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RASSEGNA STAMPA
lunedì 30 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
L’ARCI SUI MEDIA LOCALI
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 28/03/15, pag. 6
Meglio il «processo di Tunisi»
Filippo Miraglia*, Walter Massa**
Immigrazione . Una contromisura alla volontà dell’Italia e della Ue di
delegare ai regimi africani il rispetto dei diritti
L’Europa è in guerra contro un nemico immaginario. Dal nostro punto di vista è una
constatazione e non solo uno slogan. Una constatazione che si fonda principalmente su
una vera e propria distorsione della realtà, costruita dai governi europei ed alimentata
dall’approccio sensazionalistico di molta stampa.
Così, di fatto, si rende incomprensibile all’opinione pubblica la saldatura tra la crisi
economico/politica di molti paesi di provenienza (del continente africano principalmente) e
il fenomeno migratorio che da diversi anni trova, nel nostro Paese, uno dei canali
d’ingresso preferenziali verso l’Europa.
Questo è uno dei punti di debolezza del lavoro che da anni svolgiamo come movimenti
sociali/società civile/ movimento antirazzista europeo. Una difficoltà che ci impedisce di
orientare il dibattito pubblico, ancora oggi fondato su un approccio sicuritario.
Una difficoltà che in questi ultimi anni si è moltiplicata a causa della congiuntura
economico e sociale che ha indebolito progressivamente buona parte delle nostre società.
Da qui occorre ripartire per produrre in Europa e in Italia una alternativa alle attuali
politiche sull’immigrazione, invertendo una rotta divenuta insostenibile e omicida. Basti
pensare a ciò che continua ad accadere nel Canale di Sicilia, alle centinaia di vittime e di
scomparsi che contiamo anno dopo anno.
Partendo da Tunisi, insieme alle tante reti internazionali di cui facciamo parte, abbiamo
deciso di aprire uno spazio di riflessione pubblica al Forum Sociale Mondiale, in questi
giorni, con la società civile africana ed europea. Con l’obiettivo di promuovere un processo
dal basso quale contromisura al processo di Khartoum, che è una iniziativa del governo
italiano alla quale hanno aderito tutti i Paesi membri dell’Unione europea, la stessa
Commissione Europea e molti Paesi africani d’origine e transito dei migranti, che punta ad
esternalizzare le frontiere, trasferendo la responsabilità del rispetto dei diritti umani, del
principio di non respingimento e del diritto d’asilo ai Paesi partner africani, in alcuni casi
governati dagli stessi dittatori (è il caso di quello eritreo) che sono la principale causa dei
flussi di rifugiati.
È in parte ciò che abbiamo iniziato a fare lo scorso 3 ottobre a Lampedusa con Sabir,
chiamando a raccolta centinaia di organizzazioni sociali e ponendo al centro delle nostre
riflessioni la deriva neo colonialista dei governi europei, la loro assoluta incapacità
nell’affrontare un vero e proprio caso umanitario e soprattutto i suoi tragici effetti.
La nostra proposta, accolta con interesse dalle tante reti presenti a Tunisi, si pone
l’obiettivo di proporre alternative praticabili alle soluzioni ingiuste e sbagliate proposte dai
governi dentro il quadro del processo di Kartoum. Lavoriamo dunque per ribaltare questa
visione dell’Europa, provando a rendere più evidenti le connessioni tra crisi dei paesi e
processi migratori, di fatto sempre più assimilabili a veri e propri processi di espulsione, su
cui, peraltro, le mafie di mezzo mondo speculano abbondantemente nel più totale silenzio
delle istituzioni.
Questo spazio di iniziativa, che abbiamo voluto chiamare il «processo di Tunisi» punta ad
ottenere come risultato più importante l’accesso legale alle frontiere, superando di fatto le
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politiche di chiusura e di respingimento e sottraendo in tal modo le persone in cerca di
protezione o in cerca di lavoro al rischio di morte e al ricatto di chi specula sulle leggi
proibizioniste.
Ciò che avviene da decenni per le merci e per le transizioni finanziarie deve riguardare le
donne e gli uomini in fuga dai propri paesi. Questo anche per uscire dalla logica
emergenziale sulla quale sono basati da anni i processi di gestione delle frontiere e di
prima accoglienza.
Una visione delle frontiere basata sul principio universale della solidarietà e della tutela dei
diritti umani, della sicurezza delle persone e non dei confini, è ciò che serve anche al
nostro paese per evitare ancora morti nel Mediterraneo.
* vicepresidente nazionale Arci
** coordinatore Arci Immigrazione e Asilo
Da Radio Vaticana del 28/03/15
Tunisi. Chiude il Forum sociale, marcia
contro il terrorismo
Istituzioni italiane in visita in Tunisia: oggi Matteo Renzi e Laura Boldrini ieri con una
delegazione di parlamentari italiani, che ha reso omaggio alle vittime del Bardo visitando il
Museo. Sempre a Tunisi in queste ore si sta chiudendo la 13.ma edizione del Forum delle
Associazioni del mondo, seguito per noi da Silvia Koch. Ecco alcune delle iniziative
circolate durante i lavori:
Si chiama "watergrabbing.net" ed è una delle più vivaci iniziative condivise durante il
Forum qui a Tunisi. Si tratta, spiega Luca Ranieri dell'organizzazione Cospe, di una
piattaforma online dove è possibile denunciare tutti i casi di accaparramento illegittimo
delle risorse idriche ai danni delle comunità limitrofe, che per natura dovrebbero invece a
averne pieno accesso.
Tribunale per migranti deceduti e dispersi
Passando al filone delle migrazioni, l'idea di un Tribunale internazionale dei popoli per le
persone decedute, e per i dispersi in rotta verso l'Europa, è la soluzione proposta dalle
associazioni di familiari delle vittime per stimolare, attraverso la creazione di una
documentazione riguardo i casi di sopruso, un graduale miglioramento del Diritto
nazionale ed internazionale in tema di migrazioni. “Bisogna smettere di parlare di numeri e
dare un viso a queste vittime, voce alle loro famiglie, e responsabilità agli Stati che non
fanno abbastanza per evitare le morti in mare. "Bisogna fare rete”, ci dice Edda Pando
dell'Associazione Arci. E l'invito è lo stesso per tutte le aree tematiche.
I temi del Forum
Sport quale strumento di dialogo e fratellanza, bioenergie e cambiamento climatico,
necessità di soluzioni politiche e condanna dell'uso delle armi, economie solidali, le donne
protagoniste nella vita sociale e politica, i media e la libertà di stampa, le giovani
democrazie nate dalle rivoluzioni a sud del Mediterraneo. E' un mondo che cambia e le
istanze del Forum con esso, adattandosi di anno in anno alle nuove esigenze, o rinnovate
emergenze. Geograficamente parlando, il Forum si è concentrato sul Nordafrica, con
focus su Tunisia, Egitto e Libia, sul Medio Oriente, e parliamo soprattutto di Iraq, Siria,
Yemen, Palestina e Afghanistan. Il mondo delle "primavere arabe" è il vero protagonista
quest'anno: lo era anche nella precedente edizione, tenuta nel 2013 già in Tunisia, ma
proprio quel Forum stimolò l'articolazione di una società civile in una serie di associazioni
autonome, oggi attori attivi del cosiddetto movimento Altermondista.
La marcia contro il terrorismo
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Partecipano al Forum anche alcuni parlamentari europei, in una delegazione delle Sinistre
e dei Verdi, che si è impegnata a farsi promotrice presso le istituzioni di alcune specifiche
istanze. I vari coordinamenti tematici sono ora al lavoro per elaborare conclusioni e
proposizioni, da rivendicare presso coloro che governano la politica e l'economia mondiali.
Ma si riuniranno, fra poco, nel cuore di Tunisi, per esprimere solidarietà al popolo
palestinese, in occasione della marcia che per tradizione chiude l'evento del Forum.
http://it.radiovaticana.va/news/2015/03/28/tunisi_chiude_il_forum_sociale,_marcia_contro_
il_terrorismo/1132826
Da Redattore Sociale del 27/03/15
Maratona in bicicletta per i diritti dei migranti:
domani la prima tappa
Si chiama “Migranti e migrati” la nuova campagna lanciata da
Viandando, Arci, Amnesty e Libera che punta ad accendere i riflettori
sul fenomeno migratorio attraverso il viaggiare lento. Chiunque può
partecipare “donando” le sue pedalate e postandole sui social network
ROMA – Una maratona ciclistica, o meglio una "raccolta di chilometri" da fare
rigorosamente in bici, per accendere i riflettori sul tema dell’immigrazione in Italia. Si
chiama “Migranti e migrati, #12000km in bici” l’iniziativa lanciata da Viandando, Arci,
Amnesty International, Libera, Università popolare dello sport e Libera accademia di
Roma, con il patrocinio del Coni, che intende promuovere attraverso il viaggiare lento un
nuovo modo di guardare ai flussi migratori. Il viaggio, che toccherà diverse tappe, da Nord
a Sud della penisola, prenderà il via domani dal Molise, quando la ciclista Gaia Ferrara
percorrerà i primi 60 chilometri in sella alla sua bicicletta. L’atleta, che già lo scorso anno
ha compiuto un’analoga impresa per i fantasmi di Portopalo, percorrendo da sola 1.200
chilometri, quest’anno parteciperà alla speciale raccolta, realizzando due viaggi : uno al
sud e uno al nord, per un totale di duemila chilometri.
“Quasi un anno fa ho fondato l’associazione Viandando – spiega Ferrara - che si occupa
di cicloturismo e di progetti sociali legati al viaggio. E dopo l’avventura per ricordare i
migranti morti a Portopalo, abbiamo deciso di lanciarne un’altra più ambiziosa, per fare in
modo che in tanti decidano di prendersi del tempo, per riflettere su queste tematiche.
Questa, infatti, è una campagna che vuole sensibilizzare intorno al tema delle migrazioni
in modo intellettualmente onesto, raccontando il bene e il male. Quindi in questi chilometri
percorsi ci saranno anche molte storie e testimonianze, perché il nostro obiettivo è ripartire
dalle persone e dalla dignità”.
Alla raccolta di chilometri possono partecipare tutti: chiunque può infatti decidere di
“donare” le sue pedalate filmando la sua impresa e raccontandola sui social con l'hastag
#12000km. L’iniziativa si svolgerà fino alla fine alla metà di giugno. “Questa è un’iniziativa
encomiabile – sottolinea il presidente del Coni Giovanni Malagò -. I valori che muovono
Gaia Ferrara sono quelli che dovrebbero essere alla base di tutto il nostro movimento
perché a noi non interessa solo vincere le medaglie d’oro, ma anche essere testimonial di
questo tipo di progetti”.
“Non abbiamo faticato ad accogliere la proposta di Gaia – aggiunge Sergio Giovagnoli di
Arci - il tema da lei scelto ci riguarda molto. Noi siamo impegnati nell’accoglienza ma
anche nella campagna per lo ius soli e all’interno dell’iniziativa vorremmo organizzare a
Roma un giro in bici che colleghi i vari centri di accoglienza e un campo rom”. Alla
presentazione è intervenuta anche Laura Renzi di Amnesty International: “nell’ultimo anno
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i flussi migratori verso il nostro paese sono aumentati. A febbraio sono già 2800 le
persone che hanno rischiato la vita in mare per arrivare sulle nostre coste e 329 i morti. Si
tratta di una questione talmente importante che bisogna portare avanti tutte le iniziative
per parlare di diritti dei migranti”. All’iniziativa dà il suo supporto anche l’Unione nazionale
proloco e la Federazione Ciclistica italiana. (ec)
Da Adn Kronos del 27/03/15
"Non da sole!". Stasera la prima cena di
solidarietà per riaprire o sportello di ascolto
del Centro antiviolenza La Nara a
Carmignano. Appuntamento ogni mese fino a
luglio
“Non da sole! Una cena al mese contro la violenza sulle donne” è lo slogan delle cene di
solidarietà promosse dall'assessorato alle Pari opportunità del Comune di Carmignano
con l'obiettivo di riaprire lo sportello di ascolto del Centro antiviolenza “La Nara” nel
territorio del Comune. “Cominciamo stasera al circolo Arci di Carmignano, ma
l'appuntamento si rinnoverà ogni mese fino a luglio in tutti i circoli del territorio – spiega
l'assessore Sofia Toninelli – Per realizzare questo obiettivo abbiamo in programma molte
altre iniziative, ad esempio una mostra-mercato di libri organizzata da genitori nel salone
consiliare, le magliette promozionali e anche una serata organizzata dal Lions Club”.
Toninelli prosegue sottolineando che attualmente il centro La Nara segue 12 donne
residenti a Carmignano, ma la presenza di uno sportello sul territorio facilita enormemente
il lavoro delle operatrici e permette un ascolto e una risposta alle richieste sicuramente più
adeguata. La prima delle cinque cene di solidarietà si terrà dunque stasera alle 19.30 al
circolo Arci di Carmignano (15 euro per primo, pizza, dolce e bevande). Gli appuntamenti
proseguono venerdì 17 aprile al circolo Arci di Bacchereto, venerdì 15 maggio all’Arci di
Poggio alla Malva, venerdì 12 giugno al circolo Anspi di Seano e si concludono venerdì 10
luglio al circolo Mcl di Santa Cristina a Mezzana.
http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/economia/2015/03/28/non-sole-stasera-primacena-solidarieta-per-riaprire-sportello-ascolto-del-centro-antiviolenza-nara-carmignanoappuntamento-ogni-mese-fino-luglio_PakfZ4mDSGJeguyxGbLscK.html
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L’ARCI SUI MEDIA LOCALI
Da la Stampa – Torino 7 del
LUNEDÌ 30 AL CIRCOLODEI LETTORI UNINCONTROE UNFILM
LA LAICITÀ CONTRO I FANATISMI
PATRIZIA VEGLIONE
Affermare la laicità per contrastare il sorgere di movimenti politici e Stati di estrema destra,
che utilizzano la religione per la supremazia politica. Su questo delicato terreno muove la
serata organizzata dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, in collaborazione
con Arci. Lunedì 30 marzo dalle 18, al Circolo dei Lettori di via Bogino 9, sarà presentato il
«Manifesto per la laicità», preceduto dalla visione del film «Laicité Inch’Allah!». Un tema
estremamente attuale, che trova maggiore incisività a pochi giorni dalla strage compiuta a
Tunisi dai terroristi dello Stato Islamico (Isis). Intellettuali e attivisti per i diritti universali e
civili si confronteranno proponendo la separazione della religione dallo Stato; l’abolizione
delle leggi religiose nel diritto di famiglia, civile e penale; la libertà di religione e ateismo
come fatto privato; la parità tra donne e uomini. Una testimonianza sul desiderio di laicità
anche da parte del mondo mussulmano, sarà portata, alle 18, dalle interviste realizzate
dalla regista Nadia El Fani, che introdurrà la proiezione del suo film assieme a Inna
Shevchenko (Ucraina), presidente di Femen e all’algerina Marieme Helie Lucas, portavoce
di Secular is women’s issue. «Laicité Inch’Allah!», sottotitolato in italiano, è un interessante
documento nel quale cinque anni fa ad agosto la regista filma, in pieno Ramadan, una
Tunisia che sembra aprire al principio della libertà di coscienza il suo rapporto con l’Islam.
Tre mesi dopo, scoppia la rivoluzione tunisina. Il dibattito e la presentazione del Manifesto
saranno introdotti alle 21 da Tullio Monti, presidente della Consulta. Interverranno la
giornalista e femminista Monica Lanfranco, MaryamNamazie (Iran/GB), portavoce di One
Law for All. La conclusione è affidata a Giulio Ercolessi della Federazione Umanista
Europea. Sarà attiva la traduzione simultanea dall’inglese e dal francese e il servizio di
interpretariato nella lingua dei segni italiana per sordi. Ingresso libero. Info 011/020.85.00.
Da La Nazione (Montecatini) del 24/03/15
MARGINE COPERTA IL COMUNE DÀ IL VIA LIBERA ALL’UTILIZZO PER
L’ATTIVITÀ SPORTIVA DI TANTI GIOVANI CALCIATORI
Il centro «Renzo Brizzi» riapre dopo i danni
della tempesta
LA BUFERA di vento del 5 marzo (nella foto) sembrava aver «ucciso » i sogni della
Polisportiva Margine Coperta. Ma la forza di volontà e il grande impegno di tutte le
componenti ha fatto sì che nella giornata di sabato Marzia Niccoli, sindaco di Massa e
Cozzile, abbia firmato un’ordinanza della riapertura del centro sportivo «Renzo Brizzi» in
specifico «limitatamente agli edifici e alle aree limitrofe della palestra, degli spogliatoi, degli
spogliatoi del campo sportivo, della tensostruttura e degli spogliatoi annessi». La
riapertura non è totale e il lavoro da fare è ancora lungo, in particolare sulla struttura delle
tribune, ma per il momento, essendo passati solo 20 giorni da quella tremenda nottata, si
può essere soddisfatti. E il primo vero segnale che il centro tornerà alla vita quasi normale
verrà dato domani pomeriggio, quando i bambini della scuola calcio della società
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neroazzurra rientreranno al centro sportivo «Brizzi» per poter effettuare i primi allenamenti
dopo esser stati per quasi tre settimane ospiti di altre società del comprensorio.
L’AMMINISTRAZIONE comunale, attraverso un investimento di circa 70mila euro e l’aiuto
di molti volontari (tra cui tanti genitori di ragazzi tesserati della società) in questo periodo
sono riusciti a togliere travi e detriti dal centro sportivo, riportandolo a un aspetto quasi
normale dopo la bufera di vento. Fra le strutture che per il momento non hanno avuto l’ok
c’è anche il locale adibito a bar/club house, da sempre posizionato sotto la tribuna
centrale, anche se si sta lavorando alacremente perché pure questa struttura riesca a
tornare al più presto agevole. E l’aver riaperto in parte il centro sportivo ha portato un’altra
buona notizia, che noi come giornale avevamo già anticipato alcuni giorni orsono e cioè
che l’edizione numero 30 del Trofeo Renzo Brizzi e la numero 19 del Memorial «Federico
Pisani», torneo a carattere internazionale riservato alla categoria esordienti 2002, si potrà
svolgere regolarmente da venerdì 3 a lunedì 6 aprile, come sempre nel lungo week end
pasquale. E in contemporanea si giocherà anche il 7° Memorial Michele Meoni per la
categoria giovanissimi 2000. Durante tutto il periodo dei tornei i titolari del bar/club house,
pur in emergenza, organizzeranno chioschi esterni per la consumazione di cibi e bevande
e durante la pausa dell’ora di pranzo offriranno questo servizio al circolo Arci di Margine
Coperta con la collaborazione dei titolari di questa attività.
David Ignudi
Da Corriere Fiorentino del 24/03/15
Landini fa il pieno
Ma la Cgil: un partito no
Al teatro Puccini, le 630 poltrone della platea e della galleria sono tutte piene. In duecento
sono costretti a stare in piedi. Il pienone è per il segretario Fiom, Maurizio Landini, a
Firenze ieri sera per presentare la sua «Coalizione sociale». Ad ascoltare ci sono suoi
convinti sostenitori, e tanti che nutrono un dubbio: ma questo è un movimento sociale o un
partito politico? A parlare di «ambiguità» è il segretario generale della Camera del lavoro
di Firenze, Mauro Fuso, uno degli esponenti Cgil che sono venuti «per ascoltare, per
capire» : «Se quello di Landini è un progetto oppositivo al governo - dice - è legittimo, ma
non è un progetto sindacale. E questa l'unica distanza tra Cgil e Fiom». Sulle prime tre file
di poltrone c'è scritto «riservato», ma l'unico nome che compare scritto è proprio «Mauro
Fuso». Oltre a lui, della Cgil ci sono anche Mario Batistini, Marco Benati, Carla Bonora e
Marcello Corti. E se il palco è vietato ai politici, in sala si avvista la senatrice ex M5S
Alessandra Bencini, mentre le sue colleghe Alessia Petraglia e Marisa Nicchi, di Sel, sono
tra i tanti che non sono riusciti a entrare in teatro, causa ressa, così come il deputato
Filippo Fossati. Tra gli «esclusi» anche i consiglieri comunali Tommaso Grassi, Giacomo
Trombi e Donella verdi, e il consigliere regionale Mauro Romanelli. Ci sono il sindaco di
Calenzano, Alessio Biagioli, la consigliera regionale Daniela Lastri dopo le sue tensioni
con il Pd («nel vuoto della sinistra quella di stasera è un'occasione importante»), e l'ex
sindaco di Greve Alberto Bencistà. Anche il neo candidato governatore di Sì, Tommaso
Fattori: «Come si lega il mio progetto per le regionali con Coalizione sociale? Se non
esiste una forza capace di cambiare l'agenda politica, non è possibile una scelta diversa,
di sinistra». Sul palco, accanto a Landini, a parlare c'è il segretario locale di Fiom, Daniele
Calosi, e anche Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, che nega la natura elettorale del
progetto Landini: «La politica si fa anche come società civile, non c'è bisogno di entrare in
Parlamento». Con lei Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci, e Silvano Sarti, di
Anpi, che si presenta in sala con una foto di Oscar Luigi Scalfaro, il «difensore della
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Costituzione»: «L'Anpi è contro le politiche economiche del governo senza garanzie sul
lavoro, c'è una degenerazione della società». Sul palco, anche don Andrea Bigalli di
«Libera» e Nicola Moscardi, portavoce dei docenti contrari alla riforma della scuola. E
Landini? Parte all'attacco. «Quella che vedo è una politica padronale, il governo non parla
con i sindacati - tuona - Ci sono milioni di persone che non hanno rappresentanza, questa
frammentazione determina una riduzione dei diritti». Landini dice che non pensa a un
cartello elettorale: «Ci sono una serie di battaglie comuni che devono diventare
strategiche». Quanto a Matteo Renzi, il nome più evocato, Landini gli dedica una battuta:
«Dice che cancellare l'articolo 18 è di sinistra, allora io o non so più il significato delle
parole, o non sono di sinistra».
Giulio Gori
FIRENZE
Del 24/03/2015, pag. 6
Da Sel ai no-dem,è la festa rossa sperando
che rinasca la sinistra
IL FOCUS
MASSIMO VANNI
MA QUELLO là non è Gianfranco Gensini, ex preside di medicina e uomo forte della
sanità toscana? Ma sì è proprio lui, Gensini e consorte. Professore, ma che ci fa qui, da
quando è un landiniano?«Sono venuto ad ascoltare», dice tirando fuori un tono neutrale
accademico. Nel senso che è meglio ascoltare Landini che Renzi? «Ascolto anche
Renzi», aggiunge il prof. Però che sorpresa. Tommaso Fattori no, non è propriamente una
sorpresa: «Questo è il progetto più interessante che si vede in giro», dice il candidato
governatore della sinistra no-dem, uno dei primi ad arrivare. «Questa è la gente che
c’interessa », si guarda intorno soddisfatto il responsabile dei comitati Tsipras Massimo
Torelli. È il pienone del Teatro Puccini. Platea strapiena, soppalco strapieno. Gente in
piedi. Dentro un migliaio, fuori almeno duecento che trovano la porta chiusa. E un’aria da
amarcord, perché per una sera le mille sinistre che ogni giorno si becchettano sono di
nuovo assieme. C’è chi è cresciuto col Pci ma c’è anche la nuova sinistra. Dal Chianti
arriva un gruppo di Rifondazione guidato da Marcello Vanni: «Almeno una bandiera di
Rifondazione qualcuno poteva portarla». Quasi si trattasse di partecipare ad una festa.
Festa rossa finalmente. Mezzo stato maggiore di Sel, dall’ex sindaco Carlo Moscardini
all’ex assessore di Matteo Renzi in provincia Marzia Monciatti e all’ex soprintendente
Giorgio Bonsanti. Soprattutto tanti volti che negli appuntamenti della sinistra non si
vedevano più: «Molti li rivedo dopo tanto tempo», sussurra Daniela Lastri.
Resistenti, disillusi o dissidenti. Rivoluzionari dormienti o semplicemente arrabbiati.
Antirenziani di tutta Firenze unitevi alla Coalizione sociale. Unitevi e aderite alla
manifestazione di sabato prossimo a Roma. E se, come dice Lastri, una che ha buttato
alle ortiche un posto in lista col Pd alle regionali e non riprenderà la tessera, qualcuno
pensa che essere al Puccini «è come tornare indietro nel tempo», si sbaglia di grosso:
«Per me è andare avanti, gettare il cuore oltre l’ostacolo di una sinistra che si è piegata al
pensiero liberista». Ma in platea c’è anche la sinistra che sa già di voler guardare
dall’esterno: «Sono qui semplicemente per ascoltare, perché fa bene anche alla Fiom. La
proposta non mi convince, rimango sul piano sindacale. A fare bene il sindacato si fa già
una buona coalizione sociale», dice il segretario della Camera del lavoro Mauro Fuso. Non
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è l’unico presente della Cgil. Con lui ci sono Fabio Giovagnoli, presidente dell’Ires Cgil
toscana, Marco Benati segretario della Fillea di Firenze, Barbara Orlandi della segreteria
della Camera del lavoro, l’ex segretario Fiom Marcello Corti. Non c’è la Sinistra- dem ma ci
sono pezzi significativi della minoranza. Tra gli altri è annunciato il parlamentare Filippo
Fossati: «Al solito arriverà in ritardo, ci tiene alle sue abitudini», dicono gli amici. Poteva
mancare Sinistra-dem? Non solo perché D’Alema sembra adesso dare il via alla rinata
dell'ala sinistra. 'Non so dove porterà la coalizione sociale ma finalmente si rivede un po' di
movimento', dice seduto in platea Claudio Martini, ex capo di gabinetto del sindaco
Domenici. E poco più in là tiene banco perfino Ugo Barlozzetti, comunista eretico noto per
la ricostruzione delle battaglie con i soldatini: «Sono venutoper un moto del cuore»,
confessa. Sul palco parlano Silvano Sarti dell’Anpi e Francesca Chiavacci presidente
nazionale dell’Arci. «Sono qui ad ascoltare», è la frase che rimbalza da un angolo all’altro
della platea. Quasi un inconfessato pudore, da parte di quella sinistra in cerca d’identità
che da tanto tempo non riesce più a trovare la bussola. «Qui mi sento a mio agio», sorride
prima di salire sul palco Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia. Enrico Rossi non c’è e non
appare neppure sedotto dalle sirene dalemiane: «La sinistra del Pd si è riunita per la prima
volta ma a guidare le danze sono sempre gli stessi che negli, ultimi anni hanno portato alla
sconfitta», scrive su facebook. «E non si va da nessuna parte se non si esprime un nuovo
gruppo dirigente».
Da Cn24 del 31/03/15
All’Arci “Depth Calling Gaza/Atene/Sarajevo”,
documentari d’autore
“Depth Calling Gaza/Atene/Sarajevo”. Per il ciclo dei tre appuntamenti con il
documentario d'autore, martedì 31 marzo e martedì 7 Aprile, alle 18 presso la sala "Carlo
Giuliani" della Sede Arci di Crotone, in Via Lucifero, 15, "CTRL+ALT+CANC - Arresta il
Sistema" di Anna Coluccino
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CTRL: Del danaro e d’altri miti | È il capitolo dedicato al controllo, ovvero all’economia, alla
speculazione finanziaria e alla politica che ad essa si sottomette. Tutto è raccontato dal
punto di vista di militanti e cittadini attivi; attivi anche solo nel libero esercizio del pensiero.
Non c'è giudizio sul loro punto di vista, ma c'è assoluta consapevolezza di aver raccontato
solo una porzione di mondo e non il suo complesso.
ALT: Del rifiuto e d’altre resistenze | È il capitolo dedicato alla contestazione, all'obiezione,
alla resistenza di piazza rabbiosa e arrembante. Si mostra il fiorire di iniziative comunitarie
e personali, politiche e sociali che hanno caratterizzato tutta la resistenza greca alla crisi.
Da qui, emerge chiaro un punto: esiste comunanza di intenti, la consapevolezza cresce,
manca l'organizzazione e l'adesione a un metodo riconosciuto come giusto da e per tutti.
CANC: Del sé e dell'altro da sé | È il capitolo sul dramma dell’immigrazione che - in Grecia
- assume proporzioni che non hanno paragone con nessun altro paese d’Europa. Pestaggi
e ammazzamenti erano e sono all’ordine del giorno. La connivenza tra le forze di polizia e
la forza neofascista Alba Dorata è smaccata, le conseguenze per la psicologia dei migranti
sono devastanti.
RESTART: Della fine e d’altro princìpi(i) | Il capitolo dedicato alle ripartenze, a chi - anche
nel momento di disperazione più profonda - compie l’enorme sforzo di continuare a
credere che un altro mondo sia possibile e che ciascuno possa e debba fare la sua parte.
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http://www.cn24tv.it/eventi/4358/all-arci-depth-calling-gaza-atene-sarajevo-documentari-dautore.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Avvenire.it del 28/03/15
Forum sociale, così rinasce la Tunisia ferita
Anna Pozzi
Il Forum dell’orgoglio tunisino. Non proprio «globale», essenzialmente maghrebino, molto
di base, il Forum sociale mondiale che si conclude oggi, dopo tre giorni di workshop,
incontri e manifestazioni, ha mostrato soprattutto un’anima tunisina. Un’anima ferita
dall’attentato al Museo del Bardo dello scorso 18 marzo, solidale con le vittime e i loro
familiari, ma anche un’anima fiera di essere riuscita a reagire e mostrare al mondo che
almeno un’“altra” Tunisia è possibile. Non quella degli islamisti e dei terroristi. Ma quella di
un popolo che ha voglia di guardare avanti con fiducia e senza paura.
«Très desolés! Ci dispiace molto», ripetono continuamente i tunisini che si incontrano nei
viali o nelle aule del campus di El Manar, sulle colline di Tunisi, dove si svolge il Forum.
«Ci dispiace – insistono – per gli stranieri morti nell’attentato, ma anche per il nostro
Paese, per il nostro futuro. Ma non dobbiamo, non vogliamo avere paura. Altrimenti
avrebbero vinto loro, i terroristi».
C’è voglia di “normalità” tra le migliaia di persone che hanno affollato le aule e gli
auditorium di questo campus molto vasto e un po’ decadente, dove in modo totalmente
autogestito, ma tutto sommato abbastanza organizzato, circa 4.300 organizzazioni hanno
animato oltre mille workshop sui temi più svariati: diritti e dignità, pace e democrazia,
cittadinanza e migrazioni, uguaglianza e ambiente, sviluppo sostenibile e giustizia sociale,
istruzione, lavoro, salute, libertà di espressione. Settantamila i partecipanti, in
rappresentanza di 120 Paesi, secondo gli organizzatori. Probabilmente parecchi meno,
anche se non sono state moltissime le defezioni. Qualche workshop qua e là non si è
svolto, rinunce soprattutto di stranieri, ma il grosso dei partecipanti era qui e veniva
soprattutto dal Maghreb e dal Medio Oriente con gli estremi geografici – saharawi e
palestinesi – particolarmente evidenti. Nel complesso il Forum rinviava l’immagine di una
società giovane, parecchio al femminile, generalmente preparata e consapevole, con
qualche residuo di ideologia e molte aspettative per il futuro e il desiderio di impegnarsi
concretamente per costruirlo.
Fatma è una delle centinaia di interpreti volontari che assistono in particolare gli stranieri
soprattutto per la traduzione dall’arabo. Ha un master in interpretariato e lei, a differenza
della gran parte dei giovani tunisini, ha un lavoro abbastanza regolare. Ma al Forum
sociale mondiale è venuta anche per testimoniare la sua militanza di donna e di tunisina.
E, non a caso, partecipa a un workshop sulla transizione democratica nel Maghreb: «C’è
un generale senso di rifiuto nei confronti di questi terroristi e per questo vogliamo dire che
la Tunisia non sono i jihadisti».
Rida Saidi, ricercatore universitario, insiste sulla necessità di «promuovere la
riconciliazione nel Paese», ma sottolinea anche le ripercussioni negative del caos libico
sulla Tunisia, oltre a quelle della crisi economico-finanziaria mondiale. «Siamo un piccolo
Paese, senza risorse, ma dobbiamo reagire sia a livello sociale che politico per
consolidare la pace e lo sviluppo ». «Bisogna avere il coraggio anche di dire apertamente
che non c’è solo il bene nell’islam. Bisogna fare autocritica. Non rifugiarsi nei precetti o
nascondersi dietro il buonismo»,
incalza Moez, che affronta una questione estremamente delicata e controversa: quello di
una riforma e di una rilettura dell’islam. «Anche se abbiamo fatto la rivoluzione è difficile
11
esprimersi apertamente su questo tema». Lui lo fa intervenendo in un workshop promosso
dal network dei comboniani e comboniane per la giustizia, la pace e la riconciliazione,
presente al Forum con una delegazione di una quarantina di persone di quattro continenti.
Il tema “Religioni e culture: fattori di conflitto o di dialogo per la pace” è alquanto 'sensibile'.
E il dibattito molto animato.
«Nella nostra esperienza – spiega suor Anna Maria Sgaramella, una vita tra Palestina ed
Egitto – il dialogo della vita è sempre possibile. Non bisogna però concentrarsi solo sulle
differenze, ma essere coscienti delle differenze per non cadere in trappole».
Ahmed invece si entusiasma, parlando dei nuovi spazi di libertà che si sono aperti in
Tunisia dopo la “rivoluzione”. Lui, giovane uomo, partecipa a un incontro per la
promozione della donna nella vita politica. «In poco più di tre anni sono nate più di 17mila
associazione – dice –. Questo ha contribuito a vivacizzare la vita sociale, culturale e anche
politica, ma al tempo stesso c’è stata una sorta di “banalizzazione” dell’associazionismo.
C’è sete di libertà, ma bisogna saperla gestire». Lui stesso, cantore di questa nuova
libertà, non vuole lasciare il suo cognome e preferisce non farsi fotografare. La libertà in
Tunisia è ancora una materia da maneggiare con molta cura. E mentre Tunisi si prepara
alla marcia di domani con i leader mondiali (tra loro Matteo Renzi, François Hollande e
Abu Mazen), anche il presidente Sergio Mattarella torna sulle stragi di Parigi e del Bardo e
afferma – in un’intervista a Le Figaro– che è l’ora di «lanciare un Patto di civiltà per
contrastare le campagne d’odio e di indottrinamento».
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/il-Forum-dellorgoglio-Cos-rinasce-la-Tunisia-ferita.aspx
Da Huffington Post del 28/03/15
Tunisia in piazza contro il terrorismo. Renzi e
Hollande in corteo. Servono aiuti economici
per strappare i giovani disoccupati all'Isis
Umberto De Giovannangeli
La “Piazza” era riuscita a sconfiggere il regime del padre-padrone Ben Ali. Lo slogan dei
protagonisti della “rivoluzione dei gelsomini” dava il senso di una rottura epocale:
“Abbiamo sconfitto la paura”. Oggi, quella stessa “Piazza” torna a manifestarsi per ribadire
che tagliagole e jihadisti non faranno scempio di quei principi di libertà e di pluralismo che
vivono nella stabilizzazione democratica della Tunisia.
Domenica i tunisini diranno di nuovo che “la paura è stata sconfitta. Per sempre”. E lo
faranno nella grande marcia di Tunisi contro il terrorismo alla quale sarà presente anche la
Presidente della Camera Laura Boldrini e – come anticipato dall’Huffington Post - anche il
Premier Matteo Renzi.
Il corteo partirà da Bab Saadoun per terminare al Museo del Bardo e alla sede del
Parlamento tunisino. “Per volontà della Presidenza delle Repubblica, del Parlamento
tunisino e del Governo tunisino, una grande manifestazione nazionale sarà organizzata
domenica prossima a Tunisi per condannare l’attacco terroristico che lo scorso 18 marzo
ha colpito il Museo del Bardo", aveva annunciato nei giorni scorsi la ministra del Turismo,
Selma Elloumi Rekik.
Dieci giorni dopo quel tragico 18 marzo, i riflettori sembrano essersi di nuovo spenti sulla
Tunisia che resiste. Ma fatti importanti ne sono successi, e positivi.
Primo fra tutti, il Forum Sociale Mondiale. “Fuori il Terrorismo dalla Tunisia, Siamo tutti
tunisini, Solidarietà con i popoli del mondo intero”. Molte voci, voci diverse, si sono unite
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nei cori che hanno animato la marcia di solidarietà per le vittime del Bardo, nel giorno di
apertura, lo scorso 24 marzo a Tunisi, del Forum Sociale Mondiale. Accanto ai numerosi
tunisini, si stringono le organizzazioni della società civile, giunte da tutto il mondo, a
protestare contro ogni forma di violenza. Più di 4.300 organizzazioni e associazioni
provenienti da 120 paesi hanno istituito oltre un migliaio di workshop, conferenze e dibattiti
per discutere di questioni sociali, tanto locali quanto globali.
Ho incontrato un gruppo di ragazzi tunisini che partecipano al Forum e ho chiesto loro
come è cambiata la loro vita dopo il 18 marzo - racconta Vittorio Agnoletto, membro del
consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale. "In nulla, tutto prosegue come prima
- mi hanno risposto - e non deve cambiare nulla, altrimenti diamo ragione ai terroristi.
Certo che abbiamo paura, è vero che alcune migliaia di nostri connazionali combattono in
Siria a fianco dell'Isis ed anche vero che qui ci sono delle cellule dormienti, ma la nostra
vita non deve cambiare. Noi dobbiamo difendere la democrazia che abbiamo conquistato
con la nostra rivoluzione cinque anni fa e se sarà necessario sapremo resistere".
Quanto al grande raduno di domani, il fatto che si chiuda davanti al Museo del Bardo, non
è solo per rendere il dovuto omaggio alle vittime del sanguinoso attacco terroristico (21
morti, tra i quali 4 cittadini italiani) rivendicato dall’Isis, ma è anche il modo, spiega il più
conosciuto blogger tunisino Youssef Cherif, raggiunto telefonicamente dall’Huffington Post
a Tunisi – “per difendere la cultura che è uno dei valori che sono stati a fondamento della
“rivoluzione jasmine”.
La cultura – aggiunge Cherif – che sostanzia l’altro principio che ha permeato la nostra
rivoluzione: la democrazia. Cultura e democrazia che i criminali dell’Isis vedono come una
minaccia mortale, ostacoli da rimuovere per realizzare la loro aberrante idea di società,
fondata sulla più brutale dittatura della sharia”.
"La Tunisia non sarà mai governata dalla sharia. Resta un porto di democrazia, ma non è
più un porto di pace. Nella gioventù scoraggiata, spesso disperata, l'appello jihadista ha
funzionato", ha ammesso il presidente tunisino Beji Caid Essebsi in un'intervista alla radio
francese “Europe 1”, subito dopo la strage al Museo del Bardo. D’altro canto, la Tunisia
non è solo il Paese simbolo di una “Primavera araba” non sfiorita, ma è anche il Paese
che, in rapporto alla popolazione, dà più miliziani allo Stato islamico di Abu Bakr alBaghdadi: si calcola che siano almeno 3mila i mujihaddin tunisini che combattono in Siria
nelle fila dell’esercito del “Califfo Ibrahim”.
L’attacco alla Tunisia ha una fortissima valenza politica. Non solo perché si è inteso
colpire l’unico Paese del Vicino Oriente nel quale le istanze di libertà, di giustizia sociale,
che sono state alla base delle rivolte popolari che hanno cambiato il corso della Storia,
non sono state cancellate da una restaurazione militare (Egitto) o dall’affermarsi di un
radicalismo islamico armato che ha come obiettivo la costituzione e il consolidamento del
primo Stato della Jihad al mondo. L’esperienza della transizione tunisina è unica anche
perché il partito islamico che deteneva il potere nel dopo Ben Ali – Ennahda – ha scelto di
non ostacolare ma di realizzare un governo di unione nazionale con le forze laiche,
mostrando così che l’Islam politico non è inconciliabile con i principi propri di uno Stato
plurale, uno Stato di diritto.
L’esperienza tunisina è anche questo: dimostrare che è possibile coniugare modernità e
tradizione, valorizzando, in questo quadro, il ruolo delle donne nella vita pubblica e
facendo leva su una società civile strutturata, vivace, fatta di associazioni, gruppi di base e
di un radicato e combattivo movimento sindacale. "Per i fondamenti islamici è un Paese in
cui regna la democrazia, e questo vale anche per la Tunisia”, sottolinea Lucio Caracciolo,
direttore di “Limes”.
"Siamo un popolo ferito di undici milioni di tunisini - rimarca il console di Tunisia in Italia,
Mestiri Naceur - Il 18 marzo 2015 rimarrà per la Tunisia una giornata nera, perché il
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terrorismo ha cercato di colpire la democrazia, la libertà, la civiltà e il turismo, un filone
dell'economia tunisina. Noi non abbiamo paura, siamo determinati ad andare avanti e a
vincere questo terrorismo. Siamo ormai in guerra contro il terrorismo e dobbiamo avere
una strategia per contrastare il pericolo". "Contiamo sulle nostre proprie forze – rimarca il
console - ma dobbiamo rafforzare la cooperazione internazionale con gli amici, in
particolare con l'Italia, a tutti i livelli".
Ma la sconfitta del terrorismo jihadista non può venire solo da una incisiva azione di polizia
e di intelligence. Perché è dentro una drammatica crisi sociale ed economica che le filiere
tunisine dello Stato islamico e di al-Qaeda fanno proseliti. La disoccupazione giovanile nel
Paese ha raggiunto livelli drammatici, e secondo un recente rapporto OCSE almeno 2
giovani tunisini su 5 sono senza lavoro, situazione che disegna i contorni di "un vero e
proprio dramma sociale che ha urgente bisogno di essere affrontato". E se così non sarà,
il rischio è che si propaghi e rinvigorisca una tensione che già è di per sé alta nel Paese, il
quale potrebbe cadere definitivamente vittima della violenza jihadista in uno scenario
ancora peggiore.
Per Mourad, disoccupato di 28 anni con un master in tecnologia, l'Is è l'unica speranza di
''giustizia sociale'', ''l'unico modo per ridare al popolo diritti veri'' e sostenerlo ''è un dovere
per ogni musulmano''. Molti raccontano di amici che, entrati nell'Is, ''vivono meglio di noi''
con stipendio, casa e moglie, racconta Walid, 24 anni. Il New York Times ha intervistato al
riguardo diversi giovani tunisini, la maggior parte dei quali ha voluto mantenere nascosta
la propria identità per paura di ritorsioni da parte della polizia.
Per esempio Ahmed, un giovane sostenitore dello Stato islamico, ha detto: "Lo Stato
islamico è il vero califfato, un sistema imparziale e giusto, dove non devi seguire gli ordini
di qualcuno perché è ricco o potente. Si agisce, non si teorizza". Nei bar della zona di
Ettadhamen, nell’agglomerato urbano di Tunisi, decine di giovani disoccupati e
appartenenti alla classe operaia hanno espresso la loro simpatia per le posizioni dell’Is:
alcuni accusano gli stati europei di avere diviso gli Stati arabi alla fine della Prima guerra
mondiale, impedendo la nascita di un califfato; altri parlano di “giustizia sociale”, dicendo
che una volta che il califfato avrà assorbito le monarchie del Golfo Persico, ricche di
petrolio, ci sarà una ridistribuzione generale della ricchezza.
Stime ufficiali del governo di Tunisi indicano che circa tremila tunisini, la maggior parte di
età inferiore ai 30 anni, sono andati a combattere in Siria e l’80 per cento di loro ha aderito
al gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Di questi, circa 450 sarebbero stati uccisi e
una sessantina si ritiene che siano nelle carceri del regime di Bashar al-Assad. Inoltre
novemila tunisini sarebbero stati fermati dalle autorità di Tunisi nell’intento di andare a
combattere in Siria. Di questi, secondo il ministro degli Interni Lofti Ben Jeddou, tra i 400 e
i 500 sono rientrati in patria.
“Il popolo tunisino, non si riconosce nel terrorismo, è amante della pace e della vita, è
colto e aperto, ed ha una tradizione di accoglienza molto antica”, dice all’Agenzia Fides P.
Jawad Alamat, Direttore delle Pontificie Opere Missionarie (POM) della Tunisia, che però
aggiunge: “non possiamo certamente nascondere l’esistenza di gruppi più o meno
consistenti di estremisti che ricorrono alla violenza per imporre la loro ideologia”.
“Per risolvere il problema – continua p. Juwad - occorre in primo luogo riconoscere che
all’interno di questo popolo, c’è anche una parte violenta, che è alimentata da una
situazione economica molto difficile. La disoccupazione è in crescita, mentre il costo della
vita aumenta. In questo contesto è facile per chi ha molto denaro a disposizione
corrompere le coscienze dei giovani disperati e reclutarli per commettere azioni violenti”.
Alla marcia di domani, oltre a Matteo Renzi, saranno presenti altri leader europei, fra i
quali il presidente francese Francois Hollande. Una presenza che, per non essere solo
simbolica, deve essere sostanziata da un rilancio di un “patto euromediterraneo” del quale
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Italia e Francia dovrebbero essere tra i principali promotori. Una priorità rilanciata da
Olivier Roy, tra i più autorevoli studiosi francesi del mondo arabo e musulmano, in una
recente intervista a “Repubblica”: “"La Tunisia era da poco riuscita a riconquistare la
fiducia dei turisti dopo il periodo delle primavere arabe. Ci potrà essere anche un
ripensamento da parte di imprese occidentali. È invece fondamentale che l'Europa dia un
sostegno economico, con aiuti che possano sostenere il paese nel suo cammino
democratico. E non solo. La Tunisia - spiega Roy – è uno Stato giovane, uscito da una
dittatura. E contrariamente all'Egitto, non è un Paese con una tradizione militare. L'Europa
dovrebbe dare un appoggio logistico e tecnico per costruire una polizia democratica in
Tunisia, aiutando così la prevenzione del terrorismo. Inoltre va trovata una soluzione
politica per la vicina Libia". Perché tutto si tiene nel Vicino Oriente in fiamme. E il
terrorismo si combatte rafforzando le istituzioni democratiche e dando sostanza alla
rivendicazione di giustizia sociale. Con il lavoro più che con le armi. Questo ribadirà
domani la “Piazza tunisina”. Piazza della Libertà.
http://www.huffingtonpost.it/2015/03/28/tunisia-in-piazza-contro-_n_6961838.html
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ESTERI
Del 30/03/2015, pag. 1-2
In settantamila a Tunisi la grande marcia
contro il terrorismo “Non ci sconfiggeranno”
Sfilano i capi di Stato, tra loro anche Hollande e Abu Mazen Renzi in
piazza: “Lotta per la democrazia, fermeremo gli estremisti”
ADRIANO SOFRI
TUNISI
QUANDO si vuol mostrare di non aver paura si portano i bambini alla manifestazione. I
tunisini hanno portato i bambini. Il loro cartello prediletto è: «Questa estate io faccio le
vacanze in Tunisia». Benché il turismo sia qui una risorsa decisiva, è un’idea poetica. Tutti
paragoneranno la manifestazione di oggi a Tunisi a quella di Parigi: io no. È grande e
bella, non ne ha bisogno. I confronti si portano poi dietro domande inutilmente facili
(perché le agenzie di viaggio non hanno cancellato Parigi, e le crociere internazionali
hanno cancellato Tunisi? E l’altro ieri la Federazione internazionale di tennis ha cancellato
gli Open di Tunisi di aprile!) C’è tanta gente: 70 mila, secondo la polizia (la polizia, dicono
qui, oggi è dei nostri). In questi giorni Tunisi si è riempita di pioggia di vento e di cortei del
Social Forum. Là e qui ragazze e donne danno il tono: «Essere donna vuol dire vivere in
uno stato di guerra». Oggi il vasto viale è rosso di bandiere tunisine. Alla fine, caduta la
tensione, saranno sventolate dalle auto come per una vittoria calcistica. La Tunisia di
calcio ha appena perduto col Giappone, ma il patriottismo si è spostato: come nell’inno
nazionale cantato dai parlamentari in un sottoscala durante l’attentato, e ricantato oggi
dalla folla. Non è la Marsigliese, ma dice, come tutti gli inni, «moriamo, purché viva la
nazione». Sono morti anche 3 giapponesi, nell’internazionalismo inerme del museo del
Bardo. Nel corteo una signora in carrozzina, un’aria fragile e formidabile, ha un cartello
scritto a mano: «Non ci fate paura, ci troverete sempre al nostro posto». Me ne sento
protetto. A proteggere tutti c’è uno spiegamento enorme, carri armati, terrazze di cecchini:
e anche qui — «come a Parigi», direi, se non avessi rinunciato — inedita familiarità fra la
gente e i poliziotti. Alla fine perfino le truppe speciali, una fessurina per gli occhi nel nero
delle uniformi, accolgono pazientemente le famiglie colorate per la foto. La gente a Tunisi
è cordiale, tanto più coi giovani del Social Forum che sono venuti lo stesso - il Forum ha
perso la spinta propulsiva, ma resta una gran festa di ragazzi — e con i giornalisti stranieri,
il cui spiegamento è imponente anche lui.
Mentre la manifestazione dilaga davanti al museo, all’interno l’organizzazione che si era
voluta ferrea scivola in una confusione clamorosa di governanti sfuggiti ai loro pastori e
viceversa. Ma la commozione ha avuto il tempo di imporsi, con le salmodie di cantori sufi
sul fondale del gran mosaico della strage. Nel bailamme che monta mi infilo nelle sale, la
cui bellezza, guardata di corsa e quasi clandestinamente, è soverchiante. Cerco invano il
ritratto di Virgilio. Però, quando i cortei di berline hanno portato via le autorità, il direttore
Moncef Ben Moussa, 50 anni, gran tipo che studiò in Italia, ci fa vedere tutto: anche i buchi
delle raffiche. Li lasceremo, dice, un museo è il luogo della memoria, e la bellezza antica e
il lutto recente si combinano in un modo struggente. Il rotolo che Virgilio (se è lui, ma oggi
decidiamo senz’altro che sia lui) tiene sulle ginocchia, recita dall’Eneide: «Musa, mihi
causas memora, quo numine laeso...» — ricordami le cause, Musa. Il museo riapre al
pubblico lunedì — «il giorno in cui i musei sono chiusi, anche questo è un segnale».
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Com’è vicina Sousse, e Cartagine, e Tunisi. L’Europa dovrebbe ancora sapersi
immaginare come la vicina sconfitta di una Cartagine vittoriosa. Dovrebbe saper
immaginare una Tunisia che entri in Europa, e almeno un’Europa che entri in Tunisia.
Quest’estate, le vacanze… Sono passati undici giorni dalla strage. Le autorità hanno
voluto preparare la prova. In undici giorni di questi, quando si gioca d’azzardo con la carta
geografica in mezzo mondo e nell’altra metà un secondo pilota si procura il suo inferno, le
cose vacillano. La signora Merkel non c’è: un’agenda troppo piena di lutti. C’è Hollande, e
il presidente Caïd Essebsi, 88 anni, lo ringrazia chiamandolo «François Mitterrand »,
scherzi della nostalgia — una punta l’avrà provata anche lui, Hollande. Matteo Renzi sa
dire le parole giuste, e ha imparato a scansarsi quando si sgomita per formare il cordone
dei grandi capi: ha più tempo di loro. «Siamo qui accanto alle autorità tunisine per dire che
non la daremo vinta ai terroristi», dice.
Sabato il governo tunisino ha compiuto due operazioni. Ha ucciso 9 terroristi in uno
scontro a Gafsa, nel sud, e fra loro l’algerino Khaled Chaib, alias Lokman Abou Sakher, il
terzo attentatore e capo di una cellula micidiale. Alla vigilia della manifestazione: dunque il
governo sapeva che cosa fare. Dopo la rivoluzione, il governo islamista di Ennahda seguì
con l’estremismo jihadista un atteggiamento simile al “quieto vivere” che i governi italiani
tenevano con la mafia. Oggi Ennahda c’è, e perciò l’opposizione di sinistra ha voluto
disertare la manifestazione, a differenza dal sindacato: peccato. Il governo laico del partito
Nidaa Tunes — nel quale Ennahda sconfitta alle elezioni ha un ministro — vuole mostrarsi
risoluto. Un altro episodio è avvenuto sabato: la moschea più antica e nobile di Tunisi, EzZitouna, è stata sgomberata da Houcine Laabidi, predicatore di odio e violenza.
Condannato, Laabidi vi resisteva coi suoi adepti, chiudendo al mondo quel tesoro di storia.
Gran bella manifestazione: come a Parigi. Avrà fatto venire ai ragazzi la voglia di cercare
un senso qui, nel museo coi mosaici più belli e i buchi nei muri? C’è un amorino — è nudo,
ha le ali: un colpo di kalashnikov l’ha decapitato.
del 30/03/15, pag. 1/3
Tunisi, la marcia dei 70 mila
“Terroristi, non vincerete”
Hanno scelto la libertà
La vera primavera è appena cominciata
Un Paese povero e infiltrato dagli jihadisti ma capace di ritrovare il
senso di comunità
Domenico Quirico
Non so se questo sia il momento per una dichiarazione d’amore, per una dichiarazione di
fede. Nella Grande Guerra del nuovo millennio farsi illusioni è colpevole. A Ovest a Est a
Sud il califfato trionfa, le coalizioni per svellerlo si decompongono nel caos, il suo miglior
alleato, Abu Bakr trionfa. Eppure…
Manco da qualche mese dalla Tunisia, ma non immaginavo una simile moltitudine. È stata
in un certo senso una rivelazione. Si muovevano come uccelli in migrazione, come un
popolo unito, marciavano. In cammino di nuovo come quattro anni fa in un’altra primavera.
Come lo hanno deciso? Come si sono organizzati? Come sono arrivati? Tunisi si è
riempita di gente convocata misteriosamente e rapidamente come uccelli, a solo undici
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giorni dalla strage del museo del Bardo, ventun turisti e un poliziotto uccisi da un
commando islamista.
Senza retorica
Una calda domenica di primavera con i fiori che delimitano i prati dei palazzi del potere e
l’erba di un verde accecante. D’un tratto, dalla retorica scoperchiata a impazienza di
popolo, i tunisini hanno calato giù, senza eruditi preamboli, la cosa più urgente e concreta
che ci sia: uomini che soffrono ma stanno insieme, ragionano, sanno scegliere. Quel
fardello penzolante rovescia la stomachevole inutilità delle parole in un’altra eloquenza,
quella di gente povera e sfortunata, di occhi pieni di Storia senza pietà. Poche centinaia di
metri, ma bastano: l’unico comunismo autentico, senza accenti o declinazioni, quello della
condivisa sofferenza, quello che solo i poveri e gli afflitti, in qualsiasi parte del mondo,
sanno parlare.
Nel loro comportamento c’era una forte consapevolezza della propria serietà, del proprio
dovere ad esser lì. Quella presenza in strada offendeva gli estremisti, gli «odiatori» senza
speranza e senza la minima volontà di riscatto. Ed è giusto che fosse così perché era la
conferma che i tunisini hanno scelto la libertà, che non intendono farsi fuorviare dalla follia
totalitaria. Quello che chiedono è semplice: basta ammazzare, chiunque, dovunque.
«Tunisia libera, terroristi fuori!», scandivano con voci calme. Domani il sole non sorgerà su
un mondo nuovo, purtroppo, ma quello di ieri non è stato un giorno sprecato. Uno dei
caratteri salienti del totalitarismo, islamista e non, è la perdita del senso di responsabilità.
Si punta ad esimere l’uomo dalla responsabilità delle sue azioni. Il vero potere delle
tirannidi impersonali, l’istante in cui l’uomo dice: sono i più forti… che posso farci? Questo
è il momento dell’angoscia del nostro tempo costretto a misurarsi con il Califfato. I tunisini,
invece, hanno affermato: «Ecco cosa farei perché è necessario, e cosa mai possono
ancora farci?».
Condizioni difficili
Alcuni ingenui vorrebbero farci credere che la Tunisia, in fondo, gode ottima salute. Ma
come potrebbe mai? Fiaccata da regimi parassitari, anche dopo la primavera dei
gelsomini, all’oscuro di molte cose fondamentali, menomata da perversa benevolenza
verso l’estremismo, (come hanno ricordato i partiti del Fronte popolare, accusando gli
islamisti governativi di Ennahda di essere ipocriti), afflitta dalla povertà: come potrebbe
mai godere di ottima salute? Impossibile! Eppure, nonostante questo, il cuore di questo
piccolo Paese possiede davvero una integrità naturale, un caparbio senso della comunità.
Si sentono lì, anche ieri, voci e canti con un senso tenero di una vita popolare perenne,
quale è da secoli, e quale sarà forse per sempre; una vita protetta dalle memorie,
confortante nell’affanno di oggi. Siamo noi ad averne bisogno, non loro della nostra
taccagna elemosina. Allora come possiamo attingere a questa sorgente di stabilità e di
significati? Non fingendo di essere stati sempre al loro fianco. È falso. Dopo l’accensione
della Primavera, la curiosità che suscitava, la speranza della scoperta di forze ignote in
quella parte del mondo che dicevamo immobile e arretrata, la Tunisia è tornata nella sua
condizione di prima agli occhi dell’occidente, attraente come paese, ma con una sorta di
diffidente fastidio verso la sua umanità. Siamo stati amici dei loro tiranni, abbiamo cacciato
brutalmente i loro ragazzi migranti, ragazzi che ieri sfilavano nella capitale (quelli che per
la delusione non sono diventati islamisti e assassini). Sì, in fondo l’unica nota stonata
erano i notabili stranieri, fuori tema, sciupacchiati, preoccupati di se stessi, della loro
esteriorità, spiravano una frigida vitalità esteriore, per la facciata, per far colpo.
Dell’orrore abbiamo fatto il nostro compagno quotidiano, quasi che non dipendesse da noi
allontanarlo. Quasi fossimo impotenti di fronte ad esso. Il tempo in cui cominciano i fatti
indescrivibili e difficili da capire per una mente d’uomo: è già accaduto e sono quelli di
oggi. La realtà terrificante di questa strage senza confini è talmente nuova da non riuscire
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a raccontarla al punto che vi si rinuncia. Per viltà. Mancano i termini di paragone. Si
aspetta la fine della cattiva stagione. Come una speranza. Mai credo si aspettò così. Ci si
contenta che il tempo diventi più mite, che torni la primavera, il sole. Le speranze
dell’occidente sono ridotte a questo. I tunisini di ieri ci hanno insegnato qualcosa.
Del 30/03/2015, pag. 3
Renzi-Hollande, sfilata a Tunisi
Al memoriale inaugurato ieri al museo del Bardo è stato aggiunto un nome all’ultimo
momento. È morta poche ore prima dell’avvio della manifestazione, Huguette Dupeu,
turista francese rimasta ferita nell’attentato avvenuto 12 giorni fa. Sale così a 22 il conto
dei morti nell’attentato dei terroristi islamici. La lapide è stata scoperta dai capi di Stato di
diversi paesi, tra cui Matteo Renzi e François Hollande, arrivati a Tunisi per la marcia
contro il terrorismo. Mentre iniziava la manifestazione Habib Essid, il primo ministro
tunisino, ha annunciato che Khaled Chaib, il terzo attentatore del Bardo, è stato ucciso, in
un blitz delle forze speciali. Chaib, conosciuto come Lokman Abou Sakher, leader della
cellula Okba Ibn Nafaa, era scappato facendo perdere le proprie tracce. Rintracciato a
Gafsa, a quasi 400 chilometri dalla capitale, è morto durante un’operazione congiunta di
esercito e polizia. La scorsa settimana si è più volte diffuso l’allarme di un nuovo attentato
islamista a Tunisi; prima alla manifestazione conclusiva del Forum Sociale Mondiale, poi
alla marcia. L’apparato di sicurezza messo in campo ieri era notevole. A Bab Saadoun,
luogo da cui è partita la manifestazione c’era persino un carro armato. Cecchini sui tetti,
transenne e filo spinato a dividere i due spezzoni del corteo: da una parte i politici,
dall’altra la popolazione. “La Tunisia non è sola” ha detto il premier Renzi ieri uscendo dal
Bardo. “Siamo qui accanto alle autorità tunisine per dire che non la daremo vinta ai
terroristi e continueremo a combattere per gli ideali di pace, libertà e fraternità ovunque”.
Le decine di migliaia di manifestanti, 70 mila secondo la polizia, che hanno marciato ieri,
non aspettano altro. “Ci servono investimenti e turisti europei”. Samir, ha portato alla
manifestazione figli e nipoti. “C’è un legame stretto tra disoccupazione e islamismo. Questi
ragazzi continua Samir, commentando le 3 mila partenze di aspiranti mujahidin dalla
Tunisia – vedono un futuro di povertà in questo paese. Si fanno facilmente indottrinare da
estremisti che promettono loro soldi per combattere il jihad”. IN MEZZO AL MARE di
bandiere tunisine quella di Tamer sventola più in alto. Si è arrampicato su un semaforo e
da lì urla: “Dichiariamo guerra al terrorismo. Tanti paesi sono gelosi della nostra
rivoluzione, ma noi la difenderemo”. Il processo democratico non ha rallentato dal gennaio
2011, quando Ben Alì scappò all’estero. Oggi la Tunisia è l’unico paese, interessato dalle
“primavere arabe”, ad avere una rappresentanza eletta democraticamente. “Mettiamo in
conto il terrorismo come parte della rivoluzione, ma presto lo supereremo”. Aziza indossa
un paio di occhiali scuri e un camice bianco: “Sono un’infermiera e tra poco devo tornare
al lavoro, ma volevo vedere questa piazza, qui si sente ancora l’odore dei gelsomini della
rivoluzione”. Lo slogan della giornata è stato “Le monde è Bardo”. Per ricordare quanto
accaduto a Parigi a gennaio e sottolineare i rapporti tra Tunisia e Francia. Parigi e Roma
hanno mandato le delegazioni più importanti alla manifestazione di ieri, oggi i tunisini si
aspettano da questi due paesi l’impegno per risollevare l’economia.
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Del 30/03/2015, pag. 1-13
L’analisi.
Washington è convinta di poter trasformare il regime, ma le minacce
degli ayatollah sono ancora un ostacolo
Un nuovo ordine e più petrolio ecco il
terremoto che piace a Obama
THOMAS L. FRIEDMAN
PERSONALMENTE riesco a individuare molti validi motivi per arrivare a un accordo sul
nucleare con l’Iran e altrettanti per rinunciarvi. Se non avete le idee chiare a questo
proposito vediamo un po’ se riesco a confondervele ulteriormente. La proposta di
sospendere le sanzioni contro l’Iran — purché quest’ultimo riduca le sue capacità nucleari
tanto che la produzione di armi richieda almeno un anno di tempo — deve essere valutata
in sé e per sé. Vanno esaminate in dettaglio le caratteristiche del sistema di verifica, in
particolare le conseguenze in caso di imbrogli da parte iraniana. Bisogna però tener conto
del quadro dei più ampi obiettivi strategici americani nella regione, perché un accordo tra
Usa e Iran equivarrebbe a un terremoto in grado di scuotere ogni angolo del Medio
Oriente. Non si presta adeguata attenzione alle implicazioni regionali dell’accordo, in
particolare a ciò che accadrebbe se andassimo a rafforzare l’Iran in un momento in cui
gran parte del mondo arabo sunnita vive una grave crisi. La tesi del team di Obama è che
l’accordo con l’Iran abbia carattere “trasformativo”, la rimozione delle sanzioni cioè,
sarebbe una ventata d’aria nuova e potrebbe spingere l’Iran ad aprirsi, uscendo
dall’isolamento imposto dal 1979 dagli ayatollah e dalle guardie della rivoluzione,
trasformandolo gradualmente da stato rivoluzionario a paese normale, meno incline a
minacciare Israele. Se si parte dal presupposto che l’Iran possieda già la tecnologia e gli
strumenti per costruire armi nucleari l’unico modo per ridurne la pericolosità è cambiare le
caratteristiche del suo regime. Secondo Karim Sadjadpour, espearto di Medio Oriente del
Carnegie Endowment, per quanto Obama e i suoi si sforzino di credere che l’accordo
possa essere “trasformativo” il leader supremo iraniano Ali Khamenei, «lo considera
transattivo» - l’Iran si tura il naso, conclude l’accordo, riguadagna forza, e resta aderente
ai suoi vecchi principi rivoluzionari. Però non si può mai dire, magari da transattivo
l’accordo può avere inesorabili e imprevedibili effetti trasformativi. Un’altra tesi è che l’Iran
sia un paese normale e civile, che vanta elezioni vere (seppur limitate), una popolazione
femminile istruita e un grande potere militare. Recuperare i rapporti con l’Iran
consentirebbe agli Usa di gestire meglio i Taliban sunniti in Afghanistan, e neutralizzare i
jihadisti sunniti come quelli dell’Is. Fin dalla rivoluzione iraniana del 1979 l’America ha
puntato molto sull’Arabia Saudita, ma mentre la famiglia reale e le élite saudite sono
allineate con gli Usa, esiste uno zoccolo duro di sauditi wahabiti che ha finanziato la
diffusione di un Islam estremamente puritano, anti pluralista, misogino che ha cambiato lo
spirito dell’Islam arabo contribuendo a mutazioni come l’Is. Nessun iraniano fu coinvolto
nell’undici settembre. Furono agenti iraniani a costruire gli esplosivi più letali che uccisero
una gran numero di militari americani in Iraq. Fu l’Iran a incoraggiare i suoi alleati sciiti
iracheni a rifiutare il prolungamento della presenza militare americana in Iraq. «Nella lotta
contro l’Is, l’Iran è sia l’incendiario che il pompiere», dice Sadjadpour e aggiunge che per
l’Arabia Saudita l’ascesa dell’Is è attribuibile alla repressione dei sunniti in Siria e in Iraq da
parte dell’Iran e dei suoi accoliti sciiti. Per Tehran, l’ascesa dell’Is è attribuibile al supporto
finanziario e ideologico dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati del Golfo. Hanno ragione
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entrambi, ecco perché gli americani non hanno interesse tanto alla vittoria degli ideologi
dell’una o dell’altra parte, quanto a un equilibrio. Se si concluderà l’accordo sul nucleare
sul mercato globale arriverà molto più petrolio iraniano, i prezzi caleranno a beneficio dei
consumatori globali. L’Iran avrà però così miliardi di dollari in più da spendere per la
guerra cibernetica, missili a lunga gittata e per imporre il proprio potere in tutto il mondo
arabo. Già quattro capitali, Beirut, Baghdad, Damasco e Sana’a sono in mano a suoi
fedelissimi. Ma considerando il caos che regna in Yemen, Iraq e Siria, davvero ci importa
qualcosa se l’Iran vuol fare il poliziotto in quei territori? Per dieci anni è stata l’America a
impegnarsi in Iraq e in Afghanistan, anche oltre misura. Ora tocca all’Iran. Sono desolato
per le persone che devono vivere in quei paesi e senza dubbio dovremo utilizzare le forze
aeree americane per evitare che il caos si estenda. Ma gestire il declino del sistema degli
Stati arabi non dovrebbe essere problema nostro. Non siamo in grado di farlo.
Quindi prima di prendere una posizione sull’accordo con l’Iran chiedetevi che effetti avrà
su Israele, il paese più minacciato dall’Iran. Chiedetevi però anche come l’accordo si
inserisca nella più ampia strategia americana mirata a placare le tensioni in Medio Oriente
con il minimo coinvolgimento necessario da parte Usa e il minor prezzo possibile del
petrolio.
Del 30/03/2015, pag. 13
Iran, accordo vicino. L’ira di Netanyahu
Domani la scadenza per il nucleare. Il segretario di Stato Usa Kerry e i delegati
europei restano a Losanna per trattare Il premier israeliano: “Questa intesa è
pericolosa per l’umanità. Va oltre tutti i nostri timori. Deve essere fermata”
FABIO SCUTO
A meno di 24 ore dalla scadenza della trattativa sul nucleare iraniano, a Losanna si profila
un possibile accordo fra il regime degli ayatollah e le potenze occidentali guidate dagli
Stati Uniti. I colloqui e gli incontri si sono infittiti ieri pomeriggio, mentre il fatto che il capo
della diplomazia Usa John Kerry, con i colleghi francese e tedesco, Frank Steinmeier e
Laurent Fabius, abbiano annullato tutti gli impegni per oggi è dato come un segnale certo
che la trattativa dopo dieci anni di “tira e molla” sia entrata in una fase decisiva: l’Iran potrà
avere il nucleare per scopi civili. La possibile intesa fra Iran e Occidente allarma Israele e il
premier Benjamin Netanyahu è tornato ieri a criticare il negoziato.
«L’accordo che si profila è pericoloso per l’umanità e va fermato, conferma tutti i nostri
timori e va anche oltre». Stando a quanto trapelato dalle stanze dell’Hotel Beau Rivage di
Losanna dove si svolge il negoziato, l’Iran e le delegazioni del Gruppo 5+1 — Usa,
Francia, Gb, Germania, Cina e Russia — hanno raggiunto un’intesa di massima sui punti
chiave ma ribadiscono che «restano alcune questioni irrisolte». Più in particolare l’Iran
avrebbe accettato di ridurre a 6mila le centrifughe per arricchire l’uranio (attualmente sono
19mila) e di trasferire all’estero tutto l’ammontare del suo stock di uranio (8mila tonnellate)
debolmente arricchito. Le differenze ancora da risolvere riguarderebbero soprattutto la
durata dell’accordo: tra gli 11 e i 15 anni per le delegazioni occidentali, mentre Teheran
punterebbe a una durata minore, tra i 5 e i 7 anni.
Monitorati tutti i siti nucleari dove verrebbe prodotto l’uranio, l’impianto sotterraneo di
Fordow fermerebbe le attività di arricchimento ma proseguirebbe a funzionare per altri
scopi. «Non è permesso fornire i dettagli dei negoziati all’esterno — ha spiegato ieri sera
un diplomatico iraniano — ma il fatto che conserveremo il nostro arricchimento, che
avremo un numero considerevole di centrifughe, che nessun sito sarà fermato,
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rappresenta le basi del negoziato». Poco chiara anche la questione della sanzioni
internazionali all’Iran. La revoca di queste misure contestualmente alla firma dell’intesa è
un punto fermo dell’Iran e della Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei. Gli Stati
Uniti sono invece favorevoli a una riduzione graduale delle sanzioni e al loro immediato
ripristino in caso di violazione degli accordi. La Casa Bianca ha invitato ieri pomeriggio
l’Iran a non tergiversare. «Vogliono prendere seriamente le misure chieste dal mondo e
dimostrare che non cercheranno di ottenere armi nucleari?», ha detto il portavoce Josh
Earnest, «possono farlo entro la fine del mese». La prospettiva di un accordo inquieta il
primo ministro israeliano Netanyahu. La stampa israeliana ieri mattina raccontava con toni
allarmati gli sviluppi dell’accordo che si profila a Losanna e rivelava che le Forze armate di
Israele e i suoi servizi segreti hanno già ricevuto l’ordine di organizzarsi per far fronte alla
nuova situazione e «neutralizzare quella minaccia in qualsiasi momento».
Del 30/03/2015, pag. 18
È il momento dell’Aliyah gli ebrei tornano a
casa
In questi giorni, il mio vecchio amico Asher Salah, ebreo fiorentino nonché docente
universitario di filosofia all’università di Gerusalemme, si trova a Filadelfia per un semestre
alla Penn University dove presenta un progetto di ricerca sulla riforma ebraica in Italia
nell’Ottocento. Asher lasciò l’Italia nel 1990, dunque un quarto di secolo fa: non era un
periodo, come dire?, facile. L’Occidente si apprestava ad affrontare Saddam Hussein nella
guerra del Golfo, l’Intifada palestinese – la “rivolta delle pietre” – sarebbe durata sino al
1993. Quando Asher decise di compiere la sua aliyah che in ebraico vuol dire “salita”,
ossia l’immigrazione ebraica verso Eretz Israel (la terra d ’ Israele), era ancora vivo il
ricordo del primo attacco suicida dentro i confini di Israele, passato alla storia come il
massacro dell’autobus 405, avvenuto il 6 luglio del 1989. Terra degli avi, ma anche terra
dell’angoscia. Il drammatico contesto politico di quel tempo contenne il flusso immigratorio:
“Molti giovani venivano a studiare in Israele”, ricorda Salah, peccato che poi solo circa la
metà rimanesse in Israele: “Chi compiva l’aliyah lo faceva essenzialmente per motivi
politici o religiosi. Gli altri preferivano rientrare in Italia e stare con le famiglie”. Le tempeste
della Storia mitigavano il loro iniziale entusiasmo. Fatto sta che erano poche decine gli
ebrei italiani all’anno decisi all’aliyah. Sino al nuovo millennio. A partire dal 2003 / 2004,
qualcosa cambia. Si verifica un continuo incremento nel numero degli immigrati verso
Israele. Nel 2012 sono 130; 140 nel 2013. Cifre minuscole, tuttavia significative se
pensiamo che la comunità ebraica italiana conta 35 mila persone. Ma il Grande Balzo
avviene lo scorso anno. 2014: l’anno delle partenze Nel 2014, infatti, gli olim italiani – gli
ebrei cioè che “salgono” ad Eretz Israel, la terra d’Israel – diventano 323, più del doppio
dell’anno precedente, dieci volte tanto gli olim degli anni Novanta. Il secondo flusso più
rilevante dal 1951, dopo quello emotivo che seguì la Guerra dei Sei Giorni, quando il
massimo storico superò di poco i 350 immigrati. In realtà, dall’Italia, tra il 1944 e il 1951,
erano giunti nella Terra Promessa 2084 ebrei. Il loro esodo, però, aveva connotati ben
diversi, si configurava in un contesto di disperazione per l’Olocausto e di fierezza
identitaria nel voler partecipare alla costruzione e alla difesa del nuovo stato ebraico. Un
sintomo della novità l’ha percepito nel suo ambiente il professor Salah: “Le università
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israeliane hanno cominciato ad organizzare il reclutamento di potenziali studenti in Italia”,
osserva Asher, “durante un raduno tenuto a Milano due anni fa a cui ho partecipato anche
io in rappresentanza dell’accademia Bezalei, sono stato sorpreso dal grande numero di
partecipanti, quasi duecento. Dall’anno scorso le autorità universitarie israeliane hanno
incluso l’italiano come lingua per fare gli esami di pre ammissione all’università (i cosiddetti
psicometrici). Questo significa che c’è una massa critica che lo giustifica… A Tel Aviv e a
Herzilia, dove abito, sentire parlare anche italiano è sempre più frequente per strada”. I
numeri sono importanti nella tradizione culturale ebraica. Quelli legati alle dinamiche della
popolazione, sono essenziali sotto il profilo geopolitico: “È un dato interessante, se uno
guarda la serie storica”, spiega Sergio Della Pergola, docente di Studi della Popolazione
ebraica all’università di Gerusalemme, demografo di grande autorevolezza, “gli italiani che
si trasferiscono in Israele non sono un numero sbalorditivo, però il loro numero è in
continuo incremento”. Ed in evoluzione. Determinato da cosa? Dal crescente senso di
insicurezza? In Francia, senza dubbio: è il paese più problematico: episodi di
antisemitismo sempre più violenti, culminati con la strage a Charlie Hebdo e nel
supermercato kosher di Parigi. Lì gli ebrei si sentono minacciati e vogliono andarsene via:
l’hanno fatto in 6500 l’anno scorso. La paura non è l’antisemitismo Ma in Italia? Della
Pergola ha condotto assieme a L. Daniel Staestky la ricerca (anticipata su Pagine
Ebraiche a fine gennaio), “Da vecchie e nuove direzioni. Percezioni ed esperienze di
antisemitismo tra gli ebrei italiani”, per scoprire che qui fa più paura la disoccupazione, la
corruzione, la crisi economica, il razzismo, la criminalità, l’immigrazione. L’antisemitismo è
in settima posizione. Certo, il 63 per cento degli ebrei italiani identifica l’odio antiebraico
come un problema (in Francia lo è per l’ 86 per cento). Però, solo il 20 per cento dichiara
di aver preso in considerazione la possibilità di lasciare l’Italia per “salire” in Israele (la
media europea si attesta sul 29 per cento). Il 70 per cento, al contrario, lo esclude. Ma chi
sono i 323 olim d’Italia? Per l ’ antropologa Fiammetta Maregani, che si è trasferita a Tel
Aviv nel 2012, “ce ne sono ormai due tipi – riferisce al sito Kolot (“Voci”) – quelli come me
che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed
economici e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti”. Mentre un tempo
prevalevano i giovani, adesso si trasferiscono soprattutto le famiglie: secondo i dati
dell’Irgun Olé Italia (l’associazione degli olim italiani), il 64 per cento dei nuovi arrivati è
sposato. Differente è pure la geografia delle partenze. Prima, erano i milanesi ad andar
via. Oggi, sono i romani. Il 77 per cento proviene infatti dalla comunità capitolina. Alla base
di questo rovesciamento è la composizione socioeconomica: “A Roma – sottolinea Della
Pergola – c’è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall’attuale
congiuntura, e quindi più interessato ad emigrare”. Immigrazione a basso reddito, attirata
dai buoni risultati dell’economia israeliana che ha retto molto meglio di quella italiana.
Intendiamoci, c’è ancora chi se ne va “più per ideologia che per altro”. Come Edoardo
Yossef Marascalchi e sua moglie Micol Picciotto. Hanno lasciato Milano nel 2009, lei
aspettava un bimbo; hanno trovato casa a Netanya (una trentina di chilometri da Tel Aviv),
si sono presto adattati alla nuova realtà, coniugando valori ebraici con le esigenze della
vita: “In questi ultimi anni si vedono arrivare intere famiglie coi genitori tra i 50 e i 60 anni e
i figli tra i 15 e i 20. È una differenza radicale, rispetto al passato. Di fronte alla crisi
economica, soprattutto da Roma, il trasferirsi in Israele è visto come una soluzione
pragmatica, per fronteggiare le difficoltà quotidiane”. Un impatto non sempre facile
Marascalchi ha avuto l’idea di mettere on line i diari degli olim. È durata poco: “A quanto
pare la vita è più impegnativa del previsto e nessuno ha continuato a scrivere”, dice
amareggiato. L’integrazione non sempre è semplice, “il disagio è tuttavia attutito sia dalla
disponibilità degli autoctoni sia, soprattutto, da una sorta di rete di mutua assistenza tra
italiani che oggi è attiva anche nei centri minori, e che di fatto esisteva già a Gerusalemme
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e a Tel Aviv. C’è da dire che, per una strana combinazione di eventi, i madrelingua italiani
sono molto richiesti dalle aziende dell’hightech israeliano. Il mercato italiano è
particolarmente interessante e gli italiani in Israele non sono numerosissimi come i
francesi, i russofoni o gli anglofoni. Inoltre, la società israeliana è molto meritocratica, ciò
rende meno rilevante il livello di istruzione rimuovendo uno degli ostacoli che molti olim
italiani temono di più, convinti inizialmente che solo ingegneri e titolari di master possano
trovare lavoro in Israele”. A volte, ci si interessa più ai problemi che alle soluzioni, più alle
domande che alle risposte.
del 30/03/15, pag. 5
La vittoria di Sarkozy, Le Pen resta a secco
Il Front National avanza ma non conquista nessun dipartimento. L’Ump
trionfa nei feudi della sinistra Storica disfatta del partito socialista:
battuto in quasi metà delle province nelle quali era al governo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Il risultato della sinistra al governo stavolta
non è affatto «onorevole» (definizione del premier Valls una settimana fa, per il primo
turno). È piuttosto una disfatta, perché il partito socialista perde più o meno la metà dei
dipartimenti che aveva a favore dell’opposizione di destra (Ump) e centro (Udi), che
alleata — e sotto la guida di un rivitalizzato Nicolas Sarkozy — consolida il suo trionfo.
Due terzi dei dipartimenti vanno al centrodestra.
«Mai la nostra famiglia politica ne aveva conquistato tanti», ha ricordato Sarkozy nella
sede dell'Ump, continuamente interrotto dagli applausi dei militanti in festa (le prime stime
indicano tra 66 e 71 dipartimenti, ndr ). Il predecessore di François Hollande all’Eliseo, al
quale è legato da una rivalità e un’inimicizia feroci, si è tolto la soddisfazione di
interpretare il voto come «una sconfessione senza appello» del presidente. «Mai una
politica aveva incarnato il fallimento fino a questo punto. La menzogna e l’impotenza sono
state punite», ha aggiunto, visibilmente felice di poter affondare il colpo.
La dimensione dell’elezione sarebbe locale ma tutti i leader ne avevano fatto da settimane
un voto importante a livello nazionale, un modo per misurarsi in vista del bersaglio grosso,
le Presidenziali del 2017. E quindi adesso è difficile, per la sinistra, relegare la portata del
risultato semplicemente a una questione di cantoni e consiglieri provinciali. Anche perché
ci sono risultati simbolicamente molto significativi: il dipartimento della Corrèze, quello che
François Hollande ha scelto come suo feudo elettorale e simbolo della fantomatica
«Francia profonda», passa alla destra. Uno schiaffo per un presidente che si era tenuto
prudentemente lontano da questa elezione, preferendo lasciare al primo ministro Manuel
Valls l’onere di esporsi.
Il premier ha assolto al compito con coraggio, percorrendo tutta la Francia per parlare in
comizi dove non ha smesso di mettere in guardia contro «la minaccia del Front National».
Il suo impegno è stato in parte premiato, per il gioco del sistema elettorale il partito di
Marine Le Pen probabilmente non arriverà a conquistare neanche un dipartimento. Il
temuto sfondamento del Fn non c’è stato, ma i lepenisti continuano ad avanzare perché
raccolgono comunque più voti che alle Europee del 2014 (e stavolta a Parigi e Lione non
si votava), e cominciano a dotarsi di quella struttura territoriale credibile che finora era
sempre mancata loro.
«Il risultato comunque troppo elevato del Front National rappresenta uno sconvolgimento
durevole del nostro paesaggio politico», ha riconosciuto Valls. La sinistra si ferma a 28-35
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dipartimenti. «Il nostro governo raddoppierà l’energia — ha promesso il premier — avendo
come priorità l’occupazione, l’occupazione, l’occupazione». Una frase che i francesi hanno
già sentito molte volte da quando Valls è primo ministro: un anno domani, anniversario
poco felice.
Stefano Montefiori
del 30/03/15, pag. 1/5
Sicurezza e identità nazionale: la «gauche»
perde la sfida ma ora è battaglia tra i gollisti
Nicolas Sarkozy è il grande vincitore delle elezioni dipartimentali francesi e il successo lo
proietta in testa nella corsa all’Eliseo per il 2017. Risultato forte e netto, che spunta un po’
le ali a Marine Le Pen, ma non interpretabile soltanto nella semplice logica di alternanza
fra destra e sinistra. Le elezioni hanno sconvolto il panorama politico ed espresso un
cambiamento radicale della sensibilità popolare che non mancherà di influenzare il futuro
assetto del Paese e in termini di cultura politica il comune sentire degli europei.
Dalla Francia sale una forte domanda di sicurezza, di controllo dei flussi migratori, di
identità e «preferenza» nazionale. Domanda che rende minoritaria la cultura della sinistra,
il «politicamente corretto» sempre più estraneo ai ceti popolari che voltano le spalle alla
«gauche» proprio nelle tradizionali roccaforti operaie e in luoghi simbolici, come la Correze
del presidente Hollande.
Questa domanda è stata ascoltata, strumentalizzata e capitalizzata negli ultimi anni dal
Front National, primo partito alle europee, secondo ieri, ormai radicato nelle realtà locali,
soprattutto nelle regioni del Nord, che votavano a sinistra, e nelle regioni del Sud, più
conservatrici e sensibili al problema dell’insicurezza che sconvolge le zone turistiche dove
vanno a svernare i pensionati.
Ma Sarkozy ha fatto compiere all’Ump, il partito gollista e repubblicano, uno spregiudicato
salto culturale che in parte tradisce l’atteggiamento dei predessori — da Giscard a Chirac
— secondo i quali nessuna contaminazione, né politica, né ideologica, era possibile con il
Front National. Un atteggiamento che divideva inevitabilmente l’elettorato di destra, a
beneficio della sinistra.
Sarkozy ha cavalcato tematiche care al Fronte: «I francesi non vogliono cambiare il loro
modello di vita, sono pronti ad accogliere quelli che lo accettano», ha detto, esaltando
un’idea di assimilazione culturale, rispetto alle tendenze comunitaristiche della società
francese. E, al tempo stesso, non ha dato indicazioni di voto, laddove, nei ballottaggi, gli
elettori di destra avrebbero dovuto scegliere fra un candidato di sinistra e uno del Front.
I risultati gli hanno dato ragione. Decine di dipartimenti sono passati dalla sinistra alla
destra, ma il Front National, nonostante un consolidato consenso su scala nazionale, non
governerà nemmeno un dipartimento. È questa la logica del sistema a doppio turno, ma
anche la conseguenza della dinamica campagna elettorale guidata da Sarkozy.
L’analisi del voto nel suo complesso, conferma quattro tendenze — la fine del bipartitismo,
il peso del Front Nazional, la competizione fra due destre anche in vista delle presidenziali,
il crollo del partito socialista del presidente Hollande — e una drammatica certezza, la
metà dei francesi non vota più.
Percentualmente, la sinistra resta oltre il 30 per cento, ma le divisioni al proprio interno
sono esasperate e la stessa tenuta dell’esecutivo è in discussione.
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Sarkozy ha preso le distanze da Marine Le Pen soltanto nella dimensione europeista, che
è sempre più disprezzata dai partiti populisti. Questo rassicura gli ambienti finanziari e
imprenditoriali, ma non basta a tranquillizzare gli alleati centristi dell’Udi e le correnti
interne più ostili alla «contaminazione» frontista.
Anche nella destra gollista si annuncia quindi battaglia e saranno proprio le rivalità interne
a mettere in discussione i sogni presidenziali di Sarkozy. Ma intanto, nella Francia che
cambia pelle, il vincitore è colui che lo ha capito in un tempo ancora utile, prima cioè
dell’implosione populista. Della Francia e dell’Europa.
Massimo Nava
Del 30/03/2015, pag. 1-25
Perché il popolo tradisce la sinistra
THOMAS PIKETTY
PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo?
E PERCHÉ VOLTANO LE SPALLE in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono
di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più
ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una
doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non
sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei
trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la
deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o
mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario
e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Il secondo
problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più
queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di
protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla
nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per
concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono
concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente
qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come
“imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche
sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle
ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università,
e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli
anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una
riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale
aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la
minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza
sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e
sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel
caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni
80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il
tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In
pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente
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superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno
servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate.
Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del
tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare,
allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica
radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi
popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce,
del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro
è particolarmente deprimente in quest’ottica. L’idea generale è che si sa già quali sono le
«riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di
risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la
disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è
innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio
per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei
criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa
l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il
merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200
miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe
investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università. Se non si troverà
nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo
alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori
dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno
decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da
destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste
questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando
assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di
dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.
Traduzione di Fabio Galimberti
del 30/03/15, pag. 11
La lista di Atene non convince
Nuovo vertice Merkel-Hollande
Nulla di fatto a Bruxelles sulle riforme. Tsipras: lieto fine, ma c’è chi è
contro
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES Un week end di trattative a oltranza sulla lista di
riforme non ha allontanato il rischio di insolvenza della Grecia già in aprile. Nelle riunioni
dei tecnici del Gruppo di Bruxelles, composto da Commissione europea, Banca centrale
europea, Fondo monetario di Washington, Fondo salva Stati dell’eurozona e governo
ellenico, le proposte del premier greco di estrema sinistra Alexis Tsipras non sono state
ritenute sufficienti. Non è stato così convocato un Eurogruppo straordinario dei 19 ministri
finanziari, necessario per sbloccare i prestiti ad Atene.
La trattativa, a meno di sviluppi oggi a Bruxelles, sale al livello politico nel consiglio
congiunto dei ministri di Germania e Francia in programma domani a Berlino. La
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cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande hanno
inserito in agenda il caso Grecia e il rischio di una sua uscita dalla moneta unica.
Tsipras ha previsto un rapido «lieto fine» per il negoziato con i creditori, nonostante veda
tentativi di far saltare l’accordo. «Ci sono dei poteri che rappresentano degli interessi
precisi e che auspicano la rottura — ha dichiarato il premier greco —. Ma ci sono anche
dei poteri, che prevarranno, orientati a un compromesso sincero e onesto». Ad Atene
diffidano dell’euroburocrazia di Bruxelles. Temono la speculazione finanziaria, che
porterebbe a scommettere sull’uscita di Atene dall’euro. Capiscono che il centrodestra di
Merkel e dei governi di Spagna e Portogallo (con le elezioni in arrivo) intende impedire una
vittoria negoziale dell’estrema sinistra greca (favorendo, per esempio, l’ascesa di
Podemos in Spagna).
Gli esborsi alla Grecia non appaiono enormi per l’eurozona. Nel Gruppo di Bruxelles lo
scontro ruota attorno a 7,2 miliardi di prestiti e 1,9 miliardi di fondi Bce. Il governo ellenico
sostiene di poter pagare stipendi e pensioni in aprile. Sta poi valutando introiti aggiuntivi
dalla Russia in cambio di concessioni per la ricerca di petrolio e gas. Con la Cina è stata
riaperta la trattativa sulla vendita del 65% del Porto del Pireo, che vari analisti valutano
almeno 500 milioni.
Ma dal negoziato a Bruxelles è trapelato informalmente che la cancelliera insiste nel
pretendere da Tsipras misure di austerità in grado di garantire il rimborso dei prestiti ai
Paesi creditori non solo perché lo ha promesso ai suoi elettori tedeschi. La Germania non
vuole un precedente di concessioni alla piccola Grecia, qualora nel 2016 non rispettasse i
vincoli Ue un Paese membro di grande dimensione, come l’Italia (con alto debito) o la
Francia (in deficit eccessivo), generando ben altri rischi per la zona euro.
Anche per questo gli eurosocialisti Hollande e il premier Matteo Renzi, pur non gradendo i
consensi all’area comunista, mostrano disponibilità a Tsipras. Il presidente francese
domani proverà ad ammorbidire la linea dura di Merkel con la Grecia considerando che
potrebbe essere attuata con la Francia. Il premier di Parigi Manuel Valls, dopo il Consiglio
a Berlino, è atteso a Francoforte dal presidente della Bce Mario Draghi, dove discuterà
certo del caso Grecia. Ma, soprattutto, dei conti pubblici francesi in difficoltà.
Ivo Caizzi
del 30/03/15, pag. 13
L’Europa avverte Tsipras:
“Le riforme non bastano”
Marco Zatterin
«Non fate troppe speculazioni, stiamo trattando», avverte via sms uno scrupoloso
negoziatore europeo. La grigia domenica bruxellese ha ospitato il secondo giorno di
intense discussioni fra gli inviati del governo greco e gli sherpa di Ue, Fmi e Bce, l’ex
Troika ora «Brussels Group». C’è chi giudica la lista delle riforme inviata venerdì da Atene
«non verificabile», insufficiente per convincere l’Eurogruppo a liberare almeno qualche
miliardo per scongiurare il rischio possibile di una bancarotta. «Servono dettagli», si
precisa. Altri sostengono invece che il clima è «costruttivo» e che presto potrebbe arrivare
l’atteso «via libera». Così fumo e arrosto si mescolano nella pioggia belga.
«Aspettiamo l’elenco lunedì», cioè oggi, ha detto il vicepresidente della Commissione Ue,
Valdis Dombrovskis al tedesco «Die Welt». E allora cosa ha spedito Alexis Tsipras venerdì
scorso? Atene sostiene che si tratta di un piano destinato a portare maggiori entrate o
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minori spese per un almeno 3 miliardi già nel 2015. Secondo fonti greche, il leader di
Syriza si sarebbe rassegnato a privatizzare e punterebbe a a vendere il 67% dell’Autorità
che amministra il porto del Pireo per circa 500 milioni, oltre che la quota pubblica in 14
aeroporti. Nel pacchetto anche lotta all’evasione interventi sul mercato previdenziale e del
lavoro, sebbene non su vitalizi e salari.
Il piano originale prevedeva la possibilità di una riunione dell’Eurogruppo in settimana per
dare ossigeno finanziario alla Grecia che, secondo più analisti, potrebbe andare in rosso
già il 9 aprile, quando scade un impegno col Fmi (450 milioni). Nel week end la prospettiva
dell’«econosummit» è sparita. Riferiscono che i tecnici di Atene abbiano presentato una
lista non cartacea e scritta nella loro lingua materna. «Non affidabile», ha commentato una
fonte che, in ogni caso, ha ribadito che il faccia a faccia non è stato interrotto. Sarebbe
falso anche, sottolineano alla Commissione, che gli sherpa del Brussels Group abbiano
lasciato la capitale ellenica, come invece riportano alcuni media locali.
Il dato concreto è che si cerca una soluzione non facile. «Il governo greco è come uno
studente del primo anno che vuol fare operazioni a cuore aperto», ironizza un diplomatico.
«Venerdì sera è stato frustrante parlare coi greci», ammette una fonte al corrente dei fatti.
L’Europa vuole una ragione per poter andare avanti e archiviare i guai, tanto che fa
programmi sulla possibile via di uscita. La disponibilità a pagare a tranche i 7,2 miliardi di
piano di salvataggio esteso a giugno è confermata. Lo scenario ideale sarebbe quello di
poter riunire i tecnici dell’Euro Working Group mercoledì e un pagamento di circa un
miliardi entro l’8 aprile, con o senza riunione fisica dei ministri dell’Eurogruppo. Nel
frattempo si potrebbe continuare l’esame della «lista» e predisporre gli esborsi successivi.
«Potrebbe anche essere relativamente facile - ammetteva ieri sera un osservatore
europeo -. Basterebbe che Atene facesse ciò che dice di voler fare». Il che, sinora, non è
stata la regola del giorno.
del 30/03/15, pag. 19
Caccia al wi-fi nelle vie dell’Avana Revolución
è vivere «connessi»
Con i ragazzi che «rubano» Internet davanti agli hotel. Il regime: il web
non ci fa paura
Sara Gandolfi
L’AVANA I ragazzi stanno seduti contro il muro, immersi negli schermi luminosi. Uguali ai
coetanei che popolano le città digitali del mondo, all’apparenza. I cybernauti nel cortile del
Centro cultural di El Romerillo, quartiere povero della non ricca Avana, non sono però
ragazzi come gli altri. E non soltanto perché i loro laptop e cellulari sono di qualche
modello fa.
Per accedere al primo e unico hotspot wi-fi gratuito sull’isola dei Castro, messo a
disposizione dall’artista Kcho, amico di Fidel, molti si piazzano intorno all’edificio che
ospita il prezioso router Adsl nel cuore della notte. «La connessione è più veloce», spiega
Yoznam, 29 anni, online da quattordici ore. «Quando non lavoro, sto qui. Internet mi piace
da morire, è pieno di notizie». Su un cartello all’entrata è scritta la password:
Aquinoserindenadie , qui non si arrende nessuno.
Cuba ha fame. Non più di cibo, come fu negli anni del «periodo speciale» che seguirono il
crollo dell’Urss. E neppure di Coca Cola e sneakers americane, un tempo vietate al popolo
della Revolución. Ha fame di Internet, al quale ha accesso solo il 5% della popolazione (e
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appena l’1% in banda larga). Colpa, secondo la versione ufficiale, dell’embargo Usa, che
finora ha impedito l’importazione della tecnologia necessaria.
Lo Stato stabilisce a chi concedere il privilegio dell’accesso: funzionari, università,
giornalisti e artisti fedeli agli ideali rivoluzionari, e 140 sale di navigazione pubbliche.
Qualcosa, però, sta cambiando. A Cuba si va formando un’avanguardia di classe media:
lavoratori autonomi – i cuentapropistas – o soci di cooperative, che, con la benedizione del
presidente Raul Castro, hanno creato una costellazione di microimprese private, specie
nella ristorazione. Sono loro e i giovani a soffrire più di altri la fatica di sentirsi
desconnectados .
Obama ha promesso di sbloccare l’esportazione di alta tecnologia e all’Avana è appena
passata una delegazione di esperti Usa in telecomunicazioni, nell’ambito dei negoziati
avviati in dicembre fra i due Paesi. Il boom internettiano non sarà per domani, ma se il
disgelo prosegue Cuba non avrà più scuse per negarsi alla Rete.
All’incrocio della 19esima strada con M, al Vedado, ci sono lunghe code fuori dal Centro
multiservizi di Etecsa, l’unico operatore (statale) di telecomunicazioni. Giovani, adulti,
anziani in attesa, disordinatamente, del proprio turno. Teresa dai capelli bianchi racconta
che è lì per comprare l’ultima offerta: una carta sim con 30 pesos di ricarica; Luis aspetta
che si liberi una postazione: «Costa 4,50 Cuc al minuto, una settimana di stipendio in
pesos (a Cuba sussistono due valute, che il governo ha annunciato di voler unificare: il
Cuc si cambia alla pari col dollaro; il peso vale circa 1/24 di Cuc, ndr )».
Nel Paese non esiste ancora il 3G per accedere ad internet con i cellulari. Così parte la
caccia al wi-fi. All’Hotel Nacional, che ha ospitato il luccicante jet set pre-rivoluzionario,
hanno chiuso le porte del business center agli esterni. «Era diventato un inferno, si
ammassavano sui divani», spiega la hostess, alle prese con una manciata di clienti
americani, tornati «finalmente» a fare affari. I giovani si sono spostati fuori dall’Habana
Libre, telefonino in pugno, a «craccare» i codici dell’hotel. I cubani sono maestri nell’arte
del resolver , che permette nella penuria di trovare una soluzione, in quell’area grigia tra
legalità e illegalità su cui l’autorità spesso chiude un occhio. Al mercato nero si trova di
tutto, perfino la connessione. L’intellettuale Marisela acquista ore di navigazione da un
amico, che le fa usare la linea dell’azienda per cui lavora, nel cuore della notte. «Non più
di un’ora per volta», spiega. «Com’è possibile fare cultura così?». Con un dollaro a
settimana, invece, si compra il paquete , una scheda Usb dove sono scaricati film e serie
tv appena usciti in Usa. Piratati. E’ l’ennesima contraddizione di un Paese «disconnesso»
dove però fioriscono i blog, come Cafè fuerte , El blog de Yoandri , oltre alla rivista online
della dissidente Yoani Sanchez, 14ymedio . «Cuba ha già realizzato la maggiore
rivoluzione: insegnare a leggere e scrivere a tutti i suoi cittadini, cioé a pensare con la
propria testa. Non esiste più alcun limite dal punto di vista politico o ideologico che
impedisca l’accesso ha internet», ha dichiarato Ernesto Rodriguez, del ministero delle
Comunicazioni,al giornale ufficiale Juventud Rebelde .
La Fabrica de Arte, tra il Vedado e Miramar, è uno dei locali più alla moda dell’Avana.
Galleria d’arte, sala da concerti, disco-bar, quasi ogni sera si riempie di giovani in grado di
pagare 2 Cuc per l’entrata. «Offriremmo anche il wi-fi, ma l’Adsl che ci ha assegnato lo
Stato si bloccherebbe subito», dicono i gestori.
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INTERNI
Del 30/03/2015, pag. 14
Lo spiraglio di Renzi “Avanti con l’Italicum
ma sul nuovo Senato si può ridiscutere”
L’ultima offerta alla minoranza Pd sulle riforme Oggi la direzione, la
sinistra non vuole la conta
FRANCESCO BEI
Qualcuno potrebbe considerarla un’esca, per il premier si tratta invece di un’ultima offerta.
Fatta a quella parte di minoranza Pd che vorrebbe, come spiega un renziano, «separarsi
dai padri ma ancora non sa come farlo». Ovvero abbandonare al loro destino Bersani e
D’Alema e costruire un’interlocuzione diretta con il segretario. La proposta è stata
anticipata nei colloqui che Renzi ha avuto ieri al suo ritorno da Tunisi e sarà esplicitata
oggi pomeriggio davanti alla direzione. Sull’Italicum ormai «ci si conta e si chiude». Sulla
riforma della Costituzione, al contrario, «se ci sono ulteriori modifiche da fare,
parliamone». Una disponibilità inattesa, che riapre giochi che fin qui sembravano
definitivamente chiusi.
È significativo che l’offerta avvenga a ridosso della manifestazione di Landini a piazza del
Popolo. Ai piani alti del Nazareno sono infatti convinti che i toni usati dal leader della Fiom,
il suo considerare Renzi «peggio di Berlusconi», abbiano di fatto eretto una barriera
insormontabile per chi nella minoranza puntava a un dialogo con il movimento in
costruzione alla sinistra del Pd. «La minoranza si è infilata in una strada senza uscita —
ragiona un renziano — e sta a noi offrire ai più dialoganti un modo per venirne fuori». Il
disegno insomma è quello di presentare ai vari Damiano, Speranza, ai ministri Martina e
Orlando, un modo per giustificare il loro avvicinamento alla segreteria. Non l’ingresso in
maggioranza, come hanno fatto i giovani turchi, ma l’abbandono di quella che Renzi
considera la «pregiudiziale assoluta » nei suoi confronti. E la conseguente rottamazione
dei leader della vecchia guardia «animati da rancore personale».
La scommessa è tutta qui e per questo il premier ha deciso di tirare fuori ora questo
cilindro dal cappello: la possibilità di rimettere mano al ddl Boschi-Delrio a palazzo
Madama. Niente da fare invece sulla legge elettorale. Renzi oggi enfatizzerà «il grande
lavoro di miglioramento fatto sul testo», ringraziando anche le minoranze per il contributo.
Seguirà un voto della direzione, che rischierà di essere un’approvazione all’unanimità visto
che l’opposizione probabilmente eviterà di contarsi abbandonando la sala. Il secondo
passaggio sarà un altro voto interno, subito dopo Pasqua, nel gruppo parlamentare della
Camera. Rispettando questo calendario: «Entro aprile si va in aula ed entro maggio la
legge c’è». Nessuna apertura a modifiche sui due punti sensibili sollevati in questi giorni
dai non-renziani: riduzione della quota di nominati e possibilità di apparentamenti al
ballottaggio. Conferma Matteo Ricci, vicepresidente del Pd: «La direzione servirà a
ribadire che la legge elettorale sulla quale si sta lavorando da più di un anno è una legge
elettorale buona e molto vicina ai nostri punti di partenza». E se anche nel gruppo le
minoranze dovessero mantenere la linea dura, a palazzo Chigi sono tranquilli sui numeri.
Calcolano infatti in una trentina di voti l’area della dissidenza dem. Insufficienti dunque a
mandare all’aria l’Italicum. Specie se, nel voto segreto, dovessero arrivare “aiutini”
sottobanco da parte dei verdiniani di Forza Italia, dai fuoriusciti cinquestelle e dai tosiani.
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È ancora buio invece su quali punti della riforma costituzionale Renzi intenda ridiscutere.
Al momento la sensazione è che l’offerta sia tutta politica, prematuro parlare di dettagli
tecnici. In teoria il Senato sarà chiamato a discutere soltanto degli articoli che sono stati
ritoccati dalla Camera - procedimento legislativo, competenze Stato-Regioni, quorum per
l’elezione del capo dello Stato e per il ricorso preventivo alla Consulta sulla legge
elettorale - ma non potrebbe rimetter mano sul resto. In particolare sulla composizione del
futuro Senato, forse il punto che tra gli esperti ha suscitato i dubbi maggiori. In particolare
aver previsto una Camera delle Regioni senza la presenza dei presidenti delle stesse, è
un limite considerato da molti costituzionalisti il difetto più grave del disegno di legge. Che
rischia di rendere inutile il futuro palazzo Madama, allontanandolo dal modello Bundesrat
tedesco in cui invece sono presenti i presidenti dei Lander. «Alcuni eminenti
costituzionalisti come Paolo Caretti ed Enzo Cheli - fa notare Andrea Giorgis, della
minoranza - ritengono che la Costituzione sia un modello organico. Per cui, se si tocca
una parte, si può anche rimettere mano al resto». Se questa tesi venisse accolta, palazzo
Madama potrebbe riscrivere anche l’articolo sui futuri senatori. Riammettendo i
governatori.
del 30/03/15, pag. 16
Piano di Berlusconi per rottamare i veterani
Tensione sulle liste, verso un tetto ai mandati. Ipotesi Toti in Liguria, si
tratta ancora con Fitto in Puglia Il leader: noi la maggioranza del
buonsenso, non siamo portatori né di estremismi né di disfattismi
ROMA «Non possiamo continuare a farci surclassare dai giovani di Renzi e Salvini. Anche
Forza Italia ha bisogno di gente nuova. Il rinnovamento nelle liste di queste Regionali
dev’essere la prova generale di quello che faremo alle Politiche». No, non era un’iniziativa
dei berlusconiani della cerchia ristretta, che negli ultimi giorni avevano insistito sempre più
sul tema della «rottamazione». E non è nemmeno l’ennesima volta in cui l’«operazione
rinnovamento» viene minacciata dentro FI soltanto per ragioni tattiche. Dietro la scelta di
votare pagina, e dietro l’esigenza di ridurre al minimo le candidature degli «over 65»e di
chi ha già fatto tre mandati, c’è il sigillo di Arcore. E c’è Silvio Berlusconi in persona:
«Adesso voglio gente nuova nelle liste».
Che non sia l’ennesima boutade «giovanilistica» lo dimostrano le paure della vecchia
guardia forzista. E anche l’eterogeneo fronte — dai verdiniani ad Altero Matteoli, passando
per l’area di Raffaele Fitto — che ieri l’altro s’è accodato al j’accuse di Paolo Romani. E
così ieri mattina, a margine del convegno di Antonio Tajani, Mariarosaria Rossi ha
impresso un’altra accelerazione sul rinnovamento: «Possiamo discutere se tre mandati
siano pochi. Ma nove sono senz’altro troppi», ha spiegato la senatrice. E ancora: «Questo
non significa “escludere”. Ma dobbiamo aprire alle nuove leve. E il banco di prova di
questo ricambio saranno le Regionali».
C’è chi giura che, ad Arcore, stiano facendo una ricognizione — regione per regione —
per censire i consiglieri di lungo corso. E che un identico lavoro, senz’altro più agevole, sia
stato fatto per stilare l’elenco dei parlamentari che hanno già tre mandati sul groppone.
«C’è gente che continua a lottare per fare un ultimo giro di giostra. E non s’è resa conto
che gli italiani, se non ci sbrighiamo, chiuderanno il nostro luna park», è la battuta di
Giovanni Toti. Che aggiunge: «Basta con chi fa il tappo al rinnovamento e con tutti quei
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satrapi orientali che si ergono a paladini della democrazia dopo aver devastato le
Regioni». Un messaggio per Fitto e anche per la pattuglia che s’è accodata alla denuncia
di ieri l’altro di Romani.
Il Berlusconi versione rottamatore, stavolta, sembra fare sul serio. Ieri, intervenendo
telefonicamente al convegno di Tajani, ha attaccato Renzi («Siamo irrilevanti in Ue, il
nostro semestre s’è chiuso senza risultati») e, soprattutto, ha preso le distanze dalla linea
di Salvini («Ci sono partiti che fanno dell’estremismo e dell’antieuropeismo la loro
bandiera. Noi rappresentiamo il buon senso»). Segno che l’accordo con la Lega,
comunque vicino, ancora non è stato chiuso. In Liguria, dove le voci di un impegno diretto
di Toti sono sempre più insistenti, si tratta di aspettare qualche giorno.
E la Puglia? Ufficialmente, le posizioni del commissario berlusconiano Vitali e del «ribelle»
Fitto sono ancora distanti. Le condizioni del primo, «stabilite con Berlusconi», sono: Fitto
faccia la sua lista e, dei sette consiglieri uscenti, possiamo discutere al massimo di cinque.
L’eurodeputato, incassato un mezzo assist del candidato governatore Schittulli, prende
tempo. «Che si candidi pure, se vuole», gli ha mandato a dire Mariarosaria Rossi. Ma il
lieto fine è meno lontano di quanto non sembri.
Tommaso Labate
del 30/03/15, pag. 6
Milano 2015 come Genova 2001
Allarme per l’apertura dell’Expo
Antagonisti convocati per il 1° maggio via internet I servizi segreti:
danni possibili 10 volte più che al G8
Fabio Martini
Per ora il tam-tam corre da un sito all’altro dei gruppi antagonisti, ma il rumore di fondo è
stato raccolto con grande preoccupazione in un rapporto dei Servizi. A palazzo Chigi e al
Viminale sanno tutto ed evitano allarmismi ma il rischio c’è: il primo maggio, in coincidenza
con l’apertura dell’Expo, è stato indetto sempre a Milano un grande raduno anticapitalista,
nel quale confluiranno da tutta Europa giovani pacificamente arrabbiati ma anche tante
teste calde. Nessuno lo dice esplicitamente ma in tanti puntano (o paventano) un bis da
brivido: fare di Milano 2015 una nuova Genova 2001. Non nel senso di cercare il morto,
ma lo scontro sì, nel tentativo di mettere a ferro e fuoco il centro della città. E d’altra parte i
termini usati nel rapporto dei Servizi sono eloquenti, molto eloquenti: la manifestazione
potrebbe avere una «capacità di interdizione e di danneggiamento dieci volte superiore a
quella del G8 2001 di Genova».
Uno scenario potenzialmente impressionante per i cittadini e per i commercianti milanesi,
ma molto sgradito anche dal governo: in occasione dell’apertura dell’Esposizione
confluiranno a Milano cento capi di Stato e di governo da tutto il mondo, assai più dei sette
che giunsero a Genova per il G8 del 2001. Matteo Renzi ha già spiegato di puntare
sull’Expo in termini di immagine, di Pil e come testimonial della “nuova” Italia, di una Italia
finalmente normale, o invece «normalizzata» per dirla con i suoi detrattori. Ma a palazzo
Chigi, pur contando sul fatto che gli eventuali incidenti non potranno essere messi sul
conto sul governo, sanno bene che una gestione controversa dell’ordine pubblico potrebbe
avere contraccolpi al momento non prevedibili.
Anche perché per le strade di Milano si muoveranno giovani e meno giovani animati da
motivazioni assai diverse. L’antagonismo nelle sue tantissime declinazioni: milanesi,
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nazionali, trasnazionali, comuniste, anarchiche, sindacaliste. I più indecifrabili sono quelli
che arriveranno da tutta Europa, gli aderenti alle tre reti transnazionali che guidano
l’antagonismo: Blockupy (nata a Francoforte contro la Banca centrale europea), D19 2-0
(nata a Bruxelles sui temi dell’austerità, della disoccupazione giovanile, della sovranità
democratica); Antifa, un collettivo antifascista internazionale. Una galassia che ha
rilanciato l’eredità del movimento No global e che è in lotta contro l’austerità, la Bce, le
grandi opere e le grandi manifestazioni. Come Expo. E dentro questa galassia c’è il
“blocco nero” più temuto dalle polizie di tutta Europa: quello composto dai casseur francesi
che lottano contro le grandi opere, dai riot tedeschi, inglesi e scandinavi, da greci del
Movimento Antiautoritario. Una galassia a caccia di un rilancio: lo cercherà a Milano. Ci
saranno poi i movimenti milanesi: i Centri sociali (a cominciare dal più radicale, il Cantiere)
e i movimenti di lotta per la casa. Poi movimenti nazionali, davvero tante sigle: i
Disobbedienti veneti e il radicale Askatasuna sono solo i più noti. E ancora: la galassia
anarchica. La galassia sindacale extra-confederale: Cub, Usb, Cobas, Unicobas, Sincoba.
I movimenti dell’estrema sinistra, a cominciare dai più consistenti, come il Partito
comunista dei lavoratori. Leggerli e gestirli tutti, una scommessa di alta professionalità per
le polizie di Renzi e Alfano.
Del 30/03/2015, pag. 15
Il personaggio
Il leader della Fiom si muove su un doppio binario: l’attenzione al
disagio sociale, aggregare intorno a un progetto politico l’opposizione
al governo e al tempo stesso riformare il sindacato per scalarne la
leadership
Associazioni, lavoro autonomo e tute blu così
Landini organizza la sua Coalizione
ROBERTO MANIA
Prenderà forma entro la fine di maggio la Coalizione sociale. Prima verrà stilata quella che
Maurizio Landini chiama la Carta d’identità del movimento, con i valori di riferimento e gli
obiettivi da perseguire; poi sarà creato una sorta di Coordinamento dell’alleanza con gli
esponenti delle associazioni promotrici. E nel Coordinamento non sarà comunque Landini
a rappresentare la Fiom, per evitare le polemiche sul suo doppio ruolo. Questa struttura di
governo sarà poi replicata nei vari territori. Un’organizzazione leggera, ma pur sempre
un’organizzazione.
«La vera novità — dice il leader dei metalmeccanici della Cgil — è proprio questa: noi
partiremo dai territori dove c’è una maggiore domanda di coalizione». Spiega: «Può non
esserci il sindacato nelle lotte per la casa? Può non essere accanto ai medici di
Emergency che in Italia, non in Africa, hanno messo in piedi strutture per l’assistenza
sanitaria gratuita a favore delle persone più bisognose? Se non pensiamo di
rappresentare questa socialità cosa pensiamo di rappresentare? ». È questo il nuovo
sindacato (o il vecchio, perché è quasi un ritorno alle origini) che ha in mente Landini.
Dunque è su un doppio binario che si muove il leader di fatto della Coalizione sociale:
aggregare le associazioni intorno a un progetto politico, attento soprattutto alle aree di
maggiore disagio sociale, alternativo oggi al programma del governo Renzi; riformare il
sindacato fino a puntare alla scalata della stessa Cgil. Progetto «ambiguo», secondo
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Cesare Damiano, ex metalmeccanico, esponente delle minoranze del Pd che anche su
Landini si sono divise. Perché, per esempio, Stefano Fassina in piazza sabato ci è andato
e che ieri è tornato a sostenere «che molti iscritti e militanti hanno mollato il Pd e hanno
manifestato con la Fiom». Resta il fatto che Landini continua a ripetere che non ha mai
pensato alla formazione di un altro partito o partitino della sinistra. Sembra un progetto più
complesso il suo, e forse anche più complicato. In attesa che si cominci a concretizzare
nei prossimi due mesi, Landini, non a caso, continua ad alzare il tono dello scontro con
Renzi. Ieri, a margine di un convegno a Medicina nel bolognese, ha spiegato perché sulle
politiche del lavoro considera Renzi peggiore di Berlusconi. «Berlusconi — ha detto — si è
confrontato, ha avuto scontri e anche accordi: qui siamo di fronte ad un governo che sta
rifiutando di confrontarsi con i sindacati e che ha addirittura cancellato l’articolo 18 e rende
possibili i licenziamenti. Quello che sta facendo il governo Renzi non era mai successo
nella storia del nostro Paese: si mettono in discussione principi della Costituzione, con una
regressione pericolosa e grave». In questa interpretazione dell’azione di un governo
definita «padronale» ci sarebbe proprio la spinta ulteriore all’aggregazione sociale.
Dopo Pasqua ci sarà il secondo appuntamento delle associazioni che porterà a definire
appunto la Carta d’identità. Accanto ai movimenti sociali, Landini dice che c’è un forte
interesse da parte delle organizzazioni del lavoro autonomo: giovani avvocati, i farmacisti
delle para-farmacie, addirittura i notai. Si mescolerebbero così i lavori senza più le
barriere, anche culturali e ideologiche, tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Anche
questa è una novità per la Fiom, sindacato degli impiegati e degli operai metalmeccanici.
Scrive significativamente sul sito della Fiom Gabriele Polo, oggi spin doctor di Landini
dopo essere stato per anni il direttore del Manifesto: «I metalmeccanici della Fiom di
manifestazioni ne hanno fatte tante, ma non ne avevano mai fatta una confederale, così
intenzionata a rappresentare e contrattare tutte le forme del lavoro e, persino, tutti gli
aspetti della vita sociale; coalizzando ciò che è frammentato, cercando gli elementi e i
punti di vista comuni per costruire “un mondo”». È l’ammissione di una Fiom che ha deciso
di scavalcare la Cgil, di farsi confederazione, di diventare Unions, come recitava lo slogan
della manifestazione di sabato. Un altro sindacato, appunto. Una sfida per Landini. Però
«se la sua coalizione sociale — sostiene Giuseppe Berta, bocconiano, storico
dell’industria — non produrrà risultati in un certo periodo di tempo, il tentativo di prendere
la guida dalla Cgil minaccia di andare a vuoto». E questo è il doppio rischio di Landini.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 30/03/2015, pag. 20
Il caso
L’inchiesta della procura di Firenze svela la nuova rotta dei narcos per
portare i loro carichi in Italia
La droga delle ‘ndrine sulle navi da crociera
“L’abbiamo trasportata anche sulla
Concordia”
FRANCESCO VIVIANO
La cocaina della ‘ndrangheta va in crociera. Anche, si sospetta, sulla vecchia Costa
Concordia: «La stessa nave che ci ha fatto fare la figuraccia che in tutto il mondo ci ha
preso per il culo», dicono due boss intercettati dalla Guardia di Finanza che indaga su un
vasto traffico di stupefacenti dal Sud America in Italia. I trafficanti parlano in codice: «Ti
ricordi la “principessa” di che marca era?». Per il Gico e per i pubblici ministeri della
Procura di Firenze titolari dell’indagine che un mese fa ha portato all’arresto di una ventina
di ‘ndranghetisti, l’identificazione con alcune delle più note navi da crociera è evidente.
I criminali «intendevano riferirsi alla Costa Concordia e al famoso naufragio del 13 gennaio
del 2012». L’indagine è relativa a tonnellate di cocaina purissima che viene imbarcata nei
porti sudamericani di Santo Domingo, Perù, Panama e Florida e poi nascosta tra i
rifornimenti alimentari per i croceristi o in capienti borsoni che, con la complicità di alcuni
membri degli equipaggi, vengono sistemati nelle cabine di “turisti”, in genere coppie di
calabresi incensurati in vacanza. È questa la nuova autostrada della cocaina della
‘ndrangheta, preoccupata dei numerosi sequestri di container. Un danno enorme per le
cosche calabresi che da qualche anno hanno diversificato le rotte, imbarcando la loro
“merce” sulle insospettabili navi da crociera, italiane e straniere, in giro per il mondo.
Le navi preferite dalle cosche calabresi erano quelle della Costa Crociere, della Msc e
della Norwegian Cruise Line che battono in lungo ed in largo i mari caraibici fino ad
arrivare in Europa e nel Nord Africa. A svelare che la cocaina andava in crociera sono gli
stessi ‘ndranghetisti che in molte conversazioni telefoniche e via chat parlano delle
partenze e degli arrivi dei loro carichi. Ed è stato ascoltando queste conversazioni che gli
uomini del Gico scoprono tra l’altro che una grossa partita di cocaina (mai trovata) sarebbe
finita, all’insaputa dei comandanti e dei responsabili della compagnia di navigazione,
anche sulla Costa Concordia. «Ti ricordi la “principessa” di che marca era?», chiede un
boss, Michele Rossi, che in chat usa il nickname “Olivia”, mentre il suo interlocutore,
Massimo Tiralongo, utilizza il nome “Giulia”.
E quando “Giulia” risponde di non ricordarsi esattamente il nome della nave sulla quale
era stata imbarcata la cocaina, “Olivia” fa riferimento a quella che ha fatto fare «la
figuraccia all’Italia». Poi i due fanno riferimento anche alla concorrenza della Costa
Crociere, la nave “Famosissima” della “Msc”, partita da Santo Domingo, dove sarebbe
stato caricato un altro grosso quantitativo nascosto in un container che fu sequestrato il 27
ottobre del 2013 nel porto di Genova.
Non è la prima volta che si parla di cocaina ed altri stupefacenti fanno ingresso nelle navi
da crociera. Nel porto di Savona, nel 2008, furono arrestati alcuni marittimi filippini che
portavano droga sulle navi Costa Magica, Europa e Serena scoperti dalla sicurezza della
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compagnia di navigazione e dall’antidroga di Savona. In quel però caso si trattava di
piccole partite di stupefacente spacciata a bordo.
Le nuove rotte e i nuovi mezzi utilizzati dalla ‘ndrangheta per la gestione del traffico di
cocaina adesso non sono più un mistero e la Dea, l’ente antidroga americano, la Guardia
di Finanza e altre polizie europee hanno intensificato le indagini allertando gli armatori.
Una collaborazione che ha portato, l’11 marzo scorso, al sequestro di 7 chili di cocaina ed
all’arresto di cinque membri dell’equipaggio della nave da crociera “Novergian Sun”
mentre stavano imbarcando la polvere bianca nel porto di Tampa, in Florida.
Del 30/03/2015, pag. 21
“Stop agli inchini ai boss i portatori delle
statue saranno estratti a sorte”
Giro di vite in Calabria contro le infiltrazioni mafiose nelle processioni Il
decalogo del vescovo di Mileto in vigore già da domenica
PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO .
Nessuna sosta davanti alle case dei boss. Niente incanto: per stabilire chi porta la statua
non avrà più luogo un’asta nella quale vince chi offre di più, ma un’estrazione dei nomi.
Vigilanza dei parroci sul nuovo sistema. Sono le principali novità introdotte dal vescovo
della diocesi di Mileto-Tropea-Nicotera, Luigi Renzo, relativamente al funzionamento
dell’Affruntata di Sant’Onofrio. «Occorrono segnali concreti di rottura da certi andazzi
impropri», recita il regolamento emanato, che invita «ad affidare ai giovani che
frequentano la parrocchia e sono veramente impegnati in un cammino di fede la possibilità
di portare le statue, rendendoli protagonisti anche nell’organizzazione». E ancora, si deve
rinunciare «a certi pretesi privilegi », in modo da offrire una vera collaborazione ai parroci
per l’esecuzione delle direttive diocesane.
La Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina. La Madonna della Montagna di Polsi.
L’Addolorata dell’Affruntata nel Vibonese. Sono alcune delle processioni e dei riti religiosi
che spesso sono stati utilizzati dalla ‘ndrangheta calabrese per manifestare il proprio
potere sul territorio. La scorsa estate l’ultimo “inchino”, in quel di Oppido, scatenò
polemiche a non finire e un’inchiesta dalla Direzione distrettuale antimafia. Insieme, si aprì
un dibattito all’interno della Chiesa calabrese i cui frutti sono maturati in questi giorni.
Per l’Affruntata, tradizionale e sentita cerimonia religiosa che simula la trasmissione del
messaggio della resurrezione di Gesù Cristo tra la Madonna e San Giovanni, monsignor
Renzo ha scelto un deciso cambio di rotta che si manifesta, fra le tante norme, con quella
che vieta espressamente di «girare o sostare con le sacre immagini davanti a case o
persone, tranne che si tratti di ospedali, case di cura, ammalati». E ancora, ecco le nuove
regole sui portatori delle statue: sono stati scelti per estrazione da un elenco di prenotati il
giorno della Domenica delle Palme, e cioè ieri. Toccherà ai parroci, in collaborazione con il
comitato festa, vigilare sulla scelta dei portatori. In ogni caso non saranno ammesse
«persone aderenti ad associazioni condannate dalla Chiesa, che siano sotto processo in
corso per associazione mafiosa o che siano incorse in condanna per mafia, senza prima
aver dato segni pubblici di pentimento e di ravvedimento ». Il vescovo Renzo chiede ai
fedeli di avere coraggio. E cioè di non lasciarsi «espropriare di ciò che appartiene al loro
patrimonio religioso più genuino, lasciandolo in mano a gente senza scrupolo, che non ha
nulla di cristiano ed anzi persegue una ”religione capovolta”, offensiva del vero
37
cristianesimo popolare». Il regolamento è stato elaborato da una commissione costituita
nella scorsa estate, dopo essere stato discusso e approvato dal consiglio presbiterale
nella seduta del 12 febbraio 2015. Con esso monsignor Renzo ribadisce le proprie
prerogative di autonomia ed indipendenza rispetto alle ingerenze della criminalità
organizzata, ma non solo.
Con l’articolo 3 del punto “D — Adempimenti Canonici e civili”, il documento sembra,
infatti, voler limitare anche l’invadenza delle istituzioni dello Stato, che in passato, avevano
chiesto di conoscere preventivamente l’elenco dei portatori delle statue. A tal riguardo, si
afferma, che una tale eventualità «pur nello spirito di una opportuna e saggia
collaborazione di massima, non trova fondamento nel vigente sistema normativo dello
Stato italiano», anzi, in virtù dell’Accordo Stato- Chiesa del 1984 a quest’ultima è garantita
«la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e
del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». In sostanza,
con le disposizioni contenute nel nuovo regolamento, la diocesi sembra voler comunicare
sia allo Stato sia all’anti-Stato il medesimo concetto: le processioni, pur riviste ed epurate
dalle pretese della ’ndrangheta, non si toccano.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 30/03/15, pag. 23
Banlieue d’Italia
Livorno, Cremona e La Spezia: qui l’integrazione è più difficile Male
anche l’Emilia Romagna «Di fronte ai migranti è chiusa»
Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera». Alla
faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne.
Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati
nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo). E hanno
infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da
mille manine solerti. Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo:
«Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo. Città di mare a misura
d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di
provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei
comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio
di pesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia. Ecco dunque l’ultima
graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in
considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio
banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il
capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo
metropolitano miope ed egoista.
Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con
un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto. Incrociando indicatori come
il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il
differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i
livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale,
integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborandone i
valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media
d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123.
Napoli a 76,7. Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3. La classifica delinea picchi di
mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. Il modello emiliano e
la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui
chiediamo di commentare la ricerca.
«Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a
Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel
gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma
c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare
l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine
all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione,
questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come
Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele
felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque.
«Queste città sono molto “densificate” — spiega Abis — molto legate alla cultura
d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il
fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione
39
già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano,
con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
«Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle
donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud
si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i
poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a
Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste». Al
centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa
Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi
di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte
incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale). «La ricerca è
fatta bene e prende anche le “isole” — sostiene De Masi — nessuna microarea può dirsi
immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche.
L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché
abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i
ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici
cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto».
Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici
delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino
al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la
inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere,
prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta
De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. Spesa
pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli
guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognarsi
della loro patria.
Goffredo Buccini
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WELFARE E SOCIETA’
Del 30/03/2015, pag. 4
La marijuana è made in Italy
Visto da fuori sembra un istituto tecnico per l’agricoltura: quattro file di persiane rosse, due
piccole serre e le papere che attraversano il vialetto pedonale. L’unico indizio per capire
che in questo edificio c’è la più avanzata piantagione di cannabis d’Europa è il grande
cartello bianco che campeggia sul portone di ingresso: “Area videosorvegliata”. Siamo al
Cra-Cin di Rovigo, Centro di ricerca per le colture industriali. Un chilometro più a sud c’è la
stazione dei treni del capoluogo, poco più a ovest l’autostrada. All’interno, oltre
cinquecento piante di cannabis di un centinaio di varietà differenti. Qui, lo scorso 20
marzo, un furgoncino dell’Esercito ha prelevato le prime 80 piante destinate allo
Stabilimento farmaceutico militare di Firenze dove sta partendo la prima produzione
italiana di cannabis a scopo terapeutico. Ma quello che si produce in Toscana è stato
studiato, selezionato e coltivato a Rovigo. “Qui abbiamo gli ingegneri che da anni
progettano un’automobile, a Firenze è sorta la prima fabbrica”, spiega un funzionario del
ministero dell’Agricoltura. Quelle piante clonate Nelle quattro stanze adibite alla
coltivazione le finestre sono sbarrate, ma la luce è intensa e l’odore inconfondibile. La
filiera comincia con un cubetto di lana di roccia poco più grande di un dado: qui vengono
impiantate le talee, piccoli rami di cannabis che metteranno radici fino a diventare
autosufficienti. Per assicurare la stabilità genetica necessaria alla produzione
farmaceutica, le piante non seguono il ciclo di riproduzione naturale, ma vengono clonate.
I “segreti” per una produzione perfettamente standardizzata, requisito fondamentale per un
prodotto farmaceutico, sono un ambiente sterile, 18 ore di luce al giorno, temperatura e
umidità costanti. Solo così si riescono ad assicurare fino a quattro cicli di produzione
all’anno, equivalenti a un raccolto di 150 grammi per pianta. L’obiettivo è massimizzare la
resa con il minimo sforzo, benché quasi tutti gli strumenti utilizzati si possano reperire in
un negozio Leroy Merlin e altri siano addirittura artigianali, come le mezze bottiglie di
plastica che coprono le piante per mantenere alta l’umidità. La sensazione di essere in un
laboratorio professionale sorge solo guardando i dodici armadi in plastica riflettente:
servono a capire quale sia la luce migliore per la crescita. Ognuno contiene una pianta e
una lampada diversa: blu, rossa, al neon e una al led capace di produrre tanta luce quanto
il sole, ma senza calore. Un campione di ogni produzione viene portato al piano inferiore,
dove viene testato il contenuto di cannabinoidi. Il risultato è una linea ondulata simile a un
encefalogramma: l’ampiezza di picchi e curve decreterà qual è la cannabis “giusta” per
alleviare il dolore, quale quella per ridurre gli spasmi muscolari. Dimenticatevi i nomi
pittoreschi e un po ’ hippie sui menu dei coffee shop di Amseterdam: qui non si produce
nessuna vedova bianca, bubblegum o grandine viola. La varietà destinata a Firenze,
quella che combina nel giusto gradiente i due principi attivi curativi (il Thc responsabile
dello sballo e il Cbd), si chiamerà CinRo: Colture industriali di Rovigo. Seguiranno per altre
patologie il CinBo e il CinFe, in omaggio a Bologna e Ferrara. A selezionare ogni varietà,
dopo una sperimentazione che dura più anni, è il primo ricercartore Giampaolo Grassi.
Anche lui, come i nomi della “sua” cannabis, non tradisce alcuna fascinazione fricchettona:
giacca blu, camicia e un marcato accento ferrarese. Eppure è stato lui, da quando nel
2002 ha cominciato a condurre la sede di Rovigo, a introdurre la prima coltivazione per fini
di ricerca della cannabis in Italia. In realta si tratta di una coltura di ritorno: “Da piccolo
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passavo le giornate a giocare tra le piante di canapa da fibra”. Canapa, eravamo secondi
al mondo Prima di Grassi a Rovigo si studiava solo la barbabietola da zucchero, la pianta
che nell’Ottocento aveva portato le prime industrie in Romagna e nel basso Veneto, ma
oramai in declino. Proprio la barbietola aveva soppiantato la secolare produzione di
canapa da fibra (della stessa famiglia dell’indica, quella psicotropa, ma senza Thc) di cui
l’Italia era la seconda produttrice al mondo e che veniva impiegata per costruire le vele
delle navi. Tra le peculiarità del centro c’è una banca del seme con oltre 300 varietà e 2
mila incroci. “Ogni volta che un amico va a fare un viaggio all’estero me ne porta uno. È
legale perché non contengono Thc”. I centri come questo nel mondo si possono contare
sulle dita di una mano. Per questo, quando l’industria farmaceutica inglese GW inizia a
sperimentare i primi farmaci a base di cannabis, il suo ricercatore va a confrontarsi con
Grassi. E lo stesso hanno provato a fare il governo uruguagio e i produttori del Colorado
dopo le legalizzazioni. Eppure, nessuna delle varietà isolate a Rovigo è stata “brevettata”.
La ragione? Burocratica: “Per legge non possiamo trasportare il materiale fino alla sede
olandese”, dove ne verrebbe riconosciuta l ’ unicità. Si è deciso di produrre cannabis a
Firenze perché l’Olanda, unico paese autorizzato a esportare, è rimasta a corto della
principale varietà usata per scopi medici, il Bedrocan. I fondatori dell’azienda omonima
hanno iniziato rifornendo i coffee shop. Oltre a sopperire in modo costante alla domanda,
quando entro fine anno la produzione a Firenze sarà a regime si potranno produrre un
quintale di inflorescenze l’anno. Nel 2014 sono stati importati in Italia “solamente” 25 chili,
ma la lista dei pazienti in attesa è lunga e la domanda crescita. Anche sul fronte
economico si prospettano risparmi che giustificheranno il milione di euro investito nello
stabilimento fiorentino. Oggi un paziente curato con il Sativex – l’unico farmaco a base di
cannabinoidi in commercio – spende 726 euro al mese rimborsati dal servizio sanitario
nazionale. I residenti nelle undici regioni italiane che hanno recepito il decreto Balduzzi del
2013, dove è quindi possibile curarsi con i fiori di cannabis, spendono 15 euro al grammo
nelle farmacie ospedaliere. Se, come spesso accade, il prodotto non è disponibile,
possono rivolgersi alle farmacie private, dove però il prezzo sale, per un’imposizione di
legge, fino a 35-40 euro al grammo. “Con la produzione in Italia abbiamo previsto
significativi risparmi”, fa sapere l’Agenzia industrie difesa che gestisce l’impianto fiorentino.
“Contiamo di dimezzare i costi al grammo”, gli fa eco l’Ufficio centrale stupefacenti. Per
risparmiare però basterebbe migliorare la somministrazione. “Conosco malati pugliesi che
assumono 4 grammi al giorno perché nessuno ha loro spiegato come preparare il decotto
necessario ad assimilarla. Ai miei pazienti bastano 30 milligrammi, meno dell’ 1 %”, spiega
Paolo Poli, primario dell’Unità di terapia del dolore dell’ospedale di Pisa. Nonostante
inizialmente fosse “molto scettico”, oggi tratta con cannabis oltre 500 pazienti affetti da
varie patologie: cefalee, fibromialgia, sla, malattie reumatiche. La lista di problemi è però
lunga: farmacie ospedaliere che non predosano il prodotto costringendo i pazienti a
prenderlo a cucchiaini, medici di base che non sanno di poterla somministrare e tempi di
attesa medi di sei mesi. Per risolvere queste difficoltà il governo ha scelto Firenze. Ma
dove finisce la cannabis di Rovigo? Gli 80 chili prodotti negli ultimi mesi sono stivati dietro
una porta blindata dentro a dei sacchi neri. La legge sugli stupefacenti 309 / 90 darebbe la
possibilità al ministero della Salute di cedere le giacenze a farmacie e centri di ricerca, ma
non è mai stato fatto. Negli ultimi due anni si è preferito spendere 600 mila euro per
importare 43 chili di cannabis dall’Olanda. Tra un paio di settimane un camion per trasporti
speciali, di quelli usati per esplosivi e materiale radioattivo, andrà a ritirare i sacchi e li
porterà all’inceneritore. Ad accompagnarlo, oltre a Grassi, ci saranno due finanzieri: la
legge impone che assistano personalmente alla distruzione. E mentre il raccolto di Rovigo
andrà in fumo, migliaia di pazienti continueranno ad aspettare che lo stabilimento di
Firenze entri a regime.
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Del 30/03/2015, pag. 5
Quel fumo che sballa ma aiuta contro Sla
Alzheimer e glaucoma
C’è chi la fuma alla sera per rilassarsi e chi per alleviare il dolore. Chi la equipara alle
droghe pesanti e chi, invece, vorrebbe legalizzarla. Quando si parla di cannabis, la verità
oggettiva tende a sciogliersi come “fumo” scaldato, per lasciare spazio a partiti, ideologie,
schiere di tifosi. Eppure esiste un’ampia letteratura scientifica su una sostanza
antichissima, le cui prime tracce risalgono addirittura al Neolitico. A cominciare da un dato.
In Italia il 32, 1 % delle persone tra i 15 e i 64 anni ha fatto uso di cannabis almeno una
volta nella vita (dati EMCDDA), mentre cresce il consumo tra i giovanissimi: 1 su 4 sotto i
19 anni fuma regolarmente spinelli, secondo l’ultima relazione parlamentare sulle
tossicodipendenze. Chissà, forse anche perché – secondo gli esperti – i produttori
avrebbero cominciato a tagliarla con sostanze che favoriscono la dipendenza. Molti la
fumano, ma in pochi conoscono fino in fondo i suoi effetti tossicologici e comportamentali.
“Le prime sensazioni che si manifestano sono di euforia, divertimento, senso di
rilassatezza – anche se a volte possono essere accompagnate da senso di nausea e
vomito, tachicardia, aumento di fame e sete. E, in casi estremi, attacchi di panico, specie
con i cannabinoidi sintetici”. Edoardo Polidori, direttore del Servizio tossicodipendenze
dell’Usl di Forlì, descrive così il primo approccio con la sostanza, che deve la propria fama
al suo maggiore principio attivo: il delta-9-tetraidrocannabinolo, meglio conosciuto come
THC. “Si ritrova per il 5-6 % nelle foglie di marijuana e, in dosi decisamente più
concentrate, nella resina o hashish, dove sfiora il 20 %, aumentando il rischio di reazioni
psichiche negative” precisa Rinaldo Ca-nepa, medico del Sert di Genova, specialista in
tossicologia. Tra queste, le più diffuse sono una minore capacità di concentrazione e una
riduzione della memoria a breve termine. Gli effetti psicoattivi della canapa scompaiono
nel giro di qualche ora, ma le tracce nell’organismo possono rimanere anche per due-tre
settimane. Ma quali sono i rischi per chi fa uso di questa sostanza? I fattori in gioco sono
tanti, dalla frequenza degli spinelli all’età e allo stato di salute del consumatore. “Dal punto
di vista medico, fumare una canna al mese a 40 o 50 anni non comporta alcun rischio
particolare – assicura Polidori – Le cose si complicano se a farlo è un ragazzino di 13 o 14
anni, il cui equilibrio psichico è fragile e in costruzione e può andare incontro anche a
episodi di psicosi”. Ma – come sottolinea Canepa – “Ad oggi non sono stati riscontrati
rapporti diretti tra l’uso di cannabinoidi e l’insorgere di malattie particolari”. Di più, gli fa eco
Polidori. “Non esiste alcun caso di morte accertata per uso di cannabis, a differenza di
quanto avviene per sostanze legali come alcool e nicotina”. Anche in virtù di questi dati,
negli ultimi anni il confine tra droga e farmaco è diventato sempre più sottile. Se in Italia
l’uso terapeutico della cannabis è legale dal 1997, dall’anno scorso l ’ accesso ai farmaci è
diventato più semplice grazie a un decreto legge applicato in numerose regioni italiane.
Ma la comunità scientifica resta divisa. Per Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche
farmacologiche Mario Negri di Milano, “ben venga, se serve per alleviare i sintomi dei
pazienti, anche se oggi non ci sono abbastanza prove per attestare che i benefici siano
superiori agli effetti tossici”. Studi definitivi ancora non ce ne sono, in un Paese che paga
dazio a un ritardo culturale sull’argomento. “La battaglia più difficile – spiega Polidori – è
sradicare il pregiudizio nella testa delle persone, di fronte a una sostanza che ha
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dimostrato di essere efficace contro il glaucoma, oltre a un potente stimolatore
dell’appetito per malati in stato terminale”. E ricerche più recenti si sono concentrate sui
suoi possibili benefici nella cura dell’Alzheimer e come anti-spastico per i casi di SLA.
Mentre molte regioni stanno aprendo all’uso medico della canapa e in Parlamento è pronta
una proposta di legge per la sua legalizzazione, un compromesso, secondo Canepa, è
possibile solo sgombrando il campo da ogni tipo di questione ideologica o commerciale.
“L’atteggiamento di certi sostenitori fanatici rischia di far perdere di vista le vere proprietà
del farmaco, che richiedono un approccio scientifico”. L’ultima parola spetta ai medici,
perché anche il dibattito sulla cannabis non si riduca all’ennesima battaglia ideologica tra
opposte fazioni.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 30/03/2015, pag. 43
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito
internazionale iniziato in America
Perché Dio è tornato sulla scena
ROBERTO ESPOSITO
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare
le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi
costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la
rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata.
Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da
qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva
fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione,
si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo
Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è
tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo
segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una
ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire
uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare
fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il
cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in
più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera
privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di
assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro
del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon
Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of
Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di
Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in
Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti. Da Habermas
a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella
società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a
moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro
che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod,
che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato
causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime
conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese
implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo
laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il
primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filooccidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale
Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha
trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo
Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità
attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul
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comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione,
le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale.
Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In
questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie,
hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed
interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una
tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella
individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a
fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni
univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden.
Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare
meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino. E dunque, problema
risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica
la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società
occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una
serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà
diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei
Paesi occidentali. Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con
lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che
riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia – tutte
contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra
profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di
legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una
funzione di supplenza. Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto
dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini,
l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato
globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito
– si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col
titolo Bonds (Fink) – la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di
teologia politica, ma di politica della teologia.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 30/03/2015, pag. 31
Lo psicologo da bestseller Peter Gray “Giocare all’aria aperta li rende
più creativi”
Il tempo (libero) perduto dei bambini “Ecco
come liberarli dallo smartphone”
VERA SCHIAVAZZI
ARRAMPICARSI su un albero, giocare alla caccia al tesoro con gli amici, fare una gara di
corsa e gettarsi nel fango. Il tutto prima dei dodici anni, e non solo perché lo consiglia il
National Trust inglese né perché può sembrare romantico, ma per diventare più creativi e
imparare a affrontare la vita con più coraggio e autonomia di chi ha passato un’infanzia tra
videogiochi e playstation, senza mai incontrare bambini sconosciuti o sfuggire alla
sorveglianza dei genitori. Peter Gray, psicologo e biologo al Boston College, studia da
anni gli indici di creatività dei ragazzini americani, constatandone il progressivo precipitare
nella banalità. Tra il 1985 e il 2008, le risposte date al Test di Torrance, applicato nelle
scuole americane, hanno fatto scendere l’85 per cento dei ragazzi intervistati sotto la
media dei loro predecessori: non sono più capaci di fornire tante risposte (Fluency), né di
darne di non scontate (Originality), né di trarre spunto da elementi diversi (Flexibility). In
altre parole, non sono più in grado di avere un’elaborazione creativa. E, di conseguenza,
diventeranno più difficilmente imprenditori, inventori, presidi di college, scrittori, dottori,
diplomatici o sviluppatori di software. Ora Gray, nel suo saggio (“Lasciateli giocare”, per
Einaudi, in libreria da domani) che è già un bestseller in Usa, suggerisce a genitori e
insegnanti di rivoluzionare i propri pensieri educativi. In casa, in giardino, in vacanza, i
bambini non dovrebbero essere vigilati da vicino né indotti a partecipare (sempre) a sport
rigidamente organizzati. Meglio spogliarsi, dipingersi, giocare con un giornale o perfino
fare a gara a chi si rinchiude meglio nell’armadio, sfidando la paura. Anche la disciplina
scolastica rigida non è necessaria, come dimostrano i casi delle scuole più liberal (la
Sydbury valley school del Massachussets, per esempio, dove sono gli allievi a decidere
liberamente come e quando imparare a scrivere, fare di conto e adoperare un computer).
Una denuncia dura, quella di Gray: «Privare i bambini del diritto al gioco è sbagliato, ed è
ora di smetterla». Ma anche in Italia mamma, papà, scuola e amministrazioni civiche non
sembrano essere sulla strada giusta. Solo il 6 per cento dei bambini, come spiega l’ultimo
rapporto di Save the Children, ha diritto a scendere in strada da solo e solo il 25 per cento
può giocare in cortile. Il 37 per cento dei piccoli, 3 milioni e 700 mila, cresce in città. Il 51,6
vive in famiglie che non possono prevedere neppure una settimana di vacanza, il 47 per
cento non legge un libro all’anno. Perfino giocare a calcio è difficile per i piccoli italiani, e
per chi arriva da una famiglia straniera ancora di più: proibito negli spazi condominiali e in
molti giardini urbani, si può fare nelle società sportive, ma con costi e orari che rendono lo
sport nazionale accessibile solo a due bambini su 10.
In questo modo però, cancellando dalla pratica infantile ogni abilità ereditata dai
cacciatoriraccoglitori, cioè dai nostri antenati, non li si rende solo più tristi, ma anche più
depressi, aggressivi e convinti di non riuscire neppure a superare l’ora di educazione fisica
a scuola. Sicilia, Calabria e Campania solo in fanalino di coda per gli spazi di gioco
collettivi, mentre solo a Bolzano, in Valle d’Aosta e in Toscana è possibile correre liberi nel
verde, almeno durante il weekend. Alle difficoltà logistiche va aggiunta la paura dei
genitori, che temono sopra ogni altra cosa un ginocchio sbucciato da una caduta, la
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tendenza a spogliarsi e rivestirsi incuranti della temperatura e i pericoli che potrebbero
arrivare ai fratelli più piccoli giocando con i maggiori, «Ma — avvisa Gray — così facendo
si impedisce loro di imitare gli adulti, di cantare una canzone e di inventarne una nuova, di
gestire la dose di paura che possono sopportare e di essere quindi incapaci di accogliere
quelle che arriveranno dopo, a scuola o nello sport».
Proteggerli, privarli dell’altalena o del pallone, difenderli furiosamente da qualunque
sostanza possa sporcarli o contaminarli (dai piccioni alle cartacce agli animali domestici,
fino ai giornali e al gelato, senza dimenticare il terrore degli insetti) e consegnare loro una
tastiera di qualsiasi genere non vuole dire amarli, ma farli diventare ansiosi e
disinteressati. Con la vita, e la scuola, percepire come una lunga serie di ostacoli.
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