione a un metodo riconosciuto come giusto da e per tutti. CANC: Del sé e dell'altro da sé | È il capitolo sul dramma dell’immigrazione che - in Grecia - assume proporzioni che non hanno paragone con nessun altro paese d’Europa. Pestaggi e ammazzamenti erano e sono all’ordine del giorno. La connivenza tra le forze di polizia e la forza neofascista Alba Dorata è smaccata, le conseguenze per la psicologia dei migranti sono devastanti. RESTART: Della fine e d’altro princìpi(i) | Il capitolo dedicato alle ripartenze, a chi - anche nel momento di disperazione più profonda - compie l’enorme sforzo di continuare a credere che un altro mondo sia possibile e che ciascuno possa e debba fare la sua parte. 9 http://www.cn24tv.it/eventi/4358/all-arci-depth-calling-gaza-atene-sarajevo-documentari-dautore.html 10 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Avvenire.it del 28/03/15 Forum sociale, così rinasce la Tunisia ferita Anna Pozzi Il Forum dell’orgoglio tunisino. Non proprio «globale», essenzialmente maghrebino, molto di base, il Forum sociale mondiale che si conclude oggi, dopo tre giorni di workshop, incontri e manifestazioni, ha mostrato soprattutto un’anima tunisina. Un’anima ferita dall’attentato al Museo del Bardo dello scorso 18 marzo, solidale con le vittime e i loro familiari, ma anche un’anima fiera di essere riuscita a reagire e mostrare al mondo che almeno un’“altra” Tunisia è possibile. Non quella degli islamisti e dei terroristi. Ma quella di un popolo che ha voglia di guardare avanti con fiducia e senza paura. «Très desolés! Ci dispiace molto», ripetono continuamente i tunisini che si incontrano nei viali o nelle aule del campus di El Manar, sulle colline di Tunisi, dove si svolge il Forum. «Ci dispiace – insistono – per gli stranieri morti nell’attentato, ma anche per il nostro Paese, per il nostro futuro. Ma non dobbiamo, non vogliamo avere paura. Altrimenti avrebbero vinto loro, i terroristi». C’è voglia di “normalità” tra le migliaia di persone che hanno affollato le aule e gli auditorium di questo campus molto vasto e un po’ decadente, dove in modo totalmente autogestito, ma tutto sommato abbastanza organizzato, circa 4.300 organizzazioni hanno animato oltre mille workshop sui temi più svariati: diritti e dignità, pace e democrazia, cittadinanza e migrazioni, uguaglianza e ambiente, sviluppo sostenibile e giustizia sociale, istruzione, lavoro, salute, libertà di espressione. Settantamila i partecipanti, in rappresentanza di 120 Paesi, secondo gli organizzatori. Probabilmente parecchi meno, anche se non sono state moltissime le defezioni. Qualche workshop qua e là non si è svolto, rinunce soprattutto di stranieri, ma il grosso dei partecipanti era qui e veniva soprattutto dal Maghreb e dal Medio Oriente con gli estremi geografici – saharawi e palestinesi – particolarmente evidenti. Nel complesso il Forum rinviava l’immagine di una società giovane, parecchio al femminile, generalmente preparata e consapevole, con qualche residuo di ideologia e molte aspettative per il futuro e il desiderio di impegnarsi concretamente per costruirlo. Fatma è una delle centinaia di interpreti volontari che assistono in particolare gli stranieri soprattutto per la traduzione dall’arabo. Ha un master in interpretariato e lei, a differenza della gran parte dei giovani tunisini, ha un lavoro abbastanza regolare. Ma al Forum sociale mondiale è venuta anche per testimoniare la sua militanza di donna e di tunisina. E, non a caso, partecipa a un workshop sulla transizione democratica nel Maghreb: «C’è un generale senso di rifiuto nei confronti di questi terroristi e per questo vogliamo dire che la Tunisia non sono i jihadisti». Rida Saidi, ricercatore universitario, insiste sulla necessità di «promuovere la riconciliazione nel Paese», ma sottolinea anche le ripercussioni negative del caos libico sulla Tunisia, oltre a quelle della crisi economico-finanziaria mondiale. «Siamo un piccolo Paese, senza risorse, ma dobbiamo reagire sia a livello sociale che politico per consolidare la pace e lo sviluppo ». «Bisogna avere il coraggio anche di dire apertamente che non c’è solo il bene nell’islam. Bisogna fare autocritica. Non rifugiarsi nei precetti o nascondersi dietro il buonismo», incalza Moez, che affronta una questione estremamente delicata e controversa: quello di una riforma e di una rilettura dell’islam. «Anche se abbiamo fatto la rivoluzione è difficile 11 esprimersi apertamente su questo tema». Lui lo fa intervenendo in un workshop promosso dal network dei comboniani e comboniane per la giustizia, la pace e la riconciliazione, presente al Forum con una delegazione di una quarantina di persone di quattro continenti. Il tema “Religioni e culture: fattori di conflitto o di dialogo per la pace” è alquanto 'sensibile'. E il dibattito molto animato. «Nella nostra esperienza – spiega suor Anna Maria Sgaramella, una vita tra Palestina ed Egitto – il dialogo della vita è sempre possibile. Non bisogna però concentrarsi solo sulle differenze, ma essere coscienti delle differenze per non cadere in trappole». Ahmed invece si entusiasma, parlando dei nuovi spazi di libertà che si sono aperti in Tunisia dopo la “rivoluzione”. Lui, giovane uomo, partecipa a un incontro per la promozione della donna nella vita politica. «In poco più di tre anni sono nate più di 17mila associazione – dice –. Questo ha contribuito a vivacizzare la vita sociale, culturale e anche politica, ma al tempo stesso c’è stata una sorta di “banalizzazione” dell’associazionismo. C’è sete di libertà, ma bisogna saperla gestire». Lui stesso, cantore di questa nuova libertà, non vuole lasciare il suo cognome e preferisce non farsi fotografare. La libertà in Tunisia è ancora una materia da maneggiare con molta cura. E mentre Tunisi si prepara alla marcia di domani con i leader mondiali (tra loro Matteo Renzi, François Hollande e Abu Mazen), anche il presidente Sergio Mattarella torna sulle stragi di Parigi e del Bardo e afferma – in un’intervista a Le Figaro– che è l’ora di «lanciare un Patto di civiltà per contrastare le campagne d’odio e di indottrinamento». http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/il-Forum-dellorgoglio-Cos-rinasce-la-Tunisia-ferita.aspx Da Huffington Post del 28/03/15 Tunisia in piazza contro il terrorismo. Renzi e Hollande in corteo. Servono aiuti economici per strappare i giovani disoccupati all'Isis Umberto De Giovannangeli La “Piazza” era riuscita a sconfiggere il regime del padre-padrone Ben Ali. Lo slogan dei protagonisti della “rivoluzione dei gelsomini” dava il senso di una rottura epocale: “Abbiamo sconfitto la paura”. Oggi, quella stessa “Piazza” torna a manifestarsi per ribadire che tagliagole e jihadisti non faranno scempio di quei principi di libertà e di pluralismo che vivono nella stabilizzazione democratica della Tunisia. Domenica i tunisini diranno di nuovo che “la paura è stata sconfitta. Per sempre”. E lo faranno nella grande marcia di Tunisi contro il terrorismo alla quale sarà presente anche la Presidente della Camera Laura Boldrini e – come anticipato dall’Huffington Post - anche il Premier Matteo Renzi. Il corteo partirà da Bab Saadoun per terminare al Museo del Bardo e alla sede del Parlamento tunisino. “Per volontà della Presidenza delle Repubblica, del Parlamento tunisino e del Governo tunisino, una grande manifestazione nazionale sarà organizzata domenica prossima a Tunisi per condannare l’attacco terroristico che lo scorso 18 marzo ha colpito il Museo del Bardo", aveva annunciato nei giorni scorsi la ministra del Turismo, Selma Elloumi Rekik. Dieci giorni dopo quel tragico 18 marzo, i riflettori sembrano essersi di nuovo spenti sulla Tunisia che resiste. Ma fatti importanti ne sono successi, e positivi. Primo fra tutti, il Forum Sociale Mondiale. “Fuori il Terrorismo dalla Tunisia, Siamo tutti tunisini, Solidarietà con i popoli del mondo intero”. Molte voci, voci diverse, si sono unite 12 nei cori che hanno animato la marcia di solidarietà per le vittime del Bardo, nel giorno di apertura, lo scorso 24 marzo a Tunisi, del Forum Sociale Mondiale. Accanto ai numerosi tunisini, si stringono le organizzazioni della società civile, giunte da tutto il mondo, a protestare contro ogni forma di violenza. Più di 4.300 organizzazioni e associazioni provenienti da 120 paesi hanno istituito oltre un migliaio di workshop, conferenze e dibattiti per discutere di questioni sociali, tanto locali quanto globali. Ho incontrato un gruppo di ragazzi tunisini che partecipano al Forum e ho chiesto loro come è cambiata la loro vita dopo il 18 marzo - racconta Vittorio Agnoletto, membro del consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale. "In nulla, tutto prosegue come prima - mi hanno risposto - e non deve cambiare nulla, altrimenti diamo ragione ai terroristi. Certo che abbiamo paura, è vero che alcune migliaia di nostri connazionali combattono in Siria a fianco dell'Isis ed anche vero che qui ci sono delle cellule dormienti, ma la nostra vita non deve cambiare. Noi dobbiamo difendere la democrazia che abbiamo conquistato con la nostra rivoluzione cinque anni fa e se sarà necessario sapremo resistere". Quanto al grande raduno di domani, il fatto che si chiuda davanti al Museo del Bardo, non è solo per rendere il dovuto omaggio alle vittime del sanguinoso attacco terroristico (21 morti, tra i quali 4 cittadini italiani) rivendicato dall’Isis, ma è anche il modo, spiega il più conosciuto blogger tunisino Youssef Cherif, raggiunto telefonicamente dall’Huffington Post a Tunisi – “per difendere la cultura che è uno dei valori che sono stati a fondamento della “rivoluzione jasmine”. La cultura – aggiunge Cherif – che sostanzia l’altro principio che ha permeato la nostra rivoluzione: la democrazia. Cultura e democrazia che i criminali dell’Isis vedono come una minaccia mortale, ostacoli da rimuovere per realizzare la loro aberrante idea di società, fondata sulla più brutale dittatura della sharia”. "La Tunisia non sarà mai governata dalla sharia. Resta un porto di democrazia, ma non è più un porto di pace. Nella gioventù scoraggiata, spesso disperata, l'appello jihadista ha funzionato", ha ammesso il presidente tunisino Beji Caid Essebsi in un'intervista alla radio francese “Europe 1”, subito dopo la strage al Museo del Bardo. D’altro canto, la Tunisia non è solo il Paese simbolo di una “Primavera araba” non sfiorita, ma è anche il Paese che, in rapporto alla popolazione, dà più miliziani allo Stato islamico di Abu Bakr alBaghdadi: si calcola che siano almeno 3mila i mujihaddin tunisini che combattono in Siria nelle fila dell’esercito del “Califfo Ibrahim”. L’attacco alla Tunisia ha una fortissima valenza politica. Non solo perché si è inteso colpire l’unico Paese del Vicino Oriente nel quale le istanze di libertà, di giustizia sociale, che sono state alla base delle rivolte popolari che hanno cambiato il corso della Storia, non sono state cancellate da una restaurazione militare (Egitto) o dall’affermarsi di un radicalismo islamico armato che ha come obiettivo la costituzione e il consolidamento del primo Stato della Jihad al mondo. L’esperienza della transizione tunisina è unica anche perché il partito islamico che deteneva il potere nel dopo Ben Ali – Ennahda – ha scelto di non ostacolare ma di realizzare un governo di unione nazionale con le forze laiche, mostrando così che l’Islam politico non è inconciliabile con i principi propri di uno Stato plurale, uno Stato di diritto. L’esperienza tunisina è anche questo: dimostrare che è possibile coniugare modernità e tradizione, valorizzando, in questo quadro, il ruolo delle donne nella vita pubblica e facendo leva su una società civile strutturata, vivace, fatta di associazioni, gruppi di base e di un radicato e combattivo movimento sindacale. "Per i fondamenti islamici è un Paese in cui regna la democrazia, e questo vale anche per la Tunisia”, sottolinea Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”. "Siamo un popolo ferito di undici milioni di tunisini - rimarca il console di Tunisia in Italia, Mestiri Naceur - Il 18 marzo 2015 rimarrà per la Tunisia una giornata nera, perché il 13 terrorismo ha cercato di colpire la democrazia, la libertà, la civiltà e il turismo, un filone dell'economia tunisina. Noi non abbiamo paura, siamo determinati ad andare avanti e a vincere questo terrorismo. Siamo ormai in guerra contro il terrorismo e dobbiamo avere una strategia per contrastare il pericolo". "Contiamo sulle nostre proprie forze – rimarca il console - ma dobbiamo rafforzare la cooperazione internazionale con gli amici, in particolare con l'Italia, a tutti i livelli". Ma la sconfitta del terrorismo jihadista non può venire solo da una incisiva azione di polizia e di intelligence. Perché è dentro una drammatica crisi sociale ed economica che le filiere tunisine dello Stato islamico e di al-Qaeda fanno proseliti. La disoccupazione giovanile nel Paese ha raggiunto livelli drammatici, e secondo un recente rapporto OCSE almeno 2 giovani tunisini su 5 sono senza lavoro, situazione che disegna i contorni di "un vero e proprio dramma sociale che ha urgente bisogno di essere affrontato". E se così non sarà, il rischio è che si propaghi e rinvigorisca una tensione che già è di per sé alta nel Paese, il quale potrebbe cadere definitivamente vittima della violenza jihadista in uno scenario ancora peggiore. Per Mourad, disoccupato di 28 anni con un master in tecnologia, l'Is è l'unica speranza di ''giustizia sociale'', ''l'unico modo per ridare al popolo diritti veri'' e sostenerlo ''è un dovere per ogni musulmano''. Molti raccontano di amici che, entrati nell'Is, ''vivono meglio di noi'' con stipendio, casa e moglie, racconta Walid, 24 anni. Il New York Times ha intervistato al riguardo diversi giovani tunisini, la maggior parte dei quali ha voluto mantenere nascosta la propria identità per paura di ritorsioni da parte della polizia. Per esempio Ahmed, un giovane sostenitore dello Stato islamico, ha detto: "Lo Stato islamico è il vero califfato, un sistema imparziale e giusto, dove non devi seguire gli ordini di qualcuno perché è ricco o potente. Si agisce, non si teorizza". Nei bar della zona di Ettadhamen, nell’agglomerato urbano di Tunisi, decine di giovani disoccupati e appartenenti alla classe operaia hanno espresso la loro simpatia per le posizioni dell’Is: alcuni accusano gli stati europei di avere diviso gli Stati arabi alla fine della Prima guerra mondiale, impedendo la nascita di un califfato; altri parlano di “giustizia sociale”, dicendo che una volta che il califfato avrà assorbito le monarchie del Golfo Persico, ricche di petrolio, ci sarà una ridistribuzione generale della ricchezza. Stime ufficiali del governo di Tunisi indicano che circa tremila tunisini, la maggior parte di età inferiore ai 30 anni, sono andati a combattere in Siria e l’80 per cento di loro ha aderito al gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Di questi, circa 450 sarebbero stati uccisi e una sessantina si ritiene che siano nelle carceri del regime di Bashar al-Assad. Inoltre novemila tunisini sarebbero stati fermati dalle autorità di Tunisi nell’intento di andare a combattere in Siria. Di questi, secondo il ministro degli Interni Lofti Ben Jeddou, tra i 400 e i 500 sono rientrati in patria. “Il popolo tunisino, non si riconosce nel terrorismo, è amante della pace e della vita, è colto e aperto, ed ha una tradizione di accoglienza molto antica”, dice all’Agenzia Fides P. Jawad Alamat, Direttore delle Pontificie Opere Missionarie (POM) della Tunisia, che però aggiunge: “non possiamo certamente nascondere l’esistenza di gruppi più o meno consistenti di estremisti che ricorrono alla violenza per imporre la loro ideologia”. “Per risolvere il problema – continua p. Juwad - occorre in primo luogo riconoscere che all’interno di questo popolo, c’è anche una parte violenta, che è alimentata da una situazione economica molto difficile. La disoccupazione è in crescita, mentre il costo della vita aumenta. In questo contesto è facile per chi ha molto denaro a disposizione corrompere le coscienze dei giovani disperati e reclutarli per commettere azioni violenti”. Alla marcia di domani, oltre a Matteo Renzi, saranno presenti altri leader europei, fra i quali il presidente francese Francois Hollande. Una presenza che, per non essere solo simbolica, deve essere sostanziata da un rilancio di un “patto euromediterraneo” del quale 14 Italia e Francia dovrebbero essere tra i principali promotori. Una priorità rilanciata da Olivier Roy, tra i più autorevoli studiosi francesi del mondo arabo e musulmano, in una recente intervista a “Repubblica”: “"La Tunisia era da poco riuscita a riconquistare la fiducia dei turisti dopo il periodo delle primavere arabe. Ci potrà essere anche un ripensamento da parte di imprese occidentali. È invece fondamentale che l'Europa dia un sostegno economico, con aiuti che possano sostenere il paese nel suo cammino democratico. E non solo. La Tunisia - spiega Roy – è uno Stato giovane, uscito da una dittatura. E contrariamente all'Egitto, non è un Paese con una tradizione militare. L'Europa dovrebbe dare un appoggio logistico e tecnico per costruire una polizia democratica in Tunisia, aiutando così la prevenzione del terrorismo. Inoltre va trovata una soluzione politica per la vicina Libia". Perché tutto si tiene nel Vicino Oriente in fiamme. E il terrorismo si combatte rafforzando le istituzioni democratiche e dando sostanza alla rivendicazione di giustizia sociale. Con il lavoro più che con le armi. Questo ribadirà domani la “Piazza tunisina”. Piazza della Libertà. http://www.huffingtonpost.it/2015/03/28/tunisia-in-piazza-contro-_n_6961838.html 15 ESTERI Del 30/03/2015, pag. 1-2 In settantamila a Tunisi la grande marcia contro il terrorismo “Non ci sconfiggeranno” Sfilano i capi di Stato, tra loro anche Hollande e Abu Mazen Renzi in piazza: “Lotta per la democrazia, fermeremo gli estremisti” ADRIANO SOFRI TUNISI QUANDO si vuol mostrare di non aver paura si portano i bambini alla manifestazione. I tunisini hanno portato i bambini. Il loro cartello prediletto è: «Questa estate io faccio le vacanze in Tunisia». Benché il turismo sia qui una risorsa decisiva, è un’idea poetica. Tutti paragoneranno la manifestazione di oggi a Tunisi a quella di Parigi: io no. È grande e bella, non ne ha bisogno. I confronti si portano poi dietro domande inutilmente facili (perché le agenzie di viaggio non hanno cancellato Parigi, e le crociere internazionali hanno cancellato Tunisi? E l’altro ieri la Federazione internazionale di tennis ha cancellato gli Open di Tunisi di aprile!) C’è tanta gente: 70 mila, secondo la polizia (la polizia, dicono qui, oggi è dei nostri). In questi giorni Tunisi si è riempita di pioggia di vento e di cortei del Social Forum. Là e qui ragazze e donne danno il tono: «Essere donna vuol dire vivere in uno stato di guerra». Oggi il vasto viale è rosso di bandiere tunisine. Alla fine, caduta la tensione, saranno sventolate dalle auto come per una vittoria calcistica. La Tunisia di calcio ha appena perduto col Giappone, ma il patriottismo si è spostato: come nell’inno nazionale cantato dai parlamentari in un sottoscala durante l’attentato, e ricantato oggi dalla folla. Non è la Marsigliese, ma dice, come tutti gli inni, «moriamo, purché viva la nazione». Sono morti anche 3 giapponesi, nell’internazionalismo inerme del museo del Bardo. Nel corteo una signora in carrozzina, un’aria fragile e formidabile, ha un cartello scritto a mano: «Non ci fate paura, ci troverete sempre al nostro posto». Me ne sento protetto. A proteggere tutti c’è uno spiegamento enorme, carri armati, terrazze di cecchini: e anche qui — «come a Parigi», direi, se non avessi rinunciato — inedita familiarità fra la gente e i poliziotti. Alla fine perfino le truppe speciali, una fessurina per gli occhi nel nero delle uniformi, accolgono pazientemente le famiglie colorate per la foto. La gente a Tunisi è cordiale, tanto più coi giovani del Social Forum che sono venuti lo stesso - il Forum ha perso la spinta propulsiva, ma resta una gran festa di ragazzi — e con i giornalisti stranieri, il cui spiegamento è imponente anche lui. Mentre la manifestazione dilaga davanti al museo, all’interno l’organizzazione che si era voluta ferrea scivola in una confusione clamorosa di governanti sfuggiti ai loro pastori e viceversa. Ma la commozione ha avuto il tempo di imporsi, con le salmodie di cantori sufi sul fondale del gran mosaico della strage. Nel bailamme che monta mi infilo nelle sale, la cui bellezza, guardata di corsa e quasi clandestinamente, è soverchiante. Cerco invano il ritratto di Virgilio. Però, quando i cortei di berline hanno portato via le autorità, il direttore Moncef Ben Moussa, 50 anni, gran tipo che studiò in Italia, ci fa vedere tutto: anche i buchi delle raffiche. Li lasceremo, dice, un museo è il luogo della memoria, e la bellezza antica e il lutto recente si combinano in un modo struggente. Il rotolo che Virgilio (se è lui, ma oggi decidiamo senz’altro che sia lui) tiene sulle ginocchia, recita dall’Eneide: «Musa, mihi causas memora, quo numine laeso...» — ricordami le cause, Musa. Il museo riapre al pubblico lunedì — «il giorno in cui i musei sono chiusi, anche questo è un segnale». 16 Com’è vicina Sousse, e Cartagine, e Tunisi. L’Europa dovrebbe ancora sapersi immaginare come la vicina sconfitta di una Cartagine vittoriosa. Dovrebbe saper immaginare una Tunisia che entri in Europa, e almeno un’Europa che entri in Tunisia. Quest’estate, le vacanze… Sono passati undici giorni dalla strage. Le autorità hanno voluto preparare la prova. In undici giorni di questi, quando si gioca d’azzardo con la carta geografica in mezzo mondo e nell’altra metà un secondo pilota si procura il suo inferno, le cose vacillano. La signora Merkel non c’è: un’agenda troppo piena di lutti. C’è Hollande, e il presidente Caïd Essebsi, 88 anni, lo ringrazia chiamandolo «François Mitterrand », scherzi della nostalgia — una punta l’avrà provata anche lui, Hollande. Matteo Renzi sa dire le parole giuste, e ha imparato a scansarsi quando si sgomita per formare il cordone dei grandi capi: ha più tempo di loro. «Siamo qui accanto alle autorità tunisine per dire che non la daremo vinta ai terroristi», dice. Sabato il governo tunisino ha compiuto due operazioni. Ha ucciso 9 terroristi in uno scontro a Gafsa, nel sud, e fra loro l’algerino Khaled Chaib, alias Lokman Abou Sakher, il terzo attentatore e capo di una cellula micidiale. Alla vigilia della manifestazione: dunque il governo sapeva che cosa fare. Dopo la rivoluzione, il governo islamista di Ennahda seguì con l’estremismo jihadista un atteggiamento simile al “quieto vivere” che i governi italiani tenevano con la mafia. Oggi Ennahda c’è, e perciò l’opposizione di sinistra ha voluto disertare la manifestazione, a differenza dal sindacato: peccato. Il governo laico del partito Nidaa Tunes — nel quale Ennahda sconfitta alle elezioni ha un ministro — vuole mostrarsi risoluto. Un altro episodio è avvenuto sabato: la moschea più antica e nobile di Tunisi, EzZitouna, è stata sgomberata da Houcine Laabidi, predicatore di odio e violenza. Condannato, Laabidi vi resisteva coi suoi adepti, chiudendo al mondo quel tesoro di storia. Gran bella manifestazione: come a Parigi. Avrà fatto venire ai ragazzi la voglia di cercare un senso qui, nel museo coi mosaici più belli e i buchi nei muri? C’è un amorino — è nudo, ha le ali: un colpo di kalashnikov l’ha decapitato. del 30/03/15, pag. 1/3 Tunisi, la marcia dei 70 mila “Terroristi, non vincerete” Hanno scelto la libertà La vera primavera è appena cominciata Un Paese povero e infiltrato dagli jihadisti ma capace di ritrovare il senso di comunità Domenico Quirico Non so se questo sia il momento per una dichiarazione d’amore, per una dichiarazione di fede. Nella Grande Guerra del nuovo millennio farsi illusioni è colpevole. A Ovest a Est a Sud il califfato trionfa, le coalizioni per svellerlo si decompongono nel caos, il suo miglior alleato, Abu Bakr trionfa. Eppure… Manco da qualche mese dalla Tunisia, ma non immaginavo una simile moltitudine. È stata in un certo senso una rivelazione. Si muovevano come uccelli in migrazione, come un popolo unito, marciavano. In cammino di nuovo come quattro anni fa in un’altra primavera. Come lo hanno deciso? Come si sono organizzati? Come sono arrivati? Tunisi si è riempita di gente convocata misteriosamente e rapidamente come uccelli, a solo undici 17 giorni dalla strage del museo del Bardo, ventun turisti e un poliziotto uccisi da un commando islamista. Senza retorica Una calda domenica di primavera con i fiori che delimitano i prati dei palazzi del potere e l’erba di un verde accecante. D’un tratto, dalla retorica scoperchiata a impazienza di popolo, i tunisini hanno calato giù, senza eruditi preamboli, la cosa più urgente e concreta che ci sia: uomini che soffrono ma stanno insieme, ragionano, sanno scegliere. Quel fardello penzolante rovescia la stomachevole inutilità delle parole in un’altra eloquenza, quella di gente povera e sfortunata, di occhi pieni di Storia senza pietà. Poche centinaia di metri, ma bastano: l’unico comunismo autentico, senza accenti o declinazioni, quello della condivisa sofferenza, quello che solo i poveri e gli afflitti, in qualsiasi parte del mondo, sanno parlare. Nel loro comportamento c’era una forte consapevolezza della propria serietà, del proprio dovere ad esser lì. Quella presenza in strada offendeva gli estremisti, gli «odiatori» senza speranza e senza la minima volontà di riscatto. Ed è giusto che fosse così perché era la conferma che i tunisini hanno scelto la libertà, che non intendono farsi fuorviare dalla follia totalitaria. Quello che chiedono è semplice: basta ammazzare, chiunque, dovunque. «Tunisia libera, terroristi fuori!», scandivano con voci calme. Domani il sole non sorgerà su un mondo nuovo, purtroppo, ma quello di ieri non è stato un giorno sprecato. Uno dei caratteri salienti del totalitarismo, islamista e non, è la perdita del senso di responsabilità. Si punta ad esimere l’uomo dalla responsabilità delle sue azioni. Il vero potere delle tirannidi impersonali, l’istante in cui l’uomo dice: sono i più forti… che posso farci? Questo è il momento dell’angoscia del nostro tempo costretto a misurarsi con il Califfato. I tunisini, invece, hanno affermato: «Ecco cosa farei perché è necessario, e cosa mai possono ancora farci?». Condizioni difficili Alcuni ingenui vorrebbero farci credere che la Tunisia, in fondo, gode ottima salute. Ma come potrebbe mai? Fiaccata da regimi parassitari, anche dopo la primavera dei gelsomini, all’oscuro di molte cose fondamentali, menomata da perversa benevolenza verso l’estremismo, (come hanno ricordato i partiti del Fronte popolare, accusando gli islamisti governativi di Ennahda di essere ipocriti), afflitta dalla povertà: come potrebbe mai godere di ottima salute? Impossibile! Eppure, nonostante questo, il cuore di questo piccolo Paese possiede davvero una integrità naturale, un caparbio senso della comunità. Si sentono lì, anche ieri, voci e canti con un senso tenero di una vita popolare perenne, quale è da secoli, e quale sarà forse per sempre; una vita protetta dalle memorie, confortante nell’affanno di oggi. Siamo noi ad averne bisogno, non loro della nostra taccagna elemosina. Allora come possiamo attingere a questa sorgente di stabilità e di significati? Non fingendo di essere stati sempre al loro fianco. È falso. Dopo l’accensione della Primavera, la curiosità che suscitava, la speranza della scoperta di forze ignote in quella parte del mondo che dicevamo immobile e arretrata, la Tunisia è tornata nella sua condizione di prima agli occhi dell’occidente, attraente come paese, ma con una sorta di diffidente fastidio verso la sua umanità. Siamo stati amici dei loro tiranni, abbiamo cacciato brutalmente i loro ragazzi migranti, ragazzi che ieri sfilavano nella capitale (quelli che per la delusione non sono diventati islamisti e assassini). Sì, in fondo l’unica nota stonata erano i notabili stranieri, fuori tema, sciupacchiati, preoccupati di se stessi, della loro esteriorità, spiravano una frigida vitalità esteriore, per la facciata, per far colpo. Dell’orrore abbiamo fatto il nostro compagno quotidiano, quasi che non dipendesse da noi allontanarlo. Quasi fossimo impotenti di fronte ad esso. Il tempo in cui cominciano i fatti indescrivibili e difficili da capire per una mente d’uomo: è già accaduto e sono quelli di oggi. La realtà terrificante di questa strage senza confini è talmente nuova da non riuscire 18 a raccontarla al punto che vi si rinuncia. Per viltà. Mancano i termini di paragone. Si aspetta la fine della cattiva stagione. Come una speranza. Mai credo si aspettò così. Ci si contenta che il tempo diventi più mite, che torni la primavera, il sole. Le speranze dell’occidente sono ridotte a questo. I tunisini di ieri ci hanno insegnato qualcosa. Del 30/03/2015, pag. 3 Renzi-Hollande, sfilata a Tunisi Al memoriale inaugurato ieri al museo del Bardo è stato aggiunto un nome all’ultimo momento. È morta poche ore prima dell’avvio della manifestazione, Huguette Dupeu, turista francese rimasta ferita nell’attentato avvenuto 12 giorni fa. Sale così a 22 il conto dei morti nell’attentato dei terroristi islamici. La lapide è stata scoperta dai capi di Stato di diversi paesi, tra cui Matteo Renzi e François Hollande, arrivati a Tunisi per la marcia contro il terrorismo. Mentre iniziava la manifestazione Habib Essid, il primo ministro tunisino, ha annunciato che Khaled Chaib, il terzo attentatore del Bardo, è stato ucciso, in un blitz delle forze speciali. Chaib, conosciuto come Lokman Abou Sakher, leader della cellula Okba Ibn Nafaa, era scappato facendo perdere le proprie tracce. Rintracciato a Gafsa, a quasi 400 chilometri dalla capitale, è morto durante un’operazione congiunta di esercito e polizia. La scorsa settimana si è più volte diffuso l’allarme di un nuovo attentato islamista a Tunisi; prima alla manifestazione conclusiva del Forum Sociale Mondiale, poi alla marcia. L’apparato di sicurezza messo in campo ieri era notevole. A Bab Saadoun, luogo da cui è partita la manifestazione c’era persino un carro armato. Cecchini sui tetti, transenne e filo spinato a dividere i due spezzoni del corteo: da una parte i politici, dall’altra la popolazione. “La Tunisia non è sola” ha detto il premier Renzi ieri uscendo dal Bardo. “Siamo qui accanto alle autorità tunisine per dire che non la daremo vinta ai terroristi e continueremo a combattere per gli ideali di pace, libertà e fraternità ovunque”. Le decine di migliaia di manifestanti, 70 mila secondo la polizia, che hanno marciato ieri, non aspettano altro. “Ci servono investimenti e turisti europei”. Samir, ha portato alla manifestazione figli e nipoti. “C’è un legame stretto tra disoccupazione e islamismo. Questi ragazzi continua Samir, commentando le 3 mila partenze di aspiranti mujahidin dalla Tunisia – vedono un futuro di povertà in questo paese. Si fanno facilmente indottrinare da estremisti che promettono loro soldi per combattere il jihad”. IN MEZZO AL MARE di bandiere tunisine quella di Tamer sventola più in alto. Si è arrampicato su un semaforo e da lì urla: “Dichiariamo guerra al terrorismo. Tanti paesi sono gelosi della nostra rivoluzione, ma noi la difenderemo”. Il processo democratico non ha rallentato dal gennaio 2011, quando Ben Alì scappò all’estero. Oggi la Tunisia è l’unico paese, interessato dalle “primavere arabe”, ad avere una rappresentanza eletta democraticamente. “Mettiamo in conto il terrorismo come parte della rivoluzione, ma presto lo supereremo”. Aziza indossa un paio di occhiali scuri e un camice bianco: “Sono un’infermiera e tra poco devo tornare al lavoro, ma volevo vedere questa piazza, qui si sente ancora l’odore dei gelsomini della rivoluzione”. Lo slogan della giornata è stato “Le monde è Bardo”. Per ricordare quanto accaduto a Parigi a gennaio e sottolineare i rapporti tra Tunisia e Francia. Parigi e Roma hanno mandato le delegazioni più importanti alla manifestazione di ieri, oggi i tunisini si aspettano da questi due paesi l’impegno per risollevare l’economia. 19 Del 30/03/2015, pag. 1-13 L’analisi. Washington è convinta di poter trasformare il regime, ma le minacce degli ayatollah sono ancora un ostacolo Un nuovo ordine e più petrolio ecco il terremoto che piace a Obama THOMAS L. FRIEDMAN PERSONALMENTE riesco a individuare molti validi motivi per arrivare a un accordo sul nucleare con l’Iran e altrettanti per rinunciarvi. Se non avete le idee chiare a questo proposito vediamo un po’ se riesco a confondervele ulteriormente. La proposta di sospendere le sanzioni contro l’Iran — purché quest’ultimo riduca le sue capacità nucleari tanto che la produzione di armi richieda almeno un anno di tempo — deve essere valutata in sé e per sé. Vanno esaminate in dettaglio le caratteristiche del sistema di verifica, in particolare le conseguenze in caso di imbrogli da parte iraniana. Bisogna però tener conto del quadro dei più ampi obiettivi strategici americani nella regione, perché un accordo tra Usa e Iran equivarrebbe a un terremoto in grado di scuotere ogni angolo del Medio Oriente. Non si presta adeguata attenzione alle implicazioni regionali dell’accordo, in particolare a ciò che accadrebbe se andassimo a rafforzare l’Iran in un momento in cui gran parte del mondo arabo sunnita vive una grave crisi. La tesi del team di Obama è che l’accordo con l’Iran abbia carattere “trasformativo”, la rimozione delle sanzioni cioè, sarebbe una ventata d’aria nuova e potrebbe spingere l’Iran ad aprirsi, uscendo dall’isolamento imposto dal 1979 dagli ayatollah e dalle guardie della rivoluzione, trasformandolo gradualmente da stato rivoluzionario a paese normale, meno incline a minacciare Israele. Se si parte dal presupposto che l’Iran possieda già la tecnologia e gli strumenti per costruire armi nucleari l’unico modo per ridurne la pericolosità è cambiare le caratteristiche del suo regime. Secondo Karim Sadjadpour, espearto di Medio Oriente del Carnegie Endowment, per quanto Obama e i suoi si sforzino di credere che l’accordo possa essere “trasformativo” il leader supremo iraniano Ali Khamenei, «lo considera transattivo» - l’Iran si tura il naso, conclude l’accordo, riguadagna forza, e resta aderente ai suoi vecchi principi rivoluzionari. Però non si può mai dire, magari da transattivo l’accordo può avere inesorabili e imprevedibili effetti trasformativi. Un’altra tesi è che l’Iran sia un paese normale e civile, che vanta elezioni vere (seppur limitate), una popolazione femminile istruita e un grande potere militare. Recuperare i rapporti con l’Iran consentirebbe agli Usa di gestire meglio i Taliban sunniti in Afghanistan, e neutralizzare i jihadisti sunniti come quelli dell’Is. Fin dalla rivoluzione iraniana del 1979 l’America ha puntato molto sull’Arabia Saudita, ma mentre la famiglia reale e le élite saudite sono allineate con gli Usa, esiste uno zoccolo duro di sauditi wahabiti che ha finanziato la diffusione di un Islam estremamente puritano, anti pluralista, misogino che ha cambiato lo spirito dell’Islam arabo contribuendo a mutazioni come l’Is. Nessun iraniano fu coinvolto nell’undici settembre. Furono agenti iraniani a costruire gli esplosivi più letali che uccisero una gran numero di militari americani in Iraq. Fu l’Iran a incoraggiare i suoi alleati sciiti iracheni a rifiutare il prolungamento della presenza militare americana in Iraq. «Nella lotta contro l’Is, l’Iran è sia l’incendiario che il pompiere», dice Sadjadpour e aggiunge che per l’Arabia Saudita l’ascesa dell’Is è attribuibile alla repressione dei sunniti in Siria e in Iraq da parte dell’Iran e dei suoi accoliti sciiti. Per Tehran, l’ascesa dell’Is è attribuibile al supporto finanziario e ideologico dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati del Golfo. Hanno ragione 20 entrambi, ecco perché gli americani non hanno interesse tanto alla vittoria degli ideologi dell’una o dell’altra parte, quanto a un equilibrio. Se si concluderà l’accordo sul nucleare sul mercato globale arriverà molto più petrolio iraniano, i prezzi caleranno a beneficio dei consumatori globali. L’Iran avrà però così miliardi di dollari in più da spendere per la guerra cibernetica, missili a lunga gittata e per imporre il proprio potere in tutto il mondo arabo. Già quattro capitali, Beirut, Baghdad, Damasco e Sana’a sono in mano a suoi fedelissimi. Ma considerando il caos che regna in Yemen, Iraq e Siria, davvero ci importa qualcosa se l’Iran vuol fare il poliziotto in quei territori? Per dieci anni è stata l’America a impegnarsi in Iraq e in Afghanistan, anche oltre misura. Ora tocca all’Iran. Sono desolato per le persone che devono vivere in quei paesi e senza dubbio dovremo utilizzare le forze aeree americane per evitare che il caos si estenda. Ma gestire il declino del sistema degli Stati arabi non dovrebbe essere problema nostro. Non siamo in grado di farlo. Quindi prima di prendere una posizione sull’accordo con l’Iran chiedetevi che effetti avrà su Israele, il paese più minacciato dall’Iran. Chiedetevi però anche come l’accordo si inserisca nella più ampia strategia americana mirata a placare le tensioni in Medio Oriente con il minimo coinvolgimento necessario da parte Usa e il minor prezzo possibile del petrolio. Del 30/03/2015, pag. 13 Iran, accordo vicino. L’ira di Netanyahu Domani la scadenza per il nucleare. Il segretario di Stato Usa Kerry e i delegati europei restano a Losanna per trattare Il premier israeliano: “Questa intesa è pericolosa per l’umanità. Va oltre tutti i nostri timori. Deve essere fermata” FABIO SCUTO A meno di 24 ore dalla scadenza della trattativa sul nucleare iraniano, a Losanna si profila un possibile accordo fra il regime degli ayatollah e le potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti. I colloqui e gli incontri si sono infittiti ieri pomeriggio, mentre il fatto che il capo della diplomazia Usa John Kerry, con i colleghi francese e tedesco, Frank Steinmeier e Laurent Fabius, abbiano annullato tutti gli impegni per oggi è dato come un segnale certo che la trattativa dopo dieci anni di “tira e molla” sia entrata in una fase decisiva: l’Iran potrà avere il nucleare per scopi civili. La possibile intesa fra Iran e Occidente allarma Israele e il premier Benjamin Netanyahu è tornato ieri a criticare il negoziato. «L’accordo che si profila è pericoloso per l’umanità e va fermato, conferma tutti i nostri timori e va anche oltre». Stando a quanto trapelato dalle stanze dell’Hotel Beau Rivage di Losanna dove si svolge il negoziato, l’Iran e le delegazioni del Gruppo 5+1 — Usa, Francia, Gb, Germania, Cina e Russia — hanno raggiunto un’intesa di massima sui punti chiave ma ribadiscono che «restano alcune questioni irrisolte». Più in particolare l’Iran avrebbe accettato di ridurre a 6mila le centrifughe per arricchire l’uranio (attualmente sono 19mila) e di trasferire all’estero tutto l’ammontare del suo stock di uranio (8mila tonnellate) debolmente arricchito. Le differenze ancora da risolvere riguarderebbero soprattutto la durata dell’accordo: tra gli 11 e i 15 anni per le delegazioni occidentali, mentre Teheran punterebbe a una durata minore, tra i 5 e i 7 anni. Monitorati tutti i siti nucleari dove verrebbe prodotto l’uranio, l’impianto sotterraneo di Fordow fermerebbe le attività di arricchimento ma proseguirebbe a funzionare per altri scopi. «Non è permesso fornire i dettagli dei negoziati all’esterno — ha spiegato ieri sera un diplomatico iraniano — ma il fatto che conserveremo il nostro arricchimento, che avremo un numero considerevole di centrifughe, che nessun sito sarà fermato, 21 rappresenta le basi del negoziato». Poco chiara anche la questione della sanzioni internazionali all’Iran. La revoca di queste misure contestualmente alla firma dell’intesa è un punto fermo dell’Iran e della Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei. Gli Stati Uniti sono invece favorevoli a una riduzione graduale delle sanzioni e al loro immediato ripristino in caso di violazione degli accordi. La Casa Bianca ha invitato ieri pomeriggio l’Iran a non tergiversare. «Vogliono prendere seriamente le misure chieste dal mondo e dimostrare che non cercheranno di ottenere armi nucleari?», ha detto il portavoce Josh Earnest, «possono farlo entro la fine del mese». La prospettiva di un accordo inquieta il primo ministro israeliano Netanyahu. La stampa israeliana ieri mattina raccontava con toni allarmati gli sviluppi dell’accordo che si profila a Losanna e rivelava che le Forze armate di Israele e i suoi servizi segreti hanno già ricevuto l’ordine di organizzarsi per far fronte alla nuova situazione e «neutralizzare quella minaccia in qualsiasi momento». Del 30/03/2015, pag. 18 È il momento dell’Aliyah gli ebrei tornano a casa In questi giorni, il mio vecchio amico Asher Salah, ebreo fiorentino nonché docente universitario di filosofia all’università di Gerusalemme, si trova a Filadelfia per un semestre alla Penn University dove presenta un progetto di ricerca sulla riforma ebraica in Italia nell’Ottocento. Asher lasciò l’Italia nel 1990, dunque un quarto di secolo fa: non era un periodo, come dire?, facile. L’Occidente si apprestava ad affrontare Saddam Hussein nella guerra del Golfo, l’Intifada palestinese – la “rivolta delle pietre” – sarebbe durata sino al 1993. Quando Asher decise di compiere la sua aliyah che in ebraico vuol dire “salita”, ossia l’immigrazione ebraica verso Eretz Israel (la terra d ’ Israele), era ancora vivo il ricordo del primo attacco suicida dentro i confini di Israele, passato alla storia come il massacro dell’autobus 405, avvenuto il 6 luglio del 1989. Terra degli avi, ma anche terra dell’angoscia. Il drammatico contesto politico di quel tempo contenne il flusso immigratorio: “Molti giovani venivano a studiare in Israele”, ricorda Salah, peccato che poi solo circa la metà rimanesse in Israele: “Chi compiva l’aliyah lo faceva essenzialmente per motivi politici o religiosi. Gli altri preferivano rientrare in Italia e stare con le famiglie”. Le tempeste della Storia mitigavano il loro iniziale entusiasmo. Fatto sta che erano poche decine gli ebrei italiani all’anno decisi all’aliyah. Sino al nuovo millennio. A partire dal 2003 / 2004, qualcosa cambia. Si verifica un continuo incremento nel numero degli immigrati verso Israele. Nel 2012 sono 130; 140 nel 2013. Cifre minuscole, tuttavia significative se pensiamo che la comunità ebraica italiana conta 35 mila persone. Ma il Grande Balzo avviene lo scorso anno. 2014: l’anno delle partenze Nel 2014, infatti, gli olim italiani – gli ebrei cioè che “salgono” ad Eretz Israel, la terra d’Israel – diventano 323, più del doppio dell’anno precedente, dieci volte tanto gli olim degli anni Novanta. Il secondo flusso più rilevante dal 1951, dopo quello emotivo che seguì la Guerra dei Sei Giorni, quando il massimo storico superò di poco i 350 immigrati. In realtà, dall’Italia, tra il 1944 e il 1951, erano giunti nella Terra Promessa 2084 ebrei. Il loro esodo, però, aveva connotati ben diversi, si configurava in un contesto di disperazione per l’Olocausto e di fierezza identitaria nel voler partecipare alla costruzione e alla difesa del nuovo stato ebraico. Un sintomo della novità l’ha percepito nel suo ambiente il professor Salah: “Le università 22 israeliane hanno cominciato ad organizzare il reclutamento di potenziali studenti in Italia”, osserva Asher, “durante un raduno tenuto a Milano due anni fa a cui ho partecipato anche io in rappresentanza dell’accademia Bezalei, sono stato sorpreso dal grande numero di partecipanti, quasi duecento. Dall’anno scorso le autorità universitarie israeliane hanno incluso l’italiano come lingua per fare gli esami di pre ammissione all’università (i cosiddetti psicometrici). Questo significa che c’è una massa critica che lo giustifica… A Tel Aviv e a Herzilia, dove abito, sentire parlare anche italiano è sempre più frequente per strada”. I numeri sono importanti nella tradizione culturale ebraica. Quelli legati alle dinamiche della popolazione, sono essenziali sotto il profilo geopolitico: “È un dato interessante, se uno guarda la serie storica”, spiega Sergio Della Pergola, docente di Studi della Popolazione ebraica all’università di Gerusalemme, demografo di grande autorevolezza, “gli italiani che si trasferiscono in Israele non sono un numero sbalorditivo, però il loro numero è in continuo incremento”. Ed in evoluzione. Determinato da cosa? Dal crescente senso di insicurezza? In Francia, senza dubbio: è il paese più problematico: episodi di antisemitismo sempre più violenti, culminati con la strage a Charlie Hebdo e nel supermercato kosher di Parigi. Lì gli ebrei si sentono minacciati e vogliono andarsene via: l’hanno fatto in 6500 l’anno scorso. La paura non è l’antisemitismo Ma in Italia? Della Pergola ha condotto assieme a L. Daniel Staestky la ricerca (anticipata su Pagine Ebraiche a fine gennaio), “Da vecchie e nuove direzioni. Percezioni ed esperienze di antisemitismo tra gli ebrei italiani”, per scoprire che qui fa più paura la disoccupazione, la corruzione, la crisi economica, il razzismo, la criminalità, l’immigrazione. L’antisemitismo è in settima posizione. Certo, il 63 per cento degli ebrei italiani identifica l’odio antiebraico come un problema (in Francia lo è per l’ 86 per cento). Però, solo il 20 per cento dichiara di aver preso in considerazione la possibilità di lasciare l’Italia per “salire” in Israele (la media europea si attesta sul 29 per cento). Il 70 per cento, al contrario, lo esclude. Ma chi sono i 323 olim d’Italia? Per l ’ antropologa Fiammetta Maregani, che si è trasferita a Tel Aviv nel 2012, “ce ne sono ormai due tipi – riferisce al sito Kolot (“Voci”) – quelli come me che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed economici e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti”. Mentre un tempo prevalevano i giovani, adesso si trasferiscono soprattutto le famiglie: secondo i dati dell’Irgun Olé Italia (l’associazione degli olim italiani), il 64 per cento dei nuovi arrivati è sposato. Differente è pure la geografia delle partenze. Prima, erano i milanesi ad andar via. Oggi, sono i romani. Il 77 per cento proviene infatti dalla comunità capitolina. Alla base di questo rovesciamento è la composizione socioeconomica: “A Roma – sottolinea Della Pergola – c’è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall’attuale congiuntura, e quindi più interessato ad emigrare”. Immigrazione a basso reddito, attirata dai buoni risultati dell’economia israeliana che ha retto molto meglio di quella italiana. Intendiamoci, c’è ancora chi se ne va “più per ideologia che per altro”. Come Edoardo Yossef Marascalchi e sua moglie Micol Picciotto. Hanno lasciato Milano nel 2009, lei aspettava un bimbo; hanno trovato casa a Netanya (una trentina di chilometri da Tel Aviv), si sono presto adattati alla nuova realtà, coniugando valori ebraici con le esigenze della vita: “In questi ultimi anni si vedono arrivare intere famiglie coi genitori tra i 50 e i 60 anni e i figli tra i 15 e i 20. È una differenza radicale, rispetto al passato. Di fronte alla crisi economica, soprattutto da Roma, il trasferirsi in Israele è visto come una soluzione pragmatica, per fronteggiare le difficoltà quotidiane”. Un impatto non sempre facile Marascalchi ha avuto l’idea di mettere on line i diari degli olim. È durata poco: “A quanto pare la vita è più impegnativa del previsto e nessuno ha continuato a scrivere”, dice amareggiato. L’integrazione non sempre è semplice, “il disagio è tuttavia attutito sia dalla disponibilità degli autoctoni sia, soprattutto, da una sorta di rete di mutua assistenza tra italiani che oggi è attiva anche nei centri minori, e che di fatto esisteva già a Gerusalemme 23 e a Tel Aviv. C’è da dire che, per una strana combinazione di eventi, i madrelingua italiani sono molto richiesti dalle aziende dell’hightech israeliano. Il mercato italiano è particolarmente interessante e gli italiani in Israele non sono numerosissimi come i francesi, i russofoni o gli anglofoni. Inoltre, la società israeliana è molto meritocratica, ciò rende meno rilevante il livello di istruzione rimuovendo uno degli ostacoli che molti olim italiani temono di più, convinti inizialmente che solo ingegneri e titolari di master possano trovare lavoro in Israele”. A volte, ci si interessa più ai problemi che alle soluzioni, più alle domande che alle risposte. del 30/03/15, pag. 5 La vittoria di Sarkozy, Le Pen resta a secco Il Front National avanza ma non conquista nessun dipartimento. L’Ump trionfa nei feudi della sinistra Storica disfatta del partito socialista: battuto in quasi metà delle province nelle quali era al governo DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Il risultato della sinistra al governo stavolta non è affatto «onorevole» (definizione del premier Valls una settimana fa, per il primo turno). È piuttosto una disfatta, perché il partito socialista perde più o meno la metà dei dipartimenti che aveva a favore dell’opposizione di destra (Ump) e centro (Udi), che alleata — e sotto la guida di un rivitalizzato Nicolas Sarkozy — consolida il suo trionfo. Due terzi dei dipartimenti vanno al centrodestra. «Mai la nostra famiglia politica ne aveva conquistato tanti», ha ricordato Sarkozy nella sede dell'Ump, continuamente interrotto dagli applausi dei militanti in festa (le prime stime indicano tra 66 e 71 dipartimenti, ndr ). Il predecessore di François Hollande all’Eliseo, al quale è legato da una rivalità e un’inimicizia feroci, si è tolto la soddisfazione di interpretare il voto come «una sconfessione senza appello» del presidente. «Mai una politica aveva incarnato il fallimento fino a questo punto. La menzogna e l’impotenza sono state punite», ha aggiunto, visibilmente felice di poter affondare il colpo. La dimensione dell’elezione sarebbe locale ma tutti i leader ne avevano fatto da settimane un voto importante a livello nazionale, un modo per misurarsi in vista del bersaglio grosso, le Presidenziali del 2017. E quindi adesso è difficile, per la sinistra, relegare la portata del risultato semplicemente a una questione di cantoni e consiglieri provinciali. Anche perché ci sono risultati simbolicamente molto significativi: il dipartimento della Corrèze, quello che François Hollande ha scelto come suo feudo elettorale e simbolo della fantomatica «Francia profonda», passa alla destra. Uno schiaffo per un presidente che si era tenuto prudentemente lontano da questa elezione, preferendo lasciare al primo ministro Manuel Valls l’onere di esporsi. Il premier ha assolto al compito con coraggio, percorrendo tutta la Francia per parlare in comizi dove non ha smesso di mettere in guardia contro «la minaccia del Front National». Il suo impegno è stato in parte premiato, per il gioco del sistema elettorale il partito di Marine Le Pen probabilmente non arriverà a conquistare neanche un dipartimento. Il temuto sfondamento del Fn non c’è stato, ma i lepenisti continuano ad avanzare perché raccolgono comunque più voti che alle Europee del 2014 (e stavolta a Parigi e Lione non si votava), e cominciano a dotarsi di quella struttura territoriale credibile che finora era sempre mancata loro. «Il risultato comunque troppo elevato del Front National rappresenta uno sconvolgimento durevole del nostro paesaggio politico», ha riconosciuto Valls. La sinistra si ferma a 28-35 24 dipartimenti. «Il nostro governo raddoppierà l’energia — ha promesso il premier — avendo come priorità l’occupazione, l’occupazione, l’occupazione». Una frase che i francesi hanno già sentito molte volte da quando Valls è primo ministro: un anno domani, anniversario poco felice. Stefano Montefiori del 30/03/15, pag. 1/5 Sicurezza e identità nazionale: la «gauche» perde la sfida ma ora è battaglia tra i gollisti Nicolas Sarkozy è il grande vincitore delle elezioni dipartimentali francesi e il successo lo proietta in testa nella corsa all’Eliseo per il 2017. Risultato forte e netto, che spunta un po’ le ali a Marine Le Pen, ma non interpretabile soltanto nella semplice logica di alternanza fra destra e sinistra. Le elezioni hanno sconvolto il panorama politico ed espresso un cambiamento radicale della sensibilità popolare che non mancherà di influenzare il futuro assetto del Paese e in termini di cultura politica il comune sentire degli europei. Dalla Francia sale una forte domanda di sicurezza, di controllo dei flussi migratori, di identità e «preferenza» nazionale. Domanda che rende minoritaria la cultura della sinistra, il «politicamente corretto» sempre più estraneo ai ceti popolari che voltano le spalle alla «gauche» proprio nelle tradizionali roccaforti operaie e in luoghi simbolici, come la Correze del presidente Hollande. Questa domanda è stata ascoltata, strumentalizzata e capitalizzata negli ultimi anni dal Front National, primo partito alle europee, secondo ieri, ormai radicato nelle realtà locali, soprattutto nelle regioni del Nord, che votavano a sinistra, e nelle regioni del Sud, più conservatrici e sensibili al problema dell’insicurezza che sconvolge le zone turistiche dove vanno a svernare i pensionati. Ma Sarkozy ha fatto compiere all’Ump, il partito gollista e repubblicano, uno spregiudicato salto culturale che in parte tradisce l’atteggiamento dei predessori — da Giscard a Chirac — secondo i quali nessuna contaminazione, né politica, né ideologica, era possibile con il Front National. Un atteggiamento che divideva inevitabilmente l’elettorato di destra, a beneficio della sinistra. Sarkozy ha cavalcato tematiche care al Fronte: «I francesi non vogliono cambiare il loro modello di vita, sono pronti ad accogliere quelli che lo accettano», ha detto, esaltando un’idea di assimilazione culturale, rispetto alle tendenze comunitaristiche della società francese. E, al tempo stesso, non ha dato indicazioni di voto, laddove, nei ballottaggi, gli elettori di destra avrebbero dovuto scegliere fra un candidato di sinistra e uno del Front. I risultati gli hanno dato ragione. Decine di dipartimenti sono passati dalla sinistra alla destra, ma il Front National, nonostante un consolidato consenso su scala nazionale, non governerà nemmeno un dipartimento. È questa la logica del sistema a doppio turno, ma anche la conseguenza della dinamica campagna elettorale guidata da Sarkozy. L’analisi del voto nel suo complesso, conferma quattro tendenze — la fine del bipartitismo, il peso del Front Nazional, la competizione fra due destre anche in vista delle presidenziali, il crollo del partito socialista del presidente Hollande — e una drammatica certezza, la metà dei francesi non vota più. Percentualmente, la sinistra resta oltre il 30 per cento, ma le divisioni al proprio interno sono esasperate e la stessa tenuta dell’esecutivo è in discussione. 25 Sarkozy ha preso le distanze da Marine Le Pen soltanto nella dimensione europeista, che è sempre più disprezzata dai partiti populisti. Questo rassicura gli ambienti finanziari e imprenditoriali, ma non basta a tranquillizzare gli alleati centristi dell’Udi e le correnti interne più ostili alla «contaminazione» frontista. Anche nella destra gollista si annuncia quindi battaglia e saranno proprio le rivalità interne a mettere in discussione i sogni presidenziali di Sarkozy. Ma intanto, nella Francia che cambia pelle, il vincitore è colui che lo ha capito in un tempo ancora utile, prima cioè dell’implosione populista. Della Francia e dell’Europa. Massimo Nava Del 30/03/2015, pag. 1-25 Perché il popolo tradisce la sinistra THOMAS PIKETTY PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E PERCHÉ VOLTANO LE SPALLE in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario. Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri. La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni. Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente 26 superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora? Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica. L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica. Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università. Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi. Traduzione di Fabio Galimberti del 30/03/15, pag. 11 La lista di Atene non convince Nuovo vertice Merkel-Hollande Nulla di fatto a Bruxelles sulle riforme. Tsipras: lieto fine, ma c’è chi è contro DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES Un week end di trattative a oltranza sulla lista di riforme non ha allontanato il rischio di insolvenza della Grecia già in aprile. Nelle riunioni dei tecnici del Gruppo di Bruxelles, composto da Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario di Washington, Fondo salva Stati dell’eurozona e governo ellenico, le proposte del premier greco di estrema sinistra Alexis Tsipras non sono state ritenute sufficienti. Non è stato così convocato un Eurogruppo straordinario dei 19 ministri finanziari, necessario per sbloccare i prestiti ad Atene. La trattativa, a meno di sviluppi oggi a Bruxelles, sale al livello politico nel consiglio congiunto dei ministri di Germania e Francia in programma domani a Berlino. La 27 cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande hanno inserito in agenda il caso Grecia e il rischio di una sua uscita dalla moneta unica. Tsipras ha previsto un rapido «lieto fine» per il negoziato con i creditori, nonostante veda tentativi di far saltare l’accordo. «Ci sono dei poteri che rappresentano degli interessi precisi e che auspicano la rottura — ha dichiarato il premier greco —. Ma ci sono anche dei poteri, che prevarranno, orientati a un compromesso sincero e onesto». Ad Atene diffidano dell’euroburocrazia di Bruxelles. Temono la speculazione finanziaria, che porterebbe a scommettere sull’uscita di Atene dall’euro. Capiscono che il centrodestra di Merkel e dei governi di Spagna e Portogallo (con le elezioni in arrivo) intende impedire una vittoria negoziale dell’estrema sinistra greca (favorendo, per esempio, l’ascesa di Podemos in Spagna). Gli esborsi alla Grecia non appaiono enormi per l’eurozona. Nel Gruppo di Bruxelles lo scontro ruota attorno a 7,2 miliardi di prestiti e 1,9 miliardi di fondi Bce. Il governo ellenico sostiene di poter pagare stipendi e pensioni in aprile. Sta poi valutando introiti aggiuntivi dalla Russia in cambio di concessioni per la ricerca di petrolio e gas. Con la Cina è stata riaperta la trattativa sulla vendita del 65% del Porto del Pireo, che vari analisti valutano almeno 500 milioni. Ma dal negoziato a Bruxelles è trapelato informalmente che la cancelliera insiste nel pretendere da Tsipras misure di austerità in grado di garantire il rimborso dei prestiti ai Paesi creditori non solo perché lo ha promesso ai suoi elettori tedeschi. La Germania non vuole un precedente di concessioni alla piccola Grecia, qualora nel 2016 non rispettasse i vincoli Ue un Paese membro di grande dimensione, come l’Italia (con alto debito) o la Francia (in deficit eccessivo), generando ben altri rischi per la zona euro. Anche per questo gli eurosocialisti Hollande e il premier Matteo Renzi, pur non gradendo i consensi all’area comunista, mostrano disponibilità a Tsipras. Il presidente francese domani proverà ad ammorbidire la linea dura di Merkel con la Grecia considerando che potrebbe essere attuata con la Francia. Il premier di Parigi Manuel Valls, dopo il Consiglio a Berlino, è atteso a Francoforte dal presidente della Bce Mario Draghi, dove discuterà certo del caso Grecia. Ma, soprattutto, dei conti pubblici francesi in difficoltà. Ivo Caizzi del 30/03/15, pag. 13 L’Europa avverte Tsipras: “Le riforme non bastano” Marco Zatterin «Non fate troppe speculazioni, stiamo trattando», avverte via sms uno scrupoloso negoziatore europeo. La grigia domenica bruxellese ha ospitato il secondo giorno di intense discussioni fra gli inviati del governo greco e gli sherpa di Ue, Fmi e Bce, l’ex Troika ora «Brussels Group». C’è chi giudica la lista delle riforme inviata venerdì da Atene «non verificabile», insufficiente per convincere l’Eurogruppo a liberare almeno qualche miliardo per scongiurare il rischio possibile di una bancarotta. «Servono dettagli», si precisa. Altri sostengono invece che il clima è «costruttivo» e che presto potrebbe arrivare l’atteso «via libera». Così fumo e arrosto si mescolano nella pioggia belga. «Aspettiamo l’elenco lunedì», cioè oggi, ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis al tedesco «Die Welt». E allora cosa ha spedito Alexis Tsipras venerdì scorso? Atene sostiene che si tratta di un piano destinato a portare maggiori entrate o 28 minori spese per un almeno 3 miliardi già nel 2015. Secondo fonti greche, il leader di Syriza si sarebbe rassegnato a privatizzare e punterebbe a a vendere il 67% dell’Autorità che amministra il porto del Pireo per circa 500 milioni, oltre che la quota pubblica in 14 aeroporti. Nel pacchetto anche lotta all’evasione interventi sul mercato previdenziale e del lavoro, sebbene non su vitalizi e salari. Il piano originale prevedeva la possibilità di una riunione dell’Eurogruppo in settimana per dare ossigeno finanziario alla Grecia che, secondo più analisti, potrebbe andare in rosso già il 9 aprile, quando scade un impegno col Fmi (450 milioni). Nel week end la prospettiva dell’«econosummit» è sparita. Riferiscono che i tecnici di Atene abbiano presentato una lista non cartacea e scritta nella loro lingua materna. «Non affidabile», ha commentato una fonte che, in ogni caso, ha ribadito che il faccia a faccia non è stato interrotto. Sarebbe falso anche, sottolineano alla Commissione, che gli sherpa del Brussels Group abbiano lasciato la capitale ellenica, come invece riportano alcuni media locali. Il dato concreto è che si cerca una soluzione non facile. «Il governo greco è come uno studente del primo anno che vuol fare operazioni a cuore aperto», ironizza un diplomatico. «Venerdì sera è stato frustrante parlare coi greci», ammette una fonte al corrente dei fatti. L’Europa vuole una ragione per poter andare avanti e archiviare i guai, tanto che fa programmi sulla possibile via di uscita. La disponibilità a pagare a tranche i 7,2 miliardi di piano di salvataggio esteso a giugno è confermata. Lo scenario ideale sarebbe quello di poter riunire i tecnici dell’Euro Working Group mercoledì e un pagamento di circa un miliardi entro l’8 aprile, con o senza riunione fisica dei ministri dell’Eurogruppo. Nel frattempo si potrebbe continuare l’esame della «lista» e predisporre gli esborsi successivi. «Potrebbe anche essere relativamente facile - ammetteva ieri sera un osservatore europeo -. Basterebbe che Atene facesse ciò che dice di voler fare». Il che, sinora, non è stata la regola del giorno. del 30/03/15, pag. 19 Caccia al wi-fi nelle vie dell’Avana Revolución è vivere «connessi» Con i ragazzi che «rubano» Internet davanti agli hotel. Il regime: il web non ci fa paura Sara Gandolfi L’AVANA I ragazzi stanno seduti contro il muro, immersi negli schermi luminosi. Uguali ai coetanei che popolano le città digitali del mondo, all’apparenza. I cybernauti nel cortile del Centro cultural di El Romerillo, quartiere povero della non ricca Avana, non sono però ragazzi come gli altri. E non soltanto perché i loro laptop e cellulari sono di qualche modello fa. Per accedere al primo e unico hotspot wi-fi gratuito sull’isola dei Castro, messo a disposizione dall’artista Kcho, amico di Fidel, molti si piazzano intorno all’edificio che ospita il prezioso router Adsl nel cuore della notte. «La connessione è più veloce», spiega Yoznam, 29 anni, online da quattordici ore. «Quando non lavoro, sto qui. Internet mi piace da morire, è pieno di notizie». Su un cartello all’entrata è scritta la password: Aquinoserindenadie , qui non si arrende nessuno. Cuba ha fame. Non più di cibo, come fu negli anni del «periodo speciale» che seguirono il crollo dell’Urss. E neppure di Coca Cola e sneakers americane, un tempo vietate al popolo della Revolución. Ha fame di Internet, al quale ha accesso solo il 5% della popolazione (e 29 appena l’1% in banda larga). Colpa, secondo la versione ufficiale, dell’embargo Usa, che finora ha impedito l’importazione della tecnologia necessaria. Lo Stato stabilisce a chi concedere il privilegio dell’accesso: funzionari, università, giornalisti e artisti fedeli agli ideali rivoluzionari, e 140 sale di navigazione pubbliche. Qualcosa, però, sta cambiando. A Cuba si va formando un’avanguardia di classe media: lavoratori autonomi – i cuentapropistas – o soci di cooperative, che, con la benedizione del presidente Raul Castro, hanno creato una costellazione di microimprese private, specie nella ristorazione. Sono loro e i giovani a soffrire più di altri la fatica di sentirsi desconnectados . Obama ha promesso di sbloccare l’esportazione di alta tecnologia e all’Avana è appena passata una delegazione di esperti Usa in telecomunicazioni, nell’ambito dei negoziati avviati in dicembre fra i due Paesi. Il boom internettiano non sarà per domani, ma se il disgelo prosegue Cuba non avrà più scuse per negarsi alla Rete. All’incrocio della 19esima strada con M, al Vedado, ci sono lunghe code fuori dal Centro multiservizi di Etecsa, l’unico operatore (statale) di telecomunicazioni. Giovani, adulti, anziani in attesa, disordinatamente, del proprio turno. Teresa dai capelli bianchi racconta che è lì per comprare l’ultima offerta: una carta sim con 30 pesos di ricarica; Luis aspetta che si liberi una postazione: «Costa 4,50 Cuc al minuto, una settimana di stipendio in pesos (a Cuba sussistono due valute, che il governo ha annunciato di voler unificare: il Cuc si cambia alla pari col dollaro; il peso vale circa 1/24 di Cuc, ndr )». Nel Paese non esiste ancora il 3G per accedere ad internet con i cellulari. Così parte la caccia al wi-fi. All’Hotel Nacional, che ha ospitato il luccicante jet set pre-rivoluzionario, hanno chiuso le porte del business center agli esterni. «Era diventato un inferno, si ammassavano sui divani», spiega la hostess, alle prese con una manciata di clienti americani, tornati «finalmente» a fare affari. I giovani si sono spostati fuori dall’Habana Libre, telefonino in pugno, a «craccare» i codici dell’hotel. I cubani sono maestri nell’arte del resolver , che permette nella penuria di trovare una soluzione, in quell’area grigia tra legalità e illegalità su cui l’autorità spesso chiude un occhio. Al mercato nero si trova di tutto, perfino la connessione. L’intellettuale Marisela acquista ore di navigazione da un amico, che le fa usare la linea dell’azienda per cui lavora, nel cuore della notte. «Non più di un’ora per volta», spiega. «Com’è possibile fare cultura così?». Con un dollaro a settimana, invece, si compra il paquete , una scheda Usb dove sono scaricati film e serie tv appena usciti in Usa. Piratati. E’ l’ennesima contraddizione di un Paese «disconnesso» dove però fioriscono i blog, come Cafè fuerte , El blog de Yoandri , oltre alla rivista online della dissidente Yoani Sanchez, 14ymedio . «Cuba ha già realizzato la maggiore rivoluzione: insegnare a leggere e scrivere a tutti i suoi cittadini, cioé a pensare con la propria testa. Non esiste più alcun limite dal punto di vista politico o ideologico che impedisca l’accesso ha internet», ha dichiarato Ernesto Rodriguez, del ministero delle Comunicazioni,al giornale ufficiale Juventud Rebelde . La Fabrica de Arte, tra il Vedado e Miramar, è uno dei locali più alla moda dell’Avana. Galleria d’arte, sala da concerti, disco-bar, quasi ogni sera si riempie di giovani in grado di pagare 2 Cuc per l’entrata. «Offriremmo anche il wi-fi, ma l’Adsl che ci ha assegnato lo Stato si bloccherebbe subito», dicono i gestori. 30 INTERNI Del 30/03/2015, pag. 14 Lo spiraglio di Renzi “Avanti con l’Italicum ma sul nuovo Senato si può ridiscutere” L’ultima offerta alla minoranza Pd sulle riforme Oggi la direzione, la sinistra non vuole la conta FRANCESCO BEI Qualcuno potrebbe considerarla un’esca, per il premier si tratta invece di un’ultima offerta. Fatta a quella parte di minoranza Pd che vorrebbe, come spiega un renziano, «separarsi dai padri ma ancora non sa come farlo». Ovvero abbandonare al loro destino Bersani e D’Alema e costruire un’interlocuzione diretta con il segretario. La proposta è stata anticipata nei colloqui che Renzi ha avuto ieri al suo ritorno da Tunisi e sarà esplicitata oggi pomeriggio davanti alla direzione. Sull’Italicum ormai «ci si conta e si chiude». Sulla riforma della Costituzione, al contrario, «se ci sono ulteriori modifiche da fare, parliamone». Una disponibilità inattesa, che riapre giochi che fin qui sembravano definitivamente chiusi. È significativo che l’offerta avvenga a ridosso della manifestazione di Landini a piazza del Popolo. Ai piani alti del Nazareno sono infatti convinti che i toni usati dal leader della Fiom, il suo considerare Renzi «peggio di Berlusconi», abbiano di fatto eretto una barriera insormontabile per chi nella minoranza puntava a un dialogo con il movimento in costruzione alla sinistra del Pd. «La minoranza si è infilata in una strada senza uscita — ragiona un renziano — e sta a noi offrire ai più dialoganti un modo per venirne fuori». Il disegno insomma è quello di presentare ai vari Damiano, Speranza, ai ministri Martina e Orlando, un modo per giustificare il loro avvicinamento alla segreteria. Non l’ingresso in maggioranza, come hanno fatto i giovani turchi, ma l’abbandono di quella che Renzi considera la «pregiudiziale assoluta » nei suoi confronti. E la conseguente rottamazione dei leader della vecchia guardia «animati da rancore personale». La scommessa è tutta qui e per questo il premier ha deciso di tirare fuori ora questo cilindro dal cappello: la possibilità di rimettere mano al ddl Boschi-Delrio a palazzo Madama. Niente da fare invece sulla legge elettorale. Renzi oggi enfatizzerà «il grande lavoro di miglioramento fatto sul testo», ringraziando anche le minoranze per il contributo. Seguirà un voto della direzione, che rischierà di essere un’approvazione all’unanimità visto che l’opposizione probabilmente eviterà di contarsi abbandonando la sala. Il secondo passaggio sarà un altro voto interno, subito dopo Pasqua, nel gruppo parlamentare della Camera. Rispettando questo calendario: «Entro aprile si va in aula ed entro maggio la legge c’è». Nessuna apertura a modifiche sui due punti sensibili sollevati in questi giorni dai non-renziani: riduzione della quota di nominati e possibilità di apparentamenti al ballottaggio. Conferma Matteo Ricci, vicepresidente del Pd: «La direzione servirà a ribadire che la legge elettorale sulla quale si sta lavorando da più di un anno è una legge elettorale buona e molto vicina ai nostri punti di partenza». E se anche nel gruppo le minoranze dovessero mantenere la linea dura, a palazzo Chigi sono tranquilli sui numeri. Calcolano infatti in una trentina di voti l’area della dissidenza dem. Insufficienti dunque a mandare all’aria l’Italicum. Specie se, nel voto segreto, dovessero arrivare “aiutini” sottobanco da parte dei verdiniani di Forza Italia, dai fuoriusciti cinquestelle e dai tosiani. 31 È ancora buio invece su quali punti della riforma costituzionale Renzi intenda ridiscutere. Al momento la sensazione è che l’offerta sia tutta politica, prematuro parlare di dettagli tecnici. In teoria il Senato sarà chiamato a discutere soltanto degli articoli che sono stati ritoccati dalla Camera - procedimento legislativo, competenze Stato-Regioni, quorum per l’elezione del capo dello Stato e per il ricorso preventivo alla Consulta sulla legge elettorale - ma non potrebbe rimetter mano sul resto. In particolare sulla composizione del futuro Senato, forse il punto che tra gli esperti ha suscitato i dubbi maggiori. In particolare aver previsto una Camera delle Regioni senza la presenza dei presidenti delle stesse, è un limite considerato da molti costituzionalisti il difetto più grave del disegno di legge. Che rischia di rendere inutile il futuro palazzo Madama, allontanandolo dal modello Bundesrat tedesco in cui invece sono presenti i presidenti dei Lander. «Alcuni eminenti costituzionalisti come Paolo Caretti ed Enzo Cheli - fa notare Andrea Giorgis, della minoranza - ritengono che la Costituzione sia un modello organico. Per cui, se si tocca una parte, si può anche rimettere mano al resto». Se questa tesi venisse accolta, palazzo Madama potrebbe riscrivere anche l’articolo sui futuri senatori. Riammettendo i governatori. del 30/03/15, pag. 16 Piano di Berlusconi per rottamare i veterani Tensione sulle liste, verso un tetto ai mandati. Ipotesi Toti in Liguria, si tratta ancora con Fitto in Puglia Il leader: noi la maggioranza del buonsenso, non siamo portatori né di estremismi né di disfattismi ROMA «Non possiamo continuare a farci surclassare dai giovani di Renzi e Salvini. Anche Forza Italia ha bisogno di gente nuova. Il rinnovamento nelle liste di queste Regionali dev’essere la prova generale di quello che faremo alle Politiche». No, non era un’iniziativa dei berlusconiani della cerchia ristretta, che negli ultimi giorni avevano insistito sempre più sul tema della «rottamazione». E non è nemmeno l’ennesima volta in cui l’«operazione rinnovamento» viene minacciata dentro FI soltanto per ragioni tattiche. Dietro la scelta di votare pagina, e dietro l’esigenza di ridurre al minimo le candidature degli «over 65»e di chi ha già fatto tre mandati, c’è il sigillo di Arcore. E c’è Silvio Berlusconi in persona: «Adesso voglio gente nuova nelle liste». Che non sia l’ennesima boutade «giovanilistica» lo dimostrano le paure della vecchia guardia forzista. E anche l’eterogeneo fronte — dai verdiniani ad Altero Matteoli, passando per l’area di Raffaele Fitto — che ieri l’altro s’è accodato al j’accuse di Paolo Romani. E così ieri mattina, a margine del convegno di Antonio Tajani, Mariarosaria Rossi ha impresso un’altra accelerazione sul rinnovamento: «Possiamo discutere se tre mandati siano pochi. Ma nove sono senz’altro troppi», ha spiegato la senatrice. E ancora: «Questo non significa “escludere”. Ma dobbiamo aprire alle nuove leve. E il banco di prova di questo ricambio saranno le Regionali». C’è chi giura che, ad Arcore, stiano facendo una ricognizione — regione per regione — per censire i consiglieri di lungo corso. E che un identico lavoro, senz’altro più agevole, sia stato fatto per stilare l’elenco dei parlamentari che hanno già tre mandati sul groppone. «C’è gente che continua a lottare per fare un ultimo giro di giostra. E non s’è resa conto che gli italiani, se non ci sbrighiamo, chiuderanno il nostro luna park», è la battuta di Giovanni Toti. Che aggiunge: «Basta con chi fa il tappo al rinnovamento e con tutti quei 32 satrapi orientali che si ergono a paladini della democrazia dopo aver devastato le Regioni». Un messaggio per Fitto e anche per la pattuglia che s’è accodata alla denuncia di ieri l’altro di Romani. Il Berlusconi versione rottamatore, stavolta, sembra fare sul serio. Ieri, intervenendo telefonicamente al convegno di Tajani, ha attaccato Renzi («Siamo irrilevanti in Ue, il nostro semestre s’è chiuso senza risultati») e, soprattutto, ha preso le distanze dalla linea di Salvini («Ci sono partiti che fanno dell’estremismo e dell’antieuropeismo la loro bandiera. Noi rappresentiamo il buon senso»). Segno che l’accordo con la Lega, comunque vicino, ancora non è stato chiuso. In Liguria, dove le voci di un impegno diretto di Toti sono sempre più insistenti, si tratta di aspettare qualche giorno. E la Puglia? Ufficialmente, le posizioni del commissario berlusconiano Vitali e del «ribelle» Fitto sono ancora distanti. Le condizioni del primo, «stabilite con Berlusconi», sono: Fitto faccia la sua lista e, dei sette consiglieri uscenti, possiamo discutere al massimo di cinque. L’eurodeputato, incassato un mezzo assist del candidato governatore Schittulli, prende tempo. «Che si candidi pure, se vuole», gli ha mandato a dire Mariarosaria Rossi. Ma il lieto fine è meno lontano di quanto non sembri. Tommaso Labate del 30/03/15, pag. 6 Milano 2015 come Genova 2001 Allarme per l’apertura dell’Expo Antagonisti convocati per il 1° maggio via internet I servizi segreti: danni possibili 10 volte più che al G8 Fabio Martini Per ora il tam-tam corre da un sito all’altro dei gruppi antagonisti, ma il rumore di fondo è stato raccolto con grande preoccupazione in un rapporto dei Servizi. A palazzo Chigi e al Viminale sanno tutto ed evitano allarmismi ma il rischio c’è: il primo maggio, in coincidenza con l’apertura dell’Expo, è stato indetto sempre a Milano un grande raduno anticapitalista, nel quale confluiranno da tutta Europa giovani pacificamente arrabbiati ma anche tante teste calde. Nessuno lo dice esplicitamente ma in tanti puntano (o paventano) un bis da brivido: fare di Milano 2015 una nuova Genova 2001. Non nel senso di cercare il morto, ma lo scontro sì, nel tentativo di mettere a ferro e fuoco il centro della città. E d’altra parte i termini usati nel rapporto dei Servizi sono eloquenti, molto eloquenti: la manifestazione potrebbe avere una «capacità di interdizione e di danneggiamento dieci volte superiore a quella del G8 2001 di Genova». Uno scenario potenzialmente impressionante per i cittadini e per i commercianti milanesi, ma molto sgradito anche dal governo: in occasione dell’apertura dell’Esposizione confluiranno a Milano cento capi di Stato e di governo da tutto il mondo, assai più dei sette che giunsero a Genova per il G8 del 2001. Matteo Renzi ha già spiegato di puntare sull’Expo in termini di immagine, di Pil e come testimonial della “nuova” Italia, di una Italia finalmente normale, o invece «normalizzata» per dirla con i suoi detrattori. Ma a palazzo Chigi, pur contando sul fatto che gli eventuali incidenti non potranno essere messi sul conto sul governo, sanno bene che una gestione controversa dell’ordine pubblico potrebbe avere contraccolpi al momento non prevedibili. Anche perché per le strade di Milano si muoveranno giovani e meno giovani animati da motivazioni assai diverse. L’antagonismo nelle sue tantissime declinazioni: milanesi, 33 nazionali, trasnazionali, comuniste, anarchiche, sindacaliste. I più indecifrabili sono quelli che arriveranno da tutta Europa, gli aderenti alle tre reti transnazionali che guidano l’antagonismo: Blockupy (nata a Francoforte contro la Banca centrale europea), D19 2-0 (nata a Bruxelles sui temi dell’austerità, della disoccupazione giovanile, della sovranità democratica); Antifa, un collettivo antifascista internazionale. Una galassia che ha rilanciato l’eredità del movimento No global e che è in lotta contro l’austerità, la Bce, le grandi opere e le grandi manifestazioni. Come Expo. E dentro questa galassia c’è il “blocco nero” più temuto dalle polizie di tutta Europa: quello composto dai casseur francesi che lottano contro le grandi opere, dai riot tedeschi, inglesi e scandinavi, da greci del Movimento Antiautoritario. Una galassia a caccia di un rilancio: lo cercherà a Milano. Ci saranno poi i movimenti milanesi: i Centri sociali (a cominciare dal più radicale, il Cantiere) e i movimenti di lotta per la casa. Poi movimenti nazionali, davvero tante sigle: i Disobbedienti veneti e il radicale Askatasuna sono solo i più noti. E ancora: la galassia anarchica. La galassia sindacale extra-confederale: Cub, Usb, Cobas, Unicobas, Sincoba. I movimenti dell’estrema sinistra, a cominciare dai più consistenti, come il Partito comunista dei lavoratori. Leggerli e gestirli tutti, una scommessa di alta professionalità per le polizie di Renzi e Alfano. Del 30/03/2015, pag. 15 Il personaggio Il leader della Fiom si muove su un doppio binario: l’attenzione al disagio sociale, aggregare intorno a un progetto politico l’opposizione al governo e al tempo stesso riformare il sindacato per scalarne la leadership Associazioni, lavoro autonomo e tute blu così Landini organizza la sua Coalizione ROBERTO MANIA Prenderà forma entro la fine di maggio la Coalizione sociale. Prima verrà stilata quella che Maurizio Landini chiama la Carta d’identità del movimento, con i valori di riferimento e gli obiettivi da perseguire; poi sarà creato una sorta di Coordinamento dell’alleanza con gli esponenti delle associazioni promotrici. E nel Coordinamento non sarà comunque Landini a rappresentare la Fiom, per evitare le polemiche sul suo doppio ruolo. Questa struttura di governo sarà poi replicata nei vari territori. Un’organizzazione leggera, ma pur sempre un’organizzazione. «La vera novità — dice il leader dei metalmeccanici della Cgil — è proprio questa: noi partiremo dai territori dove c’è una maggiore domanda di coalizione». Spiega: «Può non esserci il sindacato nelle lotte per la casa? Può non essere accanto ai medici di Emergency che in Italia, non in Africa, hanno messo in piedi strutture per l’assistenza sanitaria gratuita a favore delle persone più bisognose? Se non pensiamo di rappresentare questa socialità cosa pensiamo di rappresentare? ». È questo il nuovo sindacato (o il vecchio, perché è quasi un ritorno alle origini) che ha in mente Landini. Dunque è su un doppio binario che si muove il leader di fatto della Coalizione sociale: aggregare le associazioni intorno a un progetto politico, attento soprattutto alle aree di maggiore disagio sociale, alternativo oggi al programma del governo Renzi; riformare il sindacato fino a puntare alla scalata della stessa Cgil. Progetto «ambiguo», secondo 34 Cesare Damiano, ex metalmeccanico, esponente delle minoranze del Pd che anche su Landini si sono divise. Perché, per esempio, Stefano Fassina in piazza sabato ci è andato e che ieri è tornato a sostenere «che molti iscritti e militanti hanno mollato il Pd e hanno manifestato con la Fiom». Resta il fatto che Landini continua a ripetere che non ha mai pensato alla formazione di un altro partito o partitino della sinistra. Sembra un progetto più complesso il suo, e forse anche più complicato. In attesa che si cominci a concretizzare nei prossimi due mesi, Landini, non a caso, continua ad alzare il tono dello scontro con Renzi. Ieri, a margine di un convegno a Medicina nel bolognese, ha spiegato perché sulle politiche del lavoro considera Renzi peggiore di Berlusconi. «Berlusconi — ha detto — si è confrontato, ha avuto scontri e anche accordi: qui siamo di fronte ad un governo che sta rifiutando di confrontarsi con i sindacati e che ha addirittura cancellato l’articolo 18 e rende possibili i licenziamenti. Quello che sta facendo il governo Renzi non era mai successo nella storia del nostro Paese: si mettono in discussione principi della Costituzione, con una regressione pericolosa e grave». In questa interpretazione dell’azione di un governo definita «padronale» ci sarebbe proprio la spinta ulteriore all’aggregazione sociale. Dopo Pasqua ci sarà il secondo appuntamento delle associazioni che porterà a definire appunto la Carta d’identità. Accanto ai movimenti sociali, Landini dice che c’è un forte interesse da parte delle organizzazioni del lavoro autonomo: giovani avvocati, i farmacisti delle para-farmacie, addirittura i notai. Si mescolerebbero così i lavori senza più le barriere, anche culturali e ideologiche, tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Anche questa è una novità per la Fiom, sindacato degli impiegati e degli operai metalmeccanici. Scrive significativamente sul sito della Fiom Gabriele Polo, oggi spin doctor di Landini dopo essere stato per anni il direttore del Manifesto: «I metalmeccanici della Fiom di manifestazioni ne hanno fatte tante, ma non ne avevano mai fatta una confederale, così intenzionata a rappresentare e contrattare tutte le forme del lavoro e, persino, tutti gli aspetti della vita sociale; coalizzando ciò che è frammentato, cercando gli elementi e i punti di vista comuni per costruire “un mondo”». È l’ammissione di una Fiom che ha deciso di scavalcare la Cgil, di farsi confederazione, di diventare Unions, come recitava lo slogan della manifestazione di sabato. Un altro sindacato, appunto. Una sfida per Landini. Però «se la sua coalizione sociale — sostiene Giuseppe Berta, bocconiano, storico dell’industria — non produrrà risultati in un certo periodo di tempo, il tentativo di prendere la guida dalla Cgil minaccia di andare a vuoto». E questo è il doppio rischio di Landini. 35 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 30/03/2015, pag. 20 Il caso L’inchiesta della procura di Firenze svela la nuova rotta dei narcos per portare i loro carichi in Italia La droga delle ‘ndrine sulle navi da crociera “L’abbiamo trasportata anche sulla Concordia” FRANCESCO VIVIANO La cocaina della ‘ndrangheta va in crociera. Anche, si sospetta, sulla vecchia Costa Concordia: «La stessa nave che ci ha fatto fare la figuraccia che in tutto il mondo ci ha preso per il culo», dicono due boss intercettati dalla Guardia di Finanza che indaga su un vasto traffico di stupefacenti dal Sud America in Italia. I trafficanti parlano in codice: «Ti ricordi la “principessa” di che marca era?». Per il Gico e per i pubblici ministeri della Procura di Firenze titolari dell’indagine che un mese fa ha portato all’arresto di una ventina di ‘ndranghetisti, l’identificazione con alcune delle più note navi da crociera è evidente. I criminali «intendevano riferirsi alla Costa Concordia e al famoso naufragio del 13 gennaio del 2012». L’indagine è relativa a tonnellate di cocaina purissima che viene imbarcata nei porti sudamericani di Santo Domingo, Perù, Panama e Florida e poi nascosta tra i rifornimenti alimentari per i croceristi o in capienti borsoni che, con la complicità di alcuni membri degli equipaggi, vengono sistemati nelle cabine di “turisti”, in genere coppie di calabresi incensurati in vacanza. È questa la nuova autostrada della cocaina della ‘ndrangheta, preoccupata dei numerosi sequestri di container. Un danno enorme per le cosche calabresi che da qualche anno hanno diversificato le rotte, imbarcando la loro “merce” sulle insospettabili navi da crociera, italiane e straniere, in giro per il mondo. Le navi preferite dalle cosche calabresi erano quelle della Costa Crociere, della Msc e della Norwegian Cruise Line che battono in lungo ed in largo i mari caraibici fino ad arrivare in Europa e nel Nord Africa. A svelare che la cocaina andava in crociera sono gli stessi ‘ndranghetisti che in molte conversazioni telefoniche e via chat parlano delle partenze e degli arrivi dei loro carichi. Ed è stato ascoltando queste conversazioni che gli uomini del Gico scoprono tra l’altro che una grossa partita di cocaina (mai trovata) sarebbe finita, all’insaputa dei comandanti e dei responsabili della compagnia di navigazione, anche sulla Costa Concordia. «Ti ricordi la “principessa” di che marca era?», chiede un boss, Michele Rossi, che in chat usa il nickname “Olivia”, mentre il suo interlocutore, Massimo Tiralongo, utilizza il nome “Giulia”. E quando “Giulia” risponde di non ricordarsi esattamente il nome della nave sulla quale era stata imbarcata la cocaina, “Olivia” fa riferimento a quella che ha fatto fare «la figuraccia all’Italia». Poi i due fanno riferimento anche alla concorrenza della Costa Crociere, la nave “Famosissima” della “Msc”, partita da Santo Domingo, dove sarebbe stato caricato un altro grosso quantitativo nascosto in un container che fu sequestrato il 27 ottobre del 2013 nel porto di Genova. Non è la prima volta che si parla di cocaina ed altri stupefacenti fanno ingresso nelle navi da crociera. Nel porto di Savona, nel 2008, furono arrestati alcuni marittimi filippini che portavano droga sulle navi Costa Magica, Europa e Serena scoperti dalla sicurezza della 36 compagnia di navigazione e dall’antidroga di Savona. In quel però caso si trattava di piccole partite di stupefacente spacciata a bordo. Le nuove rotte e i nuovi mezzi utilizzati dalla ‘ndrangheta per la gestione del traffico di cocaina adesso non sono più un mistero e la Dea, l’ente antidroga americano, la Guardia di Finanza e altre polizie europee hanno intensificato le indagini allertando gli armatori. Una collaborazione che ha portato, l’11 marzo scorso, al sequestro di 7 chili di cocaina ed all’arresto di cinque membri dell’equipaggio della nave da crociera “Novergian Sun” mentre stavano imbarcando la polvere bianca nel porto di Tampa, in Florida. Del 30/03/2015, pag. 21 “Stop agli inchini ai boss i portatori delle statue saranno estratti a sorte” Giro di vite in Calabria contro le infiltrazioni mafiose nelle processioni Il decalogo del vescovo di Mileto in vigore già da domenica PAOLO RODARI CITTÀ DEL VATICANO . Nessuna sosta davanti alle case dei boss. Niente incanto: per stabilire chi porta la statua non avrà più luogo un’asta nella quale vince chi offre di più, ma un’estrazione dei nomi. Vigilanza dei parroci sul nuovo sistema. Sono le principali novità introdotte dal vescovo della diocesi di Mileto-Tropea-Nicotera, Luigi Renzo, relativamente al funzionamento dell’Affruntata di Sant’Onofrio. «Occorrono segnali concreti di rottura da certi andazzi impropri», recita il regolamento emanato, che invita «ad affidare ai giovani che frequentano la parrocchia e sono veramente impegnati in un cammino di fede la possibilità di portare le statue, rendendoli protagonisti anche nell’organizzazione». E ancora, si deve rinunciare «a certi pretesi privilegi », in modo da offrire una vera collaborazione ai parroci per l’esecuzione delle direttive diocesane. La Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina. La Madonna della Montagna di Polsi. L’Addolorata dell’Affruntata nel Vibonese. Sono alcune delle processioni e dei riti religiosi che spesso sono stati utilizzati dalla ‘ndrangheta calabrese per manifestare il proprio potere sul territorio. La scorsa estate l’ultimo “inchino”, in quel di Oppido, scatenò polemiche a non finire e un’inchiesta dalla Direzione distrettuale antimafia. Insieme, si aprì un dibattito all’interno della Chiesa calabrese i cui frutti sono maturati in questi giorni. Per l’Affruntata, tradizionale e sentita cerimonia religiosa che simula la trasmissione del messaggio della resurrezione di Gesù Cristo tra la Madonna e San Giovanni, monsignor Renzo ha scelto un deciso cambio di rotta che si manifesta, fra le tante norme, con quella che vieta espressamente di «girare o sostare con le sacre immagini davanti a case o persone, tranne che si tratti di ospedali, case di cura, ammalati». E ancora, ecco le nuove regole sui portatori delle statue: sono stati scelti per estrazione da un elenco di prenotati il giorno della Domenica delle Palme, e cioè ieri. Toccherà ai parroci, in collaborazione con il comitato festa, vigilare sulla scelta dei portatori. In ogni caso non saranno ammesse «persone aderenti ad associazioni condannate dalla Chiesa, che siano sotto processo in corso per associazione mafiosa o che siano incorse in condanna per mafia, senza prima aver dato segni pubblici di pentimento e di ravvedimento ». Il vescovo Renzo chiede ai fedeli di avere coraggio. E cioè di non lasciarsi «espropriare di ciò che appartiene al loro patrimonio religioso più genuino, lasciandolo in mano a gente senza scrupolo, che non ha nulla di cristiano ed anzi persegue una ”religione capovolta”, offensiva del vero 37 cristianesimo popolare». Il regolamento è stato elaborato da una commissione costituita nella scorsa estate, dopo essere stato discusso e approvato dal consiglio presbiterale nella seduta del 12 febbraio 2015. Con esso monsignor Renzo ribadisce le proprie prerogative di autonomia ed indipendenza rispetto alle ingerenze della criminalità organizzata, ma non solo. Con l’articolo 3 del punto “D — Adempimenti Canonici e civili”, il documento sembra, infatti, voler limitare anche l’invadenza delle istituzioni dello Stato, che in passato, avevano chiesto di conoscere preventivamente l’elenco dei portatori delle statue. A tal riguardo, si afferma, che una tale eventualità «pur nello spirito di una opportuna e saggia collaborazione di massima, non trova fondamento nel vigente sistema normativo dello Stato italiano», anzi, in virtù dell’Accordo Stato- Chiesa del 1984 a quest’ultima è garantita «la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». In sostanza, con le disposizioni contenute nel nuovo regolamento, la diocesi sembra voler comunicare sia allo Stato sia all’anti-Stato il medesimo concetto: le processioni, pur riviste ed epurate dalle pretese della ’ndrangheta, non si toccano. 38 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 30/03/15, pag. 23 Banlieue d’Italia Livorno, Cremona e La Spezia: qui l’integrazione è più difficile Male anche l’Emilia Romagna «Di fronte ai migranti è chiusa» Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera». Alla faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne. Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo). E hanno infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da mille manine solerti. Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo: «Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo. Città di mare a misura d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio di pesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia. Ecco dunque l’ultima graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo metropolitano miope ed egoista. Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto. Incrociando indicatori come il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborandone i valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123. Napoli a 76,7. Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3. La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. Il modello emiliano e la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca. «Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale». Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” — spiega Abis — molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione 39 già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica». «Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste». Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale). «La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” — sostiene De Masi — nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto». Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognarsi della loro patria. Goffredo Buccini 40 WELFARE E SOCIETA’ Del 30/03/2015, pag. 4 La marijuana è made in Italy Visto da fuori sembra un istituto tecnico per l’agricoltura: quattro file di persiane rosse, due piccole serre e le papere che attraversano il vialetto pedonale. L’unico indizio per capire che in questo edificio c’è la più avanzata piantagione di cannabis d’Europa è il grande cartello bianco che campeggia sul portone di ingresso: “Area videosorvegliata”. Siamo al Cra-Cin di Rovigo, Centro di ricerca per le colture industriali. Un chilometro più a sud c’è la stazione dei treni del capoluogo, poco più a ovest l’autostrada. All’interno, oltre cinquecento piante di cannabis di un centinaio di varietà differenti. Qui, lo scorso 20 marzo, un furgoncino dell’Esercito ha prelevato le prime 80 piante destinate allo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze dove sta partendo la prima produzione italiana di cannabis a scopo terapeutico. Ma quello che si produce in Toscana è stato studiato, selezionato e coltivato a Rovigo. “Qui abbiamo gli ingegneri che da anni progettano un’automobile, a Firenze è sorta la prima fabbrica”, spiega un funzionario del ministero dell’Agricoltura. Quelle piante clonate Nelle quattro stanze adibite alla coltivazione le finestre sono sbarrate, ma la luce è intensa e l’odore inconfondibile. La filiera comincia con un cubetto di lana di roccia poco più grande di un dado: qui vengono impiantate le talee, piccoli rami di cannabis che metteranno radici fino a diventare autosufficienti. Per assicurare la stabilità genetica necessaria alla produzione farmaceutica, le piante non seguono il ciclo di riproduzione naturale, ma vengono clonate. I “segreti” per una produzione perfettamente standardizzata, requisito fondamentale per un prodotto farmaceutico, sono un ambiente sterile, 18 ore di luce al giorno, temperatura e umidità costanti. Solo così si riescono ad assicurare fino a quattro cicli di produzione all’anno, equivalenti a un raccolto di 150 grammi per pianta. L’obiettivo è massimizzare la resa con il minimo sforzo, benché quasi tutti gli strumenti utilizzati si possano reperire in un negozio Leroy Merlin e altri siano addirittura artigianali, come le mezze bottiglie di plastica che coprono le piante per mantenere alta l’umidità. La sensazione di essere in un laboratorio professionale sorge solo guardando i dodici armadi in plastica riflettente: servono a capire quale sia la luce migliore per la crescita. Ognuno contiene una pianta e una lampada diversa: blu, rossa, al neon e una al led capace di produrre tanta luce quanto il sole, ma senza calore. Un campione di ogni produzione viene portato al piano inferiore, dove viene testato il contenuto di cannabinoidi. Il risultato è una linea ondulata simile a un encefalogramma: l’ampiezza di picchi e curve decreterà qual è la cannabis “giusta” per alleviare il dolore, quale quella per ridurre gli spasmi muscolari. Dimenticatevi i nomi pittoreschi e un po ’ hippie sui menu dei coffee shop di Amseterdam: qui non si produce nessuna vedova bianca, bubblegum o grandine viola. La varietà destinata a Firenze, quella che combina nel giusto gradiente i due principi attivi curativi (il Thc responsabile dello sballo e il Cbd), si chiamerà CinRo: Colture industriali di Rovigo. Seguiranno per altre patologie il CinBo e il CinFe, in omaggio a Bologna e Ferrara. A selezionare ogni varietà, dopo una sperimentazione che dura più anni, è il primo ricercartore Giampaolo Grassi. Anche lui, come i nomi della “sua” cannabis, non tradisce alcuna fascinazione fricchettona: giacca blu, camicia e un marcato accento ferrarese. Eppure è stato lui, da quando nel 2002 ha cominciato a condurre la sede di Rovigo, a introdurre la prima coltivazione per fini di ricerca della cannabis in Italia. In realta si tratta di una coltura di ritorno: “Da piccolo 41 passavo le giornate a giocare tra le piante di canapa da fibra”. Canapa, eravamo secondi al mondo Prima di Grassi a Rovigo si studiava solo la barbabietola da zucchero, la pianta che nell’Ottocento aveva portato le prime industrie in Romagna e nel basso Veneto, ma oramai in declino. Proprio la barbietola aveva soppiantato la secolare produzione di canapa da fibra (della stessa famiglia dell’indica, quella psicotropa, ma senza Thc) di cui l’Italia era la seconda produttrice al mondo e che veniva impiegata per costruire le vele delle navi. Tra le peculiarità del centro c’è una banca del seme con oltre 300 varietà e 2 mila incroci. “Ogni volta che un amico va a fare un viaggio all’estero me ne porta uno. È legale perché non contengono Thc”. I centri come questo nel mondo si possono contare sulle dita di una mano. Per questo, quando l’industria farmaceutica inglese GW inizia a sperimentare i primi farmaci a base di cannabis, il suo ricercatore va a confrontarsi con Grassi. E lo stesso hanno provato a fare il governo uruguagio e i produttori del Colorado dopo le legalizzazioni. Eppure, nessuna delle varietà isolate a Rovigo è stata “brevettata”. La ragione? Burocratica: “Per legge non possiamo trasportare il materiale fino alla sede olandese”, dove ne verrebbe riconosciuta l ’ unicità. Si è deciso di produrre cannabis a Firenze perché l’Olanda, unico paese autorizzato a esportare, è rimasta a corto della principale varietà usata per scopi medici, il Bedrocan. I fondatori dell’azienda omonima hanno iniziato rifornendo i coffee shop. Oltre a sopperire in modo costante alla domanda, quando entro fine anno la produzione a Firenze sarà a regime si potranno produrre un quintale di inflorescenze l’anno. Nel 2014 sono stati importati in Italia “solamente” 25 chili, ma la lista dei pazienti in attesa è lunga e la domanda crescita. Anche sul fronte economico si prospettano risparmi che giustificheranno il milione di euro investito nello stabilimento fiorentino. Oggi un paziente curato con il Sativex – l’unico farmaco a base di cannabinoidi in commercio – spende 726 euro al mese rimborsati dal servizio sanitario nazionale. I residenti nelle undici regioni italiane che hanno recepito il decreto Balduzzi del 2013, dove è quindi possibile curarsi con i fiori di cannabis, spendono 15 euro al grammo nelle farmacie ospedaliere. Se, come spesso accade, il prodotto non è disponibile, possono rivolgersi alle farmacie private, dove però il prezzo sale, per un’imposizione di legge, fino a 35-40 euro al grammo. “Con la produzione in Italia abbiamo previsto significativi risparmi”, fa sapere l’Agenzia industrie difesa che gestisce l’impianto fiorentino. “Contiamo di dimezzare i costi al grammo”, gli fa eco l’Ufficio centrale stupefacenti. Per risparmiare però basterebbe migliorare la somministrazione. “Conosco malati pugliesi che assumono 4 grammi al giorno perché nessuno ha loro spiegato come preparare il decotto necessario ad assimilarla. Ai miei pazienti bastano 30 milligrammi, meno dell’ 1 %”, spiega Paolo Poli, primario dell’Unità di terapia del dolore dell’ospedale di Pisa. Nonostante inizialmente fosse “molto scettico”, oggi tratta con cannabis oltre 500 pazienti affetti da varie patologie: cefalee, fibromialgia, sla, malattie reumatiche. La lista di problemi è però lunga: farmacie ospedaliere che non predosano il prodotto costringendo i pazienti a prenderlo a cucchiaini, medici di base che non sanno di poterla somministrare e tempi di attesa medi di sei mesi. Per risolvere queste difficoltà il governo ha scelto Firenze. Ma dove finisce la cannabis di Rovigo? Gli 80 chili prodotti negli ultimi mesi sono stivati dietro una porta blindata dentro a dei sacchi neri. La legge sugli stupefacenti 309 / 90 darebbe la possibilità al ministero della Salute di cedere le giacenze a farmacie e centri di ricerca, ma non è mai stato fatto. Negli ultimi due anni si è preferito spendere 600 mila euro per importare 43 chili di cannabis dall’Olanda. Tra un paio di settimane un camion per trasporti speciali, di quelli usati per esplosivi e materiale radioattivo, andrà a ritirare i sacchi e li porterà all’inceneritore. Ad accompagnarlo, oltre a Grassi, ci saranno due finanzieri: la legge impone che assistano personalmente alla distruzione. E mentre il raccolto di Rovigo andrà in fumo, migliaia di pazienti continueranno ad aspettare che lo stabilimento di Firenze entri a regime. 42 Del 30/03/2015, pag. 5 Quel fumo che sballa ma aiuta contro Sla Alzheimer e glaucoma C’è chi la fuma alla sera per rilassarsi e chi per alleviare il dolore. Chi la equipara alle droghe pesanti e chi, invece, vorrebbe legalizzarla. Quando si parla di cannabis, la verità oggettiva tende a sciogliersi come “fumo” scaldato, per lasciare spazio a partiti, ideologie, schiere di tifosi. Eppure esiste un’ampia letteratura scientifica su una sostanza antichissima, le cui prime tracce risalgono addirittura al Neolitico. A cominciare da un dato. In Italia il 32, 1 % delle persone tra i 15 e i 64 anni ha fatto uso di cannabis almeno una volta nella vita (dati EMCDDA), mentre cresce il consumo tra i giovanissimi: 1 su 4 sotto i 19 anni fuma regolarmente spinelli, secondo l’ultima relazione parlamentare sulle tossicodipendenze. Chissà, forse anche perché – secondo gli esperti – i produttori avrebbero cominciato a tagliarla con sostanze che favoriscono la dipendenza. Molti la fumano, ma in pochi conoscono fino in fondo i suoi effetti tossicologici e comportamentali. “Le prime sensazioni che si manifestano sono di euforia, divertimento, senso di rilassatezza – anche se a volte possono essere accompagnate da senso di nausea e vomito, tachicardia, aumento di fame e sete. E, in casi estremi, attacchi di panico, specie con i cannabinoidi sintetici”. Edoardo Polidori, direttore del Servizio tossicodipendenze dell’Usl di Forlì, descrive così il primo approccio con la sostanza, che deve la propria fama al suo maggiore principio attivo: il delta-9-tetraidrocannabinolo, meglio conosciuto come THC. “Si ritrova per il 5-6 % nelle foglie di marijuana e, in dosi decisamente più concentrate, nella resina o hashish, dove sfiora il 20 %, aumentando il rischio di reazioni psichiche negative” precisa Rinaldo Ca-nepa, medico del Sert di Genova, specialista in tossicologia. Tra queste, le più diffuse sono una minore capacità di concentrazione e una riduzione della memoria a breve termine. Gli effetti psicoattivi della canapa scompaiono nel giro di qualche ora, ma le tracce nell’organismo possono rimanere anche per due-tre settimane. Ma quali sono i rischi per chi fa uso di questa sostanza? I fattori in gioco sono tanti, dalla frequenza degli spinelli all’età e allo stato di salute del consumatore. “Dal punto di vista medico, fumare una canna al mese a 40 o 50 anni non comporta alcun rischio particolare – assicura Polidori – Le cose si complicano se a farlo è un ragazzino di 13 o 14 anni, il cui equilibrio psichico è fragile e in costruzione e può andare incontro anche a episodi di psicosi”. Ma – come sottolinea Canepa – “Ad oggi non sono stati riscontrati rapporti diretti tra l’uso di cannabinoidi e l’insorgere di malattie particolari”. Di più, gli fa eco Polidori. “Non esiste alcun caso di morte accertata per uso di cannabis, a differenza di quanto avviene per sostanze legali come alcool e nicotina”. Anche in virtù di questi dati, negli ultimi anni il confine tra droga e farmaco è diventato sempre più sottile. Se in Italia l’uso terapeutico della cannabis è legale dal 1997, dall’anno scorso l ’ accesso ai farmaci è diventato più semplice grazie a un decreto legge applicato in numerose regioni italiane. Ma la comunità scientifica resta divisa. Per Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, “ben venga, se serve per alleviare i sintomi dei pazienti, anche se oggi non ci sono abbastanza prove per attestare che i benefici siano superiori agli effetti tossici”. Studi definitivi ancora non ce ne sono, in un Paese che paga dazio a un ritardo culturale sull’argomento. “La battaglia più difficile – spiega Polidori – è sradicare il pregiudizio nella testa delle persone, di fronte a una sostanza che ha 43 dimostrato di essere efficace contro il glaucoma, oltre a un potente stimolatore dell’appetito per malati in stato terminale”. E ricerche più recenti si sono concentrate sui suoi possibili benefici nella cura dell’Alzheimer e come anti-spastico per i casi di SLA. Mentre molte regioni stanno aprendo all’uso medico della canapa e in Parlamento è pronta una proposta di legge per la sua legalizzazione, un compromesso, secondo Canepa, è possibile solo sgombrando il campo da ogni tipo di questione ideologica o commerciale. “L’atteggiamento di certi sostenitori fanatici rischia di far perdere di vista le vere proprietà del farmaco, che richiedono un approccio scientifico”. L’ultima parola spetta ai medici, perché anche il dibattito sulla cannabis non si riduca all’ennesima battaglia ideologica tra opposte fazioni. 44 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ Del 30/03/2015, pag. 43 Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America Perché Dio è tornato sulla scena ROBERTO ESPOSITO DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata. A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso. Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti. Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filooccidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti. Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul 45 comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale. Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro. Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino. E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei Paesi occidentali. Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia – tutte contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di supplenza. Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito – si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) – la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di politica della teologia. 46 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI Del 30/03/2015, pag. 31 Lo psicologo da bestseller Peter Gray “Giocare all’aria aperta li rende più creativi” Il tempo (libero) perduto dei bambini “Ecco come liberarli dallo smartphone” VERA SCHIAVAZZI ARRAMPICARSI su un albero, giocare alla caccia al tesoro con gli amici, fare una gara di corsa e gettarsi nel fango. Il tutto prima dei dodici anni, e non solo perché lo consiglia il National Trust inglese né perché può sembrare romantico, ma per diventare più creativi e imparare a affrontare la vita con più coraggio e autonomia di chi ha passato un’infanzia tra videogiochi e playstation, senza mai incontrare bambini sconosciuti o sfuggire alla sorveglianza dei genitori. Peter Gray, psicologo e biologo al Boston College, studia da anni gli indici di creatività dei ragazzini americani, constatandone il progressivo precipitare nella banalità. Tra il 1985 e il 2008, le risposte date al Test di Torrance, applicato nelle scuole americane, hanno fatto scendere l’85 per cento dei ragazzi intervistati sotto la media dei loro predecessori: non sono più capaci di fornire tante risposte (Fluency), né di darne di non scontate (Originality), né di trarre spunto da elementi diversi (Flexibility). In altre parole, non sono più in grado di avere un’elaborazione creativa. E, di conseguenza, diventeranno più difficilmente imprenditori, inventori, presidi di college, scrittori, dottori, diplomatici o sviluppatori di software. Ora Gray, nel suo saggio (“Lasciateli giocare”, per Einaudi, in libreria da domani) che è già un bestseller in Usa, suggerisce a genitori e insegnanti di rivoluzionare i propri pensieri educativi. In casa, in giardino, in vacanza, i bambini non dovrebbero essere vigilati da vicino né indotti a partecipare (sempre) a sport rigidamente organizzati. Meglio spogliarsi, dipingersi, giocare con un giornale o perfino fare a gara a chi si rinchiude meglio nell’armadio, sfidando la paura. Anche la disciplina scolastica rigida non è necessaria, come dimostrano i casi delle scuole più liberal (la Sydbury valley school del Massachussets, per esempio, dove sono gli allievi a decidere liberamente come e quando imparare a scrivere, fare di conto e adoperare un computer). Una denuncia dura, quella di Gray: «Privare i bambini del diritto al gioco è sbagliato, ed è ora di smetterla». Ma anche in Italia mamma, papà, scuola e amministrazioni civiche non sembrano essere sulla strada giusta. Solo il 6 per cento dei bambini, come spiega l’ultimo rapporto di Save the Children, ha diritto a scendere in strada da solo e solo il 25 per cento può giocare in cortile. Il 37 per cento dei piccoli, 3 milioni e 700 mila, cresce in città. Il 51,6 vive in famiglie che non possono prevedere neppure una settimana di vacanza, il 47 per cento non legge un libro all’anno. Perfino giocare a calcio è difficile per i piccoli italiani, e per chi arriva da una famiglia straniera ancora di più: proibito negli spazi condominiali e in molti giardini urbani, si può fare nelle società sportive, ma con costi e orari che rendono lo sport nazionale accessibile solo a due bambini su 10. In questo modo però, cancellando dalla pratica infantile ogni abilità ereditata dai cacciatoriraccoglitori, cioè dai nostri antenati, non li si rende solo più tristi, ma anche più depressi, aggressivi e convinti di non riuscire neppure a superare l’ora di educazione fisica a scuola. Sicilia, Calabria e Campania solo in fanalino di coda per gli spazi di gioco collettivi, mentre solo a Bolzano, in Valle d’Aosta e in Toscana è possibile correre liberi nel verde, almeno durante il weekend. Alle difficoltà logistiche va aggiunta la paura dei genitori, che temono sopra ogni altra cosa un ginocchio sbucciato da una caduta, la 47 tendenza a spogliarsi e rivestirsi incuranti della temperatura e i pericoli che potrebbero arrivare ai fratelli più piccoli giocando con i maggiori, «Ma — avvisa Gray — così facendo si impedisce loro di imitare gli adulti, di cantare una canzone e di inventarne una nuova, di gestire la dose di paura che possono sopportare e di essere quindi incapaci di accogliere quelle che arriveranno dopo, a scuola o nello sport». Proteggerli, privarli dell’altalena o del pallone, difenderli furiosamente da qualunque sostanza possa sporcarli o contaminarli (dai piccioni alle cartacce agli animali domestici, fino ai giornali e al gelato, senza dimenticare il terrore degli insetti) e consegnare loro una tastiera di qualsiasi genere non vuole dire amarli, ma farli diventare ansiosi e disinteressati. Con la vita, e la scuola, percepire come una lunga serie di ostacoli. 48