ossier - Missioni Consolata
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ossier - Missioni Consolata
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art , comma 1, NO/TORINO EDITORIALE Ai lettori di Gigi Anataloni SULLE STRADE DELL’UOMO «A ndando annunciate» (Mt 10,7) ha detto Gesù ai suoi discepoli. Due verbi essenziali e dinamici. Andare: è movimento, passaggio, esodo, direzione. Annunciare: è comunicare... anche con le parole, è testimoniare con i fatti, è realizzare con le azioni, è relazionarsi e interagire con chi si incontra, con i compagni di viaggio. Andare è spezzare la solitudine e uscire da sé; annunciare è creare comunione e relazioni nuove. Andare è sconfiggere l’intimismo, la paura degli altri, la diffidenza che fa innalzare barriere. Annunciare è costruire ponti, creare legami, abbattere i muri di silenzio e ignoranza. Andare accorcia le distanze; annunciare colora il mondo di vita. Ricordo una storia raccolta da un missionario in terra d’Africa. La sintetizzo. Un padre manda i suoi due figli a scoprire il mondo con una raccomandazione: «Andando lasciate segni del vostro passaggio». I due partono. Il primo si affanna a marchiare tronchi e rocce, a far cumuli di pietre. Il secondo non muove un dito godendosi il paesaggio e la sera, arrivati in un villaggio, saluta, chiacchiera, beve, fa festa e conosce tutti. Così per giorni. Tornati dal padre raccontano tutto, e questi si mette subito in strada per ripercorrere il cammino coi figli. Il primo lo invita a notare i suoi inconfondibili segni biasimando la pigrizia del fratello. Il pigro è accolto ogni sera con grande festa ovunque si fermino a dormire: invitato a cenare nelle famiglie con i suoi compagni, si trova anche una sposa (da cui avrà tanti bei figli «cioccolatini») con la benedizione del padre. Lascio a voi indovinare chi ha davvero capito la raccomandazione iniziale. Ci sono dunque due modi di «lasciare segni» viaggiando nel mondo. C’è chi va in giro per i propri interessi e lascia segni di distruzione, indifferenza, sfruttamento e orgoglio. Questi vanno in cerca dei luoghi migliori per fare affari, dei paradisi fiscali per frodare il fisco, delle aree ricche di risorse naturali ancora intoccate, dei campi adatti per coltivazioni estensive per il biodiesel, dei paesi dove la manodopera locale si può ancora sfruttare, dei focolai di guerra per vendere sempre più armi. Purché si possano fare soldi, leciti o illeciti, si arriva ovunque: traffico di persone, prostituzione, gioco d’azzardo, sfruttamento di risorse, affossamento di rifiuti pericolosi, costruzioni di enormi bacini idroelettrici, acquisizione di grandi estensioni di terre, libere o meno... e chi più ne ha più ne metta. Anche certo turismo rientra in questa categoria: vado dove ho voglia, spendo bene i miei soldi e mi diverto, faccio esperienze uniche in «isole felici», prendo tutto quello che posso senza lasciarmi coinvolgere più di tanto dalle situazioni locali. Importante è aver belle foto da mostrare agli amici. C’è chi invece viaggia seguendo il filo rosso dell’amore e della gratuità. Si va per conoscere e condividere, per costruire e guarire, per abbattere barriere e gettare ponti. Si va per gioire delle meraviglie che Dio opera nel cuore degli uomini, per portare amore dove c’è odio, pace dove impera la violenza. Si va per scoprire le tracce di Dio nel volto degli uomini, per rinnovare i legami profondi che uniscono tutta la famiglia umana, per condividere la buona notizia che Dio in Gesù ama gli uomini, ogni uomo, con preferenza per i piccoli, i poveri, gli oppressi. T roppo idealista il secondo approccio? Forse. Ma certo ci sono moltissime persone nel mondo che pagano di persona per questo, senza averne un tornaconto personale. Mentre scrivo è appena stato liberato Domenico Quirico, giornalista amante della verità, dopo 150 giorni di prigionia in Siria, anche se non si sa ancora niente di padre Paolo Dall’Oglio in missione di pace e riconciliazione (vedi l’articolo a pag. 16). Papa Francesco è uno di questi viaggiatori che esce da sé, dal ruolo e dalle formalità per farsi incontro agli altri, per farsi carico dei drammi di ogni persona, per gridare che la guerra non è mai una soluzione (come sta facendo in questi giorni - speriamo ascoltato - per la Siria). E con lui tanti altri viaggiatori di pace e di amore, fanti sconosciuti e umili, missionari e volontari, religiosi e semplici cristiani, che si spendono per lasciare tracce d’amore sulle strade dell’uomo: segni indelebili nel cuore di ciascuno. Lo possiamo essere anche noi, io e te. OTTOBRE 2013 MC 3 SOMMARIO 10 | OTTOBRE 2013 | ANNO 115 9 Il numero è stato chiuso in redazione il 12 Settembre 2013. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 30 Settembre 2013. 3 Ai lettori SULLE STRADE DELL’UOMO di Gigi Anataloni OSSIER 5 Dai lettori CARI MISSIONARI (lettere a MC) 35 ARTICOLI 9 Italia UN UOMO FATTO PAROLA 16 a cura di Gigi Anataloni 16 Siria ’Īsā E MOHAMMED SPUNTI PER UNA «NUOVA EVANGELIZZAZIONE» IN EUROPA (INTERVISTA A P. DALL’OGLIO) di Daniele Biella 21 Brasile / Roraima IL BIANCO CHE SI FECE YANOMAMI di Paolo Moiola L’INDIFFERENZA E IL VANGELO 21 DI 26 Centrafrica IL CUORE (MALATO) DEL CONTINENTE RUBRICHE di Marco Bello 51 Perù PURUS: SENZA USCITA 7 Chiesa nel mondo di M.Piovesan e F.G.Hernández 55 Libertà Religiosa - 13 PER «TUTELARE DIO» ANTONIO ROVELLI di Sergio Frassetto 26 32 «Così sta scritto» di Stefano Vecchia di Paolo Farinella 59 Cooperando NON GIOCHIAMO AL «CATTIVO SELVAGGIO» amico 65 L’inserto giovane a cura di Luca Lorusso di Chiara Giovetti 63 4 Chiacchiere con di Mario Bandera IN COPERTINA: Giovane adulto Yanomami ornato per una grande festa (Foto: Guglielmo Damioli) STRUMENTO DI FORMAZIONE MISSIONARIA Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC OTTOBRE 2013 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri LAMPEDUSA: SFINTERE DELL’AFRICA Signor Direttore, i cittadini italiani non si assumono alcuna responsabilità per gli ennesimi Africani affogati nel Canale di Sicilia. Quei morti siano sulla coscienza degli «Alti» fautori dell’«accoglienza», di quei partiti e di quei politici, come la Kyenge del Pd e la Laura Boldrini di Sel, che con i loro proclami farisaici continuano a spingere i più poveri verso l’illusione del nostro benessere. Se fuggono dall’Africa lo addebitiamo pure a chi ha voluto chiudere l’era coloniale, mettendo popolazioni intere in mano a politici africani inetti e incompetenti, quando non si dimostrano ladri e criminali, solo per permettere a governi occidentali e orientali di continuare a derubare l’Africa delle sue ricchezze minerarie e delle sue terre più produttive. Distinti saluti. Giorgio Rapanelli Corridonia (Mc) 28/07/2013 Egregio Signor Giorgio, anche se parla a nome degli italiani, non me la sento proprio di concordare con lei. Quei morti stanno sulla nostra coscienza come uomini, come europei e come italiani. Forse le farebbe bene un viaggio in quelle terre, ma non di quelli con le agenzie «tutto compreso», per capire che gli emigranti non sono attirati nel nostro paese dai proclami dei partiti e dei politici, ma sono costretti alla fuga da povertà, ingiustizie e violenze. Vorrei dire che forse sono in- gannati anche dai nostri (del nostro mondo ricco) film, programmi televisivi, «soap opera» che colonizzano le loro televisioni. E forse sono attirati dalla nostra pace, quella che godiamo da quasi settant’anni, mentre da loro c’è guerra, fame, violenza. E c’è poi il nostro bisogno di loro per fare i lavori (sottopagati) che noi non vogliamo più fare, quelli sporchi, di notte, senza ferie, malpagati. Inoltre quei «governi occidentali e orientali» che continuano a derubare l’Africa, sono i nostri governi, che noi abbiamo eletto, siano essi di destra o sinistra. E con i nostri governi e le nostre industrie, siamo noi che continuiamo a rubare, perché abbiamo legittimato lo spreco e il superfluo. Vivere di spreco e superfluo, come facciamo noi (almeno fino a che la crisi non ci ha obbligati a diventare più sobri), significa accettare l’ingiustizia come sistema. La cosa buffa - che poi buffa non è - è che lo stesso sistema responsabile della morte degli «ennesimi» clandestini (bello il termine «clandestini», così anonimamente malvagio che ci fa sentire buoni e rispettosi della legge!), è lo stesso che cavalca la crisi che fa lievitare i prezzi, aumentare il debito, chiudere le fabbriche e trasferirle all’estero (dove si possono sfacciatamente sfruttare i lavoratori), rendere impossibile il lavoro ai giovani e aumentare il numero dei senza casa. Per questo non possiamo lavarci le mani, dire non ci riguarda e dare la colpa a chissà chi. Ci siamo dentro. La verità è che non sono le migliaia di persone in cerca di pace, lavoro e dignità in fuga dai loro inferni verso il nostro presunto paradiso, la causa dei nostri guai, della nostra insicurezza, della violenza, dei furti. Essi sono il sintomo di una malattia profonda di tutta l’umanità che ha messo al centro della sua vita non più il rispetto della legge di Dio ma quella del dio denaro. E la cura non è certo quella di insultare la signora Cécile Kyenge e le persone come lei. GRAZIE Sono la sorella di p. Aldo Giuliani e voglio ringraziare di cuore per l’invio della rivista di maggio dove c’era il bellissimo articolo su Sererit dove vive mio fra- tello. Sono stata in quei posti nel 1981, l’anno che mancò in situazione tragica (anche per mio fratello) il nostro carissimo amico e paesano p. Luigi Graiff. Pur essendo un brutto triste periodo abbiamo fatto una bellissima esperienza. Dovrebbero provarla tante persone: vale molto per la vita in special modo per la nostra gioventù. Vi ringrazio nuovamente per l’immenso regalo prezioso inviatomi. Complimenti per la semplicità e chiarezza nello spiegare la storia della missione e il personaggio di mio fratello... È un uomo burbero ma di un grande ma grande cuore missionario. Un ricordo nelle preghiere, di cui abbiamo tanto bisogno sia per motivi di salute che per le nostre famiglie. Con affetto Gianna Giuliani Romeno (Tn), 24/07/2013 Per me è stata una gioia raccontare di padre Aldo. Se lo merita. Come cuore è davvero imbattibile. Quanto alla preghiera, stia tranquilla. I nostri famigliari sono sempre nella nostra preghiera e poi abbiamo la promessa dell’Allamano il quale ci ha assicurato che a essi pensa la Madonna Consolata di persona. OTTOBRE 2013 MC 5 [email protected] [email protected] DECRESCITA Tutte le volte che ho ascoltato i nostalgici della crescita e i fautori della decrescita, le argomenta- zioni portate dai primi mi sono sembrate meno convincenti di quelle portate dai secondi. Il dossier di M.C. di Luglio non ha fatto eccezione a questa regola: come ci si può lamentare della crisi del Pil e dell’occupazione nelle grandi aziende (quelle sulla cui produttività è basato, in larga parte, il calcolo del Pil) quando ci sono tanti indicatori che ci raccontano una storia ben diversa? Perché per esempio, stracciarsi le vesti se si vendono meno auto, se si fa un uso più limitato e accorto dei mezzi motorizzati (l’Italia, non va dimenticato, è ai primissimi posti nel mondo per parco veicolare e numero di autovetture pro capite), se si consuma meno carburante, se ci sono meno sinistri, se si muore di meno sulle strade? Perché vivere come un incubo l’eventualità che Marchionne lasci il nostro paese? Casomai bisogna augurarsi che Fiat non ripeta all’estero gli errori commessi in Italia, e che le nuove frontiere dell’indu- 6 MC OTTOBRE 2013 stria automobilistica non cadano nella trappola dell’Agnelli-dipendenza in cui sono caduti tanti italiani. Anche il ridimensionamento di un’altra grande industria, quella del calcio, è un fenomeno con ricadute tutt’altro che negative. È un bene o un male che gli Italiani giochino meno schedine e che la Tv di stato spenda meno per i diritti sulle partite? È un bene o un male che gli stadi siano meno affollati e che i bagarini non facciano più gli «affari» di un tempo, e che per gli abbonamenti non vengano più dilapidati i patrimoni di prima? È un bene o un male che i presidenti di alcune società gestiscano con più oculatezza ciò che incassano? Possiamo definire disfattista e antipatriottico chi prende atto con soddisfazione che gli allenatori siedono un po’ più a lungo sulle panchine? Possiamo ragionevolmente e cristianamente considerare recessivo il minore spreco alimentare, nefasta la minor produzione di rifiuti, e deprimente il minor ricorso alle vie legali nelle situazioni difficili all’interno delle coppie? Possiamo affermare che è esiziale per l’economia che cali la fiducia verso il mondo degli avvocati, dei giudici, dei periti di parte e dei tribunali mentre aumenta quella verso la mediazione familiare finalizzata non al divorzio, al pendolarismo affettivo e alla dilatazione patologica dei nuclei familiari, (quelli che l’antilingua pretende di ribattezzare «famiglie allargate») ma al risanamento spirituale, alla riconciliazione e alla pace? Possiamo non rallegrarci per il fatto che la diminuita propensione ad abitare ognuno per conto proprio ha contribuito alla riduzione della domanda di alloggi? Possiamo continuare a raccontarci la balla che i giovani che vanno a cercare lavoro e fortuna lontano da casa sono tutti bravi, talentuosi e coraggiosi mentre quelli che amano o comunque accettano serenamente le occupazioni domestiche, quelli che fanno la spesa, cucinano, lavano, stirano, curano l’orto e il giardino, si occupano a tempo pieno di figli, nipoti e anziani, sono tutti bamboccioni? Perché piangere le migliaia di aziende fallite e le centinaia di migliaia di posti di lavoro persi nell’edilizia e nell’arredamento e non esultare per il drastico calo degli infortuni sul lavoro, per l’altrettanto indiscutibile calo delle morti bianche, per il +9% di occupazione giovanile in agricoltura, per il dietrofront di alcune amministrazioni locali che, per impedire ulteriori devastanti cementificazioni in un paese sempre più a rischio idrogeologico, hanno declassato ma sarebbe più giusto parlare di riqualificazione - a «verde» significative porzioni di aree che subdoli Prg avevano dichiarato «edificabili»? Perché ostinarsi a sperare nella quantità invece di puntare sulla qualità? Perché non riconoscere (a dirlo è anche Paolo Buzzetti, il Presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori), che è la qualità il vero tallone d’Achille dell’edilizia italiana, sono le licenze facili rilasciate dalla Camera di Commercio a chi poco sa di edilizia e molto di speculazione, a provocare sfaceli? Francesco Rondina Fano, 17/07/2013 MC VIA EMAIL Ricevo la rivista in forma cartacea. Vi chiedo se è possibile riceverla via email. Grazie e saluti Antonio Falcone email, 12/08/2013 Come le ho scritto, per ora non siamo organizzati per un simile servizio, ma la sua richiesta ha acceso una spia importante. Come avrà visto, stiamo facendo un notevole sforzo per migliorare la nostra pagina web e offrire anche uno sfogliabile di prima qualità. La ringraziamo per il suo stimolo: cade in terra fertile. Quanto allo sfogliabile, ricordo che è possibile sponsorizzarlo, come hanno fatto i genitori di Marianna con il numero di luglio 2013. Rimarrà un ricordo che accompagnerà tutta la vita. DEPENNATEMI Spett.le Redazione, in relazione all’editoriale dell’ultimo numero (luglio 2013), vi informo che non desidero più ricevere la vostra rivista. Pertanto vi invito a cancellare il mio nominativo dal vostro elenco. R. M. Torino, fax, 24/07/2013 No comment. ____________________ Nel prossimo numero: la lettera di Claudio Bellavita sui «Tesori Sepolti» nella memoria dei missionari anziani e l’affettuosa testimonianza di Liviana che ricorda «Nino Maurel», lo zio Nino, a dieci anni dalla morte. SCRIVETECI! La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto NEPAL L’ESEMPIO DEI CATTOLICI giovani cattolici «Mostrano a tutti noi diversi modi per servire la Inazione. Sono un esempio da seguire, soprattutto ora che il nostro paese è in un momento di cambiamenti: i giovani devono dare il loro contributo». È l’omaggio reso il 12 agosto dal primo ministro ad interim del Nepal, Khilaraj Regmi, ai giovani cristiani in occasione della Giornata internazionale della Gioventù. Parlando alla televisione nazionale, il premier ha detto: «Molti giovani nepalesi corrono dietro alla prosperità materiale e al denaro. Ma i cattolici danno un esempio diverso, da seguire. Abbiamo bisogno che i giovani sviluppino una coscienza nazionale forte, che possa essere usata per aiutare lo stato senza rimanere in attesa che lo stato faccia qualcosa per loro». Regmi ha poi voluto citare il caso di Pushpa Basnet, che nel 2012 ha vinto il Cnn Hero Award, e la sua opera di sostegno ai carcerati «nata dagli insegnamenti ricevuti nelle scuole cattoliche». La ragazza ha studiato al St. Xavier College della capitale. Padre Lawrence Maniyar, ex superiore dei gesuiti nepalesi, dice: «La nostra opera educativa ha giocato un ruolo importante per i giovani e per il loro futuro. Molti di questi pionieri nel campo sociale hanno studiato da noi». Kishor, giovane cattolico della capitale, ha detto: «Apprezziamo molto le parole del primo ministro. Noi cerchiamo di trasmettere il messaggio di Dio anche attraverso il servizio ai bisognosi. Siamo felici che il governo riconosca questo impegno, anche perché la nostra opera va oltre la questione religione: cerchiamo di essere di aiuto a tutti». (AsiaNews) BRASILE QUILOMBOLAS L’ Assemblea generale della Cnbb (Conferenza episcopale dei vescovi del Brasile), ha approvato il documento “La Chiesa e le comunità quilombolas”, uno studio preparato da un gruppo di lavoro istituito dalla Commissione episcopale della pastorale per il servizio della carità, giustizia e pace. Lo scopo di questo testo è quello di contribuire al lavoro della Chiesa nelle comunità quilombolas (afrodiscendenti). Valorizzare e difendere i loro diritti di vita, cultura, tradizioni, credenze, e tutto ciò che loro appartiene. Nella composizione del testo, hanno partecipato vescovi, sacerdoti e antropologi, che hanno lavorato per quasi un anno su questo progetto. «Abbiamo esaminato la situazione di questo popolo nel contesto della nazione e intendiamo, con questo documento, raccontare la lotta per la giustizia delle comunità quilombolas», ha detto mons. Jose Valdeci Santos Mendes, vescovo della diocesi di Brejo. La Chiesa cattolica, in diverse occasioni, è intervenuta in difesa dei popoli quilombolas e ha accompagnato le loro richieste di maggiore giustizia sociale. (Fides) COLOMBIA INSIEME PER I SENZA TERRA e vittime hanno diritto a una vita dignitosa e alla restitu«L zione delle terre»: è questo lo slogan di una campagna lanciata in modo congiunto dalla Conferenza episcopale della Colombia, dal Segretariato nazionale della pastorale sociale, dall’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani e dall’Alto commissariato per i rifugiati. L’obiettivo è quello di informare le vittime dell’espropriazione delle proprie terre, da parte dei gruppi illegali, dei loro diritti, vigilare sulla loro tutela e sensibilizzare la comunità internazionale sulla necessità di proteggere il diritto alla vita nel contesto del conflitto armato. La campagna è stata presentata nel dipartimento di Norte de Santander, uno dei più colpiti: almeno 90 mila famiglie hanno dovuto abbandonare le loro terre a causa della violenza dei gruppi armati. Qui il governo si prefigge di restituire 2 milioni di ettari di lotti - su un totale di 6,6 milioni depredati e lasciati incolti - ai loro legittimi proprietari. (Misna) # Nepal: Pushpa Basnet, vincitrice del premio Cnn Hero Award con i bambini della sua scuola. OTTOBRE 2013 MC 7 La Chiesa nel mondo FILIPPINE NUOVA EVANGELIZZAZIONE llo scopo di mantenere la missione della nuova evangelizzaA zione in sintonia con i tempi moderni, la Chiesa filippina ha convocato una conferenza asiatica che si terrà dal 16 al 18 ottobre presso l’Università Santo Tomas della capitale. L’arcivescovo di Manila, card. Luis Antonio Tagle, spiega che «la conferenza ha tre obiettivi principali: creare un’esperienza di Dio nel contesto delle sfide del nuovo millennio; rafforzare i legami e la comunione dei cattolici; fornire spunti di ispirazione e direzione imbevuti dello spirito della nuova evangelizzazione. Questo concetto non si basa solo su mere strategie: noi dobbiamo concentrarci su un’esperienza rinnovata di Gesù. Speriamo che attraverso questi tre giorni si possa tutti insieme rag- giungere questo scopo». Ma la Conferenza «mira anche a mantenere la missione evangelizzatrice viva in mezzo alle sfide portate dalla modernizzazione. Il nostro obiettivo è quello di capire il mondo moderno in cui viviamo e guardare a quelle opportunità utili alla nostra missione. Riconosciamo il fatto che ci siano problemi e contraddizioni ma, nonostante questi ostacoli, sappiamo anche che il mondo rimane lo stesso che ci è stato donato dal nostro Signore». Nel paese - la nazione con il maggior numero di cattolici di tutta l’Asia - sono attesi delegati da Taiwan, Vietnam, Brunei, Malaysia, Thailandia e Myanmar. (AsiaNews) PAKISTAN ASSOLTO L’IMAM S concerto e amarezza nella comunità cristiana in Pakistan, dopo che un tribunale ha assolto Khalid Chishti, l’imam che aveva formulato le false accuse di blasfemia contro la ragazza cattolica disabile mentale Rimsha Masih. A un anno dai fatti, il giudice ha assolto l’imam dopo che sei testimoni oculari hanno ritirato l’accusa di aver ordito il complotto. In seguito alle false accuse, musulmani radicali avevano attaccato il quartiere cristiano di Mehrabadi (dove viveva la famiglia di Rimsha) e numerose famiglie cristiane sono dovute fuggire per salvare le loro vite. L’avvocato cristiano Sardar Mushtaq Gill si dice «profondamente deluso dal giudizio della Corte, data la evidente e provata colpevolezza di Chishti». La sua assoluzione, infatti «non farà altro che generare nuova impunità e assecondare quanti continuano ad abusare della legge di blasfemia». Attualmente, Rimsha e la sua famiglia hanno trovato asilo in Canada, dato che erano in pericolo di vita. (AsiaNews) EGITTO TERRORISMO RELIGIOSO urante le manifestazioni di piazza del mese d’agosto, soD no state 58 le chiese e istituzioni cristiane attaccate e incendiate in Egitto. Di esse 14 sono cattoliche, il resto appartengono alle comunità copto ortodosse, greco ortodosse, anglicane e protestanti. Padre Greiche, portavoce dei vescovi cattolici, spiega che «questa non è una guerra civile tra cristiani e musulmani, ma una guerra contro il terrorismo. E la maggioranza della popolazione è contro il terrorismo e l’estremismo religioso». (Fides) VENEZUELA: CAM 4 - COMLA 9 al 26 novembre al primo dicembre 2013 la città di Maracaibo, capitale della regione Zulia, in Venezuela, diventerà la capitale missionaria d’America, grazie alla realizzazione del IV Congresso Missionario Americano Cam4-Comla 9. L'evento, che si svolge ogni quattro anni, sarà l'occasione perché la Chiesa del continente rifletta e parli su temi come discepolato, secolarizzazione, multiculturalismo e la «missione ad gentes», che tradotto dal latino significa: missione verso i popoli. Il congresso, che vedrà riuniti 4 mila partecipanti, provenienti dal continente americano e da altre parti del mondo, reca come slogan: «America missionaria, condividi la tua fede» e focalizzerà la sua attenzione sulla realtà dell’evangelizzazione in America, un mondo secolarizzato e multiculturale, avendo come guida il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale 2013 che dice: «Tutti i battezzati sono chiamati ad annunciare il Vangelo con coraggio in ogni realtà». Il Cam4-Comla 9 in questo senso, diventerà l’occasione per rinnovare la propria adesione alla Chiesa e l’impegno di essere discepoli missionari di Gesù Cristo. Il Congresso Missionario che si svolgerà a Maracaibo è preparato da un team guidato dallo stesso arcivescovo metropolitano, mons. Ubaldo Ramón Santana, in collaborazione con p. Andrea Bignotti, missionario della Consolata, direttore nazionale delle Pontificie Opere missionarie in Venezuela. (IMC) D 8 MC OTTOBRE 2013 # Venezuela - il logo del Quarto Congresso Missionario Americano. ITALIA a cura di GIGI ANATALONI PADRE BENEDETTO BELLESI: L’UOMO, IL MISSIONARIO, IL GIORNALISTA © Marta Scandola - 2010 Piccole «dediche» a un missionario schivo e dalla risata coinvolgente, innamorato della Parola di Dio e della verità. Abbiamo sentito il bisogno di dedicare queste pagine al nostro fratello, amico e collega padre Benedetto Bellesi, chiamato alla casa del Padre lo scorso 3 luglio. Per l’uomo e per il missionario che ha donato 26 lunghi anni a servizio della Parola nella stampa missionaria, è il minimo che possiamo fare. UN UOMO FATTO PAROLA MAESTRO DI «CUCINA REDAZIONALE» di Ugo Pozzoli C arissimo Benedetto, soltanto poche ore fa mi è arrivato un sms da Torino in cui era scritto che mancava veramente poco al grande passo. Ho realizzato in quel momento, caro Benedetto, che su questa terra non ci saremmo più rivisti. Adesso, che ne ho avuto purtroppo la conferma, sono sicuro che nel momento in cui ho letto il messaggio avevi già iniziato il cammino di rientro verso la casa del Padre, l’ultimo grande viaggio, per il quale ti sei preparato a lungo e con una meticolosità che non avevi mai messo nelle tante occasioni in cui, per lavoro, ti era toccato fare la valigia e partire. Ho una grande pena nel cuore, perché ti sto scrivendo da un posto in cui avevamo combinato di venire insieme. Ti ricordi? Subito dopo la mia elezione a Consigliere, sapendo che mi sarei occupato anche della missione nel continente asiatico, mi avevi detto: «Il giorno che andrai in Mongolia dimmelo, che ti vengo a portare la borsa». Al che ti avevo risposto che di sicuro avrei dovuto portarla io a te, dato che soltanto in apparecchi fotografici avremmo avuto bisogno di un mulo da soma. ITALIA 10 MC OTTOBRE 2013 # In basso a destra: sul lago d’Iseo nel 1966 p. Benedetto rema sulla barca piena di seminaristi in gita dal Seminario minore di Bevera di Castello Brianza. A destra e qui sotto: in Sudafrica, durante un battesimo e con bambini a Damesfontein dove è stato direttore del Centro Pastorale per la formazione dei laici. © AFMC/Benedetto Bellesi Purtroppo questa carogna di una malattia ti ha portato via troppo presto, dandoti appena il tempo di finire il tuo ultimo «Dossier» per Missioni Consolata, proprio sull’evangelizzazione della Chiesa in Mongolia. Stamattina abbiamo pregato per te con p. Giorgio, sr. Lucia e Sr. Gertrude, i tre missionari che lavorano ad Arvaiheer, immersi in mezzo alla steppa mongola, a poca distanza dall’inizio del grande deserto del Gobi. Ti abbiamo ricordato nella Messa, proprio all’ora in cui mettevi l’ultimo bollo sul tuo passaporto, quello per il Paradiso. Ciao Benedetto, ti saluto di qui, da lontano. Non ci potrò essere al tuo funerale, ma so che da lassù mi capirai e non te ne avrai a male. Mi manca pure un bicchiere di quello buono con cui farti un brindisi, come i tanti condivisi dopo le vittorie (e anche le sconfitte) della nostra amata Juventus.Ti dico grazie con tutto il cuore per averti conosciuto e per avermi fatto conoscere quell’anima buona e sensibile che tendevi a nascondere dietro a una scorza da orso marsicano. Ti dico grazie per avermi insegnato il mestiere di giornalista missionario e averlo fatto con quello spirito socratico che tende a fare emergere e valorizzare quelle conoscenze che, inconsapevolmente, l’altra persona già possiede. Sei sempre stato quello che di noi scriveva meglio di tutti, con quell’italiano pulito, ricco e semplice allo stesso tempo, un vero maestro di quella che in gergo noi chiamiamo «cucina redazionale», ovvero, colui che fa il «lavoro sporco» di sistemare gli articoli altrui per renderli belli e presentabili. L’hai fatto sovente anche con me. Le ultime meditazioni spirituali che hai condiviso con il sottoscritto erano sul Libro dell’Apocalisse, che racconta una fine che non è la fine; ti mando allora idealmente una cartolina da questo paese dove sembra che all’orizzonte la terra si attacchi al cielo in una linea perfetta, come se fosse un’anticipazione dei cieli nuovi e della terra nuova che troverai al tuo arrivo. Fai un buon ritorno a casa, Ugo da Arvaiheer (Mongolia), 3 luglio 2013 «CAPO MIO» di Francesco Bernardi C arissimo «capo mio», ricordi? Ti ho sempre chiamato così: «Capo mio». E tu mi rispondevi con le stesse parole. Io ero «capo», perché direttore della rivista, però riconoscevo in te una autorevolezza culturale e missionaria indiscutibile. Un’autorevolezza anche linguistica, giacché eri laureato in Lettere classiche alla Cattolica di Milano. Davvero «capo mio». Entrasti nella redazione di «Missioni Consolata» nel 1987, dopo che l’anno precedente ci eravamo incontrati in Sudafrica, dove tu operavi e... mi cucinasti persino una gustosa spaghettata ai funghi da te raccolti. Di tanto in tanto rievocavi le parole che ti dissi alla stazione di Porta Nuova a Torino, quando venni a prelevarti per entrare nella redazione della rivista, e cioè: «Se anche tu te ne andrai dalla redazione, ce ne andremo in due: tu ed io!». Invece lavorammo insieme per 15 anni, senza alcun screzio. Eppure eravamo molto diversi: tu, roccioso, metodico, anche burbero; io, più morbido, talvolta improvvisatore, poco amante delle regole. MC ARTICOLI UNA VITA ESSENZIALE ato a Montegranaro (Fermo) il 12 ottobre 1937, figlio di Pa- N squale e Maulo Maria, a 21 anni (1958) emette la prima professione religiosa come Missionario della Consolata. Ordinato sacerdote nel 1963, dall’ottobre 1964 al 1972 insegna nel seminario minore di Bevera di Castello Brianza, mentre studia all’Università Cattolica di Milano dove si laurea in Lettere nel 1971. Il 1973 è dedicato allo studio dell’inglese a Londra. Nel ’74 completa i suoi studi in Sudafrica per qualificarsi all’insegnamento nel mondo inglese. Rimane in Sudafrica fino al 1986: vice parroco di Ermelo, parroco a Piet Retief e poi responsabile del Centro Pastorale di Damesfontein, dopo l’anno sabbatico di approfondimento pastorale al Gaba Institute presso Eldoret in Kenya nel 1983. Il primo luglio 1986 è ufficialmente destinato a lavorare nella rivista a Torino, dove, liberatosi dagli impegni in Sudafrica, arriva all’inizio del 1987 per dare il cambio all’attuale direttore in partenza allora per il Kenya via Inghilterra per l’inglese. Il suo primo lavoro è completare la serie dei quaranta numeri di «Missione come», la mini enciclopedia missionaria della rivista Amico. Redattore e anche direttore per un breve periodo, durante il suo servizio alla rivista visita il mondo consolatino in lungo e in largo. Forse l’unico posto dove non va è l’Asia, soprattutto la Mongolia, dove sogna tanto di andare. È stato inoltre autore e curatore di numerosi saggi. © Gigi Anataloni - 1966 Colpito da un tumore al maxillo facciale, è operato con successo una prima volta nel 2007, tornando al suo posto di lavoro come se niente fosse, o quasi. Tra settembre 2009 e giugno 2010 realizza il suo desiderio di vivere un anno in Terra Santa totalmente dedicato agli studi biblici che tanto ama. Rientrato in redazione, accolto a braccia aperte, nel luglio 2012 ha una ricaduta del tumore da cui non si è più ripreso nonostante i massicci interventi. Cosciente della sua condizione fa di tutto per non farla pesare. Continua a lavorare come sempre fino a quel 18 giugno, quando una grave emorragia lo costringe in ospedale da cui esce alle prime ore del 3 luglio passando per la «porta stretta» che conduce in cielo. Ora il suo corpo riposa nel suo paese nativo. Gigi Anataloni Ci concedevamo delle sane risate: la tua era una lunga e possente cascata di scrosci fragorosi e accattivanti. Un altro punto su cui collimavamo al 100 per cento era rappresentato dall’espressione: «Nella vita temi specialmente chi si reputa un genio, mentre è solo un rompiscatole!». Capo mio, eri pure tifoso della Juventus, mentre io ero estraneo a ogni cultura pallonara. Tuttavia, dopo qualche stagione, mi ritrovai a tifare Juve, solidale e «ammagliato» dal... «capo mio». Tu, roccioso di carattere, trascorrevi le giornate appoggiandoti continuamente e senza riserve sulla «roccia» della Parola di Vita. Fu una fede che ti accompagnò e sorresse sempre, specialmente i giorni oscuri, dolorosi e interminabili del cancro. La passione per la «Parola» ti spinse a Nazaret, a Gerico, a Gerusalemme e dintorni, dove camminasti come pellegrino per diversi mesi e a più riprese. La Parola ti consentì di dettare meditazioni profonde e toccanti. Come dimenticare, ad esempio, un tuo quaresimale sul Libro di Giona? Il fascino della Parola di Dio contagiò pure «Missioni Consolata». Infatti la rubrica biblica mensile della rivista «Così sta scritto», curata da don Paolo Farinella, fu merito tuo. Fosti redattore e direttore di «Missioni Consolata», come nessun altro. Alcuni numeri speciali monografici della rivista vennero poi ristampati anche come libri. «Allah akbar», ad esempio, interamente dedicato all’Islam. Capo mio, Benedetto! Un capo tosto, convinto e sereno. Ora, mentre passeggi in compagnia di tanti amici attraverso le galassie luminose del Paradiso, facci ancora sentire la tua possente risata. Sarà una garanzia che la nostra povera preghiera è stata accolta dal Padre celeste. Vero, che continuerai a ridere, capo mio? p. Francesco Bernardi, missionario in Tanzania OTTOBRE 2013 MC 11 ITALIA # A destra: a Torre di Palme (Fermo) nel- © AFMC/Benedetto Bellesi l’agosto 2006 con altri missionari della Consolata marchigiani, i padri B. Bellesi, Claudio Brualdi, Stefano Camerlengo, Francesco Cialini e Francesco Discepoli con il segretario del vescovo di Fermo (in maglietta bianca) dopo un buon pranzo a base di strozzapreti. Qui sotto: con i confratelli alla conclusione dei tradizionali esercizi spirituali in Certosa di Pesio a fine maggio 2007. Ben quattro dei missionari nella foto lo hanno già preceduto in cielo: Fratel Sabaini e i padri Scudiero, Basso e Moreschi. L’ORSO GENTILE di Paolo Moiola I ncontrai padre Benedetto per la prima volta nel giugno del 1994. Padre Francesco Bernardi, allora direttore della rivista, mi aveva convocato a Torino per capire se la mia collaborazione giornalistica (iniziata nel 1989) potesse diventare più stabile. Il direttore chiamò padre Bellesi per presentarci. Lui mi strinse la mano, disse poche parole e tornò nel suo ufficio. Mi colpì la sua voce, forte e chiara, ma anche il suo aspetto con la faccia tonda e un fisico ben piantato a terra. Senza capirne esattamente i motivi, provai però una 12 MC OTTOBRE 2013 sorta d’immediato timore reverenziale, che non sarebbe mai sparito completamente. Come dimostra la circostanza che, nei suoi confronti, io sempre utilizzai il «lei». Nella vecchia redazione il suo ufficio confinava con il mio. E non era una fortuna! Perché padre Bellesi fumava e fumava forte. L’aria appestata dalla nicotina superava porte e muri, insinuandosi per ogni dove. Fumò per molti anni finché non venne l’aut aut (probabilmente tardivo) dei medici. Quando padre Bernardi lasciò la rivista (dicembre 2002), padre Bellesi fu nominato direttore. Si aprì allora una stagione in cui, come redattori stabili, eravamo soltanto noi due. Non fu un periodo facile perché, per far uscire la rivista, si dovevano fare i salti mortali. E l’attualità non aiutava. Erano infatti i tempi della guerra in Iraq. Dopo mesi di preparativi, nel marzo 2003 George W. Bush aveva ordinato l’attacco al paese mediorientale. Missioni Consolata si schierò - ancora una volta - contro la guerra in maniera chiara e argomentata. Arrivarono moltissime lettere (via posta e dunque più impegnative - non fosse altro per i tempi necessari a scriverle e spedirle - rispetto alle attuali email), di plauso e di critica. Queste ultime erano par- MC ARTICOLI IL PRETE I N CLERGYMAN di Giacomo Mazzotti E ticolarmente dure e con toni accusatori, a volte insultanti. Padre Bellesi non perse mai la testa, non scelse mai la strada facile di dare ragione a tutti per non scontentare alcuno. Nelle Lettere dava spazio a tutti, rispondendo in maniera meditata ma senza accondiscendenza, anche a rischio di perdere un abbonato (la minaccia di gran lunga più diffusa). Poi, quando arrivavano lettere elogiative, le pubblicava con soddisfazione ma senza enfasi, anzi quasi con pudore: «La vostra rivista entra mensilmente in casa mia e mi rinfranca nello squallore giornalistico che ci circonda. Davanti all’aggressione cui siete sottoposti, vi domando di resistere forti delle vostre idee». Sì, furono tempi duri ma anche densi di soddisfazioni, come testimonia il grande successo dei numeri monografici (alcuni dei quali - tra cui La guerra, le guerre e Il prezzo del mercato divennero altrettanti libri editi dalla Emi). Padre Bellesi aveva le sue letture (laiche) preferite. Ogni venerdì, all’arrivo della posta, l’Espresso doveva andare direttamente sulla sua scrivania. Lo leggeva per intero e poi lo riponeva nella sala delle riviste. Ricordo questo per dire che era molto aperto, certamente anche in campo politico. Ecco, questo era padre Bellesi: una persona all’apparenza burbera ma, sotto la scorza, buona; ferma nelle sue idee, ma accogliente e comprensiva. Un «orso gentile» che mi mancherà. Paolo Moiola ro da poco entrato in seminario, a Bevera: un bimbetto sprovveduto, 12 anni, arrivato dalla campagna e con la voglia di diventare missionario. Fu lì, sotto il porticato, che lo incontrai per la prima volta e fu per me un piccolo shock: un prete alto, giovane, con rari capelli, una grossa valigia in mano ma, soprattutto… in clergyman! Il primo pensiero che mi frullò in testa fu: «Un protestante tra noi!». Non ero ancora abituato a vedere gente in quella tenuta e quell’incontro mi scombussolò non poco. Salutai timidamente e venni poi a sapere che quel «prete protestante» sarebbe stato il nostro futuro professore di lettere: padre Benedetto Bellesi, appunto! E il suo abbigliamento era dovuto al fatto che rientrava da un breve soggiorno in Inghilterra dove, da tempo, le sottane dei preti non erano più di moda. Lo apprezzavamo molto, perché ci sapeva davvero fare. Riusciva a trasmetterci la sua vasta cultura con brio ed eleganza. Rivedo ancora nei temi d’italiano, in margine a qualche mia frase particolarmente… brillante, la sua benevola e ironica annotazione: «Ma è farina del tuo sacco?». Poi non ci incontrammo più mentre proseguiva il mio viaggio verso il sacerdozio e la missione. Me lo ritrovai, inaspettatamente, a Wamba (nell’allora Zaire), dove da qualche anno stavo assaporando la prima esperienza africana: l’inseparabile macchina fotografica, il bloc-notes per gli appunti e la sua cordiale curiosità nell’inseguirci nei vari posti, con domande e osservazioni. Era già entrato nella redazione di «Missioni Consolata» e seppi che, ogni anno, programmava un viaggio nei vari paesi per documentarsi sul campo. Frutto di questi giri per il mondo, i suoi «pezzi» coloriti e godibili alla lettura. Gennaio 1990: il sole pallido di Torino non riusciva proprio a rallegrarmi il cuore, mentre pen- savo con nostalgia a quello caldo e luminoso dell’Africa che, poco più di un mese prima, avevo lasciato. Ero stato destinato a lavorare per le nostre riviste e fu proprio in redazione che ritrovai padre Benedetto, assieme al direttore, padre Francesco Bernardi. Con un’esplosione di gioia (forse perché mi aspettavano da tempo) accolsero il novellino che arrivava fresco fresco per mettersi alla loro scuola. Ricordo che si cominciava allora a usare i primi computer (enormi, ingombranti) e fu proprio padre Benedetto ad accompagnare i passi incerti di chi, fino ad allora, aveva vissuto in foresta, senza telefoni, né corrente elettrica, né giornali; se ne intendeva un po’ più di noi tutti e fu grazie a lui che l’informatica trasformò rapidamente il nostro sistema di lavoro, rendendo le riviste più attraenti e moderne. Gli anni scivolavano veloci, numerosi; ero felice di trovarmi in compagnia di Francesco e Benedetto: progetti, nuove idee, ricerche, viaggi, preoccupazioni per i costi sempre in crescita, incontri di redazione… Ognuno di noi con il suo stile, le sue «specialità». Lui, padre Benedetto, aveva soprattutto la passione della storia, le biografie dei grandi missionari, i reportages dai vari paesi, le interviste… il tutto sempre curato con eleganza e precisione. I suoi articoli erano sempre apprezzati, letti con gusto e anche ricercati, come i famosi «Numeri speciali», che il suo contributo rendeva davvero preziosi. Lasciai gli amici della redazione nel 2005 per l’amato Congo. Avevo rivisto padre Benedetto poco più di un anno fa. Era già segnato dal male, ma sempre tenacemente attaccato alla sua rivista, al suo lavoro, alle sue ricerche. Mi aveva fatto dono di un po’ di materiale biblico, pazientemente raccolto negli anni e che conservava, con ordine, nel computer. Un gesto che mi rivelò ancora di più come lui non fosse soltanto un brillante giornalista, ma anOTTOBRE 2013 MC 13 ITALIA che un predicatore sapiente, una persona attenta ai problemi del nostro tempo, un missionario felice della sua vocazione, pur severo nella fedeltà ad essa, vissuta senza leggerezze, né sconti. Ho imparato molto da lui: non solo a usare il computer o a scrivere articoli, ma soprattutto a servire la missione con competenza, serietà e gusto di fare le cose bene. Lui ci è riuscito e ce ne ha dato l’esempio. Giacomo Mazzotti UN «DABAR» DEL NOSTRO TEMPO di Paolo Farinella, prete H o conosciuto padre Benedetto Bellesi nel mese di novembre del 2004. Al mio rientro da Gerusalemme, Paolo Moiola mi contattò per chiedermi se fossi interessato a collaborare con la rivista. Mi mise in contatto con il direttore, padre Benedetto Bellesi, il quale fu contento di avere una rubrica specificamente «biblica». Decidemmo di cominciare con il numero di febbraio dell’anno 2005. Il titolo della rubrica «Così sta scritto» fu suggerito da Paolo Moiola e fu accettato sia da me che da padre Benedetto, il quale mi lasciò piena libertà di parola e di scrittura. Nella prima puntata, la numero «0» del febbraio 2005, che fungeva da introduzione alla rubrica, concludevo con queste parole: «Spetta a ciascuno di noi, “oggi”, decidere di essere «dabàr», parola/fatto che resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità». Alla notizia della morte di padre Benedetto, queste parole mi tornarono alla mente e oggi penso di poterle applicare all’intera vita di padre Benedetto per come l’ho conosciuto. L’ho visto l’ultima volta il 18 maggio 2013, un mese prima che salpasse per il suo esodo verso la terra promessa della Gerusalemme celeste. Il volto era scarnificato e si vedevano i segni del compimento perché ormai il frutto «Benedetto» aveva raggiunto la sua piena maturità. Nel ritorno a Genova, insieme alla dott.ssa Maria Cristina Pantone, si rifletteva sulla sua serenità e pacificazione: ci aveva raccontato la sua malattia come se stesse parlando di una so- rella o di una persona cara. Era già immerso nel cuore di Dio e io sono convinto che lo sapesse, ma non voleva dare preoccupazioni agli altri. Sono felice di averlo aiutato a trovare la via per il suo lungo soggiorno a Gerusalemme, di cui mi fu sempre grato e riconoscente e sono certo che da quel viaggio nella città del destino di Dio e dell’uomo, egli ritornò con in bocca e nel cuore le parole di Simeone il profeta: «Ora puoi lasciare, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30). Dopo avere servito il Regno di Dio in missione per tutta la sua vita, sostò al pozzo di Giacobbe per bere l’acqua della vita e mangiare il pane di Elia per prepararsi all’esodo più importante della sua vita, dopo avere attraversato il deserto della malattia e della consumazione del corpo con il fuoco dell’immolazione. Il Signore ha visitato il suo cuore e ha voluto consolarlo facendolo «abitare» per sei mesi nella Città santa, quasi una predilezione prima del rapimento sul carro di fuoco, come il profeta Elia. Sì! Padre Bellesi fu un «dabàr» che in ebraico significa contemporaneamente «parola» e «fatto/evento». Fu parola perché parlò e scrisse dal pulpito della rivista MC che sentiva come sua creatura e che curava con amore e passione; fu anche fatto/evento perché parlò con la sua vita trasparente e il suo comportamento che non contraddisse mai MC ARTICOLI rimentabile con la sua vita, con la sua parola. Parola e vita, cioè «dabàr». Grazie, padre Benedetto per chi sei stato, per come sei stato e per continuare a essere per noi che ti abbiamo conosciuto e amato benedizione, memoriale senza fine del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Ora che sei andato avanti, non dimenticare di preparare il posto anche per noi, accanto a te nella Gloria di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo. Paolo Farinella DIRETTORE AL SERVIZIO di Marco Bello L a tristezza ci coglie questa mattina (3 luglio 2013). Ce l’aspettavamo, ma nel cuore c’era ancora la speranza che padre Bellesi sarebbe tornato a solcare con passo fermo il corridoio della redazione. Perdiamo un pilastro della rivista, per il suo italiano pulito, ma anche per il grande lavoro in termini di quantità, oltre che di qualità. Mi ricordo quando è stato nostro direttore, ruolo che non gli piaceva troppo e che immagino accettò per spirito di servizio. Non dimenticherò mai il suo atteggiamento di difesa dei «suoi» redattori. Lo avevo conosciuto nei primi anni ‘90 quando ho iniziato la collaborazione come esterno e il nostro terreno d’incontro furono subito le macchine fotografiche. Anche lui «canonista» convinto, ci consigliavamo a vicenda le ultime autofocus uscite. Lo abbiamo visto cambiare fisicamente in questi ultimi mesi, ma il suo spirito era sempre lo stesso. Si crea un grande «buco» in redazione, che sarà difficile colmare. E poi a chi regalerò i francobolli adesso? Marco Bello # Qui a sinistra: a Petra, in Giordania nel 2009. In basso: splendida panoramica dal deserto giordano nei dintorni di Petra. © Marta Scandola - 2010 la parola che scriveva. La sua amicizia è stata per me preziosa e lodo Dio per la sua vita e la sua morte, ma anche perché mi ha ritenuto degno di essere suo amico. Non piango la morte di un giusto che è sempre una grazia per chi crede, ma lodo il Signore che ha liberato padre Benedetto dalla sofferenza legata al tempo e allo spazio, per trasfigurarlo nell’immagine perfetta del «Lògos» che egli servì per tutta la vita. Dio è più credibile perché padre Benedetto l’ha reso più visibile e spe- OTTOBRE 2013 MC 15 SIRIA di DANIELE BIELLA © testiweb com Questa conversazione con padre (abuna) Paolo Dall’Oglio - avvenuta prima della sua sparizione in Siria (a fine luglio) - è incentrata sul dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Islam. Fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, allontanato dal paese mediorientale nel giugno 2012, il gesuita è noto per la sua posizione nettamente contraria al regime di Assad. Lo raccontiamo attraverso alcuni suoi scritti, mentre a oggi (settembre 2013) di lui non si hanno ancora notizie certe. # In alto: padre Paolo Dall’Oglio intervistato durante una manifestazione a Drò (Trento). A destra: esterno e interno del monastero di Deir Mar Musa nel deserto siriano. 16 MC OTTOBRE 2013 PADRE PAOLO DALL’OGLIO ’ĪSĀ E MOHAMMED (NELLA SIRIA IN GUERRA) P adre Paolo Dall’Oglio, gesuita, classe 1954, è stato rapito in Siria da un gruppo islamista a fine luglio. Su di lui sono girate le voci più disparate, finanche quella della sua morte. Dall’Oglio - conosciuto per aver fondato, nel 1991, la comunità monastica Deir Mar Musa, nel deserto roccioso della Siria, a 90 chilometri da Damasco - si era dovuto allontanare dal paese nel giugno 2012. Le autorità ecclesiastiche avevano preso questa decisione dopo che il governo di Assad l’aveva minacciato di espulsione per le sue posizioni rispetto alla guerra civile siriana. Qualche mese fa avevamo raggiunto Abuna («Padre», in arabo, lingua che lui parla fluentemente) Paolo, come viene chiamato in Medio Oriente, a Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove era ospite di una comunità cristiana. La chiacchierata si era incentrata sul suo percorso spirituale e religioso. Ne è uscito il quadro di una persona senza compromessi, disposto a mettersi in gioco per una causa davvero grande: il dialogo islamo-cristiano, tra i seguaci di Mohammed e quelli di ’Īsā (che è il nome di Gesù tra i musulmani). Abuna Paolo, quando e dove è arrivata la vocazione? Era il 12 maggio 1974. Una data storica, perché è stato il giorno del referendum sul divorzio in Italia, alla cui campagna io avevo partecipato. Mi trovavo a Roma, a casa di un amico: la chiamata è arrivata in modo molto intimo, essenziale, collegata all’universalità del vangelo. A ciò è seguito un percorso molto profondo, fatto di esercizi spirituali, noviziato, e nel frattempo di un progressivo avvicinamento al mondo musulmano, MC ARTICOLI che mi ha incuriosito da subito. Sono diventato gesuita nel 1975, poco tempo dopo ho fatto i primi viaggi studio, in particolare a Beirut, dove ho imparato l’arabo. Che impatto ha avuto con la religione musulmana? «Il mio percorso sta tutto nel racconto di un fatto: nel 1978 mi trovavo di passaggio a Bosra, città della Siria, diretto verso l’Egitto, che volevo conoscere. La sera, entrai nel cortile della moschea, dove mi vennero incontro due giovani, a cui dissi di essere sporco, e che volevo esprimere il mio rispetto per la moschea, la casa di Dio, facendo le abluzioni. Mi diedero una brocca d’acqua e mi indicarono i bagni. Quando tornai, giunta l’ora della preghiera della sera, la moschea si riempì di uomini e bambini, e fui invitato a unirmi. Sentii allora una forte attrazione, ma anche il dovere di non ingannare i miei ospiti. Come avrebbero potuto capire quello che io già sentivo come una duplice appartenenza? Il mio andare incontro al mondo musulmano ha origine anche negli esercizi spirituali ignaziani, che seguono la promessa del Signore a non nascondersi, ad andare in cerca del dialogo con l’altro. Poi c’è il grande insegnamento del Concilio Vaticano II, l’inculturazione della fede e la necessità di aprirsi all’ecumenismo. Quali sono i modelli che segue nel suo approccio con l’Islam? Tutti i teologi orientalisti sono di grande importanza, uno su tutti è Louis Massignon, la cui opera mi guida fin dall’inizio, così come quella dei suoi allievi. Io come altri, appartengo alla terza generazione, quella che più di tutte, nonostante il fallimento dello stesso Concilio Vaticano II, vuole ricominciare da lì per fomentare il dialogo islamo-cristiano. In che fase si trova ora l’Islam, agli occhi di un missionario cristiano? È in continua evoluzione, con una società che cerca in vari modi un’emancipazione che spesso risulta contraddittoria, perché da un lato è fertile, dall’altro è fonte di sofferenze. Non è facile per un cristiano avvicinarsi all’Islam, ma come prima cosa bisogna togliersi dalla testa l’idea che si possa disprezzare perché differente: capita invece di scoprire, con il tempo, cose molto belle, e quando entri in relazioni significative ci rimani tutta la vita, come sta accadendo a me. È chiaro che a volte le cose non vanno come dovrebbero, vedi la tragica guerra civile in Siria, oggi in preda a una crisi tre- LE DATE 1954 - Nasce a Roma. 1975 - Entra nella Compagnia di Gesù. 1991 - Fonda nel deserto siriano la comunità monastica di Deir Mar Musa. 2012 - È costretto a lasciare la Siria a causa delle sue posizioni sulla guerra civile. 2013 - luglio - Rientrato in Siria, scompare, probabilmente rapito. 2013 - agosto - Dalla Siria giungono notizie contraddittorie sulla sua sorte. 2013 - settembre - Esce il suo ultimo lavoro, Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi, Bologna. menda dalla quale io sono dovuto venire via mio malgrado. Nel rapporto con il mondo musulmano, la chiave sta nell’incontro e nell’evento sacramentale della relazione, un fatto pentecostale che ci trasforma tutti, ci rende fratelli. Tre fratelli, allargando il tema ovvero comprendendo gli ebrei. Massignon dedicava le tre grandi preghiere giornaliere di Abramo a ciascuno di essi: una per Isacco, simbolo del mondo ebraico, una per Ismaele, ovvero l’Islam, la terza per Sodoma, la città inospitale in cui Gesù ha portato il suo messaggio. Il monastero di Deir Mar Musa, durante la guerra civile in corso, ha perso la sua guida, il suo fondatore. L’esperienza cosa le ha lasciato? Un’enorme spinta a credere nel dialogo. Al monastero sono arrivati negli anni per devozione cristiani locali (in Siria prima della guerra erano l’8% del totale, ndr) di diversi riti: cattolici, ortodossi, protestanti, armeni, di rito greco, siriaco, maronita. Inoltre c’è la popolazione musulmana, che visita il monastero come atto culturale, turistico e spirituale. Un monastero cristiano in un ambiente musulmano tradizionale è un luogo religioso riconosciuto. Infine Deir Mar Musa riceveva anche il turismo internazionale, culturale e ambientale, ed era sede di convegni nazionali, meta di giovani che venivano a studiare l’arabo. Stiamo parlando di tante, tantissime persone. Un anno abbiamo contato i bicchieri di plastica utilizzati: erano 50mila. Poi ci hanno criticato per i bicchieri, che sono stati via via sostituiti con quelli di coccio… l’aspetto importante era la rete che si è venuta creando, e il fatto che si O TOBRE 2013 MC 17 SIRIA Il Medio Oriente e la Siria secondo padre Paolo Dall’Oglio «PERCHÉ SONO CONTRO ASSAD» In Siria i cristiani sono divisi in due schieramenti: quelli che difendono il presidente Assad e quelli che stanno con i ribelli. In questa lunghissima lettera pubblica - da noi ampiamente stralciata e riassunta - padre Dall’Oglio spiega le sue posizioni sul Medio Oriente e perché si è schierato con i ribelli anti-Assad. Considerazioni poi sviluppate in «Collera e luce», il suo ultimo lavoro, dove tra l’altro scrive: «La mia coscienza cristiana è chiaramente lacerata». ari amici della Siria, si è molto insistito sul fatto che avrei profittato per i miei comodi della situazione siriana, del regime siriano, e che ora darei prova di poca gratitudine tradendo innanzitutto i cristiani siriani, mi limiterò ad una serie di considerazioni in ordine cronologico per render conto dell’evoluzione della mia posizione. C 1973 Ho visitato la Siria degli Assad una prima volta nel 1973, appena prima della Guerra di ottobre (il conflitto tra Israele e la coalizione composta da Siria ed Egitto, ndr). Ne riportai l’impressione di un popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente mobilitata al massimo in senso anti israeliano. I paesi arabi subivano l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra fredda. Per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze del popolo palestinese e degli arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione totalitaria dell’informazione già mi ripugnava. Sapevo che si trattava di una dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel paese. Ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di Achrafiye da parte dell’esercito siriano (la guerra civile libanese era scoppiata nel 1975 e la Siria ne prese subito parte, ndr). Il regime siriano si è comportato da padrone senza scrupoli sfruttando il Libano in tutti i modi e nascondendosi dietro una serie di maschere ideologiche venute poi meno, le une dopo le altre, di fronte all’eroica resistenza del popolo libanese democratico. Ero a Damasco per lo studio dell’arabo, delle Chiese orientali e dell’Islam. Venni in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura repressiva utilizzati dal regime. Se volevo restare nel paese dovevo assoggettarmi come tutti. Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza. Moltissimi cristiani già lasciavano allora il paese visto il perdurare della situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro regime, altri contro, ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli. Bisogna ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi e asservite alle logiche neo imperialiste. Io cercai sempre di avere buoni rapporti con lo stato - anche se sottomesso al regime dittatoriale - in quanto proprietà dei cittadini. Ero per la legittima lotta di liberazione contro l’occupante israeliano, ma evitavo sistematicamente di cedere ai toni della propaganda di regime. 1978 © Jodi Hilton / rin 1980/’81 1982 In quell’anno ero studente di teologia a Roma quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile di Hama (città della Siria centrale a grande maggioranza sunnita, ndr) durante l’insurrezione dei Fratelli musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi. Non se ne poteva parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità di rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia islamo-cristiana. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo, silenzioso massacro avveniva nelle carceri, nei lagher, nei gulag siriani. Ne avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette e sapevo che molti cristiani, anche tra le autorità ecclesiastiche, si erano abituati a questo stato di cose come naturale e necessario rendendosene a volte direttamente complici. Questo mi addolorava profondamente e vi vedevo un rischio pesantissimo per il futuro della Chiesa in Siria. La stessa cosa avveniva d’altronde in Iraq e in Egitto. In questo spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure con molta speranza ed entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni. A causa dell’ampio impatto internazionale del mio impegno di restauro, di accoglienza e di dialogo al Monastero di Mar Musa, godetti indubbiamente di uno spazio di parola e di una libertà di opinione incomparabilmente più largo dei normali cittadini, obbligati a portare fin dalla più tenera infanzia il cervello all’ammasso della manipolazione di regime. Fui presto oggetto di critiche aspre e di accuse ingiuste proprio perché la mia libertà di parola sembrava impossibile ai più, anche se era sempre limitatissima e molto auto controllata se paragonata alla situazione, per esempio, europea. Era un gioco in fondo leale: io offrivo un volto che illustrava internazionalmente l’apertura e il pluralismo almeno programmatico del potere siriano e loro accettavano ch’io mi comportassi come se la democrazia, seppur non perfetta, fosse già almeno in fieri. Ho lavorato continuativamente nella prospettiva del successo dei negoziati di pace nella visione di un Medio Oriente riconciliato nella giustizia. Ho sempre dichiarato che l’islamismo politico è una grande realtà regionale e che non è immaginabile che si debba rinunciare alla democrazia, ai diritti civili e all’autodeterminazione dei popoli per continuare a sopprimere il programma islamista, sia esso salafita o dei Fratelli musulmani o di gruppi più o meno moderati. Si tratta di un soggetto politico plurale non aggirabile ma tuttavia esposto ad evoluzione, spesso rapida. Per questo ho sempre curato la relazione coi leader naturali, scelti e seguiti dalla piazza e dal popolo delle moschee dei musulmani siriani, rifiutandomi di appiattirmi sulle autorità approvate e nominate dal regime. In quell’anno la Siria partecipò alla coalizione contro l’Iraq di Saddam che aveva invaso il Kuwait. Trovai giusto in quell’occasione che si salvassero i curdi dall’attacco di Saddam e proteggendoli con una no fly zone. Rimasi poi scandalizzato profondamente quando gli sciiti iracheni furono cinicamente abbandonati alla repressione del dittatore di Baghdad, e così pure i libanesi abbandonati allo strapotere siriano. È evidente che la guerra è raramente una soluzione e comun- 1991 MC ARTICOLI que è una soluzione cattiva e claudicante. Tuttavia, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa dichiaro, nonostante i rischi di equivoci stridenti e di ipocrisie criminali, la legittimità della guerra giusta, il diritto alla difesa armata, il dovere di proteggere i paesi e le popolazioni vittime di aggressioni violente interne e o esterne. Nonostante questo incoraggio e mi impegno per la pratica e il successo delle azioni nonviolente. Penso alla non-violenza attiva, politica, come ad una trascendenza dei conflitti. Non è essa sempre un’alternativa praticabile di per sé, ma essa è sempre necessaria. Molto più di un correttivo integrativo, prima durante e dopo i conflitti armati, la non-violenza dialoga, testimonia, critica, assiste, apre vie di riconciliazione. Va oltre! Quando il dottor Bashar el-Assad, figlio del presidente Hafez, prese il potere, si riaccesero le speranze per un cambiamento democratico incruento che potesse riconciliare la società siriana profondamente divisa e sofferente dietro la facciata delle realizzazioni gloriose del regime. Anche la visita del Papa nel 2001 aveva la valenza di un segno di speranza, benché l’anno precedente la visita a Gerusalemme era stato l’ultimo momento di calma prima dell’inizio della seconda tragica intifada palestinese. La breve Primavera di Damasco fu soffocata da una repressione il più dolce possibile per evitare di perdere quel credito che la società aveva accordato a Bashar, per non perdere speranza nel futuro. In quell’anno mi opposi con un digiuno pubblico all’invasione dell’Iraq da parte delle armate del presidente Bush. D’altronde ero sempre stato fortemente critico delle crudeli e inutili sanzioni economiche. La crisi irachena fu gestita dalla Siria come occasione di un gioco d’azzardo che mostrava il desiderio di affermarsi come potenza regionale, in combutta con l’Iran. Da tutto il contesto, e da molte prove, era chiaro che lo stato israeliano aveva già fatto la scelta di gestire il regime degli Assad come un male minore, un’ipotesi tattica favorevole. In fondo per Israele la mancanza d’unità dei suoi nemici restava la vera priorità, unita alle necessarie operazioni chirurgiche per evitare l’acquisizione dell’arma nucleare con operazioni puntuali e limitate, in Iraq e poi in Siria e forse presto in Iran. Anche la concorrenza tra musulmani sciiti e sunniti nell’uso della retorica anti israeliana più rozza consentiva a Israele di dichiarare l’intenzione genocidaria degli arabi e dei musulmani giustificando così il muro, l’espansione delle colonie e le pratiche di discriminazione sistematiche. Il 2005 è l’anno in cui molti nodi vengono al pettine con l’assassinio del premier libanese Hariri. La Siria deve fare la schiena d’asino per evitare l’intervento occidentale ed è costretta a evacuare il Libano. Un’altra occasione d’oro per Bashar el-Assad di esautorare la vecchia guardia e iniziare un cammino di riforme a marce forzate verso la democrazia è persa miseramente e la speranza dei siriani si restringe. Certo nel 2006, la guerra tra Israele e Hezbollah fa della coppia Bashar - Nasrallah gli eroi della riscossa araboislamica. Molti musulmani sunniti optano per i paladini antiisraeliani. Perfino i Fratelli musulmani sarebbero disposti a riconciliarsi col regime che riuscirà addirittura nell’intento, lungo gli anni successivi, di diventare un partner privilegiato della Turchia neo-islamica, allontanandola dalla vecchia alleanza militare con Israele. Questa situazione matura ulteriormente con la guerra di Gaza del 2009. Lungo tutto il decennio la mia azione si è giocata nel provare e riprovare a favorire la riforma democratica cercando di salvare ciò che era salvabile della liceità della posizione anti-imperialista della Siria di fronte alla grossolanità delle attitudini dell’America di Bush e delle destre israeliane al potere. Io insistevo sulla necessità di essere morali e coerenti: avanzare nella prosecuzione del lavoro di inchiesta e giudizio sui cri- 2000 2003 2005/’06/’09 mini, specie in Libano, nei quali il regime siriano era (è) coinvolto. Si è fatto invece il contrario: si è rinunciato ad andare fino in fondo sul piano giudiziario, mentre si è riammessa la Siria degli Assad nel cerchio della rispettabilità internazionale. Così il regime si è convinto che la forza bruta è il vero motore della storia e che la democrazia è una buffonata di facciata. Dal 2010 la decisione di regime è presa: l’attività di dialogo è vietata, le conferenze sono impossibili, il turismo ipercontrollato. Alla fine il mio permesso di residenza è ritirato. Resto in Siria senza documenti di residenza e quindi non posso più viaggiare. Ma intanto la Primavera araba è iniziata. Si spera ancora che Bashar, magari con l’aiuto della bella e sensibile consorte, possa mettersi alla testa di una riforma radicale del suo paese. Nulla da fare, da marzo 2011 è chiaro che la scelta della repressione incondizionata è la scelta strategica. Tutto il resto, quanto a dialogo e riforme cosmetiche, non è altro che prender tempo per evitare l’intervento internazionale e fumo negli occhi dell’opinione pubblica. La versione ufficiale è pronta: non c’è nessuna rivoluzione, ma solo l’azione dei terroristi islamisti radicali finanziati dal grande complotto internazionale (Israele, Usa, la Francia, vassalli europei, massoni, ebrei, sauditi, Qatar, al Qayda, i Fratelli musulmani, tutti insieme appassionatamente) per distruggere il paese, la Siria, avanguardia della resistenza anti imperialista e anti radicalismo musulmano. Le autorità cristiane, le suore e i frati, sono mobilitati per dare credibilità alla versione di regime e lo fanno con entusiasmo e con l’aiuto attivo di centri di manipolazione mercenaria dell’informazione come il famoso Réseau Voltaire (il cui corrispondente italiano è: www.voltairenet.org, ndr). Per due volte scrivo ai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica, spiegando che la guerra civile è già iniziata sul territorio siriano e che occorre attivare una iniziativa internazionale per uscire dalla contrapposizione Russia versus Nato e Iran versus arabi sunniti e turchi. Fino a oggi la Chiesa non si è pronunciata sul diritto dei siriani (di tutti i siriani, anche gli esiliati lungo i terribili ultimi quarant’anni) all’autodeterminazione e a una democrazia diversa da una pagliacciata di regime; e paesi che la Chiesa può incoraggiare ad agire mostrano una insensibilità impressionante! Posso assicurare che sono meno isolato tra i cristiani siriani di ciò che si può immaginare. La mia voce però è una delle poche note che si siano levate a dire che noi cristiani non possiamo rimanere col regime torturatore e oppressore e neppure possiamo restare neutrali. La storia è a un punto di non ritorno. Noi da che parte stiamo? Paolo Dall’Oglio 2010/’11 2011 2013 OTTOBRE 2013 MC 19 SIRIA scambiassero idee e esperienze di vita persone provenienti da tutto il mondo e di tutte le fedi. Come vede l’arrivo di papa Francesco? Parto dalla scelta del suo predecessore, Benedetto XVI: un atto di forte coraggio, la testimonianza di un grande signore che a un certo punto decide di farsi da parte per il bene della Chiesa, stimolandola a migliorarsi. L’ho accompagnato nelle mie preghiere e merita molta gratitudine, perché in questo modo porta freschezza all’ambiente, tagliando le gambe a una sorta di “corte” che avrebbe danneggiato tutto il sistema. Ora con l’avvento di Mario Bergoglio, l’auspicio è che si riporti il potere alla sinodalità della Chiesa, ovvero che lui si metta a capo di un collegio che con responsabilità porti avanti relazioni positive con le altre confessioni, in particolare si ponga con un’attitudine positiva verso il mondo musulmano. Cosa risponde a chi in Italia, politici ma non solo, rifiuta l’offrire spazi per luoghi di culto a persone di fede musulmana argomentando che «là non ci fanno costruire le chiese»? Che è una frase falsa frutto di un luogo comune: esistono chiese in tutto il mondo musulmano, eccetto l’Arabia Saudita dove non sono presenti in modo istituzionale. La regola è quindi che le chiese ci sono, quello che mi scandalizza quando vengo in Italia è vedere moschee assolutamente non degne delle città in cui sono. Io dico questo: con moschee da scantinato si fanno musulmani da scantinato, più arrabbiati e meno inseriti nel contesto in cui vivono. Quanto torna in Italia cosa nota del nostro paese? Ci sono tante reti di persone che si danno da fare, ma in generale vedo una società narcisista, sempre più chiusa su sé stessa, in cui tutto è un prodotto da supermercato e il sacro perde il proprio valore. Invece non bisogna lasciarsi andare nonostante i tempi difficili di crisi, e ripartire proprio dalle differenze viste come ricchezze, cominciando con il riconoscimento dell’alterità come parte integrante e non oppositiva del proprio mondo. 20 MC OTTOBRE 2013 Lasciamo il discorso sul dialogo interreligioso e ci dica qualcosa sulla sua Siria... Oggi sono tutti divisi: da una parte chi non vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani che chiedono più libertà. Dall’altra chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto internazionale. il dialogo c’è ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che mi fermano per strada dicendomi che loro rifiutano la logica della guerra civile. Nonostante le vessazioni, nel paese sono migliaia quelli che non vogliono imbracciare le armi. Il problema è che con il passare dei giorni sono sempre meno, soprattutto se nessuno dà loro segni di speranza. Lei vede questo complotto? No, ma vedo che nella violenza attuale pesa in modo sconvolgente l’immobilismo delle forze internazionali. Come si fa a lasciare sprofondare questo paese senza fare nulla? Obama non fa seguire fatti alle parole per non mettere in crisi la sua rielezione? C’è poi da considerare un altro fattore oggi all’apparenza fuori controllo: chi finanzia e decide le azioni terroristiche? La verità è che oggi la Siria è il ring di pugilato del mondo: Iran contro Turchia, Sunniti contro Sciiti, Nato contro Russia. E l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a causa del diritto di veto. Daniele Biella Come uscire dalla grave situazione attuale? Io ho due proposte concrete per riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane almeno 50mila corpi civili e nonviolenti internazionali, che si interpongano tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza e armi sembrano essere l’unica risposta. Queste figure ci sono, e vanno impiegate con un ruolo riconosciuto da tutti i belligeranti, per ridare ai siriani il loro diritto all’autodeterminazione. L’altra idea è quella di creare, fin da subito, laboratori, punti di incontro tra i milioni di siriani all’estero per convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi addosso. Se loro recuperano il dialogo, poi anche in patria potranno farlo. Non è tardi per il dialogo, viste anche le atrocità commesse dal regime? Le torture sono abominevoli, ma ricordiamoci che non è niente di nuovo. Fino a poco fa era la stessa Cia, l’intelligence statunitense, a sponsorizzare i paesi arabi che ne facevano uso contro l’integralismo islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con L’INUTILITÀ DELLA STORIA osovo (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011), Siria (2013?). La storia non insegna nulla, soprattutto a chi non ha interesse a imparare. Nell’era dell’iperinformazione prevale sempre e comunque la disinformazione. Mentre la galassia dei ribelli siriani è in evidente difficoltà, Assad viene accusato di aver usato armi chimiche, in quartieri periferici di Damasco (21 agosto). «L’utilizzo delle bombe chimiche è tutto da provare. Se sono state utilizzate, non è certo chi le abbia gettate» (mons. Giuseppe Nazaro). Ieri erano Bush, Blair e Aznar. Oggi sono Obama, Cameron e Hollande. Dicono che occorre intervenire per porre fine ai massacri del regime di Damasco. Papa Francesco twitta: «Mai più la guerra!» (2 settembre). «Quando si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi» (don Renato Sacco). Come storia insegna. Paolo Moiola K I LIBRI DI PADRE DALL’OGLIO • Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana, Edizioni Emi, Bologna, settembre 2013. • La sete di Ismaele. Siria, diario monastico islamo-cristiano, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano 2011. • Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, Edizioni Jaca Book, Milano 2011. • Speranza nell’Islam, Casa editrice Marietti, 1992. BRASILE di PAOLO MOIOLA QUESTIONE INDIGENA / INCONTRO CON FRATEL CARLO ZACQUINI © nes Arciniegas Tasco IL BIANCO CHE SI FECE In Brasile i diritti dei popoli indigeni sono sotto attacco. Un attacco molto insidioso perché messo in atto da istituzioni pubbliche (governo e congresso). In queste pagine fratel Carlo Zacquini, una vita trascorsa a lottare a fianco degli indigeni, e degli Yanomami in particolare, racconta cosa sta accadendo e quanto grave sia la situazione. # Fratel Carlo Zacquini con l’amico Davi Kopenawa, sciamano e riconosciuto leader yanomami, in una foto dell’agosto 2013. I numeri sono schiaccianti. Le persone coinvolte sono «soltanto» novecentomila su una popolazione di 201 milioni. Eppure la questione indigena nel Brasile della crescita economica e delle proteste di piazza è un tema dirompente. È una scelta tra la strada dell’omologazione al modello neoliberista e dello sviluppo fondato sul saccheggio delle risorse naturali e quella della difesa di popoli indigeni a volte ridotti a pochi individui. «La situazione è molto grave e io mi sento in un’angustia indicibile, perché non riesco a sensibilizzare un numero sufficiente di persone che possano rovesciarla». A parlare così è Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da 48 anni in Brasile. Per motivi di salute fratel Carlo risiede a Boa Vista, capitale dello stato amazzonico di Roraima, ma per tantissimi anni ha vissuto nella foresta con gli indigeni. «Pochi mesi dopo il mio arrivo in Brasile, era il primo maggio del 1965, alla foce del Rio Apiaù, ebbi la fortuna di incontrare alcuni indigeni che allora erano chiamati Vaikà. Oggi so che erano Yanomami del villaggio Yõkositheri. Fu amore a prima vista. In seguito ebbi vari contatti sempre con lo stesso gruppo, finché, per l’assentarsi del mio collega padre Giovanni Calleri, ebbi l’occasione di cominciare a vivere tra gli Yanomami del Rio Catrimani. Poco alla volta, mentre cercavo di sopravvivere in quel luogo, molte volte senza il minimo necessario, imparai una delle loro lingue e, cominciai a fare delle ricerche sulla loro cultura». Le attività di fratel Zacquini furono interrotte nel 1974, dalle opere di una strada genocida - la Perimetral Norte o Br-210 che il governo militare di allora aveva deciso di costruire per andare dall’Atlantico al Pacifico. «Fu una tragedia che non dimenticherò mai. Vari villaggi furono decimati da malattie sconosciute agli Yanomami, portate dagli addetti alla costruzione della strada. OTTOBRE 2013 MC 21 BRASILE LA CRONOLOGIA Nasce il Servizio di prote1910 zione degli indigeni («Serviço de Proteção aos Índios», Spi). Il ministro dell’Interno bra1967 siliano commissiona al procuratore generale Jader de Figueiredo Correia un’indagine sulla condizione indigena in Brasile. Il rapporto diventa la prova storica del genocidio perpetrato ai danni degli indigeni. Lo Spi viene sostituito dalla Fondazione nazionale per l’indio («Fundação Nacional do Índio», Funai). Viene promulgato lo Statuto dell’indio («Estatuto do Índio», legge 6.001). Viene promulgata la nuova Costituzione brasiliana. In essa il Capitolo VIII è dedicato ai popoli indigeni. Il cuore è l’articolo 231. Il 19 giugno viene finalmente ratificata dal parlamento brasiliano la Convenzione 169 dell’Oil sui popoli indigeni. Il presidente Lula vara il «Programa de Aceleração do Crescimento» (Pac), che diverrà presto una grande minaccia per le terre indigene. Ottobre. Viene promulgato il nuovo Codice forestale («novo Código Florestal»), un grosso regalo ai latifondisti e all’agrobusiness, nonostante alcuni veti posti dalla presidente Dilma Rousseff. - Marzo. La Oil denuncia il Brasile per aver violato l’Accordo 169 non consultando gli indigeni del Rio Xingú, per i lavori della megacentrale di Belo Monte. - Novembre. Il deputato (e latifondista) Homero Alves Pereira presenta il Plp 227 per regolamentare in senso anti-indigeno il comma 6 dell’articolo 231 della Costituzione federale. Maggio. La ministra Gleisi Hoffmann (Casa Civil) chiede al ministero della Giustizia di sospendere gli studi della Funai sulla demarcazione delle terre indigene nel Paraná. La presidente incontra la senatrice Kátia Abreu, leader degli imprenditori agricoli. - Maggio/giugno. Arriva alla Camera la Proposta di revisione costituzionale (Pec) 215/2000 in chiave antindigena. - 10 luglio. La presidente incontra i rappresentanti dei popoli indigeni. - 23-25 agosto. Ad Ater do Chao (Santarém, Pará), si svolge l’incontro dei «popoli indigeni resistenti». - 30 settembre - 5 ottobre. L’associazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib) prevede mobilitazioni contro i ripetuti attacchi ai diritti indigeni. (pa.mo.) 1967 1973 1988 2002 2007 2012 2013 22 MC OTTOBRE 2013 © Carlo Zacquini Non si saprà mai quanti morirono. Superata questa fase, ben presto la strada, incompleta, fu risucchiata dalla foresta. Nel frattempo io avevo dovuto abbandonare le mie ricerche e dedicarmi quasi esclusivamente alla medicina per cercare di salvare la vita almeno a quelli che erano più vicini a me». ALLA FINE È SEMPRE LA LEGGE DEI BIANCHI Fratel Carlo parla degli indigeni come fossero la sua famiglia. E certamente lo sono, ieri come oggi, quando essi sono oggetto di attacchi ancora più vergognosi del passato in quanto provenienti da rappresentanti del Congresso nazionale (aderenti alla potente Bancada ruralista, la quale spesso trova appoggio nella Bancada evangelica), intenti a svuotare la portata del Capitolo VIII («Degli indios») della Costituzione del 1988. «Sono riconosciuti agli indios - recita l’articolo 231 - la loro organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni, e i diritti originari sulle terre che occupano tradizionalmente, spettando all’Unione la loro demarcazione, la protezione e il rispetto di tutti i loro beni». I congressisti giocano su un terreno favorevole. Oggi una parte importante dei brasiliani malsopporta gli indigeni. «Cosa sono oggi, per il Brasile, questi popoli? La prima impressione è che loro siano di intralcio. Scomodi. O peggio. Per molti “patrioti” essi sono un disonore: “Come si può ammettere - dicono - che esistano ancora oggi dei ‘selvaggi’ nel nostro paese che sta primeggiando tra le grandi economie mondiali?”». Fino al 10 luglio 2013, la presidente Dilma non aveva mai ricevuto i rappresentanti dei popoli indigeni. Le foto dell’incontro, diffuse dal Planalto (il palazzo sede della presidenza), non debbono trarre in inganno. I sorrisi sono di circostanza, buoni per i media e per la piazza che ha bisogno di messaggi tranquillizzanti. Dietro lo scenario le manovre sono ben diverse. Dai tempi della dittatura militare il governo di Dilma è quello che ha demarcato meno terre indigene, ma soprattutto è quello che sta di fatto erodendo diritti che sembravano acquisiti (anche se spesso non erano effettivi). La demolizione è sistematica e continua attraverso ordinanze (portarias), progetti di revisione costituzionale (Pec), decreti, leggi. Per citare i casi più recenti e clamorosi ricordiamo il Progetto di legge complementare (Plp) 227/2012 e la Proposta di revisione costituzionale (Pec) 215/2000. Il progetto 227 - presentato dal latifondista Homero Pereira (la cui campagna elettorale è stata finanziata da grandi imprese con oltre un milione di dollari) - vuole regolamentare il comma 6 dell’articolo 231 della Costituzione. In particolare, esso mira a sottomettere le terre indigene al «rilevante interesse pubblico dello stato brasiliano» (relevante interesse público da União), rendendone in pratica nullo il diritto al possesso e all’uso esclusivo da parte dei popoli indigeni. Ciò significherebbe giustificare il latifondo e aprire le porte a strade, condutture, centrali idroelettriche, ferrovie, miniere, insediamenti umani. La proposta 215 - presentata dal deputato Almir Sá e giudicata incostituzionale dai giuristi - vuole invece porre sotto il controllo del Congresso nazionale (e dunque della Bancada ruralista) la demarcazione delle terre indigene, finora garantita dalla Costituzione. MC ARTICOLI «Un piccolo numero di “bianchi” spiega fratel Zacquini - si è impossessato di estensioni enormi di terre e domina il governo nazionale attraverso i “suoi” rappresentanti. L’enorme estensione del paese, la confusione nelle proprietà fondiarie e il potere economico hanno il sopravvento sul buon senso e sulla legge. La quale legge, se è favorevole ai popoli indigeni... la si cambia, come sta accadendo ora. In fin dei conti, viene detto a mo’ di giustificazione, le leggi vigenti, chi le ha fatte - e dunque chi le può modificare - non sono gli indigeni…». «TROPPA TERRA PER POCHI INDIGENI» La Bancada ruralista («Frente parlamentar da agropecuária»), i suoi potenti sostenitori («Confederação nacional da agricoltura», gruppi imprenditoriali dell’agrobusiness e delle attività minerarie) e i media più influenti sostengono che 113 milioni di ettari di territorio brasiliano (13,3% del totale, dati Isa) in mano ai popoli indigeni sarebbero troppi. Va detto - tra l’altro - che spesso si tratta di un possesso teorico. Una parte considerevole delle terre indigene è infatti soggetta a invasioni costanti e prolungate da © Survival International parte di vari soggetti: allevatori di bestiame, minatori, mercanti di legni pregiati, trafficanti di biodiversità. «Perché, anche nel caso dei popoli che hanno ottenuto il riconoscimento delle loro terre, il governo non interviene con prontezza ed efficienza contro gli invasori? In questo modo si alimenta la mentalità che invadere terre indigene e distruggervi la natura non rappresenti un crimine. Incentivati dall’impunità, le invasioni si moltiplicano. Se i contravventori fossero gli indigeni, molto rapidamente sarebbero azionate le forze dell’ordine per reprimerli, anche con la violenza». Il problema è che spesso neppure lo Stato rispetta i territori indigeni. Avviene, ad esempio, con le megaopere previste dal Programa de aceleração do crescimento («Programma di accelerazione della crescita», Pac e Pac2). Secondo la Fondazione per l’indio (Funai), ben 201 opere del Pac interessano terre indigene. Le più impattanti sono le centrali idroelettriche, in particolare Jirau e Santo Antonio sul fiume Madeira (Rondonia), Teles Pires (Mato Grosso) e São Luiz (Pará) sul fiume Tapajós e la più grande in assoluto, quella di Belo Monte, sul fiume Xingu (Pará). Opere devastanti per l’ambiente e per l’esistenza di decine di popoli indigeni, esse testimoniano anche il mancato rispetto della Convenzione 169 della Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), cui il Brasile aderisce. Secondo l’articolo 16, «i popoli interessati non devono essere trasferiti dalle terre che occupano. © Jesco von Puttkamer/ IGPA archive Qualora in via d'eccezione si giudichino necessari il trasferimento e il reinsediamento di detti popoli, questi non potranno avvenire se non col loro consenso liberamente espresso in piena cognizione di causa». La sua violazione da parte del governo brasiliano è palese. «Perché - si chiede giustamente fratel Zacquini -, quando si pensa al “progresso”, non si pensa quasi I NUMERI • 305 popoli indigeni (alcuni composti da poche persone), dei quali 37 in isolamento volontario • 896.917 indigeni, così distribuiti: 324.834 in città 572.083 in aree rurali • 433.363 delle 896.917 persone indigene vivono nell’Amazzonia legale (9 stati: Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima, Tocantins e parte di Mato Grosso e Maranhão) • 847 terre indigene (a diversi livelli di riconoscimento*) • Estensioni delle terre: 851.196.500 ettari totali Brasile 112.983.625 ettari terre indigene 228.500.000 ettari privati incolti • 54 indigeni assassinati in media ogni anno. Durante il governo Cardoso vennero assassinati 167 indigeni, 20,8 per anno; durante il governo Lula gli indigeni assassinati furono 452, con una media annuale di 56,5; nei primi due anni di governo Rousseff, i morti sono stati 108. (*) Iter di riconoscimento delle terre indigene: identificazione (Funai), demarcazione, omologazione (con decreto presidenziale), registrazione fondiaria. FONTI: Censimento Ibge 2010, Cimi, Cpt, Isa, Funai. # A lato, due foto storiche: il trattamento riservato a un’indigena e una coppia Karajá con il proprio bambino, morto di influenza. In alto: all’entrata di una fazenda di Roraima un cartello avverte che è proibita la caccia, la pesca ma anche l’entrata a cercatori d’oro e... preti. OTTOBRE 2013 MC 23 BRASILE mai alle terre dei latifondisti, sovente incolte, ma sempre e soltanto a quelle indigene?». L’affermazione è fondata su numeri chiari: in Brasile, circa 70mila persone sono proprietarie di 228 milioni di ettari di terre improduttive (dati Ibge). «Insomma - conclude Carlo -, considerate le dimensioni continentali del paese, nessuno potrà dire (in buona fede) che, demarcate le terre indigene, gli altri abitanti non avranno terre per abitare, lavorare e svolgere ogni possibile attività. E, a parte questo, va sempre ricordato che i popoli indigeni non devastano natura e territori come invece fanno i “progrediti” e “colti” non indigeni...». IL CORAGGIO DI SCHIERARSI A FIANCO DEGLI INDIGENI I popoli indigeni sanno difendersi. Dopo il genocidio e l’etnocidio compiuti nei secoli passati e nel periodo della dittatura militare (come testimonia il «Rapporto Figueiredo»), essi si sono organizzati. Tuttavia, la loro condizione di minoranza fa sì che essi debbano essere difesi e aiutati. Certamente non lo fanno i media brasiliani. «I mezzi di comunicazione - spiega fratel Carlo - presentano la questione indigena sotto punti di vista folcloristici o con sensazionalismo. Sovente le questioni sono trattate con pregiudizi, o nascondendo interessi di agrobusinessmen, latifondisti, ditte di estrazione mineraria, e altri ancora. C’è insomma una tendenza a camuffare interessi di pochi, presentandoli come questioni di interesse nazionale, di sicurezza, di progresso». In questi ultimi decenni, a fianco dei popoli indigeni del Brasile si è schierata la chiesa cattolica. Ben prima della fine della dittatura # A lato: molti sorrisi di circostanza nella foto ufficiale dell’incontro del 10 luglio 2013 tra la presidente Dilma (al centro) e i rappresentanti dei popoli indigeni. Si notino il leader degli Yanomami Davi Kopenawa (a destra di Dilma) e dei Kayapó Raoni Metuktire (dietro, a sinistra). 24 MC OTTOBRE 2013 militare (nel marzo 1985), ben prima delle rivolte di piazza di giugno e luglio 2013, a lottare per un paese meno ingiusto c’erano due suoi organismi: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi, fondato nel 1972) e la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt, nata nel 1975). «Nel passato - ammette fratel Carlo - la chiesa cattolica ha causato grandi danni alle popolazioni indigene dell’America. Da quando io sono qui tuttavia, e sono ormai quasi 50 anni, la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), è stata sempre a fianco dei popoli indigeni, ha dato appoggio ai missionari che si sono dedicati a questa causa con nuove forme di approccio, dovendo lottare controcorrente. Non conosco nessuna altra entità che abbia offerto tanti individui totalmente dedicati alla causa indigena come la chiesa cattolica, in questo mezzo secolo. Il modus operandi è cambiato gradualmente e gli stessi indigeni riconoscono la grande importanza della chiesa nelle loro conquiste. La chiesa è stata la prima a dare la parola agli indigeni, ad aiutarli a organizzarsi, a incentivarli, a difenderli, anche con avvocati generosi e competenti». Parallelamente sono sorte anche varie Ong (internazionali e brasiliane) che, il più delle volte, avevano la collaborazione o l’appoggio della chiesa. Merita di essere GLI YANOMAMI Numero - 36.000 persone. Territorio - Brasile (Roraima: 21.000) e Venezuela (Alto Orinoco: 15.000). CRONOLOGIA 1900 - Primi contatti conosciuti tra uomini bianchi e indigeni yanomami. 1965 - I missionari della Consolata fondano una missione sul fiume Catrimani. 1973 - Il regime militare brasiliano inizia la costruzione della strada Perimetral Norte o Br-210. L’opera ha un impatto devastante sulle comunità yanomami. 1978 - Nasce la Commissione proYanomami (Ccpy). 1986 - Migliaia di cercatori d’oro (garimpeiros) invadono le terre yanomami, provocando disastri. 1992 - Viene omologata la riserva indigena yanomami. 2008 - Il 5 maggio un commando di uomini bianchi spara a 10 indigeni. Il mandante sarebbe il fazendeiro locale Paulo César Quartiero, che nel 2011 sarà eletto deputato. 2010 - Ancora problemi con i minatori illegali, stimati in circa 3.000. 2013 - Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni leader riconosciuto degli Yanomami, incontra la presidente Dilma Rousseff. MC ARTICOLI © Carlo Zacquini © Survival International citato il lavoro di Survival e, per lo stato di Roraima, quello svolto dall’omonimo comitato (Co.Ro.). © Roberto Stuckert Filho/PR I BIANCHI E LA CORSA AL SACCHEGGIO A Roraima, dove fratel Zacquini vive, ci sono la Terra indigena degli Yanomami e la Terra Raposa Serra do Sol (di vari popoli: Makuxí, Vapichana, Ingarikó e altri). Ma il riconoscimento non ha cancellato i problemi. Una parte della Terra Yanomami è occupata clandestinamente da oltre 20 anni, mentre per Raposa sono state introdotte numerose restrizioni (Petição 3388 e Portaria 303). «Sono decine - ricorda il missionario - le proposte di legge presentate da congressisti, vari di Roraima (come Paulo Cesar Quartiero, Romero Jucá, Almir Sá, Edio Lopes), per togliere o ridurre i diritti dei popoli indigeni. Le nubi sembrano annun- ciare un uragano che si abbatterà senza misericordia sui diritti dei popoli autoctoni». Carlo Zacquini ha visto crescere e affermarsi come leader degli Yanomami Davi Kopenawa, sciamano. Tra loro c’è una grande stima e amicizia. «Appena tornato dall’incontro con la presidente Dilma, Davi mi ha detto sconsolato: “Le persone che hanno il potere in questa terra non sono dei nostri; sono degli estranei, vengono da un altro mondo”. Voleva in questo modo dirmi che non riesce a capirli, che essi pensano solo ai soldi... Lui e molti altri indigeni sono indignati per il modo in cui noi bianchi trattiamo non soltanto gli esseri umani, ma anche la terra, l’acqua, l’aria. La natura insomma». Sopra e sotto i territori indigeni ci sono ricchezze naturali che fanno gola e davanti ad esse in tanti sono disposti a tutto. Come testimonia un progetto di legge - presentato dal senatore Romero Jucá - che vuole aprire allo sfruttamento dei minerali in terra indigena (mineração em Terras indígenas, Projeto de Lei nº 1610/96). Fratel Carlo non riesce a farsene una ragione: «È necessario sfruttare queste risorse? La distruzione dell’ambiente non causa più danni di quanto le risorse possano essere di aiuto? Se poi si riconosce onestamente che queste risorse sono necessarie, non si dovrebbe dare priorità allo stesso tipo di risorsa esistente in terre non indigene? Da ultimo, in caso di sfruttamento di terre indigene, il minimo che si dovrebbe fare sarebbe di dibattere la questione con i diretti interessati ed elaborare con loro programmi e attività non estemporanee, per preparare la popolazione e farla partecipe degli eventuali benefici». Niente di tutto questo avviene: ai popoli indigeni rimangono soltanto # A sinistra: cercatori d’oro (garimpeiros) illegali in Terra Yanomami. Qui sopra: uno Yanomami contesta la Pec 215. problemi e distruzioni. «La corsa al saccheggio delle risorse naturali non rinnovabili - chiosa fratel Zacquini - non porta nessun paese al vero progresso. Normalmente serve solo per arricchire qualcuno, lasciando il debito da pagare alle future generazioni». Parole sacrosante ma inascoltate in un Brasile entrato negli ingranaggi perversi di una crescita economica insensata che sta calpestando l’ambiente e l’esistenza o la stessa sopravvivenza dei suoi popoli indigeni. Paolo Moiola SITI CONSIGLIATI: • www.cimi.org.br • www.cptnacional.org.br • www.adital.com.br • www.survival.it • http://pib.socioambiental.org (dell’Instituto Socioambiental, Isa) SITI YANOMAMI: • www.hutukara.org • www.proyanomami.org.br • www.giemmegi.org (del Comitato Roraima Onlus) VIDEOINTERVISTA: dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, intervistato (agosto 2013) sulla tematica indigena e sul Brasile. La videointervista è visibile sul sito della rivista e su You Tube. OTTOBRE 2013 MC 25 CENTRAFRICA di MARCO BELLO LA CRISI DIMENTICATA NEL PAESE INESISTENTE IL CUORE (MALATO) DEL CONTINENTE «I ribelli? Loro ti dicono chiaro che questa è una provincia del Ciad». Chi parla è padre Aurelio Gazzera, missionario a Bozoum, Repubblica Centrafricana1. Carmelitano scalzo della provincia ligure, lavora nel paese dal 1992 e da dieci anni opera in questa zona a Nord-Ovest. La Rca è un paese dimenticato, isolato e senza particolari interessi geo-strategici. Almeno per ora. Ex colonia francese, la sua collocazione nel cuore del continente le impedisce l’accesso al mare. Vasto il doppio dell’Italia conta circa 5 milioni di abitanti. Di fatto è diventato uno stato cuscinetto tra la zona islamica a Nord, Ciad e Sudan, e quella cristiana a Sud, Congo e Repub- © AFP Photos Marzo 2013: i ribelli conquistano Bangui. Ennesimo colpo di stato nella Repubblica Centrafricana. Ancora la popolazione subisce saccheggi, uccisioni, torture, stupri. Ma la ribellione ha una connotazione confessionale ed etnica. E vi fanno parte molti stranieri. Ci sono tutti gli ingredienti per l’infiltrazione della jihad internazionale. Eppure sembra non interessare i potenti della Terra. Ma come si è arrivati a questa crisi? E quali sono le prospettive? 26 MC OTTOBRE 2013 ©Aurelio Gazzera # Pagina a fianco: giuramento dell’autoproclamato presidente Michel Djotodia, con Idriss Déby, presidente del Ciad, 18 agosto scorso. # A fianco: abitanti di un villaggio saccheggiato nei pressi di Bozoum, nel Nord-Ovest. # Sotto: vaccinazione di una bimba © AFP Photos/ Xavier Bourgois durante la campagna contro il morbillo. blica democratica del Congo. E l’attuale crisi politica e umanitaria ha messo in evidenza tutta la delicatezza della sua posizione e la fragilità dello stato. È sgnificativo come nonostante il paese sia esportatore di diamanti, oro e petrolio, gli indicatori della Rca sono scesi negli ultimi 30 anni: la speranza di vita è diminuita dal 1985 a oggi (49,8 a 49,1), così come il reddito medio per abitante (da 909 a 722 Usd). La speranza scolarizzazione è invece aumentata di un solo anno da 5,8 a 6,8 (Pnud2). LA STORIA SI RIPETE Per capire la crisi odierna occorre fare un passo indietro. Nel 2003 François Bozize aveva annullato, con un colpo di stato, dieci anni di regime corrotto di Ange-Félix Patassé e si era inse- diato come presidente della repubblica, poi confermato alle urne nel 2005 e nel 2011. Accolto all’epoca come il cambiamento possibile, Bozize ha presto deluso le aspettative mettendo in piedi una gestione del potere definita «etno-familiare». Tutti i posti chiave, politici e militari, erano occupati da membri della sua stretta cerchia famigliare o al più della sua etnia, gbaya (o baya) della zona di Bossangoa. Un regime parassita e corrotto, che si permetteva però di trascurare la gestione della sicurezza sul territorio nazionale. L’esercito, allo sbando, ha lasciato intere parti del paese in mano a gruppi ribelli nazionali ed esteri già dal 2005. È famoso il caso della Lord Resistence Army (Lra) di Joseph Kony (cfr. MC giugno 2012), che si è instal- lata nell’Est della Rca dal 2008, o di gruppi armati ciadiani e sudanesi arrivati dal Nord. Bozize si è visto costretto a firmare diversi accordi di cessate il fuoco con fazioni ribelli, soprattutto del Nord-Est, la regione più critica e fuori controllo (2008, 2011). Ma è alla fine dell’anno scorso che i più importanti gruppi in armi, spesso in lotta tra loro, si uniscono in una coalizione eterogenea e diversificata: la Seleka. Si tratta di Ufdr (Unione delle forze democratiche per la riunificazione) e Cpjp (Convenzione dei patrioti per la giustizia e la pace), basati su etnie diverse, ai quali si unisce il Cpsk (Convenzione patriottica di salvezza del Kodro) costola dissidente del Cpjp e l’Unione delle forze repubblicane. Numerosi anche i combattenti sudanesi (originari del Darfur) e ciadiani che si aggregano alla coalizione per approfittare dei saccheggi. I ranghi della Seleka si gonfiano infine di giovani e minorenni delle varie città, volontari o reclutati a forza, durante la discesa su Bangui e nella capitale stessa. «Ci sono tantissimi sudanesi e ciadiani - continua padre Aurelio - sono tipi fisicamente diversi, si vede a colpo d’occhio. Non parlano né il sango (lingua ufficiale e più diffusa, ndr) né il francese, ma solo l’arabo o l’inglese. Interloquire e dialogare con queste persone è complicato. Altri sono della zona centrale del paese da cui proviene il sedicente presidente Michel Djotodia. Anche molti ministri non conoscono le OTTOBRE 2013 MC 27 # Sopra: François Bozize, il deposto presidente della Rca. # In centro: un gruppo della Seleka. Evidenti sono i differenti caratteri somatici presenti. © AFP Photos/ Xavier Bourgois © AFP Photos/ Sia Kambou CENTRAFRICA # A destra: monsignor Nzapalainga incontra gli abitanti di un villaggio nei pressi di Bozoum. due lingue nazionali». Fatto grave, secondo molti osservatori, i posti di maggiore responsabilità, i generali e i colonnelli che controllano le province, sono stranieri. I «NUOVI» RIBELLI La Seleka, che si identifica per la prima volta il 10 dicembre 2012, conquista rapidamente diverse città e punta su Bangui. È la Comunità economica degli stati dell’Africa centrale (Cesac) che interviene con una mediazione che porta agli accordi di Libreville (Gabon) l’11 gennaio 2013. I mediatori designati sono Denis Sassou Nguesso, presidente del Congo, e Idriss Déby Itno del Ciad. Due vecchie volpi, che ottengono un accordo di cessate il fuoco. Bozize resta al potere, ma deve formare un governo di unità nazionale e «congelare» l’Assemblea Nazionale (il parlamento) che sarà rieletta entro 12 mesi. Un comitato di monitoraggio degli accordi sarà messo in piedi. Bozize, che deve rinunciare formalmente a ricandidarsi, nomina come primo ministro di transizione Nicolas Tiangaye, avvocato, militante in diverse istanze dell’opposizione. La Cesac mette a disposizione la Missione di consolidazione della pace in Centrafrica (Micopax o Fomac), già presente in Rca dal 2008, con 700 effettivi, per vegliare sulla parte militare del- 28 MC OTTOBRE 2013 l’accordo, proteggere gli organi di transizione e il lavoro umanitario. Ma per la Seleka la fetta di torta è troppo piccola, solo 5 ministri su 33, con i principali in mano al clan Bozize. Il presidente dal canto suo, afferma: «Je reste le patron» (Sono sempre il capo3). Così i ribelli, decidono di farla finita e riprendono le ostilità. Il 24 marzo sono a Bangui, sbaragliando le deboli Forze armate nazionali (Faca) e 400 militari Sud africani inviati in aiuto a Bozize. La Micopax invece non reagisce. Il presidente fugge, e Michel Djotodia, leader del Ufdr, si auto proclama capo dello stato. Djotodia, già funzionario ministeriale durante i regimi di Patassé e Bozize, era stato nominato da quest’ultimo ambasciatore in Darfur, per poi cadere in disgrazia ed essere escluso dai giochi di potere. Seleka controlla rapidamente tutto il paese. L’Unione africana (Ua) non riconosce il nuovo regime, mentre la Cesac prende atto: convoca due incontri a Ndjamena (capitale del Ciad), il 3 e il 18 aprile e arriva al compromesso. Gli accordi di Libreville sono mantenuti validi (pur nella nuova configurazione a Bangui) e la transizione dovrà durare 18 mesi. Quindi tocca a Djotodia fare il «suo» governo: «Il 31 di marzo è stato presentato un nuovo governo di transizione - racconta padre Aurelio - dove 20 ministri su 34 erano musulmani, in un paese dove gli islamici sono al massimo il 15%. Molti erano della Seleka, tra questi 4-5 parenti stretti del presidente. Ma i paesi della Cesac non erano molto contenti, e hanno chiesto la presenza di tutte le parti, sia nei consigli di transizione, sia nel governo. Così il presidente ha diminuito leggermente il numero dei ministri della Seleka». Continua il missionario: «Il primo ministro è sempre Tiangaye: sono obbligati, lui è il perno su cui gira tutto. Seleka dice che è il ministro del dialogo di Libreville. Anche la Cesac si accontenta per tenere in piedi il processo di pace. Il primo mese e mezzo gli incontri internazionali erano soprattutto con il primo ministro e non con il presidente, non sempre riconosciuto, poi ha iniziato ad andare in giro pure lui». LE SFIDE DELLA TRANSIZIONE «La transizione prevede disarmo e integrazione dei combattenti. Questo è un problema, perché non ci sono i soldi nemmeno per l’esercito regolare, e inserire altri elementi che non hanno nessuna disciplina, lo indebolirebbe ancora di più. Poi ci sarebbero le elezioni, ma non ci sono previsioni di date. Le prospettive non sono molto radiose, perché le opposizioni si sono messe tutte con il vincitore Seleka e sono entrate nel governo. Posizione questa assunta fin da dicembre». Padre Aurelio va spesso a Bangui. Per arrivare oggi si passano molti posti di blocco dei ribelli, MC ARTICOLI fettivi diventeranno a regime 3.650 di cui 150 civili. La Misca ha come compiti: protezione dei civili, riportare pace e stabilità, riforma e ristrutturazione dell’esercito nazionale, ed è composta da uomini di Camerun, Congo, Gabon e Ciad. DIRITTI UMANI CERCASI Dopo la presa di Bangui, le tante fazioni della Seleka si scatenano ai quattro angoli del Centrafrica e la popolazione ne paga le conseguenze. Nella loro avanzata saccheggi, stupri, violenze di ogni genere e uccisioni sono all’ordine del giorno. Human Rights Watch, Ong di difesa dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto sulla Rca4 a maggio nel quale denuncia: «un gran numero di assassinii sono stati commessi dalla Seleka a Bangui dopo il colpo di stato del 24 marzo, […] e altre uccisioni sono state perpetrate dalle stesse truppe in tutto il paese tra il dicembre 2012 e aprile 2013». Nel rapporto del segretario generale dell’Onu5 (3 maggio 2013), Ban Ki-moon, è scritto: «Da quando la Seleka controlla Bangui, centinaia di cadaveri non identificati sono stati trovati in diversi settori della capitale. Se- ©Aurelio Gazzera dove miliziani improvvisati chiedono qualche soldo. Dal diario del 4 agosto: «Il viaggio è andato bene, nonostante le 12 barriere che i ribelli hanno messo sulle strade: una media di una ogni 30 km!». A Bangui è iniziato molto lentamente il disarmo dei ribelli, ma ci sono poche speranze che funzioni, perché si parla di circa 5.000 unità e quando si ritirano le armi occorre dar loro qualcosa, riconvertirli, ci vogliono mezzi, soldi, volontà da tutte le parti. «La comunità internazionale, in particolare gli stati africani, a inizio maggio avevano promesso un aumento della forza multinazionale, però dei 2.000 militari previsti pare che siano arrivati solo 150 carabinieri del Congo. Sono loro che si occupano del disarmo, in teoria. L’esercito regolare si è disintegrato, non accenna a riprendersi. I soldati hanno paura, quando ritornano nelle caserme le trovano occupate dai ribelli che li mettono in prigione o li uccidono». Dal primo agosto la Micopax cambia nome passando sotto l’egida della Ua e diventando la Misca (Missione internazionale di sostegno al Centrafrica). Gli ef- condo la Croce Rossa locale, almeno 119 persone sono state uccise […]. Si riporta che 602 feriti sono stati curati negli ospedali di Bangui». E ancora: «L’anarchia che regna in Rca ha avuto conseguenze disastrose per le donne e le ragazze, e il flusso di violenze sessuali, come stupri, stupri collettivi e atti di schiavitù sessuale, sembra inarrestabile». Intanto nella maggior parte del paese le scuole sono chiuse da quattro mesi, così come le strutture sanitarie sono prive di farmaci e disertate dagli operatori. Più in generale i funzionari sono fuggiti all’arrivo dei ribelli e hanno paura a tornare sul posto di lavoro. Inoltre non ci sono più i soldi per pagarli. Fonti Onu contano in 206.000 gli sfollati interni (di cui la metà bambini) e oltre 60.000 i rifugiati nei paesi vicini. Mentre 1,6 milioni di centrafricani hanno bisogno di aiuto di emergenza. «Qualcosa si muove, iniziano ad arrivare i prefetti nominati dal governo centrale, nelle 16 prefetture in cui è diviso il paese» ricorda padre Aurelio, senza troppo ottimismo. «Questi ribelli, sono sempre in città, ma hanno ridotto abbastanza le attività, perché ormai hanno razziato quasi tutto. Stanno andando nei villaggi». In effetti, mentre a Bangui la situazione sembra normalizzarsi poco alla volta, violenze e saccheggi continuano nelle campagne. Ancora padre Aurelio ne è testimone. Il giorno 7 agosto, sulla strada Bozoum - Bassangoa ha contato almeno 14 villaggi deserti, raccolto testimonianze di esecuzioni sommarie e saccheggi. Intanto 2.400 sfollati si sono presentati negli stessi giorni alla missione di Bozoum: «Sono fuggiti da zone a 65-90 km da qui, dopo che i ribelli hanno ucciso almeno 15 persone, ma temiamo che siano oltre 40. La questione è che non c’è nessuna autorità a cui rivolgersi per fare giustizia. Coloro che comandano sono della Seleka, ovvero sono gli stessi che fanno i saccheggi, quindi c’è poco da sperare. Inoltre, oggi continua a pagina 32 OTTOBRE 2013 MC 29 CENTRAFRICA La parola a monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui «SERVE IL CONSENSO, NO AL POTERE CHE ESCLUDE» La Chiesa cattolica centrafricana è nel mirino della ribellione. Ma insieme a protestanti e musulmani ha subito creato una piattaforma di dialogo interreligioso. Per scoprire che le tre confessioni sono sulla stessa lunghezza d’onda. E allora chi vuole questa guerra? onsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui è un religioso spiritano. Giovane (46 anni), centrafricano e molto attivo, è stato ordinato vescovo nel luglio 2012. È attualmente presidente della Conferenza episcopale centrafricana e presidente della Caritas nazionale. Lo abbiamo contattato telefonicamente. M Monsignor Dieudonné, ci parli della crisi umanitaria nel paese e nella sua diocesi in particolare. La crisi umanitaria è anche dovuta al fatto che con la guerra molte Ong hanno lasciato il paese. Inoltre la gente ha abbandonato le città e si è nascosta nella foresta, dove si nutre di radici, per paura dei ribelli della Seleka. Con le piogge è grave anche la situazione sanitaria, perché la malaria si sta diffondendo. Non è stato creato un corridoio umanitario necessario alle poche Ong rimaste a soccorrere la popolazione. Sulle strade ci sono sempre dei militari della Seleka che continuano a impedire ai mezzi non governativi di circolare, con posti di blocco nei quali vengono chiesti dei soldi. Anche le nostre macchine della Caritas vengono bloccate. C’è il problema sanitario e quello educativo: a Damara (città a 80 km da Bangui, ndr) da mesi è chiusa la scuola. L’ospedale è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Ho parlato con un medico che non può lavorare. Chi ha bisogno di cure deve andare a Bangui. Ma il paese è tutto in questa situazione. Anche l’agricoltura è bloccata. La crisi politica è iniziata a marzo, quando la gente doveva seminare. La pioggia è arrivata, gli uomini non potevano andare nei campi perché rischiavano di essere catturati o uccisi. Senza raccolto la fame arriverà nei prossimi mesi. Le sementi distribuite da organismi come Caritas e Fao sono state consumate perché non c’era nulla da mangiare. A livello della sicurezza c’è un miglioramento? La sicurezza è migliorata a Bangui, dove è gestita dalla forza multinazionale Fomac. Ma le armi sono dappertutto e alcuni quartieri, come Kina e Km5, sono delle vere polveriere. Quando si tenterà di disarmarli ci potrà essere un effetto bomba. Sono questi i sobborghi dove sono stati reclutati i li- 30 MC OTTOBRE 2013 velli bassi della Seleka. Gente che vendeva bibite per la strada e da un giorno all’altro si è trovata con un’uniforme e un fucile mitragliatore in mano, a scorrazzare sui pick up. E senza alcuna formazione. Hanno iniziato così a chiedere soldi. Sarà difficile smobilitare queste persone. Diventano dei banditi. In provincia invece, sono i giovani e i ragazzi delle città a essere reclutati dai ribelli, complice il fatto che le scuole sono chiuse. Qui chiedono 50 franchi (7 cent, ndr) a ogni ciclista che passa, o alla gente che torna dal campo con il proprio materiale. C’è un racket quotidiano e capillare, ogni qualvolta ci si sposta, si va al lavoro. Perché la Seleka non paga questi giovani che si rifanno sulla popolazione. Nella Seleka qual è la componente religiosa o etnica? Esiste una componente religiosa. La gente che ha preso il potere sta utilizzando mercenari che vengono dal Ciad e dal Sudan. Lo abbiamo scritto nella lettera dei vescovi. Li abbiamo incontrati all’interno del paese e a Bangui. Non parlano né il sango né il francese, piuttosto inglese e arabo. Poi i tre quarti della Seleka sono giovani musulmani delle regioni del Nord Est. Abbiamo denunciato che l’ex presidente Bozize arruolava solo la gente della sua zona, ora sta succedendo lo stesso. Al potere non sono rappresentati tutti i gruppi e i popoli della Rca. Inoltre dicono di essere composti al 90% da musulmani e il restante 10% da cristiani. Non c’è dogana, polizia né gendarmeria. Sono i militari della Seleka che fanno tutto. Lo stato non esiste. Solo a Bangui c’è una parvenza grazie alla Fomac. All’interno del paese non ci sono più funzionari dello stato, né autorità statali (ufficiali), tutti sono fuggiti in capitale perché venivano perseguitati dalla Seleka con l’accusa di essere agenti dell’ex presidente. Lei è stato recentemente a Roma. Perché a livello internazionale si parla così poco della Rca? All’inizio della crisi se ne è parlato, ma poi è caduto il silenzio. Come vescovi abbiamo scritto una lettera al presidente (di transizione)1. Il 25 giugno ero a Parigi in una conferenza stampa affollata. Ho detto che la Re- © Pentecôte sur le Monde MC ARTICOLI pubblica Centroafricana è un paese che muore a fuoco lento, che se nulla viene fatto diventerà il santuario dei grandi banditi, dei narco trafficanti, dei gruppi ribelli, di tutti quelli che vogliono destabilizzare. Sono andato al ministero degli Esteri e alla presidenza della Repubblica francesi per parlare di Centrafrica per attirare l’attenzione. Recentemente la ministro francese Yamina Benguigui ha dichiarato che in settembre metteranno la Rca a livello delle priorità nell’Onu. La risposta che ho avuto è che il nostro paese, ogni volta che succede qualcosa, torna al punto di partenza. Questo scoraggia la comunità internazionale. Quando ne ho parlato a Roma, il Santo Padre ha citato la Rca all’angelus del 29 giugno. Poi ho incontrato il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Per noi è una maniera di uscire dall’isolamento. Sono stato a Roma in riunione con Caritas Internationalis, con Fao e con l’ambasciatore francese presso la Santa Sede, sempre per presentare la situazione e sollecitare un impegno rapido per il paese. Diverse Caritas già ci aiutano per le questioni di sanità pubblica e ora vorremmo fare qualcosa per le scuole. A livello nazionale cosa fa la Chiesa cattolica per il ritorno alla pace? Concretamente la Chiesa cattolica insieme a Chiesa protestante e confessione musulmana ha creato una piattaforma di dialogo: facciamo delle riunioni nelle quali discutiamo. Ci ritroviamo per fare l’analisi della situazione dal colpo di stato a oggi. Vogliamo fare delle raccomandazioni ai principali attori. Utilizzeremo lo strumento Giustizia e Pace per verificare se le raccomandazioni saranno prese in conto. È una maniera per noi per spingere i vari settori a ritrovarsi e gettare il seme di una nuova maniera di vivere insieme. La Chiesa cattolica, inoltre, attraverso i suoi elementi, ha chiesto che le scuole siano riaperte. Ci siamo impegnati, attraverso Jrs (Jesuite refugee service, ndr) un organismo di Chiesa, ad attivare alcune scuole in zone dove non c’erano. Attraverso Caritas siamo intervenuti anche per nutrire gli sfollati che fuggivano dalle zone di conflitto. Abbiamo nutrito medici, malati e rifugiati. A livello reale e concreto, non solo teorico. # Monsignor Dieudonné Nzapalainga, il giorno della sua ordinazione episcopale, Bangui 22 luglio 2012. Cosa dicono i musulmani centrafricani della ribellione? Lavoriamo con gli alti responsabili dell’Islam in Centrafrica e sono sulla stessa nostra lunghezza d’onda. Ma ci sono degli imam che non sposano la stessa filosofia e dicono cose diverse. L’imam attuale presidente della comunità musulmana è andato all’interno del paese e ha condannato tutti quelli che rubano e violentano, dicendo che non sono dei buoni musulmani. Così le autorità attuali, quando sono entrate a Bangui non lo hanno cercato, ma hanno incontrato altri imam, proprio perché lui li aveva criticati. Nella Seleka i musulmani nazionali sono meno numerosi che gli stranieri e questo disequilibrio pesa molto. Il presidente della comunità islamica è centrafricano, ama la sua terra e agisce come patriota, ma penso che se fosse straniero il discorso cambierebbe. Ma riceve molte pressioni da parte delle autorità e di altri musulmani. Secondo lei qual è il cammino per uscire dalla crisi e riportare la Rca alla pace? Penso che ci voglia una volontà politica da parte di tutti quelli che fanno i politici: il presidente, gli oppositori. Occorre che si punti all’interesse nazionale e smettano di cercare il potere per il potere e di distruggere, prendere la gente in ostaggio. Decidano di lavorare insieme per questo paese. Non è un solo gruppo che potrà risolvere, occorre che ci sia davvero un’apertura. È necessaria una conferenza nazionale in cui tutti possano parlare, perché quello che è successo interessa tutto il paese. Serve un consenso: cercare delle soluzioni in modo non unilaterale. Se non si accetta di associare tutti, gli esclusi si faranno un giorno avanti per conquistare il potere. La soluzione è un albero sotto il quale tutti parlano, dialogano. Chi ha torto riconoscerà i propri torti, chi ha fatto degli errori potrà essere punito. Insieme e non con le armi. Si lasciano le armi e a cuori disarmati sarà l’amore, la fraternità, la giustizia, la correttezza, la coesione. Sono questi i valori che dobbiamo cercare. Marco Bello NOTE 1 - Message des évêques de la Rca au chef d’État, 20 giugno 2013. Reperibile sul sito della Conferenza episcopale centrafricana www.cecarca.org. OTTOBRE 2013 MC 31 ©Aurelio Gazzera # Sopra: padre Aurelio Gazzera seduto tra due ribelli della Seleka, durante la visita a un villaggio della parrocchia di Bozoum. Seleka è una coalizione, ma i gruppi continuano a dividersi, a moltiplicarsi. È tutto da vedere come si sviluppa la situazione o come degenera». PICCOLE PIETRE L’altro grosso problema è che i ribelli si sono messi in tutti i posti in cui circolano soldi, e tutte le entrate dello stato, come la dogana, le intercettano loro. I ribelli hanno inoltre commesso razzie di ogni tipo, in particolare hanno incamerato molte auto. C’è poi un ruolo accertato dei trafficanti di diamanti nel finanziamento della ribellione: «Il nipote di Bozize era ministro delle miniere nel 2008 da un giorno all’altro aveva fatto chiudere le società di esportazione, per controllare meglio il mercato, danneggiando così i trafficanti. Il presidente attuale, inoltre, era console a Nyala in Darfour, Sud Sudan, dove c’è un fiorente mercato nero di diamanti. Un altro canale di finanziamento è quello di alcuni paesi arabi» ricorda padre Aurelio. Ambiguo il ruolo giocato dal Ciad nella crisi. Oltre a essere uno dei principali mediatori negli accordi, il Ciad avrebbe appoggiato la ribellione. Alcuni leader della Seleka, ai domiciliari a Ndjamena, sono stati rilasciati poco prima delle operazioni, mentre proprio Idriss Déby, presidente del Ciad, avrebbe dato l’ok per 32 MC OTTOBRE 2013 l’offensiva finale di marzo6, fatto smentito ufficialmente da Njamena. François Bozize ha invece dichiarato che dietro alla Seleka c’è proprio il paese confinante. «È un ruolo importante – ricorda padre Aurelio -. A Bozoum abbiamo il console del Ciad, e guarda caso qui ci sono stati pochi problemi. Le voci dicono che la Francia abbia lasciato fare il Ciad per avere mano libera in Mali. Là ha più interessi». La Francia ha mantenuto un profilo molto basso, evacuando i propri espatriati tardivamente (quando molti saccheggi si erano consumati) e mantenendo una forza militare minima, a protezione di alcuni interessi strategici francesi nella capitale e dell’aeroporto. LE MOSSE DELLA CHIESA La chiesa in Centrafrica è l’istituzione che, dopo lo stato, ha subìto più danni dai saccheggi dei ribelli. Le missioni e altre opere sono state sistematicamente prese di mira: «Razziavano macchine, soldi, carburante, tutto quello che trovavano. Alcune diocesi sono state messe in ginocchio, come Bambari, Bangassou, Kanga Bandaro, Bossangoa» racconta padre Aurelio. C’è poi il rischio della connotazione religiosa del potere: «La Chiesa si è mossa subito, prima di dicembre. È stata creata una piattaforma di dialogo tra cattolici, protestanti e musulmani. Poi quando le cose sono scoppiate il lavoro è continuato. Stiamo facendo diversi incontri. La preoccupazione è evitare che ci sia un ritorno, una vendetta contro gli islamici. Molti dei musulmani lo- cali non sono d’accordo con questa ribellione. L’altro motivo è di cercare di alzare la voce, farsi sentire a livello internazionale, per avere qualche reazione. Anche i vescovi hanno parlato, ce ne sono alcuni molto coraggiosi (vedi intervista)». Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, si è finalmente riunito il 14 agosto sulla crisi in Rca, dichiarando che rappresenta una grave minaccia per tutta la regione e che occorrono progressi rapidi per la transizione politica. Intanto, il 18 agosto, Michel Djotodia ha prestato giuramento sulla «Carta di transizione» (che sostituisce la Costituzione) di fronte al Parlamento di transizione e ai presidenti di Congo e Ciad. Padre Aurelio, che di crisi in Centrafrica ne ha già vissute, dipinge un quadro poco rassicurante: «L’incertezza è grandissima. Ora c’è una certa calma, ma è molto fragile, non illudiamoci che sia risolta, può succedere di tutto. Un altro movimento ribelle che scende sulla capitale, l’ex presidente che ritorna con un gruppo armato, come alcune voci sostengono7. Non c’è nulla di sicuro. La scuola e la sanità non funzionano, quindi l’instabilità è grande. Le prospettive, con i ribelli che bloccano tutte le entrate dello stato, non sono allegre». Marco Bello NOTE 1 - Il nome ufficiale, Repubblica Centrafricana (République Centrafricaine), viene spesso accorciato in Centrafrica, o Rca in sigla. 2 - Pnud, Human Development Report 2013, Explanatory note on Hdr composite indices, Central African Republic. 3 - Il 15 marzo 2013, durante i festeggiamenti per i suoi 10 anni al potere, François Bozize lascia intendere che si ricandiderà, in contrasto con gli accordi di Libreville. 4 - République centrafricaine: de nombreuses exactions ont été commises aprés le coup d’état. Rapporto Hrw, 9 maggio 2013. 5 - Ropport du Secrétaire général sur la situation en République centrafricaine, Consiglio di Sicurezza Onu, 3 maggio 2013. 6 - République centrafricaine: les urgences de la transition, International Crisis Group, 11 giugno 2013. 7 - L’ex presidente Bozize ha fondato il Frocca (Fronte per il ritorno all’ordine costituzionale in Centrafrica). Così sta scritto a cura di Paolo Farinella, biblista LA POLITICA DI DIO (CHE È LAICO) «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12,34) UN ESODO AL CONTRARIO Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi. Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. LA POLITICA PROLUNGAMENTO DELLA CREAZIONE Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano. Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto OTTOBRE 2013 MC 33 Rendete a Cesare - 7 DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (78) Così sta scritto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,1931). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta. DIO È LAICO Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto). Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione. POLITICA E CARITÀ La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti. [7 – continua con la prossima e ultima puntata] DALLA LETTERA A DIOGNETO - 1 V. 1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17). DALLA LETTERA A DIOGNETO - 2 VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10). 34 MC OTTOBRE 2013 © AFP mageForum SPUNTI PER UNA «NUOVA EVANGELIZZAZIONE» IN EUROPA L’INDIFFERENZA E IL VANGELO DI ANTONIO ROVELLI (A CURA DI GIGI ANATALONI) OSSIER IL SINODO DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE COS’È? DI ANTONIO ROVELLI L’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è tenuta dal 7 al 28 ottobre 2012, ha avuto per tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Questo tema è dibattuto da diverso tempo dentro la Chiesa, ma è diventato di scottante attualità in questi ultimi anni soprattutto nel mondo Occidentale segnato da consumismo e secolarizzazione. GLI INSEGNAMENTI DEL MAGISTERO I documenti preparatori al Sinodo dell’ottobre 2012 hanno sottolineato l’urgenza di trovarsi insieme per valutare come la «Chiesa viv[a] oggi la sua originaria vocazione evangelizzatrice, a fronte delle sfide con cui è chiamata a misurarsi, per evitare il rischio della dispersione e della frammentazione» (Instrumentum Laboris [IL] 4). Indirettamente, questa urgenza evidenzia la presa di coscienza che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare la sfida della nuova evangelizzazione nella consapevolezza che le trasformazioni non soltanto interessano il mondo e la cultura, ma toccano la Chiesa stessa nelle sue comunità, nelle sue azioni e nella sua identità (cf. IL 16). Inoltre manifesta la volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei cristiani e delle loro comunità. Affinché la Chiesa «moltiplichi il coraggio e le energie a favore di una nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la gioia di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Non si tratta di immaginare soltanto qualcosa di nuovo o di lanciare iniziative inedite per la diffusione del Vangelo, ma di vivere la fede in una dimensione di annuncio di Dio: “La missione […] rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!” (Redentoris Missio [RM] 3)» (IL 9). Sulla scia del Concilio, papa Paolo VI osservava con lungimiranza che l’impegno dell’evangelizzazione andava rilanciato con forza e grande urgenza, e, fedele all’insegnamento conciliare, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa «deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre [...] la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo» (Evangelii Nuntiandi [EN] 56). Papa Giovanni Paolo II, che fece di questo impegno uno dei cardini del suo vasto magistero, ha sintetizzato nel concetto di nuova evangelizzazione il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione. Tale programma 36 MC OTTOBRE 2013 riguarda direttamente la sua relazione con l’esterno, ma presuppone, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata a evangelizzatrice. Basta richiamare alcune sue parole: «Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”. [...] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni» (Christifideles laici 34). Creando il nuovo «Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione», così Papa Benedetto XVI precisa il contenuto del termine «nuova evangelizzazione»: «Facendomi dunque carico della Papa Francesco pratica «nuova evangelizazzione» prima di tutto con i suoi gesti. Le sue parole schiette esplicitano quanto già fa. MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE LE SORPRESE DI DIO a novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito santo l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità Dio porta sempre novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla novità dello Spirito santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande durante tutta la giornata» (Francesco, omelia di Pentecoste 2013). «L © AFP mageForum preoccupazione dei miei venerati predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. […] La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio» (Ubicumque et semper, 21/09/2010). Nel frattempo, sulla scia della Redemptoris missio (al numero 33) era intervenuta a precisare il senso del concetto di nuova evangelizzazione anche la Congregazione per la Dottrina della Fede: «In senso proprio c’è la missio ad gentes verso coloro che non conoscono Cristo. In senso lato, si parla di “evangelizzazione” per l’aspetto ordinario della pastorale, e di “nuova evangelizzazione” verso coloro che non seguono più la prassi cristiana» (Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione, 3/12/2007, n. 12). OTTOBRE 2013 MC 37 UNA SINTESI Dai vari pronunciamenti del Magistero e dai documenti preparatori al Sinodo emerge che la nuova evangelizzazione consiste nell’immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano alla gente di uscire dal «deserto interiore», immagine usata da Papa Benedetto XVI per raffigurare la condizione umana attuale prigioniera di un mondo che ha espulso la questione di Dio dal proprio orizzonte. Avere il coraggio di riportare la domanda su Dio dentro questo mondo; avere il coraggio di ridare qualità e motivazioni alla fede di molti delle nostre Chiese di antica fondazione, questo è il compito specifico della nuova evangelizzazione. Il compito della nuova evangelizzazione non può essere ridotto a un semplice esercizio di aggiornamento di alcune pratiche pastorali, ma richiede una comprensione molto seria e profonda delle cause che hanno portato l’Occidente cristiano a trovarsi in una simile situazione. Quindi il termine «nuova evangelizzazione» richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in paesi di tradizione cristiana. La nuova evangelizzazione è da considerarsi anzitutto come un’esigenza, poi come un’operazione di discernimento e infine come uno stimolo alla Chiesa di oggi. COSA S’INTENDE PER NUOVA EVANGELIZZAZIONE Che cos’è la «nuova evangelizzazione»? Il Beato Papa Giovanni Paolo II nel primo discorso che avrebbe dato notorietà e risonanza a questo termine, rivolgendosi ai Vescovi del continente latinoamericano, così la definiva: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione [dell’America Latina, ndr.] avrà il suo pieno significato se sarà un impegno vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» (Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea del Celam, Port-au-Prince, 9/03/1983, n.3). La nuova evangelizzazione è «la capacità da parte della Chiesa di vivere in modo rinnovato la propria esperienza comunitaria di fede e di annuncio dentro le nuove situazioni culturali che si sono create in questi ultimi decenni» (IL 47). Non si tratta di un nuovo modello di azione pastorale, che si sostituisce semplicemente ad altre forme di azione (la prima evangelizzazione, la cura pastorale), quanto piuttosto di un processo di rilancio della missione fondamentale della Chiesa. Quest’ultima, interrogandosi sul modo di vivere l’evangelizzazione oggi, non esclude di verificare se stessa e la qualità dell’evangelizzazione delle sue comunità. La nuova evangelizzazione impegna tutti i soggetti ecclesiali (singoli, comunità, parrocchie, diocesi, Conferenze Epi- 38 MC OTTOBRE 2013 scopali, movimenti, gruppi e altre realtà ecclesiali, religiosi e persone consacrate) a una verifica della vita ecclesiale e dell’azione pastorale, e richiede un lento ma efficace lavoro di revisione del modo di essere Chiesa tra la gente, affinché le comunità cristiane diventino veri centri di irradiazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro bisogni. La nuova evangelizzazione è il nome dato a questo rilancio spirituale, a questo avvio di un movimento di conversione che la Chiesa chiede a se stessa, a tutte le sue comunità, a tutti i suoi battezzati I DESTINATARI Dai vari documenti e dai pronunciamenti del Magistero si ricava che lo spazio geografico entro cui si sviluppa la nuova evangelizzazione, senza essere esclusivo, riguarda primariamente l’Occidente cristiano. Così pure i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono sufficientemente identificati: si tratta di quei battezzati che nelle nostre comunità vivono una nuova situazione esistenziale e culturale, dentro la quale di fatto è compromessa la loro fede e la loro testimonianza. È chiaro che la nuova evangelizzazione assume l’Occidente come luogo di «esempio tipico», piuttosto che come obiettivo unico. Perché l’urgenza della nuova evangelizzazione non può essere ridotta a situazioni che riguardino esclusivamente l’Europa e il Nord America. Come afferma Papa Benedetto XVI, «anche in Africa, le situazioni che richiedono una nuova presentazione del Vangelo, non sono rare. […] La nuova evangelizzazione è un compito urgente per i cristiani in Africa, perché anch’essi devono rianimare il loro entusiasmo di appartenere alla Chiesa. Sotto l’ispirazione dello Spirito del Signore risorto, essi sono chiamati a vivere, a livello personale, familiare e sociale, la Buona Novella e ad annunciarla con rinnovato zelo alle persone vicine e lontane, impiegando per la sua diffusione i nuovi metodi che la Provvidenza divina mette a nostra disposizione» (Africae Munus nn. 165.171). © AFMC/J Patias 2011 OSSIER MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE IL «CHE COSA» In che cosa consiste allora? Perché chiamarla «nuova»? «Non amo questo aggettivo “nuova”. Sempre la Chiesa ha evangelizzato; se non lo avesse fatto, non sarebbe più stata la Chiesa di Cristo! Il termine “evangelizzazione”, poi, contiene già la novità della “buona notizia”; in questo senso l’espressione “nuova evangelizzazione” è un pleonasma» (Enzo Bianchi). Naturalmente la novità non intacca il contenuto del messaggio evangelico che è immutabile. «Nuova evangelizzazione non significa un “nuovo Vangelo”, perché “Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre” (Eb 13,8)» (IL 164). Per questo, il Vangelo deve essere predicato in piena fedeltà e purezza, così come è stato custodito e trasmesso dalla tradizione della Chiesa. Evangelizzare significa annunciare una persona, che è Cristo. Infatti, «non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati» (En 22). «Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (IL 165). È un dato storico da tutti ammesso che i primi cristiani erano vivacemente missionari, convinti di dover portare al mondo una notizia attesa. Questa vivacità nasceva prima di tutto dall’esperienza del loro personale incontro con Gesù Cristo più che dalla lettura delle molte emergenze (fame, schiavitù, oppressione politica ...) in cui gli uomini del tempo vivevano. L’urgenza e l’universalità della missione nasce dall’interno, dalla propria esperienza dell’incontro con Gesù Cristo. I primi cristiani sono diventati missionari perché hanno fatto un incontro che ha cambiato la loro vita. LA NOVITÀ È CRISTO L’evangelizzazione è sempre l’annuncio della novità di Gesù Cristo. È questa l’anima profonda di ogni nuova evangelizzazione, che non voglia essere puramente retorica, o subito vecchia. Quindi parlare di nuova evangelizzazione significa parlare di una no- Papa Benedetto XVI durante l’udienza del 15/6/2011. vità che non tocca soltanto il metodo, ma il Vangelo stesso. Perché oggi il Vangelo deve misurarsi con urgenze mai incontrate e rispondere a domande inedite. Nuova evangelizzazione è mostrare che il Vangelo sa rispondere ai problemi della post-modernità. È un punto importante: non è solo una questione di adattamento, di forma o di strategia, come purtroppo molti sembrano pensare, ma di «comprensione» (rispondere alla domanda «cosa significa/mi dice il Vangelo oggi?»). Le domande che la storia pone in ogni epoca al Vangelo non sono mai, o quasi mai, semplici occasioni che offrano il destro per un restyling per adattare il messaggio di sempre ai tempi, alle culture e ai linguaggi di oggi, ma provvidenziali spiragli che possono aiutare a intravedere contenuti inediti per fare emergere la sua «perenne» novità anche nell’oggi. Il Vangelo è quello di sempre, ma nuovo deve essere il modo di comprenderlo, non soltanto il modo di ridirlo. IN ASCOLTO DELLA PAROLA Chiarito questo, se è vero che l’evangelizzazione è rivolta a tutti, e nessuno può esserne escluso perché la missione della Chiesa, per volontà del Signore, è universale (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,15; Lc 24,47; At 1,8), è altrettanto vero che essa deve essere evangelizzazione continua della Chiesa, intendendo tale genitivo in primo luogo come genitivo oggettivo (la Chiesa è evangelizzata, ha bisogno cioè di ridirsi il Vangelo per comprenderlo in modo nuovo) e solo in seconda istanza come genitivo soggettivo (ossia la Chiesa evangelizza gli uomini). Non si possono dimenticare, al riguardo, le parole profetiche scritte da Paolo VI quasi quarant’anni fa, nella sua splendida esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. […] Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il Vangelo» (En 15). La missione evangelizzatrice della Chiesa consiste nel farsi eco della Parola perché ogni uomo possa ascoltarla come rivolta a sé, come Parola salvifica, e lasciarsi illuminare da essa. Nello stesso tempo la chiesa, se vuole veramente essere annunciatrice di questa Parola, deve in primo luogo dedicare tutte le sue energie ad ascoltare la Parola stessa, sapendo che «la fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), deve essere e sentirsi «affidata al Signore e alla Parola della sua grazia» (At 20,32): solo un’ecclesia audiens (che ascolta) può anche essere un’ecclesia docens (che insegna), perché la Parola che la Chiesa annuncia e testimonia non è sua ma di Dio. È Dio che parla nell’evangelizzatore. Se Dio parla il profeta non può tacere (Is 7,3; Ger 1,4; 18,18; Ez 1,3). Il profeta non parla di Dio, lascia parlare Dio; egli parla dopo aver ricevuto la Parola di Dio. OTTOBRE 2013 MC 39 OSSIER SCENARI IN EUROPA DOVE LA RELIGIONE DIVENTA IRRILEVANTE DI ANTONIO ROVELLI Alcune note molto sintetiche per capire la realtà europea attraversata da profondi cambiamenti di carattere culturale e religioso dalle conseguenze inedite sulla vita della Chiesa. La religione cristiana non solo deve competere con le altre religioni, ma è sempre più ridotta alla dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita sociale. Senza una vera comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova evangelizzazione» resta astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi schemi e metodi di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però lasciano tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di vera evangelizzazione. TEMPO DI CRISI Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate della nuova evangelizzazione le chiese di antica cristianità (soprattutto europee). Questo interpella direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione battesimale siamo i primi annunciatori della Buona Notizia proprio in questa nostra Europa. È un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni cambiamenti soprattutto di carattere culturale e religioso, che hanno investito le nostre nazioni. Forse, guardandoci intorno, contandoci - diminuiscono i sacerdoti e le persone impegnate nella vita consacrata, si chiudono o vendono le chiese e, pur avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e pratica si ritrova ormai ridotto a una minoranza sempre più emarginata -, aumenta il senso di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa esperienza di «spiazzamento» dovremmo provarla nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento non più un moto temporaneo, ma il vero «il modo di essere» della realtà. Sì, l’Europa sta cambiando, e se non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di noi. Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo esserne convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in questo tempo. Cogliere quest’ora (kairos, tempo della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa quindi essenziale per discernere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante. La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal rassicurante e dal ripetitivo, ci ob- 40 MC OTTOBRE 2013 bliga a prendere coscienza della realtà e a uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario, impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo dati. Dipende molto da come viviamo e gestiamo la crisi. Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della crisi in cui viviamo. PLURALIZZAZIONE DEI RIFERIMENTI CULTURALI Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle loro definizioni di base. Il primo è la secolarizzazione che non significa automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi la definiscono come «il processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono che «la secolarizzazione non spinge via la religione dalla società moderna, ma piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione importante per l’intera società». Il secondo è il processo di privatizzazione che accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede, ormai relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da altre priorità. Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle offerte a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di scelta e di cambiamento. Questo produce anche modi diversi di vivere la religione e le culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di cambiare idea, prodotti, consumi e costumi. Un ultimo aspetto merita di essere considerato, an- © Cereda - Madrid 2005 © Cereda - Madrid 2005 © Piergiorgio Pescali che se non frequentemente collegato ai fenomeni già citati: quella che qualcuno ha chiamato rivoluzione mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari, in rivista di Sociologia Urbana e Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p. 27-43 ), ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le migrazioni, dunque, che ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare ulteriormente i fenomeni citati. Migrazioni e cambiamenti La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è solo un fatto quantitativo, di numeri che possono impressionare e preoccupare. La presenza di popolazioni immigrate, con diverso background storico, culturale, religioso e sociale, di fatto, ha prodotto «un’Europa plurale» molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di fatto l’immigrazione produce anche un cambiamento qualitativo. Infatti la presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli. SEGNALI DI UN RITORNO DELLA DOMANDA RELIGIOSA In controtendenza con il secolarismo, il tracciato culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di senso con l’aiuto della religione. Si tratta però di una religione essenzialmente autoreferenziale, sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del benessere individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo sociale. Anche i riti e le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per ritrovare la pace, la serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si è aperto un grande supermarket del religioso accessibile a tutti anche grazie all’internet e alla televisione. Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere senza credere e, d’altra parte, su un credere senza appartenere: all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla OTTOBRE 2013 MC 41 sua parrocchia succede quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla ricerca delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi bisogni di sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente questo ha poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera a Diogneto che riportiamo a pag. 34, ndr.]. INDIFFERENZA Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della maggior parte degli uomini delle nostre società post–cristiane. L’indifferenza religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità. È una sorta di indifferenza generalizzata di chi è deluso dalla politica e dalle ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore delle ipotesi, si trasformano in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo il ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle feste liturgiche, rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni (beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate mondiali) o marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e privilegiando luoghi come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale parrocchiale. LA DE-CRISTIANIZZAZIONE Sfida interna, e di non poco conto, può essere considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o paganesimo in Europa. Sembra che il cristianesimo sia sconfitto nell’ambito della vita quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che va oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle nuove generazioni dalla Chiesa e dalla sua dottrina è evidente, e le conseguenze di questo fenomeno non sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra pratica religiosa e vissuto quotidiano. Come la Roma antica, l’Europa moderna sembra simile a un pantheon, a un grande «tempio» in cui tutte le «divinità» sono presenti, o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia. Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da parte della maggioranza degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani. I GIOVANI Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i giovani. È praticamente impossibile definire in modo univoco e statico la condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un lato cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere, delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico. Con un futuro, soprattutto lavorativo, estremamente incerto. 42 MC OTTOBRE 2013 Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare” dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura» (Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del Congresso «Nuove Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio 1997, n. 1.c). Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d’essa, smarriti lungo sentieri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale. Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una fotocopia del presente. NUOVE DIVISIONI NELLA SOCIETÀ La società oggi si divide su questioni diverse da quelle del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà...), oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione, spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi, © EC OSSIER MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE spiano e filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati, nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare grandi timori fra i cittadini, anzi. FORTRESS EUROPE Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo dell’Europa. La firma dell’accordo di Schengen nel 1995 compie due operazioni: abolisce i controlli alle frontiere interne e sposta i controlli alle frontiere esterne. Resta quindi nitida l’immagine di una Fortezza Europa impermeabile dall’esterno, soprattutto dal continente africano. «Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti dei sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di repressione della libertà di movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo. Dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012» (http://fortresseurope.blogspot.it/). © Piergiorgio Pescali © AFMC/S Moreschi ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali, culturali o pseudo-culturali. La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali (inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni dagli altri, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci pensano nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque aperti al dialogo, e coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo immaginare. La diffusione della paura nelle nostre società, la sua strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato anche economico, sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per definizione, qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada, in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci OTTOBRE 2013 MC 43 OSSIER POVERTÀ In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone che sono esposte al rischio di povertà o di esclusione sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il rischio di povertà o di esclusione sociale è molto più alto del resto della popolazione (27% rispetto al 23% della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone a una deprivazione materiale che va al di là della malnutrizione. Ad esempio, 5,7 milioni di bambini non possono permettersi indumenti nuovi e 4,7 milioni di bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo un paio di scarpe per il brutto tempo. I bambini che soffrono di deprivazione materiale producono risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti. Una forma particolarmente grave di deprivazione materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la cui entità è difficile da quantificare. Le stime di cui si dispone indicano però che in Europa nel 2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei senzatetto è aumentato di recente a causa dell’impatto sociale della crisi economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor più preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie con bambini, giovani e migranti. ESCLUSIONE SOCIALE Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine «esclusi» a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia, gli esclusi, oggi, sono dei nostri. L’esclusione sociale è un fenomeno relativamente nuovo per la sua radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio, perché uno soffre in quanto è parte del sistema. L’escluso è semplicemente ignorato; né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione degli esclusi, perché si tratta di un investimento non redditizio; gli esclusi non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di più, nella situazione di occupare il margine, come quello della pagina. Ma bisogna ricordare che il margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente, l’esclusione è un’inclusione nel margine stesso. L’escluso viene collocato al suo posto, gioca il suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta il valore del lavoro agli occhi di tutti gli altri. Egli è il cattivo esempio. L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano, nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in una periferia della geografia urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi. 44 MC OTTOBRE 2013 LA FRANTUMAZIONE DEI LEGAMI SOCIALI Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido», descrive il carattere fluido della nostra società, con la sua assenza totale di «consistenza», di stabilità, e il carattere effimero, incapace di durata, non solo delle nostre «cose», ma anche (e soprattutto) delle nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre più rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso letterale del termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza sul «usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si estende ai rapporti interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta, per cercare emozioni altrove e con qualcun altro. Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro dal titolo significativo, tradotto in italiano come se esprimesse un desiderio: «Voglia di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese, suona molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità - comunità mancante). IL PROLIFERARE DEI «NONLUOGHI» Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità» (Eleutera editrice, Milano 1993, nuova edizione 2009). Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni: autostrade, svincoli, aeroporti, stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un cambiamento (reale o simbolico). I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Insomma sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati. Morte del prossimo Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa frase riassume bene il messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel suo libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009). Perché si è distanti dal vicino e vicini al lontano. Nelle società globalizzate il vicino è un nemico potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive nella stessa città, nella stessa via, nella MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE medesima casa. «Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento». EPOCA DELLE PASSIONI TRISTI Le foto di queste pagine sono simboliche. Dal mendicante immigrato a Madrid all’uso commerciale di Babbo Natale passando per le processioni popolari; dal povero mercato in Albania a quello ricco in Finlandia, dagli sbarchi di profughi a Lampedusa, alla coda per un gelato in una gelateria di qualità e prestigio. © AFMC/Benedetto Bellesi Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno scritto un libro: «L’epoca delle passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro tesi è che la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia». Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul presente motivando impegno, applicazione, entusiasmo, slancio, prospettiva, ma fa implodere ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A che scopo?», «perché?». Siamo quindi al nichilismo, che più di un secolo fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro, così definendolo: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore». Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema. La storia registra le sue scansioni proprio grazie al crollo di certi valori e all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo appiattiti su un «eterno presente» che, non offrendo prospettive credibili, va vissuto in tutta la sua intensità (tutto e subito) quando se ne ha la forza, o in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un tarlo, ha fatto breccia nell’anima. Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso molto bene quando ammoniva le chiese dell’Europa «Spesso tentate da un offuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il quale, pur nel pieno possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una convivenza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale Ecclesia in Europa, 28/06/2003, n.7). OTTOBRE 2013 MC 45 OSSIER QUALCHE SUGGERIMENTO OPERATIVO SULLE TRACCE DEL «SOGNO DI DIO» DI ANTONIO ROVELLI Alcuni spunti, non esaustivi e solo accennati, per continuare a riflettere/pensare insieme sulla missione - nuova evangelizzazione in Europa oggi. «La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si realizza questo diventare uomo? Come si impara l’arte di vivere? Qual è la strada della felicità? Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada, insegnare l’arte di vivere. Gesù dice all’inizio della sua vita pubblica: “Sono venuto per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); questo vuol dire: io ho la risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita, la strada alla felicità, anzi: io sono questa strada, il Vangelo, la buona notizia in persona» (La Nuova Evangelizzazione, Joseph Ratzinger, 10/12/2000). Prima di tutto va ricordata una cosa fondamentale per ripensare la missione in Europa: occorre ripartire da Cristo. «Non ci seduce certo, scrive Giovanni Paolo II, la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo Millennio Ineunte, 29). Occorre dunque ritornare alla scuola di Gesù itinerante per le strade della Palestina. I Vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il gruppo in missione. La comunità dei discepoli è itinerante come il Maestro. Gesù e i discepoli sono costantemente davanti alla folla. È stando con Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare, dove e per quale annuncio. Ma è andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita, infatti, è itinerante, senza fissa dimora. Non si tratta di una tecnica pedagogica secondaria, ma di una que- 46 MC OTTOBRE 2013 stione d’identità: se la comunità non va in missione, se non sta sempre davanti alla folla, mostra di non aver capito (e accolto) l’evento di Gesù e non si fa più segno nel mondo di quell’evento. Il sale non è più sale. Un altro luogo privilegiato per l’incontro con Gesù è la strada: quella in cui incontra Zaccheo, e i lebbrosi, e il cieco, quella che percorre insegnando e guarendo, quella che lo conduce a Gerusalemme dove si compiranno i suoi giorni. Gesù sa cos’è la strada. Ha cominciato a muoversi prima ancora di nascere, nel grembo della madre. E se non ha «una pietra dove posare il capo», non gli è mai mancata una strada dove camminare. Gesù è un pellegrino, un viaggiatore, come il samaritano. Ha la strada nel sangue. È sulla strada che incontra la gente, che guarisce, che si commuove, che predica e prega e sfama la folla. «(Gesù) non sceglie di portare il suo insegnamento innanzitutto e soprattutto nei luoghi di culto o nei luoghi della cultura, né in quelli della politica o in © Gennari/Siciliani PELLEGRINI «CON» GESÙ IN EUROPA MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE quelli del mercato. Sceglie prioritariamente la strada: il traffico della strada, dove la sorpresa è sempre di casa. Non si può scegliere chi incontrare né da chi lasciarsi incontrare. Non puoi nasconderti sulla strada; sei esposto ed esponi gli altri al tuo sguardo. Vi è una presenza (quasi) nuda di noi stessi. Una presenza precaria, ma – è questo il punto – già aperta, disponibile all’altro, allo sconosciuto, allo straniero, incontrando il quale e lasciandosi incontrare dal quale possiamo forse cogliere quello sconosciuto che abita in noi e divenire perciò più coscienti di noi stessi» (A. Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e non credenti, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p.25-26). LA MISSIONE «DI STRADA» DI GESÙ © AFMC/G Zintu La missione di Gesù è stata una missione popolare tra la gente e per la gente. La dedizione di Gesù per la gente è lo specchio luminoso dell’amore di Dio per tutti: malati, peccatori, stranieri, gente disorientata come pecore senza pastore. Tutta la miseria del popolo si dispiega davanti a Gesù. È a questo popolo che Egli annuncia – con le parole e le guarigioni – il Regno. L’atteggiamento di Gesù verso la gente nasce da una sua profonda «compassione» (cioè da un amore profondo, preoccupato, partecipativo e quasi materno che tende a dare/suscitare la vita) e manifesta la sua totale dedizione. Il «come» Gesù ha vissuto concretamente l’amore è il modello chiaro per chi vuole seguirlo sulla strada dell’annuncio della buona notizia del Regno. Innanzitutto Gesù si è «spogliato» per entrare in dialogo con le persone: nella pratica dell’incontro interpersonale egli ha vissuto la dimensione dialogica, sempre accompagnata dalla dimensione di auto-svuotamento, di condiscendenza. Gesù non ha mai consegnato a chi incontrava una verità astratta o generica, ma ha instaurato con le persone una relazione umana, che diventava per l’interlocutore un tempo favorevole e decisivo per orientare il senso della vita. Il suo comunicare «in situazione» era preceduto da un cammino di abbassamento, di condiscendenza, che rinnovava quel cammino di kenosis (auto-svuotamento) da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di uomo come noi (cfr. Fil 2,6-7). Un’altra caratteristica dell’annuncio del Regno praticato da Gesù era la sua capacita di accoglienza. Gesù sapeva incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cfr. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea (cfr. Mc 15,42 43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cfr. Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cfr. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli uomini giusti come Natanaele (cfr. Gv 1,45-51), o i peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cfr. Mc 2,1517 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1). Com’era possibile questo? Perché Gesù era capace di non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare senza © AFMC/G. Anataloni OTTOBRE 2013 MC 47 OSSIER provare paura e senza sentirsi giudicato. Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e colui con il quale entrava in dialogo; faceva questo mettendosi innanzitutto in ascolto dell’altro in quanto persona come lui, in quanto membro dell’umanità dotato di un volto, di una storia e di un nome precisi, e cercando dunque di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno. Ha saputo vedere: • un uomo dove gli altri vedevano un pubblico peccatore (cfr. Lc 5,29-30); • una donna dove gli altri vedevano una prostituta (cfr. Lc 7,36-50); • la salvezza all’opera dove gli altri vedevano solo vizio e peccato (cfr. Lc 19,1-10). È in questo modo che Gesù ha vissuto la sua intera esistenza come capolavoro d’amore, e così ha compiuto pienamente la volontà di Dio, è stato «l’uomo secondo il cuore di Dio». IL SENSO UMANO DELLA SEQUELA DI GESÙ Si tratta oggi di dare carne al comandamento dell’amore così come Gesù ce lo ha indicato e mostrato, comprenderlo in modo rinnovato, adoperandosi per far emergere quella che si potrebbe definire una «grammatica umana dell’amore». E questo insieme a una riscoperta della prossimità: le due istanze sono strettamente interrelate e vanno di pari passo. Allora «chi ha spirito missionario sente l’ardore di Cristo per le anime e ama la Chiesa come Cristo. Il missionario è spinto dallo zelo per le anime, che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento ai problemi della gente» (Rm 89). Noi siamo chiamati in Europa a imparare il linguaggio degli uomini di questo tempo. O, forse, prima del linguaggio, dobbiamo anche imparare l’alfabeto col quale balbettare le parole del cuore e della simpatia, prima che della ragione, delle regole e proibizioni. Questo perché l’evangelizzazione non batta sentieri aridi, ma sappia respirare a pieni polmoni il vissuto degli uomini, nostri fratelli e sorelle, perché l’evangelo non sia ridotto alla sola dimensione morale o legale, perché la spiritualità cristiana non sia declinata in opposizione alla realtà umana e materiale. Occorre recuperare il senso umano, umanissimo, della sequela di Cristo, la quale non è riducibile al rispetto di norme, a un affannarsi a tempo pieno, a un’attività pastorale frenetica, ma esige la gratuità dell’amore. Questo perché, attraverso di noi e la nostra testimonianza, il Vangelo non diventi sale scipito, ma conservi il suo sapore, non opacizzi la luce, ma continui a illuminare. Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione: in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e risorto in forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare non è anzitutto portare una dottrina, comunicare della verità: è raccontare Gesù Cristo come colui che ha evangelizzato «Dio» – ha, cioè, reso Dio una buona 48 MC OTTOBRE 2013 notizia – e ha evangelizzato l’uomo vivendo egli stesso nella storia e nella condizione umana, e rivelando a ciascuno la sua autentica natura di «salvato». Questo è il contributo specifico del missionario - pellegrino nel suo cammino in compagnia degli uomini: vivere, rendendola visibile e tangibile questa prassi missionaria di Gesù. In questo modo saprà rispondere al grido, spesso in forma di gemito, che percepiamo venire dall’Europa oggi: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21), come i pagani chiesero ai discepoli in occasione della sua ultima pasqua a Gerusalemme. Questo è il contributo di ogni cristiano, perché la nuova evangelizzazione non è un «affare» esclusivo degli uomini e donne di Chiesa, ma è la missione di ogni battezzato che ha incontrato Gesù nella sua vita. Come i primi cristiani che, cacciati fuori da Gerusalemme dalla persecuzione «andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio» (At 8,4) e liberi da schemi e tradizioni, animati dallo Spirito, seppero evangelizzare in modi nuovi e creativi (come ad Antiochia, dove per la prima volta il Vangelo fu annunciato specificamente ai non ebrei. Vedi At 11,19-21). IMPARARE A SOGNARE Si tratta allora di imparare di nuovo a «sognare» per intravedere una nuova visione/immaginazione evangelica che si traduca in azione e significhi una nuova operatività missionaria, entro il contesto, a un tempo plurale e globale, dell’Europa di di oggi. Per questo prima di tutto occorre superare l’autoreferenzialità, cioè, il ripiegamento su noi stessi, sui nostri limiti, paure e debolezze. Basta piangerci addosso, pensare che tutto dipenda da noi. Dobbiamo sollevare lo sguardo e lasciarci guidare dal sogno di Dio per l’umanità e in particolare per questo nostro Continente. Abbiamo bisogno del coraggio di sognare con Dio. Secondo, dobbiamo ricordarci che è un cammino graduale da portare con pazienza, perseveranza e umiltà. Esige tempo, riflessione, dialogo, voglia e passione per annunciare Cristo, anche oggi, in questa Europa, da ritenersi vera e propria terra di missione a tutti gli effetti. In terzo luogo, capire che far/essere nuova evangelizzazione non è mai una rottura con il passato, ma si colloca nella logica del piano di Salvezza che celebriamo nella Liturgia attraverso l’Eucarestia. Siamo in un cammino che è allo stesso tempo «continuità e cambiamento, fedeltà al passato e coraggio di affrontare il futuro, costanza e contingenza, tradizione Anche le foto di questa terza parte sono simboliche. Si inizia con il Consolata Happening del 2010 in Certosa di Pesio e, passando dall’Agorà degli Scout a Verona, ci si unisce ai giovani della Gmg di Rio in Brasile lo scorso luglio 2013, per concludere con il canto universale del Gen Rosso (a Nairobi). MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE BIBLIOGRAFIA © The Seed/F Wainaina e trasformazione». La memoria del passato vissuta nel presente attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e l’ascolto della Parola, ci dà la forza di «dar ragione della nostra speranza» (1Pt 3,15) in questo oggi orientato al futuro. Quarto, la nuova visione non deve essere pensata e progettata come semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente, ma deve essere aperta all’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che determinano un sostanziale mutamento qualitativo. Sotto il segno della pienezza, dell’impossibile divenuto possibile, e non semplicemente della ripetitività, delle previsioni rispettate. Questo è il grande balzo che siamo chiamati a compiere, l’altra riva a cui tendere, la Gerusalemme a cui ritornare, correndo, pieni di gioia, dopo l’incontro con il Risorto sulla strada di Emmaus. Insomma, per concludere, si tratta di imparare a contemplare l’oltre verso cui l’evangelizzazione in Europa deve protendersi. Animati dalla certezza che il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e nei contesti in cui operiamo in Europa, non può essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che contenutistico. La bibliografia su questo argomento è immensa. Oltre ai documenti e libri già menzionati nel dossier, segnaliamo qui solo alcuni dei più recenti. Zolli F. (a cura di), Essere Missione Oggi, EMI, 2012 AA.VV., La nuova Evangelizzazione, in Credere Oggi, 191 – 5/12, Edizioni Messaggero Padova, 2012 Bianchi E., Nuovi Stili di Evangelizzazione, San Paolo, 2012 Caramazza G., Dio Pensa Positivo, Fondamenti e prospettive della Missione “ai popoli”, EMI, 2012 Meddi L., La parrocchia cambia parroco, una risorsa per la pastorale, Cittadella, 2012 Meddi L., Dotolo C., Evangelizzare la vita cristiana, Cittadella, 2012 Albanese G., Missione XL, per un Vangelo senza confini, Edizioni Messaggero Padova, 2012 Maggioni B., Nuova Evangelizzazione, forza e bellezza della Parola, Edizioni Messaggero Padova, 2012 Casale G., Guai a me se non annuncio il Vangelo, Meridiana, 2012 Barreda J-A., Europa e Nuova Evangelizzazione, UUP, 2012 Colzani G., Pensare la Missione, UUP, 2012 Enchiridion della Nuova Evangelizzazione, Editrice Vaticana, 2012 Sievernich M., La Missione Cristiana, Queriniana, 2012 Aranda A., Una “nuova” Evangelizzazione. Che fare? Come fare?, Ares, 2012 Kasper W., Augustin G., La sfida della nuova evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede, Queriniana, 2012 L’AUTORE Antonio Rovelli, missionario della Consolata nativo della Brianza. Studi a Londra, prete nel 1984, missionario in Uganda dal 1988 al 1996, economo di Casa Madre a Torino fino al 2000, responsabile dell’animazione missionaria fino al 2008, fondatore della «Scuola per l’alternativa», è ora responsabile dell’ufficio cooperazione di Missioni Consolata Onlus, segretario nazionale del Suam (Segretariato Unitario di Animazione Missionaria) e vice direttore dell’ufficio della pastorale migranti della diocesi di Torino. COORDINAMENTO EDITORIALE Gigi Anataloni, direttore di MC OSSIER FINE © AFMC/G Anataloni PERÚ di MIGUEL PIOVESAN e FRANCISCO G. HERNÁNDEZ La possibile costruzione di una strada di 270 chilometri in mezzo alla foresta amazzonica della provincia peruviana di Purús accende le discussioni e le polemiche. Ospitiamo le opinioni di padre Miguel Piovesan e di monsignor Francisco González Hernández, favorevoli alla realizzazione dell’opera. # In alto: una spettacolare immagine del fiume Purús nella foresta amazzonica dell’omonima provincia peruviana. UCAYALI, PURÚS / COSTRUIRE UNA STRADA NELLA FORESTA? SENZA USCITA P uerto Esperanza. Esiste una zona del Perú - la provincia di Purús - che è geograficamente isolata. Non si può accedere se non per via aerea. Una via aerea sporadica e incerta. E anche discriminante dato che pochi privilegiati possono permettersi di affrontarne l’altissimo costo. L’isolamento geografico ha impedito lo sviluppo degli abitanti della zona, in maggioranza indigeni (vedere box). L’isolamento geografico di Purús ha determinato anche un isolamento sociale, mentale, tecnologico con conseguenze di sfruttamento da parte di «usurpatori» e conquistatori di turno. Nel 2004 forze schierate dietro una ecologia finta e manovrata hanno creato un parco - Parque Nacional Alto Purús - che ha circondato e rinchiuso la provincia in maniera assurda e vergognosa impedendo lo sviluppo e la comunicazione di questi gruppi etnici con il resto della nazione e dell’umanità. La chiesa cattolica - io sono parroco della parrocchia di Santa Rosa del Purús a Puerto Esperanza - ha sempre cercato di denunciare questi soprusi, gli inganni e la diffusione di notizie false come la questione degli «indios isolati volontariamente» che serve alle Ong multinazionali per farsi una pubblicità funzionale ai loro scopi. Fintanto che si presentano come i protettori di queste popolazioni «in isolamento volontario» hanno sempre molti soci che sostengono il loro ritornello. Avendo tutti i mezzi di comunicazione a disposizione le Ong sono riuscite a propagare un’immagine irreale sia degli indigeni che utilizzano al soldo, che di quelli impegnati a difendere i diritti umani, il progresso e la dignità di ogni essere vivente. I vescovi del posto - mons. Larrañeta, mons. Francisco González Hernández, oltre al vicario episcopale padre Ignacio Iraizoz - hanno sempre sostenuto, senza paura, che tutti sono figli dello stesso Padre e hanno gli stessi diritti di evoluzione e accesso a tutte le opportunità. Qui di seguito si può leg- OTTOBRE 2013 MC 51 PERÚ gere il pensiero di mons. Francisco González Hernández, vicario apostolico di Puerto Maldonado (a cui la mia parrocchia appartiene). Le sue parole fanno capire, a chi vuole capire, l’influenza di gruppi e associazioni «mascherati di ecologia». padre Miguel Piovesan, parroco di S. Rosa del Purús, Puerto Esperanza, Purús, Ucayali, Perú IL VICARIO APOSTOLICO DI PUERTO MALDONADO R isulta triste dover ammettere che la situazione della vita e delle genti del Purús non è cambiata per niente rispetto alla secolare prostrazione. Fin dall’epoca del caucciù e prima e dopo e adesso, continuano a succedersi aggressioni di diversi soggetti contro la vita, la dignità, la libertà e i diritti dei diversi popoli indigeni che abitano la provincia. La maggior parte di chi è arrivato nel Purús non è arrivata per dare, condividere, insegnare, imparare o liberare. Costoro sono arrivati per usurpare, schiavizzare, scommettere, sfruttare, imporre. Davanti a questa aggressione poco hanno potuto fare ieri e poco possono fare oggi, alcuni fratelli indigeni che sono stati privati e si continuano a privare del diritto ad avere una formazione, delle conoscenze, una professione che li renda capaci di vedere, giudicare e attuare secondo criteri propri, indipendenti e liberi. Prima sono stati i signori del caucciù che li hanno schiavizzati, poi sono venuti altri sfruttatori, oggi a ingannarli sono gli «assessori», i «tutori ecologici». Con l’adulazione e varie regalie, i padroni sceglievano alcuni indigeni perché fossero gli esecutori della schiavitù tra i loro popoli. Li sceglievano tra i più ambiziosi o crudeli perché agissero con ferocia contro i loro stessi fratelli. In cambio questi padroni ricevevano un trattamento particolare e proprietà come se fossero dei colonizzatori. Oggi, assessori travestiti da ecologisti, sociologi, antropologi, scelgono tra gli stessi indigeni i rappresentanti di varie Federa- 52 MC OTTOBRE 2013 # A sinistra: padre Miguel Piovesan, parroco di Puerto Esperanza. LA PROVINCIA DI PURÚS LOCALIZZAZIONE: la provincia amazzonica di Purús si trova nel dipartimento peruviano di Ucayali (Pucallpa) e confina a Nord con il Brasile e a Sud con il dipartimento di Madre de Dios (Puerto Maldonado). SUPERFICIE: 17.847 chilometri quadrati. POPOLAZIONE: 4.000 abitanti, 2.500 dei quali indigeni. POPOLI INDIGENI: Cashinahua, Culina, Sharanahua, Chaninahua, Amahuaca, Mastanahua, Ashaninka, Yine, Piro; i Cashinahua costituiscono l’etnia più numerosa, gli Amahuaca la meno (con soltanto una ventina di membri). CAPOLUOGO DI PROVINCIA: Puerto Esperanza. COMUNITÀ INDIGENE: 44, soltanto 8 con più di 100 componenti. ECONOMIA: gli indigeni vivono di caccia, pesca e agricoltura di sussistenza; l’unica attività economica rilevante è quella legata al commercio del legname pregiato (cedro e caoba). ATTRATTIVE: il «Parco nazionale dell’Alto Purús», istituito nel 2004, è il più esteso del Perú (www.pnaltopurus.pe). COLLEGAMENTI ATTUALI: voli aerei da Pucallpa, capoluogo di Ucayali, a Puerto Esperanza (600 chilometri) attuati, due volte a settimana, da North American Float Plane Service Sac per 140 soles a tratta (il salario minimo peruviano è di 750 soles); i voli militari costano meno, ma non hanno una frequenza prefissata. zioni, li promuovono a cariche pubbliche e fanno loro credere che la loro consulenza è assolutamente imprescindibile per proteggere i popoli indigeni dai tanti nemici (immaginari) che sono pronti ad andare nel Purús (per quale via?) per sterminarli. Se i trafficanti del caucciù soddisfacevano la loro avarizia strappando il lattice all’albero della gomma, se i padroni cercavano la ricchezza nello sfruttamento della terra, del legno, delle pelli di animali, oggi gli ecologisti delle «multinazionali ambientaliste» semplicemente si appropriano delle terre del Purús. Le fanno diventare «i giardini privati del Primo Mondo», sebbene le chiamino Parchi nazionali, Riserve, Zone intangibili. Alla fine - e mi ri- ferisco solamente e puramente al Purús - costoro si sono convertiti nei nuovi «padroni». Loro stabiliscono ciò che si deve e ciò che non si deve fare nel «loro giardino». Agli indigeni, che sono i padroni naturali, un giorno diranno che ormai non è possibile né pescare, né cacciare, né far uso del legno, né camminare come e dove si vuole. Ad alcuni indigeni daranno una credenziale nominandoli «guardaboschi» e assegnando loro un piccolo salario la cui quantità sarà molto lontana dal salario primomondialista che starà ingrossando il conto bancario di ecologisti, sociologi, antropologi, assessori nelle banche di Pucallpa o meglio di Lima o di qualsiasi altra città europea o nordamericana. MC ARTICOLI # A lato: i 270 chilometri della strada con la quale si vorrebbe collegare Puerto Esperanza (Purús) con Iñapari (Madre de Dios). In basso: manifestanti favorevoli alla strada. È in tutto questo intreccio che si collocano i tristi avvenimenti che, ancora, succedono nel Purús. Gli «assessori» stanno provocando come in altre circostanze - le aggressioni e minacce contro la Chiesa cattolica, e in particolare contro padre Miguel Piovesan, parroco di Puerto Esperanza. Non ci sono dubbi per nessuno, e ancora meno per loro, che la nostra Chiesa in Purús è una delle poche istituzioni che - senza protezione alcuna e alla luce del sole - si sta prodigando per reclamare giustizia e denunciare abusi e corruzione. Invece del dialogo e del confronto di idee e interessi che diano soluzioni oneste, trasparenti e dignitose, si ricorre alla persecuzione sistematica e ingiusta di padre Piovesan, lo si diffama, lo si minaccia. Si diffondono contro di lui documenti falsi, usciti da assemblee false e firmate da persone che non hanno partecipato e che poi si indignano vedendo i propri LA QUESTIONE PROGETTO: è in discussione un progetto di Legge (n. 1035/2011-Cr) per collegare con una strada di 270 km Puerto Esperanza con Iñapari (vedi mappa); a causa dei territori amazzonici e indigeni che la strada attraverserebbe, il progetto è fonte di un accesissimo dibattito. SU POSIZIONI OPPOSTE: sono favorevoli al progetto alcuni politici (capeggiati da Carlos Tubino, congressista di Fuerza Popular, il partito di Keiko Fujimori) e la Chiesa locale nelle persone di padre Piovesan e di mons. Francisco González Hernández, vicario di Puerto Maldonado; tra i contrari ci sono: le organizzazioni indigene Feconapu, Fenamad, Aidesep; le organizzazioni internazionali Wwf, Global Witness, Survival International e Survival Italia. © revista Palabra Viva, Puerto Esperanza nomi usati per sostentare un attacco a una persona che, invece, essi riconoscono e rispettano. In diverse circostanze, questo Vicariato di Puerto Maldonado ha ricevuto visite di delegazioni purusine che sollecitavano appoggio per una connessione fisica del Purús con il Perú. Che colpa si può imputare a una intera provincia che voglia semplicemente rimanere connessa con lo stato al quale appartiene? È giusto che per andare al distretto abitato più vicino, Sepahua (provincia di Atalaya), si debba camminare 22 giorni attraverso la foresta o 30 giorni per arrivare fino alla strada di Iñapari-Puerto Maldonado? Di che cosa vivranno gli abitanti del Purús se non possono beneficiare del loro legno, cacciare i loro animali, pescare i loro pesci, vendere i loro raccolti? Quale lavoro devono svolgere per ottenere denaro che permetta loro di alimentarsi con qualcosa di più che manioca e banane, comperare i ve- © Rocío Medina, La República M i spaventa rileggere quello che ho scritto fino adesso, soprattutto pensando ad altri amici e fratelli, a ecologisti, antropologi, sociologi onesti e impegnati. Per questo voglio chiarire che tutto quello che dico lo applico alla provincia del Purús, ingiustamente maltrattata. Là dove il tempo sembra essersi fermato, dove gli unici a poter vivere sono malandrini e truffatori e dove si offre l’unica esperienza di un Parco giurassico, dove si condanna l’uomo a vivere isolato, impoverito, privato dei suoi diritti a una educazione vera, a un lavoro degno e retribuito, a una salute accessibile, ad uno sviluppo che, partendo dalla sua propria cultura, gli permetta di vivere come un cittadino del Perú e del Mondo in questo terzo millennio. PERÚ L’ insensibilità di Wwf e organizzazioni associate davanti al problema umano del Purús potrà squalificare la sua azione nel resto del mondo? In particolare colpiscono i metodi mafiosi usati in modo spregiudicato, come la compera di coscienze stuzzicando gli interessi individuali dei dirigenti indigeni senza alcun rispetto per l’indigenza della grande maggioranza. Estranei e lontani dalla inumana situazione indigena, con una presenza sporadica, interessata e retribuita, questi ecologisti ci feriscono. Davanti al problema costoro pretendono di convincere la gente del Purús che non sa, non può, non ha bisogno di niente perché già vive nel Paradiso e tutto quello che c’è fuori di esso è brutto, è vizio, delinquenza, civi# Sotto: un villaggio indigeno nella foresta del Purús. lizzazione detestabile. Loro devono continuare a vivere così, isolati, in riserva, esclusi. Un paio di manifesti recenti - suppostamente realizzati dalle comunità indigene - hanno denunciato davanti a tutte le istanze mondiali la malizia e perversità di un sacerdote cattolico che è il «Satana» del Purús. Eppure, soltanto voi Wwf-ecologisti avete la possibilità di arrivare nel Purús in aereo, sempre e ogni volta che sia necessario. Arrivate e vi portate succulenti stipendi nelle città dove avete le vostre mogli, figli, la vostra bella casa, la vostra potente automobile. Al contrario di voi, il padre Miguel va nel Purús e resta là, vivendo le scomodità e le mancanze dei purusini. Non portando via niente, ma anzi portando là, per condividerlo con gli altri, il poco o molto che può raccogliere quando si reca in altri paesi. Il padre Miguel si preoccupa per l’educazione dei giovani, la salute degli ammalati, l’indigenza degli indigeni, la mancanza di futuro per i giovani e per le donne. Lo sdegnano le menzogne dei «signori di turno» che continuano a vivere magnificamente alle spalle dei soliti poveri o la furbizia e i pochi scrupoli dei nuovi «capi». Perché costoro addirittura si impegnano a minacciare di morte qualcuno che cerca soltanto di affermare il diritto che tutti abbiamo di vivere dignitosamente? Come osano redigere documenti minacciosi e farli firmare a chi non sa le conseguenze di tale scemenza? Il padre Miguel non è nemico degli indigeni; al contrario è voce profetica e fastidiosa contro il potere abusivo e corrotto, l’ingiustizia istituzionalizzata, gli interessi nascosti, la bugia, l’inganno, la strumentalizzazione, la paura e la prepotenza. P er tutto questo, raccomando con decisione a tutti i credenti, agli uomini e donne di buona volontà, ai fratelli e sorelle indigeni, alle varie Comunità, che non lascino solo il padre Miguel in questa lotta. A tutti loro dico: non abbiate paura, so che vi minacciano, vi licenziano dal lavoro, vi etichettano e vi impediscono di far uso dei voli «incivili», ma continuando a procedere nella giusta direzione, alla fine la giustizia divina finirà per darvi qualcosa di migliore, superando il maltrattamento, la miseria, l’esclusione a cui siete ancora sottoposti. mons. Francisco González Hernández,Vicario apostolico di Puerto Maldonado, Perú PER COMUNICARE CON GLI AUTORI*: • SITO WEB: www.parroquiapurus.org • EMAIL: [email protected] (*) La rivista ha dato spazio alle opinioni di padre Miguel Piovesan e mons. F. G. Hernández, dopo che gli stessi avevano letto e criticato un reportage di Paolo Moiola (pubblicato in 3 puntate a giugno, luglio, agosto 2012) sul confinante dipartimento di Madre de Dios. In esso si parlava anche di vie di comunicazione (Carretera Interoceanica Sur) e della Fenamad, una delle organizzazioni indigene contrarie al progetto di strada tra Puerto Esperanza e Inãpari. © Global Witness stiti, acquistare il materiale scolastico per dei bambini, la benzina per il motore della canoa, pagare il proprio documento di identità, gli studi superiori dei figli, gli occhiali, le scarpe, la radio, le medicine eccetera? Dove procurarsi il denaro per salire sull’aereo per Pucallpa e pagarsi vitto e alloggio in città, nel caso ci sia necessità di andarvi per un’urgenza ospedaliera, un giudizio, un affare qualsiasi? Libertà Religiosa di Stefano Vecchia RIFLESSIONI E FATTI SULLA LIBERTÀ RELIGIOSA NEL MONDO - 13 PER «TUTELARE DIO» # Germania, Düsseldorf: dimostrante con una bandiera turca e una foto del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, nel corso di un comizio del 7 luglio 2013 per sostenere la politica del governo. I n anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia» che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti, nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza. Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s © Afp photo/Dpa/Henning Kaiser/GErmany out Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia, Germania, Danimarca, Italia. Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti alla ribalta dell’attenzione internazionale. Forum on Religion & Public Life (centro di ricerca statunitense indipendente, specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty International e International Crisis Group. Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento impor- Libertà Religiosa LEGGI ANTI APOSTASIA 2011 MEDIO ORIENTE NORD AFRICA ASIA PACIFICO AFRICA SUBSAHAR. Egitto Afghanistan Comore Iraq Iran Mauritania Giordania Malaysia Nigeria Kuwait Maldive Somalia Oman Pakistan Qatar Arabia Saudita © Afp photo/Arif Ali. Sudan Siria Emir. Arabi Uniti Yemen LEGGI ANTI BLASFEMIA 2011 MEDIO ORIENTE NORD AFRICA ASIA PACIFICO EUROPA AFRICA SUBSAHAR. Algeria Afghanistan Danimarca Nigeria Bahrain India Germania Somalia Egitto Indonesia Grecia Giordania Iran Irlanda Kuwait Malaysia Italia Libano Maldive Malta Marocco Pakistan Paesi Bassi Oman Singapore Polonia Qatar Turchia Arabia Saudita Sudan Emir. Arabi Uniti Western Sahara tante per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al fenomeno religioso. BESTEMMIA E DIFFAMAZIONE Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una 14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza 56 MC OTTOBRE 2013 è stata liberata perché le prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di Mc). Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian Rationalist Association, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso. # Pakistan, Lahore, 9 marzo 2013: Cristiani pachistani reagiscono dopo che manifestanti musulmani hanno distrutto le case di alcuni membri della comunità cristiana durante una protesta per presunte osservazioni blasfeme fatte da un giovane cristiano, Sawan Masih, contro il profeta Maometto. I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani, quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili». La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa religiosa. Nel 2011, sul totale già citato di MC RUBRICHE 32 paesi che penalizzavano la blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine. Nella regione AsiaPacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge antiblasfemia: Nigeria e Somalia. IL DISAGIO DELL’ISLAM Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam. L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà, frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È da questo - ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata - che derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani sull’applicazione della legge coranica (Shari'a): la giurisprudenza laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga omnes, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti. Alla fine, nella pratica, la legge più restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di sviluppo. IN CARCERE IL BLASFEMO TURCO Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45 giorni di detenzione. Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste, iscritte nella sua storia moderna prima ancora che nella costituzione del 1982, ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura svolta integralista. Non senza resistenze, interne ed esterne al parlamento di Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie internazionali, a partire da quelle dell’Unione Europea. In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan (pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica turca) aveva parlato delle proteste internazionali successive all’uscita del film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi di violenza furono il risultato in diversi paesi musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si limitava a proteste pacifiche e poco partecipate. «Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con Dio e ne ottenOTTOBRE 2013 MC 57 Libertà Religiosa nero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali. Si tratta di un caso quasi a livello di scuola materna di quella che noi chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan. I CASI DELL’ISLAM ASIATICO L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo. L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250 milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140 milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan, © Afp photo/Christophe Archambault © youtube.org Malaysia e Borneo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar, Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka. Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente incapaci. Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre fonti sono spesso contradditto# A sinistra: Sevan Nisanyan. # Qui sotto: Thailandia, Bangkok, 27 settembre 2012: manifestanti musulmani mostrano striscioni durante una protesta contro l’incendiario film anti-Islam Innocence of Muslims, davanti al consolato degli Stati Uniti. Il filmato amatoriale, che prende in giro l’Islam e il Profeta Maometto, ha scatenato tumulti mortali in molti paesi. Più di 50 persone sono state uccise in violenze collegate. rie, ma secondo le ricerche della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986 all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi, 119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine. Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita, spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli accusati in misura superiore. Stefano Vecchia Note: 1. Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti considerati sprezzanti, offensivi verso Dio. 2. Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra. Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano. 3. Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la critica di un credo religioso. Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus di Chiara Giovetti NON GIOCHIAMO © Pamela Adinda - 2008 AL «CATTIVO SELVAGGIO» Gli Yanomami sono un popolo feroce, lo stato-nazione porta la pace e i nostri tempi sono probabilmente i più pacifici che l’umanità abbia mai vissuto. Queste, in estrema sintesi, le tesi di tre studiosi che hanno scatenato le dure reazioni di una parte della comunità scientifica e di attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, che accusano i tre autori di aver rimandato indietro di cent’anni il dibattito e di mettere in discussione il diritto alla sopravvivenza di interi popoli, dell’Amazzonia e non solo. I termini del dibattito Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose – gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del 1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e «in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo. Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della mi- OTTOBRE 2013 MC 59 Cooperando… sera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi coloniali intervengono con la forza a metter fine alle guerre tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine alla spirale di vedette che le guerre tribali innescano. Infine, in Declino della violenza (2011), lo psicologo evoluzionista Steven Pinker sostiene tesi molto simili a quelle di Diamond e si spinge ad affermare che quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia, un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sebbene Pinker stesso abbia affermato di non spingersi fino a parlare di fine della storia ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della diffusione delle idee. Reazioni Di fronte a queste posizioni dei tre studiosi, numerosi esponenti del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle popolazioni indigene, Survival (www.survival.it) in testa, sono letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com, sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di antropologia. In poche parole, le principali critiche riguardano la riproposizione da parte dei tre autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile come la violenza, estremamente difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra. L’antropologo Greg Laden, in un articolo apparso sulla rivista The Slate lo scorso maggio, afferma che non è mai stato così facile come nelle società occidentali rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la guerra è diventata mortale come non lo era mai stata prima. Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon, Pinker e Diamond hanno effetti potenzialmente devastanti sulle società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle leve su cui hanno fatto forza molti governi per giustificare - in diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli. Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno detto la loro contro le tre opere. Secondo Davi Kopenawa, storico leader yanomami (vedi anche a pag. 21 di questo stesso numero, ndr), non è certo la violenza interna alle comunità a provocare vittime fra la sua gente: «I nostri veri nemici», ha dichiarato, «sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono impadronirsi della nostra terra». Ancora, a detta di Benny Wenda, leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha occupato illegalmente il nostro paese nel 1963, ed è allora che sono davvero iniziati i massacri, in tutta la Papua Occidentale. Il governo indonesiano non ci ha MC RUBRICHE salvato da un circolo di violenza, come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza che non avevamo mai nemmeno conosciuto: ha ucciso, violentato e imprigionato il mio popolo, e ha rubato la nostra terra per arricchirsi». La situazione sul campo e la lettera di Fratel Carlo Zacquini al Papa I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia brasiliana) dagli anni Sessanta. La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo Zacquini ha dichiarato: «Quelli che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante gli anni trascorsi a visitare un gran numero di comunità – non sono così [cioè non sono violenti]. Ci sono sempre tensioni, come ci sono tensioni in ogni famiglia, e in ogni paese, ma questo non è guerra. [...] Vi sono lotte, penso che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è davvero molto raro. Le lotte sono divenute molto più serie quando sono arrivati i cercatori d’oro e si sono diffuse le armi da fuoco. Ma non è una situazione generale, né costante [...]. Il danno provocato da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato da un raffreddore». Fratel Carlo racconta, in una sua lettera dello scorso luglio, di aver sfogliato il rapporto stilato nel 1967 dal procuratore Jáder de Figueiredo Correia in seguito alle indagini affidategli dal Ministro dell’Interno del Brasile, dopo che una commissione parlamentare di inchiesta aveva denunciato gravi irregolarità nel Servizio di Protezione degli Indios (Spi), cioè l’ente che, sulla carta, avrebbe dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo, così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime e atroci che il missionario ha sentito e testimoniato nella sua lunga esperienza di lavoro con gli Yanomami. Fratel Carlo ha di recente scritto una lettera a papa Francesco in occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù: «So che tu non puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della Norvegia», scrive fratel Carlo, «ma forse potresti consigliarlo a qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti che hanno popolato questo “grande” paese, il Brasile. [...] Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta che si ripercuotono sui mezzi di comunicazione, specialmente quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni esaltati [...], ma guardano al bene delle popolazioni indigene e a quello del resto dell’umanità [...]. Come può un paese, la cui grandissima maggioranza si dice cristiana, trattare i diritti umani in questo modo?». Oggi, il tentativo di eliminazione degli yanomami e di molti altri popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai la soluzione del problema passa attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto del diritto di quei popoli a vivere nel loro territorio. «Non è che vogliamo convincere, né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni” in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi scrive. «Se gli Yanomami, nel corso del tempo, decideranno di cedere il proprio territorio e le proprie tradizioni, questa sarà una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che il ruolo di noi missionari consista anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi vuole arricchirsi devastando la sua terra. Tanto più che, come sempre ripete Davi Kopenawa, non ci sono altri mondi, ce n’è solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per tutti noi». Basta, con un semplice esercizio mentale, sostituire nel paragrafo sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano. Chiara Giovetti # In queste pagine: foto degli Yanomami del Catrimani durante una cerimonia comunitaria (foto S. Sabatini). Foto come queste potrebbero facilmente essere utilizzate per «documentare» la presunta ferocia di questo popolo. # Qui sopra: la copertina del libro «Yanomami» di G. Damioli e G. Saffirio, pubblicato da Il Capitello nel 1996. OTTOBRE 2013 MC 61 Cooperando… 3 DOMANDE A: Francesca Bigoni e Roscoe Stanyon, antropologi che curanoun progetto di ricerca sugli Yanomami con l’Università di Firenze e collaborano con padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata a Catrimani (Roraima, Amazzonia brasiliana). Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di una riproposizione di temi già noti o c’è effettivamente qualche nuovo elemento. Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un momento drammatico in cui l’esistenza dei popoli indigeni e la salvaguardia dei territori a cui sono legati sono minacciati da ciechi interessi economici e politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentarli come popoli «primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro vita sociale, relazione con l’ambiente, prospettiva spirituale). L’antropologo Greg Laden scrive che la violenza, il tratto culturale attribuito agli Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale che ha reso la guerra mortale e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai lo erano state prima. Siete d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva? 62 MC OTTOBRE 2013 Certamente sì. Per esempio, è ora ben noto che la presunta violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon, ammesso che i suoi dati siano corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un momento storico particolare. La sua prospettiva non è stata confermata da studi in altre vaste zone di insediamento degli Yanomami. Per esempio Giovanni Saffirio, missionario della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del Catrimani dal 1968 fino alla metà degli anni ’90 ha provato a raccogliere dati, ma i casi di morti per violenza erano così rari che non era possibile neppure fare un confronto statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto critica. Attualmente gli studi antropologici dimostrano che i comportamenti umani sono, in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla situazione particolare in cui ci si viene a trovare. D’altra parte Pinker, per sostenere la sua teoria del «declino della violenza» nella nostra cultura rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami considerate «feroci», utilizza limitati dati di Chagnon e di altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio nella società occidentale, ma usa criteri statistici scorretti per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi di genocidio di popoli indigeni e non indigeni. La storia è chiara e ci insegna che le più grandi violenze, sono state quelle con cui la cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che sembra ripetersi, magari con forme più sottili e subdole, ancora oggi. Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni indigene in genere? Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei territori in cui i popoli nativi vengono preservati con la loro cultura e la loro lingua, viene automaticamente protetta la biodiversità; al contrario la perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo l’estinzione della nostra stessa specie umana. Chiara Giovetti 4 chiacchiere con... a cura di Mario Bandera 15. BAKITHA La santità è una conquista che tutti possono raggiungere, a essa possono aspirare uomini e donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa volta ci incontriamo con Bakhita, una santa africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta prigioniera da bambina e venduta come schiava da mercanti senza scrupoli, dopo incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del Console italiano Callisto Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto, prendendo i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la dolcezza del suo carattere, le attirano in poco tempo la simpatia di tutti coloro che la circondano. Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure di santi provenienti dal continente africano ce ne furono parecchi prima di te, non è così? Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa.. Hai citato uno dei più grandi Padri della Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana delle origini, ma ce ne sono stati altri? Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio, san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto forte, come san Benedetto il Moro, originario della Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24 maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini antichissime. La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo? Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame, improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza. Puoi raccontare la tua odissea come schiava? Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna alla fine questo ufficiale mi vendette. Dove finisti? Chi ti comprò? Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò completamente i programmi del Console e miei. Si vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente. Rivoluzione del Madhi, cos’è? Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la 4 chiacchere con... capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il primitivo puro Islam. Quindi ci fu una guerra? Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di ritornare in Italia. E tu immagino che seguisti la famiglia del Console italiano? Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina). In Italia dove vi stabiliste? Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto, dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore. I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in Africa, ritornarono diverse volte in quel continente, con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia. E lì che successe? Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una persona libera e potevo prendere la strada che volevo. Proprio come una persona libera? Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889. E che facesti allora? Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio 1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita. Chissà che giornata meravigliosa fu quella! È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i doni che mi aveva fatto. Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la vocazione di consacrarti totalmente a Gesù? 64 MC OTTOBRE 2013 Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore. Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo insormontabile. E invece? Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896 pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare. Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le scuole del vostro Istituto. I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare testimonianza della mia vita, della mia conversione e della mia vocazione. Immagino che fu abbastanza pesante questo continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi? Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno, io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi. Bakhita rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel 1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto: «Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la «madre moretta» prima della sepoltura. La fama della sua santità si diffuse rapidamente a macchia d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera, sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000. AMICO.RIV NICONSOLA TA.IT È bello poter vivere questo ottobre missionario nell’entusiasmo di un mandato: «Andate». E nella certezza di una promessa: «Io sono con voi». È consolante sperimentare e vivere, alla luce della fede, che il mio limite - «alcuni però dubitavano» - non è da escludere, da seppellire tra gli scarti di cui trabocca la discarica che intasa la mia coscienza, ma è la frattura, lo spiraglio da riconoscere perché da lì penetri nel mondo quell’amore fornito di «ogni potere» che è il presupposto del «dunque» andate. Mentre io sono insufficiente, Lui ha ogni potere. Se dubito, e lo riconosco, Lui può promettere: «Sono con voi». La fede è allora memoria di quella promessa che ieri, oggi, domani si realizza. Memoria del futuro - «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» - che illumina lo snodo del presente. L’unico luogo e tempo in cui nella mia fragilità può abitare la salvezza, del mondo, e mia. Con questo mese riprendono tutte le attività dei nostri centri. Ti aspettiamo per «dubitare» insieme, e insieme accogliere il dono della fede che ci fa riconoscere la Sua presenza in ogni luogo e tempo della nostra vita. © Af MC/E Balboni 2012 Buon mese missionario da amico. Buona conclusione, il 24 novembre, dell’anno della fede. Luca Lorusso .03 INDICE «G li undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» (Mt 28, 16-20). \\ 65 EDITORIALE \\ 66 AMICOMONDO \\ 70 VOCE DI PIETRO \\ 72 PER LA PREGHIERA \\ 74 BIBBIA ON THE ROAD \\ 76 PAROLE DI CORSA \\ 78 MISSIONE & MISSIONI \\ 80 PROGETTO TANZANIA \\ 82 PROGETTO CONGO R.D. Caro amico ISTAMISSIO amicomondo Un solo corpo chema per una giornata missionaria sul tema dell’essere membra differenti di un unico corpo. S PROGRAMMA DELLA GIORNATA 9.30: arrivo. 9.30-10: accoglienza, presentazione della giornata, breve momento di preghiera. 10-12.15: attività a gruppi. 12.30-13.30: pranzo. 13.30-15.30: attività a gruppi. 15.30-16: conclusione. Ripresa della giornata, spiegazione del significato del percorso fatto, saluti. MATERIALI Obiettivi: • Riconoscere di fare parte di un «corpo»; • Riconoscere la propria individuale specificità e «utilità», il proprio ruolo nel meccanismo complessivo del corpo; • mettere a confronto la propria vita con la Parola di Dio; • Prendere consapevolezza delle responsabilità individuali e collettive nella missione; • stimolare alla cooperazione. Destinatari: ragazzi tra 8 e 11 anni. gruppi anche grossi (150-200). Spazi: ampi. Sia all’ aperto che al chiuso. Durata: opportunamente modificati e eventualmente ridotti, gLi spunti proposti possono essere utilizzati per una giornata missionaria, per un unico incontro più breve o un percorso articolato in diversi incontri, a seconda delle esigenze. © Af MC/L Montanari 2010 • Preghiera iniziale e preghiera finale; • Brano di 1Cor 12, 14-26; • Un puzzle raffigurante un corpo umano per ciascun gruppo; • Bende per legare e da porre sugli occhi; • Sedie; • Storia per la quinta tappa; • Vestiti e oggetti per la rappresentazione della storia della quinta tappa; • Macchina fotografica; • Videoproiettore, Pc, amplificazione, cavi necessari, parete bianca o telo per proiezioni, video che parli di un ospedale missionario (ad esempio Wamba); • Cartelloni, pennarelli, scotch, colla, forbici. 66 amico OTTOBRE 2013 © Af MC/L Montanari 2010 di p. Peter Njoroge e équipe Amv Bevera Poi legge e commenta 1Cor 12,14-16: «Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo“, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo». E conclude con la seguente provocazione: «Tu potresti pensare che non sei come gli altri, o di non essere utile, ma la verità è che noi tutti siamo diversi; tu sei speciale, unico, nessuno può fare quello che tu puoi fare. Sei necessario nel corpo di Cristo. Il corpo di Cristo ha bisogno di te!». Alla fine l’animatore dà ai gruppi i vari pezzi mancanti tutti assieme e li invita a cercare la parte che serve per completare la figura. 2. TUTTO FA UN CORPO La missione è riconoscere che siamo tutti membra di un solo corpo. L’animatore chiede ai ragazzi: «Dove sono i vostri nasi?», quando rispondono, l’animatore dice: «Smettete di parlare, non siete mica la bocca!». «Dove sono le bocche?», e dice «smettete di muovervi, non siete la mano o il piede». «Dove sono le mani?», e dice: «Voi non siete l’orecchio, come è possibile che mi sentite?». L’animatore invita ogni gruppo a utilizzare le azioni per mostrare le funzioni delle diverse parti dei loro corpi. «Come riuscirebbe la tua parte del corpo a effettuare le seguenti operazioni? I nasi e le bocche, come farebbero a inviare un sms su un cellulare? Le mani e il cervello come farebbero ad andare in bicicletta? I piedi e le orecchie come potrebbero mangiare un gelato? L’animatore invita poi i gruppi a mimare delle azioni: * invio di un sms; * andare in bicicletta; * mangiare un gelato. Riflessione: «Tutto ciò che facciamo richiede la collaborazione di diverse parti del corpo che lavorano insieme. Abbiamo bisogno gli uni gli altri». OTTOBRE 2013 amico 67 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT La missione è riconoscere il valore di ciascuno di noi. Fornire a ciascun gruppo i pezzi di un puzzle che raffiguri un corpo umano (a seconda dello spazio disponibile: nasconderli oppure portarli a staffetta). A ogni puzzle mancherà un pezzo, una parte del corpo diversa per ogni gruppo. Una volta composti i puzzle i ragazzi si accorgeranno che non sono completi. L’animatore provoca i ragazzi con le seguenti domande: - Quale parte del corpo manca nel vostro puzzle? - Che cosa non può fare questo bambino nel puzzle? - Che cosa accadrà al corpo se la parte mancante continuerà a mancare? - Che cosa succede al corpo quando una parte smette di funzionare? © Af MC/M Conti 2010 1. LA PARTE MANCANTE DEL CORPO Infine l’animatore legge e commenta 1Cor 12,17-20: «Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo». 3. ATTACCA LA PARTE AL TUTTO La missione è camminare insieme. Il gioco è simile a quello che si chiama «attacca la coda all’asino». I ragazzi devono attaccare le diverse parti del puzzle al posto giusto su un busto umano. Non è un singolo ragazzo a giocare ma più ragazzi insieme che devono collaborare nel seguente modo: *un bambino bendato rappresenta i piedi, e un altro con i piedi legati che rappresenta la bocca dà le indicazioni; *un bambino con piedi legati e occhi bendati che rappresenta le mani, attacca un cartellino portato in braccio da due bambini che sono piedi e occhi; *un bambino con bocca bendata che rappresenta gli occhi, deve attaccare il cartellino seguendo le indicazioni di un altro che fa da bocca. L’animatore propone la seguente riflessione: l’occhio non può dire alla mano, non ho bisogno di te. E la mano non può dire al piede, non ho bisogno di te. Tutte e tre le parti del corpo sono necessarie per vincere la partita. Abbiamo tutti bisogno di un altro. L’animatore legge e commenta 1Cor 12,21-22: «Non può l'occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie». 68 amico OTTOBRE 2013 La missione è farsi carico delle sofferenze degli altri. I ragazzi di ogni gruppo vengono suddivisi in sottogruppi da cinque. Un ragazzo sarà la testa e il busto (preferibilmente seduto su una sedia). Gli altri quattro saranno gli arti che devono compiere alcune azioni: - dire «Buongiorno!» e salutare qualcuno; - starnutire e soffiarsi il naso; - battere le mani come in un applauso; - piegarsi in avanti e toccare i piedi con le mani. Poi si chiede di mimare la risposta a queste domande: «Quando hai mal di pancia cosa risponde il corpo? Come fai?». Esempio di Risposta: corpo piegato nel dolore e le mani stringono la pancia (tutti i gruppi lo fanno). «Se cadi e ti ferisci il ginocchio sinistro, come reagisci?». Il corpo è piegato verso il basso e le mani tengono il ginocchio sinistro nel dolore (tutti lo fanno). «Quando sai che hai vinto un premio in un concorso d’arte come rispondi?». L’animatore legge e commenta 1Cor 12,25-26: «Perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui». Spunti per la riflessione: «Avete notato che quando una parte del corpo è felice, le gambe saltano di gioia e le mani battono. Allo stesso modo, quando una parte del corpo è nel dolore (ad esempio, è infortunato il ginocchio o si ha mal di pancia), le altre parti del © Af MC/R Polato 2010 4. SEGUIRE QUELLA PARTE DEL CORPO corpo sono colpite. Il nostro corpo è costituito da molte parti e sono tutte collegate tra loro. Se una parte non sta bene è colpito tutto il corpo». «Allo stesso modo, la Chiesa, il corpo di Cristo, è un solo corpo con molte parti collegate tra loro. Così, quando ti accorgi che un tuo amico si sente giù o triste, che cosa devi fare?». «Siamo in grado di dargli un orecchio in ascolto, un po’ di incoraggiamento, un abbraccio o una pacca sulla spalla. Quando il nostro amico/a è felice per qualcosa, siamo in grado di congratularci o dare un highfive!». 5. UNA MANO AIUTA L’ALTRA La missione è aiutarsi a vicenda. In questa tappa l’animatore legge la storia seguente e poi chiede ai ragazzi di rappresentarla. «Ci sono due ragazzi: uno è senza le braccia e un altro è cieco. Devono aiutarsi. Ma mentre cercano di farlo uno dei due diventa egoista. Colui che non può vedere, deve andare in un posto ma non vede la strada. E colui che non ha le braccia lo aiuta mostrando il cammino con la gamba. Nella difficoltà si stancano, arrivano a un posto, si fermano e sentono già fame e sete. 6. COME CURARE IL CORPO… La missione è curare il corpo di Cristo. Il corpo ha anche bisogno di essere curato e sostenuto; a noi sembra una cosa scontata, ma non è così in ogni parte del mondo. L’animatore propone la visione di un video sull’ospedale di Wamba (Kenya) o su un’altra opera sanitaria missionaria nel mondo. 7. UN CORPO, DIVERSE MEMBRA La missione è accettare e armonizzare le diversità. Ogni gruppo viene suddiviso in gruppi più piccoli: a ogni sottogruppo viene chiesto di disegnare una parte di un corpo (testa, braccia, gambe, mani, piedi, busto…). Però ogni gruppo non sa cosa faranno gli altri. Nel complesso potrebbero esserci alla fine diverse parti di corpo di forma, dimensione, colore diverso. Alla fine l’animatore invita i ragazzi ad assemblare le varie parti per comporre un unico NOTA L’attività che proponiamo per il mese missionario, o comunque per organizzare una giornata missionaria, è stata elaborata durante l’estate 2013. Essa prende spunto dal tema che la Diocesi di Milano ha proposto per l’estate 2013 «Every body, un corpo mi hai preparato». http://www.chiesadimilano.it/pgfom/oratorio-eragazzi/servizioragazzi/oratorio-e-ragazzi/every-body-uncorpo-mi-hai-preparato1.72376. Alla proposta di animazione hanno partecipato diverse parrocchie trascorrendo l’intera giornata al centro di animazione di Bevera. corpo che verrà attaccato su un cartellone. Ogni corpo così realizzato può essere portato alla preghiera finale. Peter Njoroge e équipe Amv Bevera OTTOBRE 2013 amico 69 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT © Af MC/L Gallo 2012 Subito gridano chiedendo da mangiare e da bere. Qualcuno offre volentieri da mangiare. Ma come fare? Quello che ha le braccia non può vedere e quello che vede non può prendere il cibo: il ragazzo che vede e non ha le braccia dice al suo compagno: «Alzo la mia gamba e ti indico dove è il cibo, così mi dai da mangiare e dopo mangi tu». Il suo compagno è d’accordo ma quando trova il cibo non vuole darlo più al suo compagno. Dopo molta insistenza gli concede qualcosa ma alla fine lui ha mangiato di più. Dopo tanto tempo a chiedere e senza ricevere il ragazzo senza le braccia si arrabbia e si allontana buttando via il bastone del suo compagno. Questi piange chiedendogli di tornare ad aiutarlo ma lui non torna». L’animatore lascia una decina di minuti perché il gruppo abbia il tempo di rappresentare la storia (prevedendo anche alcuni oggetti che possono aiutare a rappresentare meglio, ad esempio qualche vestito, il bastone, il cibo). L’animatore può scattare qualche foto del lavoro finale. Spunti per la riflessione: «Quanto valore ha un corpo completo e quanto soffre un corpo incompleto. La collaborazione uno con l’altro non è un favore ma una necessità ed è fondamentale nella vita. Voce di Pietro di Papa Francesco © Af MC/E Balboni 2012 «Sulle strade del mondo» è il tema della prossima Giornata Missionaria Mondiale. Proponiamo in queste pagine alcuni stralci del messaggio scritto da papa Francesco per l’occasione. Sulle strade del mondo C ari fratelli e sorelle, quest’anno celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale mentre si sta concludendo l’Anno della fede […]. La fede è dono prezioso di Dio […]. Egli vuole entrare in relazione con noi per farci partecipi della sua stessa vita e rendere la nostra vita più piena di significato, più buona, più bella. Dio ci ama! La fede, però, chiede di essere accolta, chiede cioè la nostra personale risposta, il coraggio di affidarci a Dio, di vivere il suo amore, grati per la sua infinita misericordia. È un dono, poi, che non è riservato a pochi, ma che viene offerto con generosità. Tutti dovrebbero poter sperimentare la gioia di sentirsi amati da Dio, la gioia della salvezza! Ed è un dono che non si può tenere solo per se stessi, ma che va condiviso. Se noi vogliamo tenerlo soltanto per noi stessi, diventeremo cristiani isolati, sterili e ammalati. […]. Ogni comunità è «adulta» quando professa la fede, la celebra con gioia nella liturgia, vive la carità e annuncia senza sosta la Parola di Dio, uscendo dal proprio recinto per portarla anche nelle «periferie», soprattutto a chi non ha ancora avuto l’opportunità di conoscere Cristo. […]. 1. 70 amico OTTOBRE 2013 […] La missionarietà non è solo una que2. stione di territori geografici, ma di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i «confini» della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e di ciascuna donna. […]. Spesso l’opera di evangelizzazione trova ostacoli non solo all’esterno, ma all’interno della stessa comunità ecclesiale. A volte sono deboli il fervore, la gioia, il coraggio, la speranza nell’annunciare a tutti il Messaggio di Cristo e nell’aiutare gli uomini del nostro tempo ad incontrarlo. A volte si pensa ancora che portare la verità del Vangelo sia fare violenza alla libertà. Paolo VI ha parole illuminanti al riguardo: «Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza di Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere opzioni che essa farà è un omaggio a questa libertà» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Dobbiamo avere sempre il coraggio e la gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo, Gesù è venuto in mezzo a noi per indicare la via della sal- 3. vezza, ed ha affidato anche a noi la missione di farla conoscere a tutti, fino ai confini della terra. Spesso vediamo che sono la violenza, la menzogna, l’errore ad essere messi in risalto e proposti. È urgente far risplendere nel nostro tempo la vita buona del Vangelo con l’annuncio e la testimonianza, e questo dall’interno stesso della Chiesa. Perché […] non si può annunciare Cristo senza la Chiesa. Evangelizzare non è mai un atto isolato, individuale, privato, ma sempre ecclesiale. […]. E questo dà forza alla missione e fa sentire ad ogni missionario ed evangelizzatore che non è mai solo, ma parte di un unico Corpo animato dallo Spirito Santo. Nella nostra epoca, la mobilità diffusa e la facilità di comunicazione attraverso i new media hanno mescolato tra loro i popoli, le conoscenze, le esperienze. […]. Inoltre, in aree sempre più ampie delle regioni tradizionalmente cristiane cresce il numero di coloro che sono estranei alla fede, indifferenti alla dimensione religiosa o animati da altre credenze. Non di rado poi, alcuni battezzati fanno scelte di vita che li conducono lontano dalla fede, rendendoli così bisognosi di una «nuova evangelizzazione». A tutto ciò si aggiunge il fatto che ancora un’ampia parte dell’umanità non è stata raggiunta dalla buona notizia di Gesù Cristo. Viviamo poi in un momento di crisi che tocca vari settori dell’esistenza, non solo quello dell’economia, della finanza, della sicurezza alimentare, dell’ambiente, ma anche quello del senso profondo della vita e dei valori fondamentali che la animano. […]. In questa complessa situazione, dove l’orizzonte del presente e del futuro sembrano percorsi da nubi minacciose, si rende ancora più urgente portare con coraggio in ogni realtà il Vangelo di Cristo, che è annuncio di speranza, di riconciliazione, di comunione, annuncio della vicinanza di Dio […]. L’uomo del nostro tempo ha bisogno di una luce sicura che rischiara la sua strada e che solo l’incontro con Cristo può donare. Portiamo a questo mondo, con la nostra testimonianza, con amore, la speranza donata dalla fede! […]. Vorrei incoraggiare tutti a farsi portatori della buona notizia di Cristo […]. Faccio appello a quanti avvertono tale chiamata a corrispondere generosamente alla voce dello Spirito, secondo il proprio stato di vita, e a non aver paura di essere generosi con il Signore. […]. Insieme esorto i missionari e le missionarie […] a vivere con gioia il loro prezioso servizio nelle Chiese a cui sono inviati, e a portare la loro gioia e la loro esperienza alle Chiese da cui provengono […]. Essi possono diventare una via per una sorta di «restituzione» della fede, portando la freschezza delle giovani Chiese, affinché le Chiese di antica cristianità ritrovino l’entusiasmo e la gioia di condividere la fede in uno scambio che è arricchimento reciproco nel cammino di se- 4. quela del Signore. […]. Un pensiero infine ai cristiani che, in varie parti del mondo, si trovano in difficoltà nel professare apertamente la propria fede e nel vedere riconosciuto il diritto a viverla dignitosamente. Sono nostri fratelli e sorelle, testimoni coraggiosi - ancora più numerosi dei martiri nei primi secoli - che sopportano con perseveranza apostolica le varie forme attuali di persecuzione. Non pochi rischiano anche la vita per rimanere fedeli al Vangelo di Cristo. Desidero assicurare che sono vicino con la preghiera alle persone, alle famiglie e alle comunità che soffrono violenza e intolleranza e ripeto loro le parole consolanti di Gesù: «Coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). […]. Dal Vaticano, 19 maggio 2013, Solennità di Pentecoste Francesco AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT 5. di Dorella Lodeserto © Af MC/E Balboni 2012 Per la preghiera Al centro dell’assemblea è posta una «strada» (di cartoncino o un tappeto) su cui, a ogni «passo» della preghiera, verrà poggiata un’orma recante il titolo del «passo» corrispondente. Al fondo della strada ci sono un mappamondo e una croce coi cinque colori dei continenti. Guida: «“Andate e fate discepoli tutti i popoli!”. Si tratta della grande esortazione missionaria che Cristo ha lasciato alla Chiesa intera e che rimane attuale ancora oggi, dopo duemila anni. Ora questo mandato deve risuonare con forza nel vostro cuore... sono contento che anche voi, cari giovani, siate coinvolti in questo slancio missionario di tutta la Chiesa: far conoscere Cristo è il dono più prezioso che potete fare agli altri». Canto: E la strada si apre. I PASSO: LA CHIAMATA Guida: «Oggi non pochi giovani dubitano profondamente che la vita sia un bene e non vedono chiarezza nel loro cammino... La luce della fede illumina questa oscurità, ci fa comprendere che ogni esistenza ha un valore inestimabile, perché frutto dell’amore di Dio... Cari giovani, voi siete i primi missionari tra i 72 amico OTTOBRE 2013 Uno schema di preghiera che prende spunto dalle parole fortemente missionarie che papa Benedetto XVI ha lasciato ai giovani nel messaggio preparatorio per la Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro. Il cammino della missione vostri coetanei! ...è in gioco la salvezza dell’umanità e la salvezza di ciascuno di noi». Lettore 1: Vocazione. È la parola che dovresti amare di più, perché è il segno di quanto sei importante agli occhi di Dio. È l’indice di gradimento, presso di Lui, della tua fragile vita. Sì, perché se ti chiama vuol dire che ti ama. Gli stai a cuore, non c’è dubbio. In una turba sterminata di gente, risuona un nome: il tuo. (Tonino Bello) II PASSO: DIVENTARE DISCEPOLI Guida: «Il Beato Giovanni Paolo II scriveva: “La fede si rafforza donandola”. Annunciando il Vangelo voi stessi crescete... Ma che cosa vuol dire essere missionari? Significa anzitutto essere discepoli di Cristo... Si tratta dunque, per ciascuno di voi, di lasciarsi plasmare ogni giorno dalla Parola di Dio». Tutti a cori alterni: Chiamato ad annunciare la tua Parola, aiutami, Signore, a vivere di Te e a essere strumento della tua pace. Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole, quando veicolano la tua, non suonino false sulle mie labbra. Esercita su di me un fascino così potente, che io abbia a pensare come Te, ad amare come Te, a giudicare la storia come Te. Trasportami dal Tabor della contemplazione alla pianura dell’impegno quotidiano. E se l’azione inaridirà la mia vita, riconducimi sulla montagna del silenzio. E il mio sguardo missionario arriverà più facilmente agli estremi confini della terra. (Tonino Bello) III PASSO: ANDARE! Lettore 2: Dal Vangelo secondo Matteo (28,16-20). Guida: «Evangelizzare significa portare ad altri la Buona Notizia della salvezza e questa Buona Notizia è una persona: Gesù Cristo. Quando lo incontro, quando scopro fino a che punto sono amato da Dio e salvato da Lui, nasce in me non solo il desiderio, ma la necessità di farlo conoscere ad altri... Più conosciamo Cristo, più desideriamo annunciarlo... Cari giovani, lasciatevi condurre dalla forza dell’amore di Dio, lasciate che questo amore vinca la tendenza a chiudersi nel proprio mondo, nei propri problemi, nelle proprie abitudini; abbiate il coraggio di “partire” da voi stessi per “andare” verso gli altri e guidarli all’incontro con Dio». V PASSO: FARE DISCEPOLI Guida: «L’annuncio di Cristo non passa solamente attraverso le parole, ma deve coinvolgere tutta la vita e tradursi in gesti di amore». Lettore 3: Un giorno, uscendo dal convento, san Francesco incontrò frate Ginepro. Era un frate semplice e buono e san Francesco gli voleva molto bene. Incontrandolo gli disse: «Frate Ginepro, vieni, andiamo a predicare». «Padre mio» rispose, «sai che ho poca istruzione. Come potrei parlare alla gente?». Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro Guida: «Nessuno può essere te- Lettore 4: Quando t’imbatti in una cosa bella, la racconti. E quando t’imbatti in una cosa vera, la dici. E se hai capito che la storia di Gesù ha illuminato il cammino del mondo e dell’uomo dandogli senso, allora lo racconti. Non puoi farne a meno. E se l’incontro con Gesù ha cambiato la tua esistenza dandole forza, direzione, senso, allora inviti gli amici a condividerla. (Bruno Maggioni) Guida: «Dio, nel suo amore so- Tutti: Spirito Santo, che abiliti alla missione, donaci di riconoscere che, anche nel nostro tempo, tante persone sono in ricerca della verità sulla loro esistenza e sul mondo. Rendici collaboratori della loro gioia con l'annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, chicco del frumento di Dio, che rende buono il terreno della vita e assicura l’abbondanza del raccolto. © Af MC/E Balboni 2012 Breve pausa di silenzio e riflessione personale. VI PASSO: NELLA CHIESA stimone del Vangelo da solo. Gesù ha inviato i suoi discepoli in missione insieme: “Fate discepoli” è rivolto al plurale... la nostra missione è resa feconda dalla comunione che viviamo nella Chiesa». IV PASSO: VERSO TUTTI vrabbondante, vuole che tutti siano salvi e nessuno sia perduto. Cari amici, volgete gli occhi e guardate intorno a voi: tanti giovani hanno perduto il senso della loro esistenza. Andate! ... I “popoli” ai quali siamo inviati non sono soltanto gli altri paesi del mondo, ma anche i diversi ambiti di vita: le famiglie, i quartieri, gli ambienti di studio o di lavoro, i gruppi di amici e i luoghi del tempo libero... ». acconsentì. Girarono per tutta la città, pregando in silenzio per tutti coloro che lavoravano nelle botteghe e negli orti. Sorrisero ai bambini, specialmente a quelli più poveri. Scambiarono qualche parola con i più anziani. Accarezzarono i malati. Aiutarono una donna a portare un pesante recipiente pieno d’acqua. Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san Francesco disse: «Frate Ginepro, è ora di tornare al convento». «E la nostra predica?». «L’abbiamo fatta... L’abbiamo fatta». (Bruno Ferrero) (Benedetto XVI) Canto finale: Andate per le strade. Dorella Lodeserto OTTOBRE 2013 amico 73 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT Infondi in me una grande passione per la Verità, salvami dalla presunzione di sapere tutto. © Af MC/R Polato 2010 Bibbia on the road di Antonio Magnante La fede secondo Paolo aolo è un personaggio complesso e affascinante: da persecutore delle Chiese diventa l’annunciatore instancabile della fede. I cristiani della Galazia parlano della sua conversione in questi termini: «Colui che una volta ci perseguitava va ora annunciando la fede che un tempo devastava» (Gal 1,23). Da persecutore egli diventa «l’evangelizzatore della fede» (cf. Atti 26,11). Nell’espressione «annunciare/ evangelizzare la fede», il termine «fede» non va inteso come un insieme di verità da credere (si pensi al Credo che si recita nella S. Messa), nonostante esse non vengano escluse, ma principalmente come un’adesione personale a Gesù Cristo. In questo modo Gesù diventa l’elemento centrale su cui si misura l’esistenza del cristiano. P 74 amico OTTOBRE 2013 VIVO NON PIÙ IO, MA VIVE IN ME CRISTO Paolo esprime questa convinzione nella famosa espressione: «Vivo non più io, ma vive in me Cristo. La vita che io vivo adesso nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi amò e consegnò se stesso per me» (Gal 2,20). Paolo qui sottolinea la relazione interpersonale tra lui e Gesù Cristo. La sua affermazione farebbe addirittura pensare a un sopravvento della personalità di Cristo su quella del credente. Cristo ha preso possesso della vita di Paolo, infatti egli dice: «Vive in me Cristo», e subito aggiunge: «Vivo nella fede del Figlio di Dio». Questa precisazione ci fa capire in che senso Cristo prende possesso della sua vita. È il totale abbandono a Cristo che permette a Paolo di entrare nella vita del credente e stabilire con Gesù una relazione profonda, In occasione dell’anno della fede, indetto dal papa Benedetto XVI, proponiamo il terzo e ultimo articolo della serie sulla prima delle tre virtù teologali una comunione che diventa un costante dono di reciproca presenza. Questa è la ragione per cui Paolo considera la fede non come un assenso dato dalla mente a un insieme di verità, ma come un abbandonarsi senza condizioni a Cristo. La fede, tuttavia, non è un atto irrazionale perché si fonda sulla stessa azione di Cristo, il quale, come dice Paolo: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». L’azione storica di Gesù costituisce per Paolo il solido fondamento per la fede. Cristo ha suggellato il suo amore per noi con il dono della sua vita. Anche Matteo 20,28 e Marco 10,45 affermano che il Figlio dell’uomo è venuto «per dare la vita in riscatto per molti». Paolo personalizza l’espressione e invece di dire «per i nostri peccati» (1Cor 15,3), ovvero «per molti» (Mt 20,28; Mc 10,45), egli dice: «Per me». È evidente che Paolo voglia enfatizzare la sua relazione personale con Cristo per eliminare ogni possibile riferimento a un’adesione meramente astratta. All’azione di Gesù di consegnare se stesso «per me», corrisponde un’adesione affettiva e totalizzante da parte del credente. Se Cristo diventa il centro e il fulcro della vita del credente si realizza nel mondo una nuova creazione, in alternativa si rimane a osannare gli eroi estemporanei che appaiono sull’orizzonte e poi si dileguano nell’arco di una generazione. Al grande abisso di generosità del Cristo, potrà mai esserci una risposta di fede adeguata? Che grande mistero! «Per me», «per noi» Cristo ha consegnato se stesso spontaneamente al dramma della croce. Per questo io posso affidare totalmente me stesso a lui nella fede. In Gal 2,19 Paolo scrive: «Sono stato crocefisso con Cristo». Questo fa capire che l’atto di fede non è indirizzato alla persona di Cristo in astratto, ma alla sua passione intesa come azione redentrice. Affermando che egli «è stato crocefisso con Cristo», Paolo vuole sottolineare un legame fortissimo con Cristo, un immedesimarsi affettivo ed esistenziale. Paolo qui usa la forma verbale greca del perfetto per indicare il risultato perdurante di un’azione passata: «Sono stato crocefisso con Cristo e lo sono ancora». L’unione che Paolo sperimenta con la morte di Cristo è un’esperienza così totalizzante che nella lettera ai Filippesi afferma: «Per me vivere è Cristo» (1,21). Qui Paolo si riferisce al Cristo totale, che comprende passione, morte, sepoltura e resurrezione. La fede per Paolo è il mezzo unico e indispensabile per divenire una nuova creazione (vedi Gal 6,15; 2Cor 5,17). CHI MI SEPARERÀ? Egli si sente talmente unito a Cristo che, in un momento di fervore quasi mistico, afferma: «Chi mi separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35). Subito dopo aggiunge: «Io sono convinto che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezza né profondità, né altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo, nostro Signore» (Rm 8,38-39). La lista dei possibili ostacoli è veramente impressionante. Ab- braccia le diverse dimensioni del cosmo. In nessun punto del mondo esistente si troverà un ostacolo che possa in qualche maniera sviare la fede di Paolo che ha per fondamento Cristo (cf. 1Cor 3,11). A questo punto sorge spontanea la domanda: Come si può arrivare ad una così profonda fede? Per Paolo la fede è una reazione alla predicazione del Vangelo. Il cammino della stessa fede, dunque, comincia con l’ascolto del Vangelo o della parola che riguarda Cristo e il suo ruolo salvifico. La fede, perciò, «dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17). Il semplice ascolto può favorire un assenso intellettuale alle verità che riguardano Cristo. Tuttavia un semplice «sì» della mente non è la fede di cui parla Paolo. Per lui l’ascolto della parola del Vangelo deve sfociare «nell’obbedienza della fede» (Rm 1,5; 16,26), che consiste in una totale e incondizionata sottomissione a Cristo e in un impegno di tutta la persona con Dio in Cristo. Infatti Paolo afferma: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Di qui ne consegue che la fede in Dio o in Cristo (1Tess 4,14; 1Cor 1,21-23; Rm 4,24) è un impegno esistenziale verso Cristo stesso che investe tutta la persona del credente in termini di relazioni con Dio, con le persone e con la natura. Il vero atto di fede induce il credente a uscire da se stesso per esprimere la sua volontà di poggiare la sua esistenza su Cristo. Non si confida più in se stessi, ma si confida unicamente su quanto Gesù ha detto e fatto nel suo ministero pubblico. La fede ha tutte le connotazioni dell’amore: il dono di una perenne presenza reciproca per vivere in una osmosi rigenerante. Antonio Magnante OTTOBRE 2013 amico 75 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT ADESIONE A UN «TU» © Af MC/L Montanari 2010 Parole di corsa Suor Mariangela Mesina, missionaria della Consolata, originaria di Dorgali (Nu), è stata in Liberia e in Kenya per un totale di 26 anni di missione tra la gente, con le donne, con ragazzi e giovani. Dal 2007 è in Italia, prima a Torino, ora a Martina Franca, impegnata nell’Animazione missionaria. La sua passione per Dio e per le sue creature fà di quest’intervista un’esplosione colorata e vivissima di entusiasmo missionario. Diventare cambiamento I miei occhi sono ancora pieni di luce quando ripercorro la «genesi» della mia vocazione. Avevo raggiunto la mia famiglia al mare e all’alba contemplavo i riflessi del sole che sorgeva dall’acqua: Dio mi si rivelava con la sua bellezza. Avevo 18 anni e già lavoravo, ma la mia mente cercava di scoprire qual’era la mia missione nella vita. Essendo nata a Dorgali (Nu) il mare mi ha sempre affascinato. Lasciarlo mi sarebbe costato tanto, ma sentivo che dovevo abbandonarmi e solcare quelle acque verso terre lontane dove avrei potuto condividere il poco che avevo e che ero. Perché hai deciso di diventare missionaria e, soprattutto, perché missionaria della Consolata? La fede che avevo ricevuto avrebbe dato gioia a chi non aveva conosciuto Gesù, soprattutto pensavo ai tanti bambini e persone bisognose d’aiuto. Non volevo correre il rischio di non essere inviata, perciò la scelta fu di entrare in un istituto missionario. La bellezza e finezza della Consolata mi conquistò: la missione mi sembrava difficile e io non all’altezza, ma il 15 agosto, festa dell’Assunta, promisi a Maria che sarei stata sua missionaria! Puoi raccontare brevemente la tua missione? Quel 15 agosto si rivelò poi una data significativa nella mia vita. Partii per la mia prima missione in Liberia proprio il 15 agosto 1980. Per 10 anni sono 76 amico OTTOBRE 2013 stata impegnata nella promozione della donna, in visite ai villaggi, ai giovani, e nel cammino di fede dei catecumeni. Nell’89 scoppiò la sanguinosa guerra guidata da Charles Taylor e nell’agosto del 1990 abbiamo dovuto lasciare la missione. Per qualche giorno siamo state rifugiate in Costa D’Avorio e poi rimpatriate. In quale giorno? Il 15 agosto! Come non vedere la mano della nostra Madre Consolata e Consolatrice?! Mentre attendevo che si riaprisse la Liberia, fui chiamata ad aiutare in Kenya. Sarebbe stato per un breve periodo, ma ci rimasi per 16 anni. Il Kenya mi entusiasmò: l’apertura e il desiderio di Dio che i giovani avevavo mi aiutarono a dare tutto quello che potevo. Lavorai nella zona di Meru e in Nairobi con i gruppi laici, le giovani in discernimento vocazionale, i bambini di strada... Dove ti trovi oggi? Italia! Nel 2007 andai a Torino. Dal 2010 sono a Martina Franca. Dopo 26 anni di Africa mi sentivo straniera nella mia patria. Ma io riesco ad adattarmi in fretta e non ci volle molto a capire che anche qui potevo dare il meglio di me stessa. Che lavoro stai svolgendo? L’animazione missionaria fra i giovani, i ragazzi e nelle parrocchie. Collaboro anche col Centro diocesano missionario e con Migrantes. Un’altra attività che svolgo è quella con le coppie di sposi che © Af.MC/R. Polato 2010 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT © Af MC vogliono vivere il loro matrimonio come una vocazione e un cammino di santità. Qual è la difficoltà più grande che incontri? Vivere un rinnovamento della mente e del cuore per essere in grado di innescare la vera «Nuova Evangelizzazione». Qual è la soddisfazione più grande? La gente di Martina è accogliente, aperta all’amicizia e generosa. È una gioia grande sperimentare l’amicizia e tessere rapporti di fede e preghiera. Ci racconti un episodio significativo della tua vita missionaria? Ho difficoltà nello sceglierne uno: ne avrei tantissimi con i bambini di strada, la gioventù, i laici. Forse ce n’è uno che può riassumere il significato della mia vocazione missionaria. Durante la mia prima missione, una donna chiamata Joy iniziò il catecumenato. Joy non godeva di buona fama nel paese a causa della sua vita libera dopo essersi separata dal marito. Spesso veniva a trovarmi a casa con le sue due bimbe, e una di queste, Margareth, diceva che voleva diventare suora come me. Il desiderio di conoscere Gesù e la fede crescevano in Joy ogni giorno di più e la sua vita cambiò radicalmente. Ricevette tutti i sacramenti d’iniziazione e insieme a lei furono battezzate le due bimbe. Ringraziandomi mi disse: «Sorella, tu da un diavolo che ero, hai fatto di me un angelo!» (non io naturalmente, ma Dio!). Joy capì che il dono della fede lo doveva condividere con gli altri (in Liberia solo il 2% sono cattolici) e così frequentò il corso di catechista. S’impegnò tanto e durante la guerra andava nelle zone dei rifugiati. Non solo a evangelizzare e a pregare con la gente, ma anche a insegnare come usare le granaglie (sconosciute in Liberia) che venivano distribuite dalle Ong. Così Joy salvò tanta gente dalla fame fisica, ma anche spirituale. E Margareth si fece suora? Sì! Anche lei divenne un’evangelizzatrice in una congregazione locale! Quali sono le sfide missionarie del futuro? La grande sfida è quella di saper esprimere la Buona Notizia del Vangelo di Gesù in un linguaggio comprensibile per la mentalità e la sensibilità della gente di qualunque posto e età essa sia. Essere persone di speranza è un’altra sfida, perché si aiuta le persone a dare un senso alla vita solo se si incarnano i valori che durano. L’apertura allo «straniero», a chi vive ai margini (o fuori) dei nostri «confini» darà alla missione un futuro. Che cosa possiamo offrire al mondo come famiglia missionaria della Consolata? Il Carisma della Consolazione che Giuseppe Allamano ci ha trasmesso è un dono grandissimo da condividere con le persone. Il mondo d’oggi è assetato d’amore e di consolazione. Lo spirito di famiglia caratteristico del nostro istituto è un altro tesoro che possiamo offrire per arginare il dilagare dell’individualismo e della solitudine. Come coinvolgere in questo i giovani? Per prima cosa dobbiamo conoscere la loro vorticosa trasformazione di mentalità. Conoscerne il modo di sentire, di apprendere, di relazionarsi. Una statistica dice che i giovani sono molto più interessati alla fede degli adulti; il problema è che non ci rinnoviamo e non offriamo loro «un piatto appetitoso», «un’ancora di salvezza». Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani dei nostri centri missionari, e perché? «Diventare il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo!» (Mahatma Gandhi). In tutti c’è un desiderio, anzi una brama insaziabile di vedere presto una situazione migliore a tutti i livelli... e sicuramente questo cambiamento può avverarsi nella misura in cui avviene in me, perché ciascuno, e specialmente i giovani, ha l’energia, l’entusiasmo e la capacità di guidare positivamente il corso della vita, della storia e della missione. Luca Lorusso Missione & Missioni 242 parole che ti cambiano la vita l Signore mi chiama a dare tutto e la mia risposta è ormai chiara e riempie le mie preghiere e le mie riflessioni: voglio dargli tutto. Voglio affidarmi a Lui ed essere strumento missionario nelle sue mani. È Lui quell’ Amore grande di cui faccio esperienza. È solo Sua la bellezza che gli altri dicono di vedere in me, ed è sempre Lui a rendermi “luogo accogliente” per le persone. È con Lui che mi piace semplicemente stare, assaporando la sua presenza nel silenzio. È Lui che voglio annunciare e testimoniare con la vita. Ed è nella famiglia della Consolata che voglio dire a Lui il mio sì…» Queste sono alcune frasi della lettera che hai scritto per chiedere di iniziare il percorso per diventare missionaria della Consolata. Sì, in tutta la lettera vi sono 242 parole, quelle che daranno una svolta fondamentale alla mia vita. Chi è Francesca Allasia? Ho 25 anni, la laurea magistrale in filosofia, e sono animatrice al Centro di Animazione Missionaria dei missionari della Consolata a Torino. Com’ è cominciato il cammino che ti ha portato alla decisione di dedicare la tua vita al Signore diventando missionaria? © Af MC/F Allasia 2012 «I di Nicholas Muthoka Premetto che ogni camNello scorso numero mino è personale e di giugno abbiamo ciascuno ha la propubblicato un articolo a pria storia e i propri firma di Francesca e p. Nitempi. Quando cholas che parlava della feavevo 17 anni, ero licità del sentirsi amati. impegnata in oraIn questo numero p. Nicholas torio, facevo dopointervista Francesca sulla sua decisione di diventare scuola e frequenmissionaria della Consotavo un gruppo di lata, sulla gioia di ricoetanei. Nonspondere «sì». ostante tutto questo, sentivo una certa inquietudine, cercavo qualcosa di più, qualcosa di diverso al quale ancora non riuscivo a dare un nome. Avevo bisogno di allargare i miei orizzonti e ho cominciato a cercare… Dopo aver girato un po’ di posti sono approdata dai missionari della Consolata e da lì non mi sono più mossa. Sono arrivata al Centro di animazione per curiosità, vi sono rimasta perché mi sono sentita a casa e ho iniziato il discernimento perché mi sono sentita chiamata a impegnare la mia vita per la Missione. Vi sono stati un episodio, una lettura o un incontro particolarmente significativi che ti hanno fatto pensare a questa scelta di vita? Gli incontri con padri e suore impegnati «sul campo» sono stati per me molto importanti. Mi ha colpito la loro immediatezza, la loro capacità di accoglienza, la loro schiettezza e semplicità, il loro essere presenti, pronti all’ascolto e all’incontro. Mi ha stupito la costanza con la quale continuano a camminare accanto punto di vista, che condivida la sua esperienza con te e ti aiuti a mettere a fuoco le difficoltà e le gioie che una determinata scelta di vita comporta. Solo avendo ben presente tutte queste cose, la scelta finale (che è sempre e comunque personale) sarà più libera e consapevole. Inoltre un momento forte del discernimento è stata l’esperienza di due mesi che ho fatto un anno fa nelle missioni del Kenya. Quando hai capito che il tuo discernimento era giunto al termine? Quando mi sono accorta che la mia vita (interessi, sogni, attività) si stava muovendo tutta in quella direzione e ciò traspariva anche nei miei rapporti con gli altri. Hai mai avuto dubbi? Certamente, nel periodo di discernimento, i dubbi ci sono e ci devono essere! Quali sono state le reazioni dei tuoi genitori quando li hai informati della tua intenzione di diventare suora? Per fortuna ho sempre potuto contare sul loro appoggio. Sono stati disponibili a condividere con me questo percorso non solo manifestandomi le loro preoccupazioni e le loro ansie, ma anche lasciandosi coinvolgere nella mia scoperta del carisma consolatino. Adesso per loro è bello vedermi davvero felice. Che cosa pensano i tuoi amici di questa tua scelta? Ci sono state le reazioni più diverse: indifferenza, commozione, partecipazione, interesse, rifiuto. Vi è anche chi, pur frequentando la chiesa, mi ha chiesto tempo per elaborare la notizia e chi, pur non essendo credente, mi è particolarmente vicina. Perché hai fatto una scelta di vita consacrata all’interno della Chiesa di oggi che sembra essere incapace di adattarsi al nostro tempo, che appare concentrata sulla ricchezza, su quelli che il Papa ha definito carrierismi e che è oggetto di scandali? È vero, nella Chiesa vi sono molte cose che non vanno. Per fortuna nel corso del mio cammino, ho visto un altro volto della Chiesa: quello vicino ai poveri, agli ultimi, aperto al dialogo, all’accoglienza e alla consolazione. Una Chiesa veramente missionaria e anche io voglio esserne parte! Come ti immagini tra 20 anni? Citando i Blues Brothers, mi immagino serenamente in missione per conto di Dio. Che cosa diresti ai tuoi coetanei che stanno cercando il senso della loro vita? Non stancatevi mai di cercare e non siate superficiali. Tenete conto delle opinioni di chi è intorno a voi, non vanno accettate o rigettate a scatola chiusa, ma sono occasioni per approfondire la ricerca. Ricordatevi che ogni scelta è personale e che nessuno può decidere al vostro posto. E infine come ci ha detto papa Francesco: «La vita va messa in gioco per grandi ideali… Fidatevi di Gesù!». Nicholas Muthoka OTTOBRE 2013 amico 79 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT alla gente, nonostante le difficoltà e le sfide che la missione pone loro. Mi sono detta: «Da dove viene tutta questa forza? Chi è o dov’è la sorgente della gioia, dell’accoglienza, della consolazione e della testimonianza che queste persone quotidianamente danno? Ho capito che è il Signore, è il continuo rivolgersi a Lui che rende possibile tutto ciò, è lo stare alla Sua presenza; è l’aver donato a Lui la propria vita con abbandono fiducioso ed entusiasta, felici di immergersi in quell’Amore grande e di dire: «Signore, eccomi!». Riflettendo su questi aspetti mi sono accorta che riguardavano anche la mia vita, anche io mi sentivo coinvolta da quello sguardo paterno carico di tenerezza che mi chiedeva di mettermi in cammino, cercando di capire quale fosse il mio progetto da costruire con Lui. La preghiera è stata il sostegno fondamentale delle mie riflessioni. Si sente spesso parlare di «discernimento» in che cosa consiste? A un certo punto diventiamo grandi e ci interroghiamo su ciò che stiamo facendo, sulle nostre scelte future, su ciò che dà senso alla nostra vita e su ciò che ci rende davvero felici. La vita diventa progetto e il discernimento è mettersi in cammino per cercare di realizzarlo. È un percorso di scoperta, di riflessione e di valutazione delle diverse possibilità che si aprono davanti a noi per trovare quella che è davvero giusta per la nostra vita. Bisogna essere disposti ad affrontare un percorso serio di ricerca, a mettersi in discussione, ad andare in profondità e a cercare qualcuno con cui potersi confrontare. lnfine bisogna avere il coraggio di concretizzare, in una scelta coerente, quanto si è maturato nella ricerca. Non hai valutato altre scelte possibili di vita come ad esempio la famiglia? Come donna, sento la bellezza che vi è nel costruire una famiglia e nella gioia di poter godere del miracolo della vita che si manifesta nei figli. Il «sì» degli sposi è una risposta speciale all’amore del Signore. Io però sento che la mia famiglia è il mondo, vicino alla sofferenza, alla gioia, ai desideri, ai bisogni degli uomini. Quanto è durato il tuo discernimento? Parallelamente agli studi universitari ho portato avanti il discernimento. Sono stati anni ricchi di scoperta, di riflessione, di progressivo innamoramento della missione. È bello riflettere sulla vita nella sua totalità, così nel mio cammino le esperienze di studio, di fede, di comunità si sono arricchite a vicenda, diventando complementari. Durante il discernimento sei stata seguita da qualcuno con il quale hai condiviso le tappe della tua crescita spirituale? Sì, sono stata seguita da una missionaria della Consolata con la quale mi incontravo ogni mese, condividendo riflessioni, domande e tappe del mio cammino. È importante avere una guida con la quale confrontarsi, ci vuole un riferimento che ti dia il suo Progetto Tanzania © Af MC/E Balboni 2012 di Erasto Mgalama AMICO maestre per l’infanzia D a quasi 15 anni i missionari della Consolata di Morogoro (Tanzania) seguono la formazione e l’educazione di bambini in quattro centri: Kasanga, Mindu, Mafuru e Lugono, con una media di 60 bambini per ogni asilo. Il contributo che i genitori di tre dei quattro asili, salvo quello di Kasanga, possono dare è molto esiguo. Questo spinge i missionari della Consolata a cercare aiuto in Italia per portare avanti il lavoro di scolarizzazione dei bambini, il futuro del paese. Il peso del pagamento delle maestre è totalmente finanziato dalle offerte dei benefattori (una maestra viene pagata 80 Euro al mese). Ci sono 10 maestre. È da tempo che i missionari cercano di radunare e formare le maestre per garantire che la distanza fra un asilo e l’altro e la povertà non diventino motivi di peggioramento della qualità dell’offerta educativa e della demotivazione delle insegnanti. L’idea dei missionari della Consolata è di garantire due giorni di aggiornamento per tre volte l’anno a ciascuna maestra. Il costo dell’iniziativa sarebbe di 2700 Euro. Grazie di cuore per il vostro aiuto. P. Erasto Mgalama Superiore Regionale Imc Tanzania 80 amico OTTOBRE 2013 Dopo le due puntate dedicate al progetto Maternità per il Congo R.D., ecco un progetto nuovo: Amico Maestre per l’infanzia dedicato al sostegno dei quattro asili di Kasanga, Mindu, Mafuru e Lugono (Morogoro, Tanzania) di cui si occupano i missionari della Consolata. Sostieni anche tu quest’iniziativa. Versa un contributo tramite il bollettino allegato alla rivista specificando la seguente causale: AMICO. Progetto Maestre per l’infanzia Tanzania. Per altre info visita il nostro sito: amico.rivistamissioniconsolata.it TITOLO PROGETTO Corsi di aggiornamento per le maestre dei quattro asili di Morogoro, Tanzania. OBIETTIVI Mantenere alto il livello qualitativo dell’offerta educativa dei quattro asili di Kasanga, Mindu, Mafuru, e Lugono, nel territorio di Morogoro, Tanzania. Costo per la partecipazione di un singolo insegnante a un corso: 90 Euro Per i tre corsi previsti durante l’anno scolastico da offrire alle 10 maestre, contributo richiesto: 2.700 Euro RESPONSABILE Padre Ippolito Marandu, Imc [email protected] Un seminario... di Ippolito Marandu che semina missione arissimi amici di amico, i nostri saluti piú sentiti dal Una lettera agli amici di seminario di Morogoro a amico dal responvoi che state facendo uno sforzo del seminario di sabile cosí speciale per i piccolini degli Morogoro che segue asili presso le nostre cappelle di il progetto Amico Kasanga, Mindu, Mafuru e LuMaestre per gono. Grazie infinitamente per il l’infanzia. vostro affetto. Anche se non siamo parrocchia ma seminario, portiamo avanti questi progetti perché danno senso alla nostra missione e vita.Da missionari, guardiamo ai piú piccoli e indifesi, quindi, i bambini dei villaggi poveri dove nessun’altro va. Voi siete veramente dono e grazia perché è difficile per noi portare avanti il seminario e allo stesso tempo l’impegno per i bambini poveri in quattro villaggi. Con voi possiamo servire con gioia. Permettetemi di condividere con voi qualche piccolo pezzetto della nostra vita quotidiana: in questo momento godiamo anche della grazia di cono (della Consolata) Antipas Tesha, presso la vedere otto dei nostri ragazzi procedere per il Cattedrale di Cristo Ré a Moshi (Kilimanjaro). Lui loro noviziato. Hanno concluso con successo tre viene da quelle parti. Dopo i suoi tre anni di filoanni di filosofia e la formazione iniziale per la sofia qui a Morogoro, ha fatto il noviziato a Mavita religiosa missionaria. Cinque vanno a Saputo nel Mozambico e la teologia a Roma. Poi gana nel Kenya, dove ho fatto il maestro dei noha fatto anche un’anno e mezzo di esperienza vizi alcuni anni fa, e tre vanno a Maputo nel Mopastorale in Portogallo dove è stato ordinato zambico. Chi va in Kenya non ha bisogno di imdiacono l’anno scorso. Quando si è fermato qui, parare nessuna lingua nuova perché lí si parla nel seminario, qualche tempo prima dell’ordinal’Inglese e lo Swahili come in Tanzania. Quelli zione, dopo il suo arrivo dal Portogallo, ha detto che vanno in Mozambico, invece, devono impaa tutti i seminaristi che si impara a fare il missiorare il Portoghese prima del noviziato. Il Portonario facendo il missionario. Secondo lui, si dighese è infatti la lingua nazionale del Mozamcono tantissime cose buone nel seminario, ma bico. quando si arriva in un’altra nazione, si scopre Ciò che tocca il cuore di tutti è vedere l’entusiache il modo di pensare e di fare le cose è cosí dismo di questi ragazzi nel loro cammino verso la verso da ció che si pensava prima. Bisogna vita missionaria piena. Sono pronti per le sfide quindi adattarsi alla vita concreta della gente e che stanno davanti a loro. Mi fanno tantissime al suo modo di vedere le cose. domande sul perché ho fatto il missionario sia in Auguro anche a voi, cari amici, di diventare misMozambico che in Kenya. Dico sempre loro che sionari facendo i missionari, aperti alle genti diogni grazia è anche una responsabilitá. Non si verse che abitano il mondo. puó prevedere tutto. Fin dall’inizio, il missionaDi nuovo grazie. rio deve imparare a consegnare il futuro e tutta Siamo sempre un cuor solo e un’anima sola. la sua vita a Dio senza riserva. La fiducia in Dio Assieme formiamo la Chiesa e diventiamo misdiventa cosí cruciale, cosí importante. sionari. Alcune settimane fa, l’undici di luglio, assieme ai Con preghiera e affetto sentito, diaconi diocesani e ad altri di diverse congregaP. Ippolito Marandu zioni, è stato ordinato sacerdote il nostro dia- OTTOBRE 2013 amico 81 AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT © Af MC/E Balboni 2012 C Progetto Congo RD Luca Lorusso Progetto maternità: grazie! o scorso gennaio lanciammo il «Progetto Congo Maternità Sans Fil» per completare un dispensario maternità nel territorio della missione dei missionari della Consolata Mater Dei, nel quartiere Sans Fil, zona Sud-Ovest di Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. Come era già accaduto per i precedenti progetti, anche questa volta le donazioni dei lettori di amico sono riuscite a raggiungere, e superare, la cifra necessaria. Grazie dunque a ciascuno di voi. Con la donazione di un tavolo, di un asciugamani, di un letto, di un wc, di una doccia, ecc. avete contribuito in modo concreto a migliorare le condizioni di vita di molte donne e famiglie. L Vieni e... vedi Sei in cerca di un nuovo cammino, di un gruppo, di uno stile di vita rinnovato. Hai desiderio di conoscere più da vicino il mondo, le missioni, i popoli con cui lavorano i missionari della Consolata... Ecco i riferimenti di alcune delle case che puoi contattare. Per le altre visita il sito www.missionariconsolataitalia.it CERTOSA DI PESIO CENTRO DI SPIRITUALITÀ 12010 Certosa di Pesio (Cn) Tel: 0171 738123 / Fax: 0171 738284 http://www.certosadipesio.org BEVERA (LC) CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA Via al Romitaggio 1 - Bevera 23884 - Castello di Brianza (Lc) - Tel: 039 5310220 / Fax: 039 5311697 [email protected] MARTINA FRANCA (TA) CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA P.zza M. Pagano 15 - 74015 - Martina Franca (Ta) Tel: 080 4303122 / Fax: 080 4305225 Cerca Gruppo Consolata Martina Franca su Fb. GALATINA (LE) - MISSIONI CONSOLATA Via S. Vincenzo de’ Paoli 42 - 73013 Galatina (Le) Tel: 0836 56 63281 / 0836 569197 [email protected] 82 amico OTTOBRE 2013 BEDIZZOLE (BS) CENTRO MISSIONARIO E FORMAZIONE Via XX Settembre 56 - 25081 Bedizzole (Bs) Tel: 030 674041 - 030 674888/ Fax: 030 674888 [email protected] TORINO CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA Corso Ferrucci 14 - 10138 Torino Tel: 011 4400400, chiedi di p. Nicholas Muthoka [email protected] www.consolatacam.it - Cerca CAM Torino su Fb. NERVESA DELLA BATTAGLIA (TV) CASA MILAICO Via Solstizio 2 - 31040 Nervesa della Battaglia (Tv) Tel: 0422 771272 / Fax: 0422 771700 [email protected] www.milaico.it - Cerca Gruppo Milaico su Fb. Ti aspettiamo! MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 PER SOSTENERE I MISSIONARI DELLA CONSOLATA già «La Consolata» (1899-1928) Tramite “Missioni Consolata Onlus” L a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO LA RIVISTA MENSILMENTE PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. NON , . Sono graditi però contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. Per chi desidera solo L ricevere la rivista, si suggerisce un contributo annuo di Euro 30. A RIVISTA È INVIATA IN ABBONAMENTO MA IN OMAGGIO Il 5 per MILLE a Missioni Consolata Onlus Semplice, facile, efficace. Non richiede esborsi in denaro! Basta indicare sulla vostra dichiarazione dei redditi, modello 730 o modello unico, il nostro codice fiscale: 97615590011 COME CONTRIBUIRE Intestare sempre e solo a Per DONAZIONI ONLINE vedi: www.rivistamissioniconsolata.it www.missioniconsolataonlus.it Corso Ferrucci 14 - 10138 Torino CONTO CORRENTE POSTALE (CCP) numero 33.40.51.35 Codice IBAN IT35 T 07601 01000 000033405135 MISSIONI CONSOLATA ONLUS Un modulo di CC Postale è sempre allegato alle riviste. UNICREDIT BANCA S.p.A. Piazza Adriano 15 – Torino conto corrente bancario n. 102327731 Codice IBAN IT04 N 02008 01074 000102327731 UBI – BANCA REGIONALE EUROPEA Piazza Adriano 5 – Torino Conto corrente bancario n. 7367 Codice IBAN IT39 O 06906 01013 000000007367 INTESA SANPAOLO S.p.A. 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CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere EREDITÀ e/o LEGATI. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 NON quello allegato intestato a «Missioni Consolata Onlus». Le offerte per sante Messe non sono deducibili. Corso Ferrucci, n.14 - 10138 Torino tel. 011.4.400.400 - fax 011.4.400.459 E-mail: [email protected] Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it Proprietario: Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere, C.so Ferrucci 14 - 10138 Torino Editore: Fondazione MISSIONI CONSOLATA O.n.l.u.s. Iscrizione presso il Tribunale di Torino al n. 79 del 21/06/1948 Iscrizione R.O.C. n. 22050 Direzione: Luigi Anataloni (direttore) Francesco Bernardi (direttore resp.) Redazione: Luigi Anataloni - [email protected] (.494) Luca Lorusso - [email protected] [.408] Marco Bello - [email protected] (.436) Paolo Moiola - [email protected] (.458) Collaboratori: B. Balestra, M. Bandera, D. 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