ossier - Missioni Consolata

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ossier - Missioni Consolata
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art
, comma 1, NO/TORINO
EDITORIALE
Ai lettori
di Gigi Anataloni
SULLE STRADE DELL’UOMO
«A
ndando annunciate» (Mt 10,7) ha detto Gesù ai suoi discepoli. Due verbi essenziali
e dinamici. Andare: è movimento, passaggio, esodo, direzione. Annunciare: è comunicare... anche con le parole, è testimoniare con i fatti, è realizzare con le azioni,
è relazionarsi e interagire con chi si incontra, con i compagni di viaggio. Andare è
spezzare la solitudine e uscire da sé; annunciare è creare comunione e relazioni nuove. Andare è
sconfiggere l’intimismo, la paura degli altri, la diffidenza che fa innalzare barriere. Annunciare è
costruire ponti, creare legami, abbattere i muri di silenzio e ignoranza. Andare accorcia le distanze; annunciare colora il mondo di vita.
Ricordo una storia raccolta da un missionario in terra d’Africa. La sintetizzo. Un padre manda i
suoi due figli a scoprire il mondo con una raccomandazione: «Andando lasciate segni del vostro
passaggio». I due partono. Il primo si affanna a marchiare tronchi e rocce, a far cumuli di pietre.
Il secondo non muove un dito godendosi il paesaggio e la sera, arrivati in un villaggio, saluta,
chiacchiera, beve, fa festa e conosce tutti. Così per giorni. Tornati dal padre raccontano tutto, e
questi si mette subito in strada per ripercorrere il cammino coi figli. Il primo lo invita a notare i
suoi inconfondibili segni biasimando la pigrizia del fratello. Il pigro è accolto ogni sera con grande festa ovunque si fermino a dormire: invitato a cenare nelle famiglie con i suoi compagni, si
trova anche una sposa (da cui avrà tanti bei figli «cioccolatini») con la benedizione del padre.
Lascio a voi indovinare chi ha davvero capito la raccomandazione iniziale.
Ci sono dunque due modi di «lasciare segni» viaggiando nel mondo.
C’è chi va in giro per i propri interessi e lascia segni di distruzione, indifferenza, sfruttamento e
orgoglio. Questi vanno in cerca dei luoghi migliori per fare affari, dei paradisi fiscali per frodare il
fisco, delle aree ricche di risorse naturali ancora intoccate, dei campi adatti per coltivazioni
estensive per il biodiesel, dei paesi dove la manodopera locale si può ancora sfruttare, dei focolai di guerra per vendere sempre più armi. Purché si possano fare soldi, leciti o illeciti, si arriva
ovunque: traffico di persone, prostituzione, gioco d’azzardo, sfruttamento di risorse, affossamento di rifiuti pericolosi, costruzioni di enormi bacini idroelettrici, acquisizione di grandi estensioni di terre, libere o meno... e chi più ne ha più ne metta. Anche certo turismo rientra in questa
categoria: vado dove ho voglia, spendo bene i miei soldi e mi diverto, faccio esperienze uniche in
«isole felici», prendo tutto quello che posso senza lasciarmi coinvolgere più di tanto dalle situazioni locali. Importante è aver belle foto da mostrare agli amici.
C’è chi invece viaggia seguendo il filo rosso dell’amore e della gratuità. Si va per conoscere e
condividere, per costruire e guarire, per abbattere barriere e gettare ponti. Si va per gioire delle
meraviglie che Dio opera nel cuore degli uomini, per portare amore dove c’è odio, pace dove impera la violenza. Si va per scoprire le tracce di Dio nel volto degli uomini, per rinnovare i legami
profondi che uniscono tutta la famiglia umana, per condividere la buona notizia che Dio in Gesù
ama gli uomini, ogni uomo, con preferenza per i piccoli, i poveri, gli oppressi.
T
roppo idealista il secondo approccio? Forse. Ma certo ci sono moltissime persone nel
mondo che pagano di persona per questo, senza averne un tornaconto personale. Mentre
scrivo è appena stato liberato Domenico Quirico, giornalista amante della verità, dopo 150
giorni di prigionia in Siria, anche se non si sa ancora niente di padre Paolo Dall’Oglio in
missione di pace e riconciliazione (vedi l’articolo a pag. 16). Papa Francesco è uno di questi viaggiatori che esce da sé, dal ruolo e dalle formalità per farsi incontro agli altri, per farsi carico dei
drammi di ogni persona, per gridare che la guerra non è mai una soluzione (come sta facendo in
questi giorni - speriamo ascoltato - per la Siria). E con lui tanti altri viaggiatori di pace e di amore, fanti sconosciuti e umili, missionari e volontari, religiosi e semplici cristiani, che si spendono
per lasciare tracce d’amore sulle strade dell’uomo: segni indelebili nel cuore di ciascuno. Lo
possiamo essere anche noi, io e te.
OTTOBRE 2013 MC
3
SOMMARIO
10 | OTTOBRE 2013 | ANNO 115
9
Il numero è stato chiuso in redazione il 12 Settembre 2013.
La consegna alle poste di Torino è avvenuta
prima del 30 Settembre 2013.
3 Ai lettori
SULLE STRADE DELL’UOMO
di Gigi Anataloni
OSSIER
5 Dai lettori
CARI MISSIONARI
(lettere a MC)
35
ARTICOLI
9 Italia
UN UOMO FATTO PAROLA
16
a cura di Gigi Anataloni
16 Siria
’Īsā E MOHAMMED
SPUNTI PER UNA «NUOVA
EVANGELIZZAZIONE»
IN EUROPA
(INTERVISTA A P. DALL’OGLIO)
di Daniele Biella
21 Brasile / Roraima
IL BIANCO CHE SI FECE
YANOMAMI
di Paolo Moiola
L’INDIFFERENZA
E IL VANGELO
21
DI
26 Centrafrica
IL CUORE (MALATO) DEL
CONTINENTE
RUBRICHE
di Marco Bello
51 Perù
PURUS: SENZA USCITA
7 Chiesa nel mondo
di M.Piovesan e F.G.Hernández
55 Libertà Religiosa - 13
PER «TUTELARE DIO»
ANTONIO ROVELLI
di Sergio Frassetto
26
32 «Così sta scritto»
di Stefano Vecchia
di Paolo Farinella
59 Cooperando
NON GIOCHIAMO AL
«CATTIVO SELVAGGIO»
amico
65 L’inserto giovane
a cura di Luca Lorusso
di Chiara Giovetti
63 4 Chiacchiere con
di Mario Bandera
IN COPERTINA:
Giovane adulto Yanomami ornato
per una grande festa
(Foto: Guglielmo Damioli)
STRUMENTO
DI FORMAZIONE MISSIONARIA
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MC OTTOBRE 2013
WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT
DAI LETTORI
Cari mission@ri
LAMPEDUSA:
SFINTERE
DELL’AFRICA
Signor Direttore,
i cittadini italiani non si
assumono alcuna responsabilità per gli ennesimi
Africani affogati nel Canale di Sicilia. Quei morti
siano sulla coscienza degli «Alti» fautori dell’«accoglienza», di quei partiti
e di quei politici, come la
Kyenge del Pd e la Laura
Boldrini di Sel, che con i
loro proclami farisaici
continuano a spingere i
più poveri verso l’illusione
del nostro benessere. Se
fuggono dall’Africa lo addebitiamo pure a chi ha
voluto chiudere l’era coloniale, mettendo popolazioni intere in mano a politici africani inetti e incompetenti, quando non
si dimostrano ladri e criminali, solo per permettere a governi occidentali
e orientali di continuare a
derubare l’Africa delle
sue ricchezze minerarie e
delle sue terre più produttive. Distinti saluti.
Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc)
28/07/2013
Egregio Signor Giorgio,
anche se parla a nome
degli italiani, non me la
sento proprio di concordare con lei. Quei morti
stanno sulla nostra coscienza come uomini, come europei e come italiani. Forse le farebbe bene
un viaggio in quelle terre,
ma non di quelli con le agenzie «tutto compreso»,
per capire che gli emigranti non sono attirati
nel nostro paese dai proclami dei partiti e dei politici, ma sono costretti
alla fuga da povertà, ingiustizie e violenze. Vorrei dire che forse sono in-
gannati anche dai nostri
(del nostro mondo ricco)
film, programmi televisivi, «soap opera» che colonizzano le loro televisioni. E forse sono attirati
dalla nostra pace, quella
che godiamo da quasi
settant’anni, mentre da
loro c’è guerra, fame,
violenza. E c’è poi il nostro bisogno di loro per
fare i lavori (sottopagati)
che noi non vogliamo più
fare, quelli sporchi, di
notte, senza ferie, malpagati. Inoltre quei «governi occidentali e orientali» che continuano a
derubare l’Africa, sono i
nostri governi, che noi
abbiamo eletto, siano essi di destra o sinistra. E
con i nostri governi e le
nostre industrie, siamo
noi che continuiamo a rubare, perché abbiamo legittimato lo spreco e il
superfluo. Vivere di spreco e superfluo, come facciamo noi (almeno fino a
che la crisi non ci ha obbligati a diventare più sobri), significa accettare
l’ingiustizia come sistema. La cosa buffa - che
poi buffa non è - è che lo
stesso sistema responsabile della morte degli
«ennesimi» clandestini
(bello il termine «clandestini», così anonimamente malvagio che ci fa sentire buoni e rispettosi
della legge!), è lo stesso
che cavalca la crisi che fa
lievitare i prezzi, aumentare il debito, chiudere le
fabbriche e trasferirle all’estero (dove si possono
sfacciatamente sfruttare
i lavoratori), rendere impossibile il lavoro ai giovani e aumentare il numero dei senza casa. Per
questo non possiamo lavarci le mani, dire non ci
riguarda e dare la colpa a
chissà chi. Ci siamo dentro. La verità è che non
sono le migliaia di persone in cerca di pace, lavoro
e dignità in fuga dai loro
inferni verso il nostro
presunto paradiso, la
causa dei nostri guai,
della nostra insicurezza,
della violenza, dei furti.
Essi sono il sintomo di una malattia profonda di
tutta l’umanità che ha
messo al centro della sua
vita non più il rispetto
della legge di Dio ma
quella del dio denaro. E
la cura non è certo quella
di insultare la signora
Cécile Kyenge e le persone come lei.
GRAZIE
Sono la sorella di p. Aldo
Giuliani e voglio ringraziare di cuore per l’invio della
rivista di maggio dove c’era il bellissimo articolo su
Sererit dove vive mio fra-
tello. Sono stata in quei
posti nel 1981, l’anno che
mancò in situazione tragica (anche per mio fratello)
il nostro carissimo amico
e paesano p. Luigi Graiff.
Pur essendo un brutto triste periodo abbiamo fatto
una bellissima esperienza. Dovrebbero provarla
tante persone: vale molto
per la vita in special modo
per la nostra gioventù. Vi
ringrazio nuovamente per
l’immenso regalo prezioso inviatomi. Complimenti
per la semplicità e chiarezza nello spiegare la
storia della missione e il
personaggio di mio fratello... È un uomo burbero
ma di un grande ma grande cuore missionario. Un
ricordo nelle preghiere, di
cui abbiamo tanto bisogno
sia per motivi di salute
che per le nostre famiglie.
Con affetto
Gianna Giuliani
Romeno (Tn), 24/07/2013
Per me è stata una gioia
raccontare di padre Aldo.
Se lo merita. Come cuore
è davvero imbattibile.
Quanto alla preghiera,
stia tranquilla. I nostri famigliari sono sempre
nella nostra preghiera e
poi abbiamo la promessa
dell’Allamano il quale ci
ha assicurato che a essi
pensa la Madonna Consolata di persona.
OTTOBRE 2013 MC
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[email protected]
[email protected]
DECRESCITA
Tutte le volte che ho ascoltato i nostalgici della
crescita e i fautori della
decrescita, le argomenta-
zioni portate dai primi mi
sono sembrate meno
convincenti di quelle portate dai secondi. Il dossier
di M.C. di Luglio non ha
fatto eccezione a questa
regola: come ci si può lamentare della crisi del Pil
e dell’occupazione nelle
grandi aziende (quelle
sulla cui produttività è
basato, in larga parte, il
calcolo del Pil) quando ci
sono tanti indicatori che
ci raccontano una storia
ben diversa?
Perché per esempio,
stracciarsi le vesti se si
vendono meno auto, se si
fa un uso più limitato e
accorto dei mezzi motorizzati (l’Italia, non va dimenticato, è ai primissimi
posti nel mondo per parco veicolare e numero di
autovetture pro capite), se
si consuma meno carburante, se ci sono meno sinistri, se si muore di meno sulle strade? Perché
vivere come un incubo l’eventualità che Marchionne lasci il nostro paese?
Casomai bisogna augurarsi che Fiat non ripeta
all’estero gli errori commessi in Italia, e che le
nuove frontiere dell’indu-
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MC OTTOBRE 2013
stria automobilistica non
cadano nella trappola
dell’Agnelli-dipendenza in
cui sono caduti tanti italiani.
Anche il ridimensionamento di un’altra grande
industria, quella del calcio, è un fenomeno con ricadute tutt’altro che negative. È un bene o un
male che gli Italiani giochino meno schedine e
che la Tv di stato spenda
meno per i diritti sulle
partite? È un bene o un
male che gli stadi siano
meno affollati e che i bagarini non facciano più gli
«affari» di un tempo, e
che per gli abbonamenti
non vengano più dilapidati i patrimoni di prima? È
un bene o un male che i
presidenti di alcune società gestiscano con più
oculatezza ciò che incassano? Possiamo definire
disfattista e antipatriottico chi prende atto con
soddisfazione che gli allenatori siedono un po’ più
a lungo sulle panchine?
Possiamo ragionevolmente e cristianamente
considerare recessivo il
minore spreco alimentare, nefasta la minor produzione di rifiuti, e deprimente il minor ricorso alle vie legali nelle
situazioni difficili all’interno delle coppie?
Possiamo affermare che
è esiziale per l’economia che cali la fiducia
verso il mondo degli avvocati, dei giudici, dei periti
di parte e dei tribunali
mentre aumenta quella
verso la mediazione familiare finalizzata non al divorzio, al pendolarismo
affettivo e alla dilatazione
patologica dei nuclei familiari, (quelli che l’antilingua pretende di ribattezzare «famiglie allargate») ma al risanamento
spirituale, alla riconciliazione e alla pace?
Possiamo non rallegrarci
per il fatto che la diminuita propensione ad abitare
ognuno per conto proprio
ha contribuito alla riduzione della domanda di
alloggi?
Possiamo continuare a
raccontarci la balla che i
giovani che vanno a cercare lavoro e fortuna lontano da casa sono tutti
bravi, talentuosi e coraggiosi mentre quelli che amano o comunque accettano serenamente le occupazioni domestiche,
quelli che fanno la spesa,
cucinano, lavano, stirano,
curano l’orto e il giardino,
si occupano a tempo pieno di figli, nipoti e anziani,
sono tutti bamboccioni?
Perché piangere le migliaia di aziende fallite e
le centinaia di migliaia di
posti di lavoro persi nell’edilizia e nell’arredamento e non esultare per
il drastico calo degli
infortuni sul lavoro, per
l’altrettanto indiscutibile
calo delle morti bianche,
per il +9% di occupazione
giovanile in agricoltura,
per il dietrofront di alcune
amministrazioni locali
che, per impedire ulteriori devastanti cementificazioni in un paese sempre
più a rischio idrogeologico, hanno declassato ma sarebbe più giusto
parlare di riqualificazione
- a «verde» significative
porzioni di aree che subdoli Prg avevano dichiarato «edificabili»? Perché
ostinarsi a sperare nella
quantità invece di puntare
sulla qualità? Perché non
riconoscere (a dirlo è anche Paolo Buzzetti, il Presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori),
che è la qualità il vero tallone d’Achille dell’edilizia
italiana, sono le licenze
facili rilasciate dalla Camera di Commercio a chi
poco sa di edilizia e molto
di speculazione, a provocare sfaceli?
Francesco Rondina
Fano, 17/07/2013
MC VIA EMAIL
Ricevo la rivista in forma
cartacea. Vi chiedo se è
possibile riceverla via email. Grazie e saluti
Antonio Falcone
email, 12/08/2013
Come le ho scritto, per ora non siamo organizzati
per un simile servizio, ma
la sua richiesta ha acceso
una spia importante. Come avrà visto, stiamo facendo un notevole sforzo
per migliorare la nostra
pagina web e offrire anche uno sfogliabile di prima qualità. La ringraziamo per il suo stimolo: cade in terra fertile.
Quanto allo sfogliabile,
ricordo che è possibile
sponsorizzarlo, come
hanno fatto i genitori di
Marianna con il numero
di luglio 2013. Rimarrà
un ricordo che accompagnerà tutta la vita.
DEPENNATEMI
Spett.le Redazione,
in relazione all’editoriale
dell’ultimo numero (luglio
2013), vi informo che non
desidero più ricevere la
vostra rivista. Pertanto vi
invito a cancellare il mio
nominativo dal vostro elenco.
R. M.
Torino, fax, 24/07/2013
No comment.
____________________
Nel prossimo numero:
la lettera di Claudio Bellavita sui «Tesori Sepolti» nella memoria dei
missionari anziani e l’affettuosa testimonianza di
Liviana che ricorda «Nino
Maurel», lo zio Nino, a
dieci anni dalla morte.
SCRIVETECI!
La Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
NEPAL
L’ESEMPIO DEI CATTOLICI
giovani cattolici «Mostrano a tutti noi diversi modi per servire la
Inazione.
Sono un esempio da seguire, soprattutto ora che il nostro
paese è in un momento di cambiamenti: i giovani devono dare il loro
contributo». È l’omaggio reso il 12
agosto dal primo ministro ad interim del Nepal, Khilaraj Regmi, ai
giovani cristiani in occasione della
Giornata internazionale della Gioventù. Parlando alla televisione
nazionale, il premier ha detto:
«Molti giovani nepalesi corrono
dietro alla prosperità materiale e
al denaro. Ma i cattolici danno un
esempio diverso, da seguire. Abbiamo bisogno che i giovani sviluppino una coscienza nazionale
forte, che possa essere usata per
aiutare lo stato senza rimanere in
attesa che lo stato faccia qualcosa
per loro». Regmi ha poi voluto citare il caso di Pushpa Basnet, che
nel 2012 ha vinto il Cnn Hero
Award, e la sua opera di sostegno
ai carcerati «nata dagli insegnamenti ricevuti nelle scuole cattoliche». La ragazza ha studiato al St.
Xavier College della capitale. Padre Lawrence Maniyar, ex superiore dei gesuiti nepalesi, dice:
«La nostra opera educativa ha
giocato un ruolo importante per i
giovani e per il loro futuro. Molti di
questi pionieri nel campo sociale
hanno studiato da noi». Kishor,
giovane cattolico della capitale, ha
detto: «Apprezziamo molto le parole del primo ministro. Noi cerchiamo di trasmettere il messaggio di Dio anche attraverso il servizio ai bisognosi. Siamo felici che
il governo riconosca questo impegno, anche perché la nostra opera
va oltre la questione religione:
cerchiamo di essere di aiuto a tutti».
(AsiaNews)
BRASILE
QUILOMBOLAS
L’
Assemblea generale della
Cnbb (Conferenza episcopale
dei vescovi del Brasile), ha approvato il documento “La Chiesa e le
comunità quilombolas”, uno studio preparato da un gruppo di lavoro istituito dalla Commissione
episcopale della pastorale per il
servizio della carità, giustizia e
pace. Lo scopo di questo testo è
quello di contribuire al lavoro della Chiesa nelle comunità quilombolas (afrodiscendenti). Valorizzare e difendere i loro diritti di vita,
cultura, tradizioni, credenze, e
tutto ciò che loro appartiene. Nella composizione del testo, hanno
partecipato vescovi, sacerdoti e
antropologi, che hanno lavorato
per quasi un anno su questo progetto. «Abbiamo esaminato la situazione di questo popolo nel contesto della nazione e intendiamo,
con questo documento, raccontare la lotta per la giustizia delle comunità quilombolas», ha detto
mons. Jose Valdeci Santos Mendes, vescovo della diocesi di Brejo.
La Chiesa cattolica, in diverse occasioni, è intervenuta in difesa dei
popoli quilombolas e ha accompagnato le loro richieste di maggiore
giustizia sociale.
(Fides)
COLOMBIA
INSIEME
PER I SENZA TERRA
e vittime hanno diritto a una
vita dignitosa e alla restitu«L
zione delle terre»: è questo lo slogan di una campagna lanciata in
modo congiunto dalla Conferenza
episcopale della Colombia, dal
Segretariato nazionale della pastorale sociale, dall’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani
e dall’Alto commissariato per i rifugiati. L’obiettivo è quello di
informare le vittime dell’espropriazione delle proprie terre, da
parte dei gruppi illegali, dei loro
diritti, vigilare sulla loro tutela e
sensibilizzare la comunità internazionale sulla necessità di proteggere il diritto alla vita nel contesto del conflitto armato. La
campagna è stata presentata nel
dipartimento di Norte de Santander, uno dei più colpiti: almeno 90
mila famiglie hanno dovuto abbandonare le loro terre a causa
della violenza dei gruppi armati.
Qui il governo si prefigge di restituire 2 milioni di ettari di lotti - su
un totale di 6,6 milioni depredati e
lasciati incolti - ai loro legittimi
proprietari.
(Misna)
# Nepal: Pushpa Basnet, vincitrice
del premio Cnn Hero Award con i
bambini della sua scuola.
OTTOBRE 2013 MC
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La Chiesa nel mondo
FILIPPINE
NUOVA EVANGELIZZAZIONE
llo scopo di mantenere la missione della nuova evangelizzaA
zione in sintonia con i tempi moderni, la Chiesa filippina ha convocato una conferenza asiatica
che si terrà dal 16 al 18 ottobre
presso l’Università Santo Tomas
della capitale. L’arcivescovo di
Manila, card. Luis Antonio Tagle,
spiega che «la conferenza ha tre
obiettivi principali: creare un’esperienza di Dio nel contesto delle sfide del nuovo millennio;
rafforzare i legami e la comunione
dei cattolici; fornire spunti di ispirazione e direzione imbevuti dello
spirito della nuova evangelizzazione. Questo concetto non si basa solo su mere strategie: noi
dobbiamo concentrarci su un’esperienza rinnovata di Gesù. Speriamo che attraverso questi tre
giorni si possa tutti insieme rag-
giungere questo scopo». Ma la
Conferenza «mira anche a mantenere la missione evangelizzatrice
viva in mezzo alle sfide portate
dalla modernizzazione. Il nostro
obiettivo è quello di capire il mondo moderno in cui viviamo e guardare a quelle opportunità utili alla
nostra missione. Riconosciamo il
fatto che ci siano problemi e contraddizioni ma, nonostante questi
ostacoli, sappiamo anche che il
mondo rimane lo stesso che ci è
stato donato dal nostro Signore».
Nel paese - la nazione con il maggior numero di cattolici di tutta
l’Asia - sono attesi delegati da
Taiwan, Vietnam, Brunei, Malaysia, Thailandia e Myanmar.
(AsiaNews)
PAKISTAN
ASSOLTO L’IMAM
S
concerto e amarezza nella comunità cristiana in Pakistan,
dopo che un tribunale ha assolto
Khalid Chishti, l’imam che aveva
formulato le false accuse di blasfemia contro la ragazza cattolica
disabile mentale Rimsha Masih. A
un anno dai fatti, il giudice ha assolto l’imam dopo che sei testimoni oculari hanno ritirato l’accusa di
aver ordito il complotto. In seguito
alle false accuse, musulmani radicali avevano attaccato il quartiere
cristiano di Mehrabadi (dove viveva
la famiglia di Rimsha) e numerose
famiglie cristiane sono dovute fuggire per salvare le loro vite. L’avvocato cristiano Sardar Mushtaq Gill
si dice «profondamente deluso dal
giudizio della Corte, data la evidente e provata colpevolezza di
Chishti». La sua assoluzione, infatti «non farà altro che generare
nuova impunità e assecondare
quanti continuano ad abusare della legge di blasfemia». Attualmente, Rimsha e la sua famiglia hanno
trovato asilo in Canada, dato che erano in pericolo di vita.
(AsiaNews)
EGITTO
TERRORISMO RELIGIOSO
urante le manifestazioni di
piazza del mese d’agosto, soD
no state 58 le chiese e istituzioni
cristiane attaccate e incendiate in
Egitto. Di esse 14 sono cattoliche,
il resto appartengono alle comunità copto ortodosse, greco ortodosse, anglicane e protestanti. Padre Greiche, portavoce dei vescovi
cattolici, spiega che «questa non è
una guerra civile tra cristiani e
musulmani, ma una guerra contro
il terrorismo. E la maggioranza
della popolazione è contro il terrorismo e l’estremismo religioso».
(Fides)
VENEZUELA: CAM 4 - COMLA 9
al 26 novembre al primo dicembre 2013 la città di Maracaibo, capitale della regione Zulia, in Venezuela, diventerà
la capitale missionaria d’America, grazie alla realizzazione del IV Congresso Missionario Americano Cam4-Comla 9.
L'evento, che si svolge ogni quattro anni, sarà l'occasione perché
la Chiesa del continente rifletta e parli su temi come discepolato,
secolarizzazione, multiculturalismo e la «missione ad gentes»,
che tradotto dal latino significa: missione verso i popoli. Il congresso, che vedrà riuniti 4 mila partecipanti, provenienti dal
continente americano e da altre parti del mondo, reca come slogan: «America missionaria, condividi la tua fede» e focalizzerà la
sua attenzione sulla realtà dell’evangelizzazione in America, un
mondo secolarizzato e multiculturale, avendo come guida il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale
2013 che dice: «Tutti i battezzati sono chiamati ad annunciare il
Vangelo con coraggio in ogni realtà». Il Cam4-Comla 9 in questo
senso, diventerà l’occasione per rinnovare la propria adesione
alla Chiesa e l’impegno di essere discepoli missionari di Gesù
Cristo. Il Congresso Missionario che si svolgerà a Maracaibo è
preparato da un team guidato dallo stesso arcivescovo metropolitano, mons. Ubaldo Ramón Santana, in collaborazione con p.
Andrea Bignotti, missionario della Consolata, direttore nazionale delle Pontificie Opere missionarie in Venezuela.
(IMC)
D
8
MC OTTOBRE 2013
# Venezuela - il logo del Quarto
Congresso Missionario Americano.
ITALIA
a cura di
GIGI ANATALONI
PADRE BENEDETTO BELLESI:
L’UOMO, IL MISSIONARIO, IL GIORNALISTA
© Marta Scandola - 2010
Piccole «dediche»
a un missionario schivo
e dalla risata coinvolgente, innamorato
della Parola di Dio e
della verità.
Abbiamo sentito
il bisogno di dedicare
queste pagine al nostro
fratello, amico e collega
padre Benedetto Bellesi,
chiamato alla casa del
Padre lo scorso 3 luglio.
Per l’uomo e per il
missionario che ha
donato 26 lunghi anni a
servizio della Parola
nella stampa missionaria, è il minimo che
possiamo fare.
UN UOMO
FATTO PAROLA
MAESTRO DI «CUCINA REDAZIONALE»
di Ugo Pozzoli
C
arissimo Benedetto,
soltanto poche ore fa mi è
arrivato un sms da Torino in
cui era scritto che mancava veramente poco al grande passo.
Ho realizzato in quel momento,
caro Benedetto, che su questa
terra non ci saremmo più rivisti.
Adesso, che ne ho avuto purtroppo la conferma, sono sicuro
che nel momento in cui ho letto
il messaggio avevi già iniziato il
cammino di rientro verso la casa
del Padre, l’ultimo grande viaggio, per il quale ti sei preparato a
lungo e con una meticolosità che
non avevi mai messo nelle tante
occasioni in cui, per lavoro, ti era
toccato fare la valigia e partire.
Ho una grande pena nel cuore,
perché ti sto scrivendo da un posto in cui avevamo combinato di
venire insieme. Ti ricordi? Subito
dopo la mia elezione a Consigliere, sapendo che mi sarei occupato anche della missione nel
continente asiatico, mi avevi
detto: «Il giorno che andrai in
Mongolia dimmelo, che ti vengo
a portare la borsa». Al che ti
avevo risposto che di sicuro avrei
dovuto portarla io a te, dato che
soltanto in apparecchi fotografici
avremmo avuto bisogno di un
mulo da soma.
ITALIA
10
MC OTTOBRE 2013
# In basso a destra: sul
lago d’Iseo nel 1966
p. Benedetto rema
sulla barca piena di
seminaristi in gita dal
Seminario minore di
Bevera di Castello
Brianza.
A destra e qui sotto:
in Sudafrica, durante
un battesimo e con
bambini a Damesfontein dove è stato direttore del Centro Pastorale per la formazione dei laici.
© AFMC/Benedetto Bellesi
Purtroppo questa carogna di una
malattia ti ha portato via troppo
presto, dandoti appena il tempo
di finire il tuo ultimo «Dossier»
per Missioni Consolata, proprio
sull’evangelizzazione della
Chiesa in Mongolia.
Stamattina abbiamo pregato per
te con p. Giorgio, sr. Lucia e Sr.
Gertrude, i tre missionari che lavorano ad Arvaiheer, immersi in
mezzo alla steppa mongola, a
poca distanza dall’inizio del
grande deserto del Gobi. Ti abbiamo ricordato nella Messa,
proprio all’ora in cui mettevi l’ultimo bollo sul tuo passaporto,
quello per il Paradiso.
Ciao Benedetto, ti saluto di qui,
da lontano. Non ci potrò essere
al tuo funerale, ma so che da
lassù mi capirai e non te ne avrai
a male. Mi manca pure un bicchiere di quello buono con cui
farti un brindisi, come i tanti
condivisi dopo le vittorie (e anche
le sconfitte) della nostra amata
Juventus.Ti dico grazie con tutto
il cuore per averti conosciuto e
per avermi fatto conoscere quell’anima buona e sensibile che
tendevi a nascondere dietro a una
scorza da orso marsicano. Ti dico
grazie per avermi insegnato il
mestiere di giornalista missionario e averlo fatto con quello spirito socratico che tende a fare
emergere e valorizzare quelle conoscenze che, inconsapevolmente, l’altra persona già possiede. Sei sempre stato quello
che di noi scriveva meglio di tutti,
con quell’italiano pulito, ricco e
semplice allo stesso tempo, un
vero maestro di quella che in
gergo noi chiamiamo «cucina redazionale», ovvero, colui che fa il
«lavoro sporco» di sistemare gli
articoli altrui per renderli belli e
presentabili. L’hai fatto sovente
anche con me. Le ultime meditazioni spirituali che hai condiviso
con il sottoscritto erano sul Libro
dell’Apocalisse, che racconta una
fine che non è la fine; ti mando
allora idealmente una cartolina
da questo paese dove sembra che
all’orizzonte la terra si attacchi al
cielo in una linea perfetta, come
se fosse un’anticipazione dei cieli
nuovi e della terra nuova che troverai al tuo arrivo. Fai un buon ritorno a casa,
Ugo da Arvaiheer (Mongolia),
3 luglio 2013
«CAPO MIO»
di Francesco Bernardi
C
arissimo «capo mio», ricordi? Ti ho sempre chiamato così: «Capo mio». E tu
mi rispondevi con le stesse parole.
Io ero «capo», perché direttore
della rivista, però riconoscevo in
te una autorevolezza culturale e
missionaria indiscutibile. Un’autorevolezza anche linguistica,
giacché eri laureato in Lettere
classiche alla Cattolica di Milano. Davvero «capo mio».
Entrasti nella redazione di «Missioni Consolata» nel 1987, dopo
che l’anno precedente ci eravamo incontrati in Sudafrica,
dove tu operavi e... mi cucinasti
persino una gustosa spaghettata
ai funghi da te raccolti.
Di tanto in tanto rievocavi le parole che ti dissi alla stazione di
Porta Nuova a Torino, quando
venni a prelevarti per entrare
nella redazione della rivista, e
cioè: «Se anche tu te ne andrai
dalla redazione, ce ne andremo
in due: tu ed io!». Invece lavorammo insieme per 15 anni,
senza alcun screzio. Eppure eravamo molto diversi: tu, roccioso,
metodico, anche burbero; io, più
morbido, talvolta improvvisatore,
poco amante delle regole.
MC ARTICOLI
UNA VITA ESSENZIALE
ato a Montegranaro (Fermo) il 12 ottobre 1937, figlio di Pa-
N
squale e Maulo Maria, a 21 anni (1958) emette la prima professione religiosa come Missionario della Consolata. Ordinato sacerdote nel 1963, dall’ottobre 1964 al 1972 insegna
nel seminario minore di Bevera di Castello Brianza, mentre studia
all’Università Cattolica di Milano dove si laurea in Lettere nel 1971.
Il 1973 è dedicato allo studio dell’inglese a Londra. Nel ’74 completa
i suoi studi in Sudafrica per qualificarsi all’insegnamento nel
mondo inglese. Rimane in Sudafrica fino al 1986: vice parroco di Ermelo, parroco a Piet Retief e poi responsabile del Centro Pastorale
di Damesfontein, dopo l’anno sabbatico di approfondimento pastorale al Gaba Institute presso Eldoret in Kenya nel 1983.
Il primo luglio 1986 è ufficialmente destinato a lavorare nella rivista a Torino, dove, liberatosi dagli impegni in Sudafrica, arriva all’inizio del 1987 per dare il cambio all’attuale direttore in partenza allora per il Kenya via Inghilterra per l’inglese. Il suo primo lavoro è
completare la serie dei quaranta numeri di «Missione come», la
mini enciclopedia missionaria della rivista Amico. Redattore e anche direttore per un breve periodo, durante il suo servizio alla rivista visita il mondo consolatino in lungo e in largo. Forse l’unico posto dove non va è l’Asia, soprattutto la Mongolia, dove sogna tanto di
andare. È stato inoltre autore e curatore di numerosi saggi.
© Gigi Anataloni - 1966
Colpito da un tumore al maxillo facciale, è operato con successo una
prima volta nel 2007, tornando al suo posto di lavoro come se niente
fosse, o quasi. Tra settembre 2009 e giugno 2010 realizza il suo desiderio di vivere un anno in Terra Santa totalmente dedicato agli
studi biblici che tanto ama. Rientrato in redazione, accolto a braccia aperte, nel luglio 2012 ha una ricaduta del tumore da cui non si è
più ripreso nonostante i massicci interventi. Cosciente della sua
condizione fa di tutto per non farla pesare. Continua a lavorare
come sempre fino a quel 18 giugno, quando una grave emorragia lo
costringe in ospedale da cui esce alle prime ore del 3 luglio passando per la «porta stretta» che conduce in cielo. Ora il suo corpo
riposa nel suo paese nativo.
Gigi Anataloni
Ci concedevamo delle sane risate: la tua era una lunga e possente cascata di scrosci fragorosi e accattivanti.
Un altro punto su cui collimavamo al 100 per cento era rappresentato dall’espressione:
«Nella vita temi specialmente
chi si reputa un genio, mentre è
solo un rompiscatole!».
Capo mio, eri pure tifoso della
Juventus, mentre io ero estraneo
a ogni cultura pallonara. Tuttavia, dopo qualche stagione, mi
ritrovai a tifare Juve, solidale e
«ammagliato» dal... «capo mio».
Tu, roccioso di carattere, trascorrevi le giornate appoggiandoti continuamente e senza riserve sulla «roccia» della Parola
di Vita. Fu una fede che ti accompagnò e sorresse sempre, specialmente i giorni oscuri, dolorosi e interminabili del cancro.
La passione per la «Parola» ti
spinse a Nazaret, a Gerico, a Gerusalemme e dintorni, dove
camminasti come pellegrino per
diversi mesi e a più riprese. La
Parola ti consentì di dettare meditazioni profonde e toccanti.
Come dimenticare, ad esempio,
un tuo quaresimale sul Libro di
Giona? Il fascino della Parola di
Dio contagiò pure «Missioni Consolata». Infatti la rubrica biblica
mensile della rivista «Così sta
scritto», curata da don Paolo Farinella, fu merito tuo.
Fosti redattore e direttore di
«Missioni Consolata», come
nessun altro. Alcuni numeri speciali monografici della rivista
vennero poi ristampati anche
come libri. «Allah akbar», ad
esempio, interamente dedicato
all’Islam.
Capo mio, Benedetto! Un capo
tosto, convinto e sereno. Ora,
mentre passeggi in compagnia di
tanti amici attraverso le galassie
luminose del Paradiso, facci ancora sentire la tua possente risata. Sarà una garanzia che la
nostra povera preghiera è stata
accolta dal Padre celeste. Vero,
che continuerai a ridere, capo
mio?
p. Francesco Bernardi,
missionario in Tanzania
OTTOBRE 2013 MC
11
ITALIA
# A destra: a Torre di Palme (Fermo) nel-
© AFMC/Benedetto Bellesi
l’agosto 2006 con altri missionari
della Consolata marchigiani, i padri B.
Bellesi, Claudio Brualdi, Stefano Camerlengo, Francesco Cialini e Francesco Discepoli con il segretario del vescovo di Fermo (in maglietta bianca)
dopo un buon pranzo a base di strozzapreti.
Qui sotto: con i confratelli alla conclusione dei tradizionali esercizi spirituali in Certosa di Pesio a fine maggio
2007. Ben quattro dei missionari nella
foto lo hanno già preceduto in cielo:
Fratel Sabaini e i padri Scudiero,
Basso e Moreschi.
L’ORSO GENTILE
di Paolo Moiola
I
ncontrai padre Benedetto per
la prima volta nel giugno del
1994. Padre Francesco Bernardi, allora direttore della rivista, mi aveva convocato a Torino
per capire se la mia collaborazione giornalistica (iniziata nel
1989) potesse diventare più stabile. Il direttore chiamò padre
Bellesi per presentarci. Lui mi
strinse la mano, disse poche parole e tornò nel suo ufficio. Mi
colpì la sua voce, forte e chiara,
ma anche il suo aspetto con la
faccia tonda e un fisico ben piantato a terra. Senza capirne esattamente i motivi, provai però una
12
MC OTTOBRE 2013
sorta d’immediato timore reverenziale, che non sarebbe mai
sparito completamente. Come
dimostra la circostanza che, nei
suoi confronti, io sempre utilizzai
il «lei».
Nella vecchia redazione il suo
ufficio confinava con il mio. E
non era una fortuna! Perché padre Bellesi fumava e fumava
forte. L’aria appestata dalla nicotina superava porte e muri, insinuandosi per ogni dove. Fumò
per molti anni finché non venne
l’aut aut (probabilmente tardivo)
dei medici.
Quando padre Bernardi lasciò la
rivista (dicembre 2002), padre
Bellesi fu nominato direttore. Si
aprì allora una stagione in cui,
come redattori stabili, eravamo
soltanto noi due. Non fu un periodo facile perché, per far uscire
la rivista, si dovevano fare i salti
mortali. E l’attualità non aiutava.
Erano infatti i tempi della guerra
in Iraq. Dopo mesi di preparativi,
nel marzo 2003 George W. Bush
aveva ordinato l’attacco al paese
mediorientale. Missioni Consolata si schierò - ancora una volta
- contro la guerra in maniera
chiara e argomentata. Arrivarono
moltissime lettere (via posta e
dunque più impegnative - non
fosse altro per i tempi necessari
a scriverle e spedirle - rispetto
alle attuali email), di plauso e di
critica. Queste ultime erano par-
MC ARTICOLI
IL PRETE I N CLERGYMAN
di Giacomo Mazzotti
E
ticolarmente dure e con toni accusatori, a volte insultanti. Padre
Bellesi non perse mai la testa,
non scelse mai la strada facile di
dare ragione a tutti per non
scontentare alcuno. Nelle Lettere dava spazio a tutti, rispondendo in maniera meditata ma
senza accondiscendenza, anche
a rischio di perdere un abbonato
(la minaccia di gran lunga più
diffusa). Poi, quando arrivavano
lettere elogiative, le pubblicava
con soddisfazione ma senza enfasi, anzi quasi con pudore: «La
vostra rivista entra mensilmente
in casa mia e mi rinfranca nello
squallore giornalistico che ci circonda. Davanti all’aggressione
cui siete sottoposti, vi domando
di resistere forti delle vostre
idee».
Sì, furono tempi duri ma anche
densi di soddisfazioni, come testimonia il grande successo dei
numeri monografici (alcuni dei
quali - tra cui La guerra, le
guerre e Il prezzo del mercato divennero altrettanti libri editi
dalla Emi).
Padre Bellesi aveva le sue letture (laiche) preferite. Ogni venerdì, all’arrivo della posta, l’Espresso doveva andare direttamente sulla sua scrivania. Lo
leggeva per intero e poi lo riponeva nella sala delle riviste. Ricordo questo per dire che era
molto aperto, certamente anche
in campo politico.
Ecco, questo era padre Bellesi:
una persona all’apparenza burbera ma, sotto la scorza, buona;
ferma nelle sue idee, ma accogliente e comprensiva. Un «orso
gentile» che mi mancherà.
Paolo Moiola
ro da poco entrato in seminario, a Bevera: un bimbetto sprovveduto, 12 anni,
arrivato dalla campagna e con la
voglia di diventare missionario.
Fu lì, sotto il porticato, che lo incontrai per la prima volta e fu
per me un piccolo shock: un
prete alto, giovane, con rari capelli, una grossa valigia in mano
ma, soprattutto… in clergyman!
Il primo pensiero che mi frullò in
testa fu: «Un protestante tra
noi!». Non ero ancora abituato a
vedere gente in quella tenuta e
quell’incontro mi scombussolò
non poco. Salutai timidamente e
venni poi a sapere che quel
«prete protestante» sarebbe
stato il nostro futuro professore
di lettere: padre Benedetto Bellesi, appunto! E il suo abbigliamento era dovuto al fatto che
rientrava da un breve soggiorno
in Inghilterra dove, da tempo, le
sottane dei preti non erano più di
moda.
Lo apprezzavamo molto, perché
ci sapeva davvero fare. Riusciva
a trasmetterci la sua vasta cultura con brio ed eleganza. Rivedo ancora nei temi d’italiano,
in margine a qualche mia frase
particolarmente… brillante, la
sua benevola e ironica annotazione: «Ma è farina del tuo
sacco?». Poi non ci incontrammo
più mentre proseguiva il mio
viaggio verso il sacerdozio e la
missione. Me lo ritrovai, inaspettatamente, a Wamba (nell’allora
Zaire), dove da qualche anno
stavo assaporando la prima
esperienza africana: l’inseparabile macchina fotografica, il
bloc-notes per gli appunti e la
sua cordiale curiosità nell’inseguirci nei vari posti, con domande e osservazioni. Era già
entrato nella redazione di «Missioni Consolata» e seppi che,
ogni anno, programmava un
viaggio nei vari paesi per documentarsi sul campo. Frutto di
questi giri per il mondo, i suoi
«pezzi» coloriti e godibili alla
lettura.
Gennaio 1990: il sole pallido di
Torino non riusciva proprio a rallegrarmi il cuore, mentre pen-
savo con nostalgia a quello caldo
e luminoso dell’Africa che, poco
più di un mese prima, avevo lasciato. Ero stato destinato a lavorare per le nostre riviste e fu proprio in redazione che ritrovai padre Benedetto, assieme al direttore, padre Francesco Bernardi.
Con un’esplosione di gioia (forse
perché mi aspettavano da tempo)
accolsero il novellino che arrivava fresco fresco per mettersi
alla loro scuola.
Ricordo che si cominciava allora
a usare i primi computer
(enormi, ingombranti) e fu proprio padre Benedetto ad accompagnare i passi incerti di chi, fino
ad allora, aveva vissuto in foresta, senza telefoni, né corrente
elettrica, né giornali; se ne intendeva un po’ più di noi tutti e fu
grazie a lui che l’informatica trasformò rapidamente il nostro sistema di lavoro, rendendo le riviste più attraenti e moderne.
Gli anni scivolavano veloci, numerosi; ero felice di trovarmi in
compagnia di Francesco e Benedetto: progetti, nuove idee, ricerche, viaggi, preoccupazioni per i
costi sempre in crescita, incontri
di redazione… Ognuno di noi con
il suo stile, le sue «specialità».
Lui, padre Benedetto, aveva soprattutto la passione della storia,
le biografie dei grandi missionari, i reportages dai vari paesi,
le interviste… il tutto sempre curato con eleganza e precisione. I
suoi articoli erano sempre apprezzati, letti con gusto e anche
ricercati, come i famosi «Numeri
speciali», che il suo contributo
rendeva davvero preziosi.
Lasciai gli amici della redazione
nel 2005 per l’amato Congo.
Avevo rivisto padre Benedetto
poco più di un anno fa. Era già
segnato dal male, ma sempre
tenacemente attaccato alla sua
rivista, al suo lavoro, alle sue ricerche. Mi aveva fatto dono di un
po’ di materiale biblico, pazientemente raccolto negli anni e
che conservava, con ordine, nel
computer.
Un gesto che mi rivelò ancora di
più come lui non fosse soltanto
un brillante giornalista, ma anOTTOBRE 2013 MC
13
ITALIA
che un predicatore sapiente, una
persona attenta ai problemi del
nostro tempo, un missionario felice della sua vocazione, pur severo nella fedeltà ad essa, vissuta senza leggerezze, né sconti.
Ho imparato molto da lui: non
solo a usare il computer o a scrivere articoli, ma soprattutto a
servire la missione con competenza, serietà e gusto di fare le
cose bene. Lui ci è riuscito e ce
ne ha dato l’esempio.
Giacomo Mazzotti
UN «DABAR» DEL NOSTRO TEMPO
di Paolo Farinella, prete
H
o conosciuto padre Benedetto Bellesi nel mese di
novembre del 2004. Al mio
rientro da Gerusalemme, Paolo
Moiola mi contattò per chiedermi se fossi interessato a collaborare con la rivista. Mi mise
in contatto con il direttore, padre
Benedetto Bellesi, il quale fu
contento di avere una rubrica
specificamente «biblica». Decidemmo di cominciare con il numero di febbraio dell’anno 2005.
Il titolo della rubrica «Così sta
scritto» fu suggerito da Paolo
Moiola e fu accettato sia da me
che da padre Benedetto, il quale
mi lasciò piena libertà di parola
e di scrittura.
Nella prima puntata, la numero
«0» del febbraio 2005, che fungeva da introduzione alla rubrica, concludevo con queste
parole: «Spetta a ciascuno di
noi, “oggi”, decidere di essere
«dabàr», parola/fatto che resta
scritto nella carne dell’umanità.
Parola e sigillo di verità». Alla
notizia della morte di padre Benedetto, queste parole mi tornarono alla mente e oggi penso di
poterle applicare all’intera vita
di padre Benedetto per come
l’ho conosciuto. L’ho visto l’ultima volta il 18 maggio 2013, un
mese prima che salpasse per il
suo esodo verso la terra promessa della Gerusalemme celeste. Il volto era scarnificato e si
vedevano i segni del compimento perché ormai il frutto
«Benedetto» aveva raggiunto la
sua piena maturità.
Nel ritorno a Genova, insieme
alla dott.ssa Maria Cristina Pantone, si rifletteva sulla sua serenità e pacificazione: ci aveva
raccontato la sua malattia come
se stesse parlando di una so-
rella o di una persona cara. Era
già immerso nel cuore di Dio e
io sono convinto che lo sapesse,
ma non voleva dare preoccupazioni agli altri. Sono felice di
averlo aiutato a trovare la via per
il suo lungo soggiorno a Gerusalemme, di cui mi fu sempre
grato e riconoscente e sono
certo che da quel viaggio nella
città del destino di Dio e dell’uomo, egli ritornò con in bocca
e nel cuore le parole di Simeone
il profeta: «Ora puoi lasciare, Signore, che il tuo servo vada in
pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto
la tua salvezza» (Lc 2,29-30).
Dopo avere servito il Regno di
Dio in missione per tutta la sua
vita, sostò al pozzo di Giacobbe
per bere l’acqua della vita e
mangiare il pane di Elia per prepararsi all’esodo più importante
della sua vita, dopo avere attraversato il deserto della malattia
e della consumazione del corpo
con il fuoco dell’immolazione. Il
Signore ha visitato il suo cuore e
ha voluto consolarlo facendolo
«abitare» per sei mesi nella
Città santa, quasi una predilezione prima del rapimento sul
carro di fuoco, come il profeta
Elia.
Sì! Padre Bellesi fu un «dabàr»
che in ebraico significa contemporaneamente «parola» e
«fatto/evento». Fu parola perché
parlò e scrisse dal pulpito della
rivista MC che sentiva come sua
creatura e che curava con amore
e passione; fu anche fatto/evento
perché parlò con la sua vita trasparente e il suo comportamento che non contraddisse mai
MC ARTICOLI
rimentabile con la sua vita, con
la sua parola. Parola e vita, cioè
«dabàr». Grazie, padre Benedetto per chi sei stato, per come
sei stato e per continuare a essere per noi che ti abbiamo conosciuto e amato benedizione,
memoriale senza fine del Dio di
Abramo, di Isacco, di Giacobbe e
di Gesù Cristo. Ora che sei andato avanti, non dimenticare di
preparare il posto anche per noi,
accanto a te nella Gloria di Dio
Padre e Figlio e Spirito Santo.
Paolo Farinella
DIRETTORE
AL SERVIZIO
di Marco Bello
L
a tristezza ci coglie questa
mattina (3 luglio 2013). Ce
l’aspettavamo, ma nel cuore
c’era ancora la speranza che padre Bellesi sarebbe tornato a
solcare con passo fermo il corridoio della redazione. Perdiamo
un pilastro della rivista, per il
suo italiano pulito, ma anche per
il grande lavoro in termini di
quantità, oltre che di qualità. Mi
ricordo quando è stato nostro direttore, ruolo che non gli piaceva
troppo e che immagino accettò
per spirito di servizio. Non dimenticherò mai il suo atteggiamento di difesa dei «suoi» redattori. Lo avevo conosciuto nei
primi anni ‘90 quando ho iniziato
la collaborazione come esterno
e il nostro terreno d’incontro furono subito le macchine fotografiche. Anche lui «canonista»
convinto, ci consigliavamo a vicenda le ultime autofocus uscite.
Lo abbiamo visto cambiare fisicamente in questi ultimi mesi,
ma il suo spirito era sempre lo
stesso. Si crea un grande «buco»
in redazione, che sarà difficile
colmare. E poi a chi regalerò i
francobolli adesso?
Marco Bello
# Qui a sinistra: a Petra,
in Giordania nel 2009.
In basso: splendida panoramica
dal deserto giordano
nei dintorni di Petra.
© Marta Scandola - 2010
la parola che scriveva. La sua
amicizia è stata per me preziosa
e lodo Dio per la sua vita e la sua
morte, ma anche perché mi ha
ritenuto degno di essere suo
amico.
Non piango la morte di un giusto
che è sempre una grazia per chi
crede, ma lodo il Signore che ha
liberato padre Benedetto dalla
sofferenza legata al tempo e allo
spazio, per trasfigurarlo nell’immagine perfetta del «Lògos» che
egli servì per tutta la vita. Dio è
più credibile perché padre Benedetto l’ha reso più visibile e spe-
OTTOBRE 2013 MC
15
SIRIA
di DANIELE BIELLA
© testiweb com
Questa conversazione
con padre (abuna) Paolo
Dall’Oglio - avvenuta
prima della sua
sparizione in Siria
(a fine luglio) - è incentrata sul dialogo tra la
Chiesa cattolica e
l’Islam. Fondatore della
comunità monastica di
Deir Mar Musa, allontanato dal paese mediorientale nel giugno 2012,
il gesuita è noto per la
sua posizione nettamente contraria al
regime di Assad.
Lo raccontiamo
attraverso alcuni suoi
scritti, mentre a oggi
(settembre 2013) di lui
non si hanno ancora
notizie certe.
# In alto: padre Paolo Dall’Oglio intervistato durante una manifestazione
a Drò (Trento). A destra: esterno e
interno del monastero di Deir Mar
Musa nel deserto siriano.
16
MC OTTOBRE 2013
PADRE PAOLO DALL’OGLIO
’ĪSĀ E MOHAMMED
(NELLA SIRIA IN GUERRA)
P
adre Paolo Dall’Oglio, gesuita, classe 1954, è stato
rapito in Siria da un gruppo
islamista a fine luglio. Su di lui
sono girate le voci più disparate,
finanche quella della sua morte.
Dall’Oglio - conosciuto per aver
fondato, nel 1991, la comunità
monastica Deir Mar Musa, nel deserto roccioso della Siria, a 90
chilometri da Damasco - si era
dovuto allontanare dal paese nel
giugno 2012. Le autorità ecclesiastiche avevano preso questa decisione dopo che il governo di Assad l’aveva minacciato di espulsione per le sue posizioni rispetto
alla guerra civile siriana.
Qualche mese fa avevamo raggiunto Abuna («Padre», in arabo,
lingua che lui parla fluentemente)
Paolo, come viene chiamato in
Medio Oriente, a Suleymania, nel
Kurdistan iracheno, dove era
ospite di una comunità cristiana.
La chiacchierata si era incentrata
sul suo percorso spirituale e religioso. Ne è uscito il quadro di una
persona senza compromessi, disposto a mettersi in gioco per una
causa davvero grande: il dialogo
islamo-cristiano, tra i seguaci di
Mohammed e quelli di ’Īsā (che è
il nome di Gesù tra i musulmani).
Abuna Paolo, quando e dove è
arrivata la vocazione?
Era il 12 maggio 1974. Una data
storica, perché è stato il giorno
del referendum sul divorzio in Italia, alla cui campagna io avevo
partecipato. Mi trovavo a Roma, a
casa di un amico: la chiamata è
arrivata in modo molto intimo, essenziale, collegata all’universalità
del vangelo. A ciò è seguito un
percorso molto profondo, fatto di
esercizi spirituali, noviziato, e nel
frattempo di un progressivo avvicinamento al mondo musulmano,
MC ARTICOLI
che mi ha incuriosito da subito.
Sono diventato gesuita nel 1975,
poco tempo dopo ho fatto i primi
viaggi studio, in particolare a Beirut, dove ho imparato l’arabo.
Che impatto ha avuto con la religione musulmana?
«Il mio percorso sta tutto nel racconto di un fatto: nel 1978 mi trovavo di passaggio a Bosra, città
della Siria, diretto verso l’Egitto,
che volevo conoscere. La sera,
entrai nel cortile della moschea,
dove mi vennero incontro due giovani, a cui dissi di essere sporco, e
che volevo esprimere il mio rispetto per la moschea, la casa di
Dio, facendo le abluzioni. Mi diedero una brocca d’acqua e mi indicarono i bagni. Quando tornai,
giunta l’ora della preghiera della
sera, la moschea si riempì di uomini e bambini, e fui invitato a
unirmi. Sentii allora una forte attrazione, ma anche il dovere di
non ingannare i miei ospiti. Come
avrebbero potuto capire quello
che io già sentivo come una duplice appartenenza? Il mio andare
incontro al mondo musulmano ha
origine anche negli esercizi spirituali ignaziani, che seguono la
promessa del Signore a non nascondersi, ad andare in cerca del
dialogo con l’altro. Poi c’è il
grande insegnamento del Concilio Vaticano II, l’inculturazione
della fede e la necessità di aprirsi
all’ecumenismo.
Quali sono i modelli che segue
nel suo approccio con l’Islam?
Tutti i teologi orientalisti sono di
grande importanza, uno su tutti è
Louis Massignon, la cui opera mi
guida fin dall’inizio, così come
quella dei suoi allievi. Io come altri, appartengo alla terza generazione, quella che più di tutte, nonostante il fallimento dello stesso
Concilio Vaticano II, vuole ricominciare da lì per fomentare il
dialogo islamo-cristiano.
In che fase si trova ora l’Islam,
agli occhi di un missionario cristiano?
È in continua evoluzione, con una
società che cerca in vari modi
un’emancipazione che spesso risulta contraddittoria, perché da un
lato è fertile, dall’altro è fonte di
sofferenze. Non è facile per un cristiano avvicinarsi all’Islam, ma
come prima cosa bisogna togliersi
dalla testa l’idea che si possa disprezzare perché differente: capita invece di scoprire, con il
tempo, cose molto belle, e quando
entri in relazioni significative ci rimani tutta la vita, come sta accadendo a me. È chiaro che a volte le
cose non vanno come dovrebbero,
vedi la tragica guerra civile in Siria, oggi in preda a una crisi tre-
LE DATE
1954 - Nasce a Roma.
1975 - Entra nella Compagnia di Gesù.
1991 - Fonda nel deserto siriano la comunità monastica di Deir Mar
Musa.
2012 - È costretto a lasciare la Siria a
causa delle sue posizioni sulla
guerra civile.
2013 - luglio - Rientrato in Siria, scompare, probabilmente
rapito.
2013 - agosto - Dalla Siria giungono notizie contraddittorie sulla sua
sorte.
2013 - settembre - Esce il suo ultimo lavoro, Collera e luce. Un prete
nella rivoluzione siriana, Emi,
Bologna.
menda dalla quale io sono dovuto
venire via mio malgrado. Nel rapporto con il mondo musulmano, la
chiave sta nell’incontro e nell’evento sacramentale della relazione, un fatto pentecostale che ci
trasforma tutti, ci rende fratelli.
Tre fratelli, allargando il tema ovvero comprendendo gli ebrei.
Massignon dedicava le tre grandi
preghiere giornaliere di Abramo a
ciascuno di essi: una per Isacco,
simbolo del mondo ebraico, una
per Ismaele, ovvero l’Islam, la
terza per Sodoma, la città inospitale in cui Gesù ha portato il suo
messaggio.
Il monastero di Deir Mar Musa,
durante la guerra civile in
corso, ha perso la sua guida, il
suo fondatore. L’esperienza
cosa le ha lasciato?
Un’enorme spinta a credere nel
dialogo. Al monastero sono arrivati negli anni per devozione cristiani locali (in Siria prima della
guerra erano l’8% del totale, ndr)
di diversi riti: cattolici, ortodossi,
protestanti, armeni, di rito greco,
siriaco, maronita.
Inoltre c’è la popolazione musulmana, che visita il monastero
come atto culturale, turistico e
spirituale. Un monastero cristiano
in un ambiente musulmano tradizionale è un luogo religioso riconosciuto. Infine Deir Mar Musa riceveva anche il turismo internazionale, culturale e ambientale,
ed era sede di convegni nazionali,
meta di giovani che venivano a
studiare l’arabo. Stiamo parlando
di tante, tantissime persone. Un
anno abbiamo contato i bicchieri
di plastica utilizzati: erano 50mila.
Poi ci hanno criticato per i bicchieri, che sono stati via via sostituiti con quelli di coccio… l’aspetto
importante era la rete che si è venuta creando, e il fatto che si
O TOBRE 2013 MC
17
SIRIA
Il Medio Oriente e la Siria secondo padre Paolo Dall’Oglio
«PERCHÉ SONO CONTRO ASSAD»
In Siria i cristiani sono divisi in due schieramenti: quelli che difendono il presidente Assad e quelli
che stanno con i ribelli. In questa lunghissima lettera pubblica - da noi ampiamente stralciata e
riassunta - padre Dall’Oglio spiega le sue posizioni sul Medio Oriente e perché si è schierato con i
ribelli anti-Assad. Considerazioni poi sviluppate in «Collera e luce», il suo ultimo lavoro, dove tra
l’altro scrive: «La mia coscienza cristiana è chiaramente lacerata».
ari amici della Siria, si è molto insistito sul fatto che
avrei profittato per i miei comodi della situazione siriana, del regime siriano, e che ora darei prova di poca
gratitudine tradendo innanzitutto i cristiani siriani, mi
limiterò ad una serie di considerazioni in ordine cronologico per render conto dell’evoluzione della mia posizione.
C
1973
Ho visitato la Siria degli Assad una prima volta nel
1973, appena prima della Guerra di ottobre (il conflitto tra Israele e la coalizione composta da Siria ed Egitto, ndr).
Ne riportai l’impressione di un popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente mobilitata al massimo in senso anti israeliano. I paesi arabi subivano l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra fredda.
Per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze
del popolo palestinese e degli arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione totalitaria dell’informazione già mi ripugnava. Sapevo che si trattava di una dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel paese.
Ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di Achrafiye da parte dell’esercito siriano (la guerra civile libanese era scoppiata nel 1975 e la Siria ne
prese subito parte, ndr). Il regime siriano si è comportato da padrone senza scrupoli sfruttando il Libano in tutti i modi e nascondendosi dietro una serie di maschere ideologiche venute poi
meno, le une dopo le altre, di fronte all’eroica resistenza del popolo libanese democratico.
Ero a Damasco per lo studio dell’arabo,
delle Chiese orientali e dell’Islam. Venni
in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura repressiva utilizzati dal regime. Se volevo restare nel paese dovevo
assoggettarmi come tutti. Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza. Moltissimi cristiani già lasciavano allora il
paese visto il perdurare della situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro regime, altri contro,
ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli. Bisogna
ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi e asservite alle logiche neo imperialiste. Io
cercai sempre di avere buoni rapporti con lo stato - anche se sottomesso al regime dittatoriale - in quanto proprietà dei cittadini.
Ero per la legittima lotta di liberazione contro l’occupante israeliano, ma evitavo sistematicamente di cedere ai toni della propaganda di regime.
1978
© Jodi Hilton / rin
1980/’81
1982
In quell’anno ero studente di teologia a Roma
quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile di Hama (città della Siria centrale a grande
maggioranza sunnita, ndr) durante l’insurrezione dei Fratelli
musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi. Non se ne poteva
parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità
di rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia islamo-cristiana. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo, silenzioso massacro avveniva nelle
carceri, nei lagher, nei gulag siriani. Ne avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette e sapevo che
molti cristiani, anche tra le autorità ecclesiastiche, si erano
abituati a questo stato di cose come naturale e necessario
rendendosene a volte direttamente complici. Questo mi addolorava profondamente e vi vedevo un rischio pesantissimo
per il futuro della Chiesa in Siria. La stessa cosa avveniva
d’altronde in Iraq e in Egitto.
In questo spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure
con molta speranza ed entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni. A causa dell’ampio impatto internazionale del mio impegno di restauro, di accoglienza e di
dialogo al Monastero di Mar Musa, godetti indubbiamente di
uno spazio di parola e di una libertà di opinione incomparabilmente più largo dei normali cittadini, obbligati a portare
fin dalla più tenera infanzia il cervello all’ammasso della manipolazione di regime. Fui presto oggetto di critiche aspre e
di accuse ingiuste proprio perché la mia libertà di parola
sembrava impossibile ai più, anche se era sempre limitatissima e molto auto controllata se paragonata alla situazione,
per esempio, europea. Era un gioco in fondo leale: io offrivo
un volto che illustrava internazionalmente l’apertura e il pluralismo almeno programmatico del potere siriano e loro accettavano ch’io mi comportassi come se la democrazia, seppur non perfetta, fosse già almeno in fieri.
Ho lavorato continuativamente nella prospettiva del successo dei negoziati di pace nella visione di un Medio Oriente
riconciliato nella giustizia. Ho sempre dichiarato che l’islamismo politico è una grande realtà regionale e che non è immaginabile che si debba rinunciare alla democrazia, ai diritti civili e all’autodeterminazione dei popoli per continuare a sopprimere il programma islamista, sia esso salafita o dei Fratelli musulmani o di gruppi più o meno moderati. Si tratta di
un soggetto politico plurale non aggirabile ma tuttavia esposto ad evoluzione, spesso rapida. Per questo ho sempre curato la relazione coi leader naturali, scelti e seguiti dalla
piazza e dal popolo delle moschee dei musulmani siriani, rifiutandomi di appiattirmi sulle autorità approvate e nominate dal regime.
In quell’anno la Siria partecipò alla coalizione
contro l’Iraq di Saddam che aveva invaso il
Kuwait. Trovai giusto in quell’occasione che si salvassero i
curdi dall’attacco di Saddam e proteggendoli con una no fly
zone. Rimasi poi scandalizzato profondamente quando gli
sciiti iracheni furono cinicamente abbandonati alla repressione del dittatore di Baghdad, e così pure i libanesi abbandonati allo strapotere siriano.
È evidente che la guerra è raramente una soluzione e comun-
1991
MC ARTICOLI
que è una soluzione cattiva e claudicante. Tuttavia, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa dichiaro, nonostante i rischi di equivoci stridenti e di ipocrisie criminali, la legittimità
della guerra giusta, il diritto alla difesa armata, il dovere di
proteggere i paesi e le popolazioni vittime di aggressioni violente interne e o esterne. Nonostante questo incoraggio e mi
impegno per la pratica e il successo delle azioni nonviolente.
Penso alla non-violenza attiva, politica, come ad una trascendenza dei conflitti. Non è essa sempre un’alternativa praticabile di per sé, ma essa è sempre necessaria. Molto più di un
correttivo integrativo, prima durante e dopo i conflitti armati, la non-violenza dialoga, testimonia, critica, assiste, apre
vie di riconciliazione. Va oltre!
Quando il dottor Bashar el-Assad, figlio del
presidente Hafez, prese il potere, si riaccesero
le speranze per un cambiamento democratico incruento che
potesse riconciliare la società siriana profondamente divisa e
sofferente dietro la facciata delle realizzazioni gloriose del regime. Anche la visita del Papa nel 2001 aveva la valenza di un
segno di speranza, benché l’anno precedente la visita a Gerusalemme era stato l’ultimo momento di calma prima dell’inizio della seconda tragica intifada palestinese. La breve Primavera di Damasco fu soffocata da una repressione il più
dolce possibile per evitare di perdere quel credito che la società aveva accordato a Bashar, per non perdere speranza nel
futuro.
In quell’anno mi opposi con un digiuno pubblico all’invasione dell’Iraq da parte delle armate del presidente Bush. D’altronde ero sempre stato fortemente critico delle crudeli e inutili sanzioni economiche.
La crisi irachena fu gestita dalla Siria come occasione di un
gioco d’azzardo che mostrava il desiderio di affermarsi come
potenza regionale, in combutta con l’Iran.
Da tutto il contesto, e da molte prove, era chiaro che lo stato
israeliano aveva già fatto la scelta di gestire il regime degli
Assad come un male minore, un’ipotesi tattica favorevole. In
fondo per Israele la mancanza d’unità dei suoi nemici restava
la vera priorità, unita alle necessarie operazioni chirurgiche
per evitare l’acquisizione dell’arma nucleare con operazioni
puntuali e limitate, in Iraq e poi in Siria e forse presto in Iran.
Anche la concorrenza tra musulmani sciiti e sunniti nell’uso
della retorica anti israeliana più rozza consentiva a Israele di
dichiarare l’intenzione genocidaria degli arabi e dei musulmani giustificando così il muro, l’espansione delle colonie e le
pratiche di discriminazione sistematiche.
Il 2005 è l’anno in cui
molti nodi vengono al
pettine con l’assassinio del premier libanese Hariri. La Siria
deve fare la schiena d’asino per evitare l’intervento occidentale ed è costretta a evacuare il Libano. Un’altra occasione
d’oro per Bashar el-Assad di esautorare la vecchia guardia e
iniziare un cammino di riforme a marce forzate verso la democrazia è persa miseramente e la speranza dei siriani si restringe. Certo nel 2006, la guerra tra Israele e Hezbollah fa
della coppia Bashar - Nasrallah gli eroi della riscossa araboislamica. Molti musulmani sunniti optano per i paladini antiisraeliani. Perfino i Fratelli musulmani sarebbero disposti a
riconciliarsi col regime che riuscirà addirittura nell’intento,
lungo gli anni successivi, di diventare un partner privilegiato
della Turchia neo-islamica, allontanandola dalla vecchia alleanza militare con Israele. Questa situazione matura ulteriormente con la guerra di Gaza del 2009.
Lungo tutto il decennio la mia azione si è giocata nel provare
e riprovare a favorire la riforma democratica cercando di salvare ciò che era salvabile della liceità della posizione anti-imperialista della Siria di fronte alla grossolanità delle attitudini
dell’America di Bush e delle destre israeliane al potere. Io insistevo sulla necessità di essere morali e coerenti: avanzare
nella prosecuzione del lavoro di inchiesta e giudizio sui cri-
2000
2003
2005/’06/’09
mini, specie in Libano, nei quali il regime siriano era (è) coinvolto. Si è fatto invece il contrario: si è rinunciato ad andare
fino in fondo sul piano giudiziario, mentre si è riammessa la
Siria degli Assad nel cerchio della rispettabilità internazionale. Così il regime si è convinto che la forza bruta è il vero
motore della storia e che la democrazia è una buffonata di
facciata.
Dal 2010 la decisione di regime è presa:
l’attività di dialogo è vietata, le conferenze sono impossibili, il turismo ipercontrollato. Alla fine il
mio permesso di residenza è ritirato. Resto in Siria senza documenti di residenza e quindi non posso più viaggiare. Ma intanto la Primavera araba è iniziata. Si spera ancora che Bashar, magari con l’aiuto della bella e sensibile consorte, possa
mettersi alla testa di una riforma radicale del suo paese. Nulla
da fare, da marzo 2011 è chiaro che la scelta della repressione
incondizionata è la scelta strategica. Tutto il resto, quanto a
dialogo e riforme cosmetiche, non è altro che prender tempo
per evitare l’intervento internazionale e fumo negli occhi dell’opinione pubblica. La versione ufficiale è pronta: non c’è nessuna rivoluzione, ma solo l’azione dei terroristi islamisti radicali finanziati dal grande complotto internazionale (Israele,
Usa, la Francia, vassalli europei, massoni, ebrei, sauditi, Qatar,
al Qayda, i Fratelli musulmani, tutti insieme appassionatamente) per distruggere il paese, la Siria, avanguardia della resistenza anti imperialista e anti radicalismo musulmano. Le
autorità cristiane, le suore e i frati, sono mobilitati per dare
credibilità alla versione di regime e lo fanno con entusiasmo e
con l’aiuto attivo di centri di manipolazione mercenaria dell’informazione come il famoso Réseau Voltaire (il cui corrispondente italiano è: www.voltairenet.org, ndr).
Per due volte scrivo ai massimi rappresentanti
della Chiesa cattolica, spiegando che la guerra civile è già iniziata sul territorio siriano e che occorre attivare
una iniziativa internazionale per uscire dalla contrapposizione
Russia versus Nato e Iran versus arabi sunniti e turchi. Fino a
oggi la Chiesa non si è pronunciata sul diritto dei siriani (di
tutti i siriani, anche gli esiliati lungo i terribili ultimi quarant’anni) all’autodeterminazione e a una democrazia diversa
da una pagliacciata di regime; e paesi che la Chiesa può incoraggiare ad agire mostrano una insensibilità impressionante!
Posso assicurare che sono meno isolato tra i
cristiani siriani di ciò che si può immaginare. La
mia voce però è una delle poche note che si siano levate a dire
che noi cristiani non possiamo rimanere col regime torturatore e oppressore e neppure possiamo restare neutrali. La
storia è a un punto di non ritorno. Noi da che parte stiamo?
Paolo Dall’Oglio
2010/’11
2011
2013
OTTOBRE 2013 MC
19
SIRIA
scambiassero idee e esperienze
di vita persone provenienti da
tutto il mondo e di tutte le fedi.
Come vede l’arrivo di papa
Francesco?
Parto dalla scelta del suo predecessore, Benedetto XVI: un atto di
forte coraggio, la testimonianza di
un grande signore che a un certo
punto decide di farsi da parte per
il bene della Chiesa, stimolandola
a migliorarsi. L’ho accompagnato
nelle mie preghiere e merita
molta gratitudine, perché in questo modo porta freschezza all’ambiente, tagliando le gambe a una
sorta di “corte” che avrebbe danneggiato tutto il sistema. Ora con
l’avvento di Mario Bergoglio, l’auspicio è che si riporti il potere alla
sinodalità della Chiesa, ovvero
che lui si metta a capo di un collegio che con responsabilità porti
avanti relazioni positive con le altre confessioni, in particolare si
ponga con un’attitudine positiva
verso il mondo musulmano.
Cosa risponde a chi in Italia, politici ma non solo, rifiuta l’offrire spazi per luoghi di culto a
persone di fede musulmana argomentando che «là non ci
fanno costruire le chiese»?
Che è una frase falsa frutto di un
luogo comune: esistono chiese in
tutto il mondo musulmano, eccetto l’Arabia Saudita dove non
sono presenti in modo istituzionale. La regola è quindi che le
chiese ci sono, quello che mi
scandalizza quando vengo in Italia
è vedere moschee assolutamente
non degne delle città in cui sono.
Io dico questo: con moschee da
scantinato si fanno musulmani da
scantinato, più arrabbiati e meno
inseriti nel contesto in cui vivono.
Quanto torna in Italia cosa nota
del nostro paese?
Ci sono tante reti di persone che
si danno da fare, ma in generale
vedo una società narcisista, sempre più chiusa su sé stessa, in cui
tutto è un prodotto da supermercato e il sacro perde il proprio valore. Invece non bisogna lasciarsi
andare nonostante i tempi difficili
di crisi, e ripartire proprio dalle
differenze viste come ricchezze,
cominciando con il riconoscimento dell’alterità come parte integrante e non oppositiva del proprio mondo.
20
MC OTTOBRE 2013
Lasciamo il discorso sul dialogo
interreligioso e ci dica qualcosa
sulla sua Siria...
Oggi sono tutti divisi: da una parte
chi non vuole più l’attuale regime,
soprattutto giovani che chiedono
più libertà. Dall’altra chi non vuole
il cambiamento, perché è sicuro
che il dopo sarà peggio o perché
ragiona con logiche patriottiche,
contro il complotto internazionale.
il dialogo c’è ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che
mi fermano per strada dicendomi
che loro rifiutano la logica della
guerra civile. Nonostante le vessazioni, nel paese sono migliaia
quelli che non vogliono imbracciare le armi. Il problema è che
con il passare dei giorni sono
sempre meno, soprattutto se nessuno dà loro segni di speranza.
Lei vede questo complotto?
No, ma vedo che nella violenza attuale pesa in modo sconvolgente
l’immobilismo delle forze internazionali. Come si fa a lasciare
sprofondare questo paese senza
fare nulla? Obama non fa seguire
fatti alle parole per non mettere in
crisi la sua rielezione? C’è poi da
considerare un altro fattore oggi
all’apparenza fuori controllo: chi
finanzia e decide le azioni terroristiche? La verità è che oggi la Siria è il ring di pugilato del mondo:
Iran contro Turchia, Sunniti contro
Sciiti, Nato contro Russia. E l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a
causa del diritto di veto.
Daniele Biella
Come uscire dalla grave situazione attuale?
Io ho due proposte concrete per
riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane almeno 50mila corpi civili e
nonviolenti internazionali, che si
interpongano tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza
e armi sembrano essere l’unica
risposta. Queste figure ci sono, e
vanno impiegate con un ruolo riconosciuto da tutti i belligeranti,
per ridare ai siriani il loro diritto
all’autodeterminazione. L’altra
idea è quella di creare, fin da subito, laboratori, punti di incontro
tra i milioni di siriani all’estero per
convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi
addosso. Se loro recuperano il
dialogo, poi anche in patria potranno farlo.
Non è tardi per il dialogo, viste
anche le atrocità commesse dal
regime?
Le torture sono abominevoli, ma
ricordiamoci che non è niente di
nuovo. Fino a poco fa era la stessa
Cia, l’intelligence statunitense, a
sponsorizzare i paesi arabi che ne
facevano uso contro l’integralismo islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con
L’INUTILITÀ
DELLA STORIA
osovo (1999), Afghanistan
(2001), Iraq (2003), Libia
(2011), Siria (2013?). La storia non insegna nulla, soprattutto
a chi non ha interesse a imparare.
Nell’era dell’iperinformazione
prevale sempre e comunque la disinformazione.
Mentre la galassia dei ribelli siriani è in evidente difficoltà, Assad viene accusato di aver usato
armi chimiche, in quartieri periferici di Damasco (21 agosto). «L’utilizzo delle bombe chimiche è tutto
da provare. Se sono state utilizzate, non è certo chi le abbia gettate» (mons. Giuseppe Nazaro).
Ieri erano Bush, Blair e Aznar.
Oggi sono Obama, Cameron e
Hollande. Dicono che occorre intervenire per porre fine ai massacri del regime di Damasco. Papa
Francesco twitta: «Mai più la
guerra!» (2 settembre). «Quando
si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per
amore delle vittime ma per amore
dei propri affari e dei propri interessi» (don Renato Sacco). Come
storia insegna.
Paolo Moiola
K
I LIBRI DI PADRE DALL’OGLIO
• Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana, Edizioni Emi, Bologna, settembre 2013.
• La sete di Ismaele. Siria, diario monastico islamo-cristiano, Il Segno dei
Gabrielli, San Pietro in Cariano 2011.
• Innamorato dell’Islam, credente in
Gesù, Edizioni Jaca Book, Milano
2011.
• Speranza nell’Islam, Casa editrice
Marietti, 1992.
BRASILE
di PAOLO MOIOLA
QUESTIONE INDIGENA / INCONTRO CON FRATEL CARLO ZACQUINI
© nes Arciniegas Tasco
IL BIANCO CHE SI FECE
In Brasile i diritti dei
popoli indigeni sono sotto
attacco. Un attacco molto
insidioso perché messo in
atto da istituzioni pubbliche (governo e congresso). In queste pagine
fratel Carlo Zacquini, una
vita trascorsa a lottare a
fianco degli indigeni, e
degli Yanomami in particolare, racconta cosa sta
accadendo e quanto
grave sia la situazione.
# Fratel Carlo Zacquini con l’amico Davi
Kopenawa, sciamano e riconosciuto
leader yanomami, in una foto
dell’agosto 2013.
I
numeri sono schiaccianti. Le
persone coinvolte sono «soltanto» novecentomila su una
popolazione di 201 milioni.
Eppure la questione indigena nel
Brasile della crescita economica
e delle proteste di piazza è un
tema dirompente. È una scelta tra
la strada dell’omologazione al
modello neoliberista e dello sviluppo fondato sul saccheggio
delle risorse naturali e quella
della difesa di popoli indigeni a
volte ridotti a pochi individui.
«La situazione è molto grave e io
mi sento in un’angustia indicibile,
perché non riesco a sensibilizzare
un numero sufficiente di persone
che possano rovesciarla». A parlare così è Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da 48 anni
in Brasile. Per motivi di salute
fratel Carlo risiede a Boa Vista,
capitale dello stato amazzonico di
Roraima, ma per tantissimi anni
ha vissuto nella foresta con gli indigeni.
«Pochi mesi dopo il mio arrivo in
Brasile, era il primo maggio del
1965, alla foce del Rio Apiaù, ebbi
la fortuna di incontrare alcuni indigeni che allora erano chiamati
Vaikà. Oggi so che erano Yanomami del villaggio Yõkositheri. Fu
amore a prima vista. In seguito
ebbi vari contatti sempre con lo
stesso gruppo, finché, per l’assentarsi del mio collega padre
Giovanni Calleri, ebbi l’occasione
di cominciare a vivere tra gli Yanomami del Rio Catrimani. Poco alla
volta, mentre cercavo di sopravvivere in quel luogo, molte volte
senza il minimo necessario, imparai una delle loro lingue e, cominciai a fare delle ricerche sulla loro
cultura». Le attività di fratel Zacquini furono interrotte nel 1974,
dalle opere di una strada genocida
- la Perimetral Norte o Br-210 che il governo militare di allora
aveva deciso di costruire per andare dall’Atlantico al Pacifico. «Fu
una tragedia che non dimenticherò mai. Vari villaggi furono decimati da malattie sconosciute
agli Yanomami, portate dagli addetti alla costruzione della strada.
OTTOBRE 2013 MC
21
BRASILE
LA CRONOLOGIA
Nasce il Servizio di prote1910
zione degli indigeni («Serviço de Proteção aos Índios», Spi).
Il ministro dell’Interno bra1967
siliano commissiona al procuratore generale Jader de Figueiredo
Correia un’indagine sulla condizione
indigena in Brasile. Il rapporto diventa
la prova storica del genocidio perpetrato ai danni degli indigeni.
Lo Spi viene sostituito dalla
Fondazione nazionale per
l’indio («Fundação Nacional do Índio»,
Funai).
Viene promulgato lo Statuto
dell’indio («Estatuto do Índio», legge 6.001).
Viene promulgata la nuova
Costituzione brasiliana. In
essa il Capitolo VIII è dedicato ai popoli indigeni. Il cuore è l’articolo 231.
Il 19 giugno viene finalmente ratificata dal parlamento brasiliano la Convenzione 169
dell’Oil sui popoli indigeni.
Il presidente Lula vara il
«Programa de Aceleração
do Crescimento» (Pac), che diverrà
presto una grande minaccia per le
terre indigene.
Ottobre. Viene promulgato
il nuovo Codice forestale
(«novo Código Florestal»), un grosso
regalo ai latifondisti e all’agrobusiness, nonostante alcuni veti posti
dalla presidente Dilma Rousseff.
- Marzo. La Oil denuncia il Brasile per
aver violato l’Accordo 169 non consultando gli indigeni del Rio Xingú, per i
lavori della megacentrale di Belo
Monte.
- Novembre. Il deputato (e latifondista)
Homero Alves Pereira presenta il Plp
227 per regolamentare in senso anti-indigeno il comma 6 dell’articolo 231
della Costituzione federale.
Maggio. La ministra Gleisi
Hoffmann (Casa Civil)
chiede al ministero della Giustizia di
sospendere gli studi della Funai sulla
demarcazione delle terre indigene nel
Paraná. La presidente incontra la senatrice Kátia Abreu, leader degli imprenditori agricoli.
- Maggio/giugno. Arriva alla Camera la
Proposta di revisione costituzionale
(Pec) 215/2000 in chiave antindigena.
- 10 luglio. La presidente incontra i
rappresentanti dei popoli indigeni.
- 23-25 agosto. Ad Ater do Chao (Santarém, Pará), si svolge l’incontro dei
«popoli indigeni resistenti».
- 30 settembre - 5 ottobre. L’associazione dei popoli indigeni del Brasile
(Apib) prevede mobilitazioni contro i
ripetuti attacchi ai diritti indigeni.
(pa.mo.)
1967
1973
1988
2002
2007
2012
2013
22
MC OTTOBRE 2013
© Carlo Zacquini
Non si saprà mai quanti morirono. Superata questa fase, ben
presto la strada, incompleta, fu risucchiata dalla foresta. Nel frattempo io avevo dovuto abbandonare le mie ricerche e dedicarmi
quasi esclusivamente alla medicina per cercare di salvare la vita
almeno a quelli che erano più vicini a me».
ALLA FINE È SEMPRE
LA LEGGE DEI BIANCHI
Fratel Carlo parla degli indigeni
come fossero la sua famiglia. E
certamente lo sono, ieri come
oggi, quando essi sono oggetto
di attacchi ancora più vergognosi
del passato in quanto provenienti
da rappresentanti del Congresso
nazionale (aderenti alla potente
Bancada ruralista, la quale
spesso trova appoggio nella
Bancada evangelica), intenti a
svuotare la portata del Capitolo
VIII («Degli indios») della Costituzione del 1988. «Sono riconosciuti agli indios - recita l’articolo 231 - la loro organizzazione
sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni, e i diritti originari sulle terre che occupano
tradizionalmente, spettando all’Unione la loro demarcazione, la
protezione e il rispetto di tutti i
loro beni». I congressisti giocano
su un terreno favorevole. Oggi
una parte importante dei brasiliani malsopporta gli indigeni.
«Cosa sono oggi, per il Brasile,
questi popoli? La prima impressione è che loro siano di intralcio. Scomodi. O peggio. Per molti
“patrioti” essi sono un disonore:
“Come si può ammettere - dicono - che esistano ancora oggi
dei ‘selvaggi’ nel nostro paese
che sta primeggiando tra le
grandi economie mondiali?”».
Fino al 10 luglio 2013, la presidente Dilma non aveva mai ricevuto i rappresentanti dei popoli
indigeni. Le foto dell’incontro,
diffuse dal Planalto (il palazzo
sede della presidenza), non debbono trarre in inganno. I sorrisi
sono di circostanza, buoni per i
media e per la piazza che ha bisogno di messaggi tranquillizzanti. Dietro lo scenario le manovre sono ben diverse.
Dai tempi della dittatura militare
il governo di Dilma è quello che
ha demarcato meno terre indigene, ma soprattutto è quello che
sta di fatto erodendo diritti che
sembravano acquisiti (anche se
spesso non erano effettivi). La demolizione è sistematica e continua attraverso ordinanze (portarias), progetti di revisione costituzionale (Pec), decreti, leggi. Per
citare i casi più recenti e clamorosi ricordiamo il Progetto di
legge complementare (Plp)
227/2012 e la Proposta di revisione costituzionale (Pec)
215/2000. Il progetto 227 - presentato dal latifondista Homero
Pereira (la cui campagna elettorale è stata finanziata da grandi
imprese con oltre un milione di
dollari) - vuole regolamentare il
comma 6 dell’articolo 231 della
Costituzione. In particolare, esso
mira a sottomettere le terre indigene al «rilevante interesse pubblico dello stato brasiliano» (relevante interesse público da União),
rendendone in pratica nullo il diritto al possesso e all’uso esclusivo da parte dei popoli indigeni.
Ciò significherebbe giustificare il
latifondo e aprire le porte a
strade, condutture, centrali idroelettriche, ferrovie, miniere, insediamenti umani.
La proposta 215 - presentata dal
deputato Almir Sá e giudicata incostituzionale dai giuristi - vuole
invece porre sotto il controllo del
Congresso nazionale (e dunque
della Bancada ruralista) la demarcazione delle terre indigene,
finora garantita dalla Costituzione.
MC ARTICOLI
«Un piccolo numero di “bianchi” spiega fratel Zacquini - si è impossessato di estensioni enormi
di terre e domina il governo nazionale attraverso i “suoi” rappresentanti. L’enorme estensione del
paese, la confusione nelle proprietà fondiarie e il potere economico hanno il sopravvento sul
buon senso e sulla legge. La
quale legge, se è favorevole ai popoli indigeni... la si cambia, come
sta accadendo ora. In fin dei conti,
viene detto a mo’ di giustificazione, le leggi vigenti, chi le ha
fatte - e dunque chi le può modificare - non sono gli indigeni…».
«TROPPA TERRA
PER POCHI INDIGENI»
La Bancada ruralista («Frente
parlamentar da agropecuária»), i
suoi potenti sostenitori («Confederação nacional da agricoltura», gruppi imprenditoriali
dell’agrobusiness e delle attività
minerarie) e i media più influenti
sostengono che 113 milioni di ettari di territorio brasiliano
(13,3% del totale, dati Isa) in
mano ai popoli indigeni sarebbero troppi.
Va detto - tra l’altro - che spesso
si tratta di un possesso teorico.
Una parte considerevole delle
terre indigene è infatti soggetta a
invasioni costanti e prolungate da
© Survival International
parte di vari soggetti: allevatori di
bestiame, minatori, mercanti di
legni pregiati, trafficanti di biodiversità.
«Perché, anche nel caso dei popoli che hanno ottenuto il riconoscimento delle loro terre, il governo non interviene con prontezza ed efficienza contro gli invasori? In questo modo si alimenta
la mentalità che invadere terre indigene e distruggervi la natura
non rappresenti un crimine. Incentivati dall’impunità, le invasioni si moltiplicano. Se i contravventori fossero gli indigeni, molto
rapidamente sarebbero azionate
le forze dell’ordine per reprimerli,
anche con la violenza».
Il problema è che spesso neppure
lo Stato rispetta i territori indigeni. Avviene, ad esempio, con le
megaopere previste dal Programa de aceleração do crescimento («Programma di accelerazione della crescita», Pac e Pac2). Secondo la Fondazione per
l’indio (Funai), ben 201 opere del
Pac interessano terre indigene.
Le più impattanti sono le centrali
idroelettriche, in particolare Jirau
e Santo Antonio sul fiume Madeira (Rondonia), Teles Pires
(Mato Grosso) e São Luiz (Pará)
sul fiume Tapajós e la più grande
in assoluto, quella di Belo Monte,
sul fiume Xingu (Pará). Opere devastanti per l’ambiente e per l’esistenza di decine di popoli indigeni,
esse testimoniano anche il mancato rispetto della Convenzione
169 della Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), cui il Brasile aderisce.
Secondo l’articolo 16, «i popoli interessati non devono essere trasferiti dalle terre che occupano.
© Jesco von Puttkamer/ IGPA archive
Qualora in via d'eccezione si giudichino necessari il trasferimento
e il reinsediamento di detti popoli,
questi non potranno avvenire se
non col loro consenso liberamente espresso in piena cognizione di causa». La sua violazione
da parte del governo brasiliano è
palese.
«Perché - si chiede giustamente
fratel Zacquini -, quando si pensa
al “progresso”, non si pensa quasi
I NUMERI
• 305 popoli indigeni (alcuni composti da poche persone), dei quali
37 in isolamento volontario
• 896.917 indigeni,
così distribuiti:
324.834 in città
572.083 in aree rurali
• 433.363 delle 896.917 persone indigene vivono nell’Amazzonia legale (9 stati: Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima, Tocantins e parte di Mato Grosso e
Maranhão)
• 847 terre indigene (a diversi livelli di riconoscimento*)
• Estensioni delle terre:
851.196.500 ettari totali Brasile
112.983.625 ettari terre indigene
228.500.000 ettari privati incolti
• 54 indigeni assassinati in media
ogni anno.
Durante il governo Cardoso vennero assassinati 167 indigeni, 20,8
per anno; durante il governo Lula
gli indigeni assassinati furono 452,
con una media annuale di 56,5; nei
primi due anni di governo Rousseff, i morti sono stati 108.
(*) Iter di riconoscimento delle terre
indigene: identificazione (Funai), demarcazione, omologazione (con decreto presidenziale), registrazione fondiaria.
FONTI: Censimento Ibge 2010, Cimi,
Cpt, Isa, Funai.
# A lato, due foto storiche: il trattamento riservato a un’indigena e una
coppia Karajá con il proprio bambino, morto di influenza. In alto: all’entrata di una fazenda di Roraima
un cartello avverte che è proibita la
caccia, la pesca ma anche l’entrata
a cercatori d’oro e... preti.
OTTOBRE 2013 MC
23
BRASILE
mai alle terre dei latifondisti, sovente incolte, ma sempre e soltanto a quelle indigene?». L’affermazione è fondata su numeri
chiari: in Brasile, circa 70mila
persone sono proprietarie di 228
milioni di ettari di terre improduttive (dati Ibge). «Insomma - conclude Carlo -, considerate le dimensioni continentali del paese,
nessuno potrà dire (in buona fede)
che, demarcate le terre indigene,
gli altri abitanti non avranno terre
per abitare, lavorare e svolgere
ogni possibile attività. E, a parte
questo, va sempre ricordato che i
popoli indigeni non devastano natura e territori come invece fanno
i “progrediti” e “colti” non indigeni...».
IL CORAGGIO DI SCHIERARSI
A FIANCO DEGLI INDIGENI
I popoli indigeni sanno difendersi. Dopo il genocidio e l’etnocidio compiuti nei secoli passati
e nel periodo della dittatura militare (come testimonia il «Rapporto Figueiredo»), essi si sono
organizzati. Tuttavia, la loro condizione di minoranza fa sì che
essi debbano essere difesi e aiutati. Certamente non lo fanno i
media brasiliani. «I mezzi di comunicazione - spiega fratel
Carlo - presentano la questione
indigena sotto punti di vista folcloristici o con sensazionalismo.
Sovente le questioni sono trattate con pregiudizi, o nascondendo interessi di agrobusinessmen, latifondisti, ditte di estrazione mineraria, e altri ancora.
C’è insomma una tendenza a camuffare interessi di pochi, presentandoli come questioni di interesse nazionale, di sicurezza,
di progresso».
In questi ultimi decenni, a fianco
dei popoli indigeni del Brasile si è
schierata la chiesa cattolica. Ben
prima della fine della dittatura
# A lato: molti sorrisi di circostanza
nella foto ufficiale dell’incontro del
10 luglio 2013 tra la presidente
Dilma (al centro) e i rappresentanti
dei popoli indigeni. Si notino il leader degli Yanomami Davi Kopenawa
(a destra di Dilma) e dei Kayapó
Raoni Metuktire (dietro, a sinistra).
24
MC OTTOBRE 2013
militare (nel marzo 1985), ben
prima delle rivolte di piazza di
giugno e luglio 2013, a lottare per
un paese meno ingiusto c’erano
due suoi organismi: il Consiglio
indigenista missionario (Conselho
indigenista missionário, Cimi,
fondato nel 1972) e la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt,
nata nel 1975).
«Nel passato - ammette fratel
Carlo - la chiesa cattolica ha causato grandi danni alle popolazioni
indigene dell’America. Da quando
io sono qui tuttavia, e sono ormai
quasi 50 anni, la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), è stata
sempre a fianco dei popoli indigeni, ha dato appoggio ai missionari che si sono dedicati a questa
causa con nuove forme di approccio, dovendo lottare controcorrente. Non conosco nessuna altra
entità che abbia offerto tanti individui totalmente dedicati alla
causa indigena come la chiesa
cattolica, in questo mezzo secolo.
Il modus operandi è cambiato
gradualmente e gli stessi indigeni
riconoscono la grande importanza della chiesa nelle loro conquiste. La chiesa è stata la prima
a dare la parola agli indigeni, ad
aiutarli a organizzarsi, a incentivarli, a difenderli, anche con avvocati generosi e competenti». Parallelamente sono sorte anche
varie Ong (internazionali e brasiliane) che, il più delle volte, avevano la collaborazione o l’appoggio della chiesa. Merita di essere
GLI YANOMAMI
Numero - 36.000 persone.
Territorio - Brasile (Roraima:
21.000) e Venezuela (Alto Orinoco: 15.000).
CRONOLOGIA
1900 - Primi contatti conosciuti
tra uomini bianchi e indigeni yanomami.
1965 - I missionari della Consolata fondano una missione sul
fiume Catrimani.
1973 - Il regime militare brasiliano inizia la costruzione della
strada Perimetral Norte o Br-210.
L’opera ha un impatto devastante
sulle comunità yanomami.
1978 - Nasce la Commissione proYanomami (Ccpy).
1986 - Migliaia di cercatori d’oro
(garimpeiros) invadono le terre
yanomami, provocando disastri.
1992 - Viene omologata la riserva
indigena yanomami.
2008 - Il 5 maggio un commando
di uomini bianchi spara a 10 indigeni. Il mandante sarebbe il fazendeiro locale Paulo César Quartiero, che nel 2011 sarà eletto deputato.
2010 - Ancora problemi con i minatori illegali, stimati in circa
3.000.
2013 - Davi Kopenawa, sciamano
(xapuri), da anni leader riconosciuto degli Yanomami, incontra la
presidente Dilma Rousseff.
MC ARTICOLI
© Carlo Zacquini
© Survival International
citato il lavoro di Survival e, per
lo stato di Roraima, quello
svolto dall’omonimo comitato
(Co.Ro.).
© Roberto Stuckert Filho/PR
I BIANCHI E LA CORSA
AL SACCHEGGIO
A Roraima, dove fratel Zacquini
vive, ci sono la Terra indigena
degli Yanomami e la Terra Raposa Serra do Sol (di vari popoli: Makuxí, Vapichana, Ingarikó e altri). Ma il riconoscimento non ha cancellato i problemi. Una parte della Terra Yanomami è occupata clandestinamente da oltre 20 anni, mentre per Raposa sono state introdotte numerose restrizioni (Petição 3388 e Portaria 303).
«Sono decine - ricorda il missionario - le proposte di legge
presentate da congressisti, vari
di Roraima (come Paulo Cesar
Quartiero, Romero Jucá, Almir
Sá, Edio Lopes), per togliere o
ridurre i diritti dei popoli indigeni. Le nubi sembrano annun-
ciare un uragano che si abbatterà
senza misericordia sui diritti dei popoli autoctoni».
Carlo Zacquini ha visto crescere e
affermarsi come leader degli Yanomami Davi Kopenawa, sciamano.
Tra loro c’è una grande stima e amicizia. «Appena tornato dall’incontro
con la presidente Dilma, Davi mi ha
detto sconsolato: “Le persone che
hanno il potere in questa terra non
sono dei nostri; sono degli estranei,
vengono da un altro mondo”. Voleva
in questo modo dirmi che non riesce
a capirli, che essi pensano solo ai
soldi... Lui e molti altri indigeni sono
indignati per il modo in cui noi bianchi trattiamo non soltanto gli esseri
umani, ma anche la terra, l’acqua,
l’aria. La natura insomma».
Sopra e sotto i territori indigeni ci
sono ricchezze naturali che fanno
gola e davanti ad esse in tanti sono
disposti a tutto. Come testimonia un
progetto di legge - presentato dal
senatore Romero Jucá - che vuole
aprire allo sfruttamento dei minerali
in terra indigena (mineração em
Terras indígenas, Projeto de Lei nº
1610/96). Fratel Carlo non riesce a
farsene una ragione: «È necessario
sfruttare queste risorse? La distruzione dell’ambiente non causa più
danni di quanto le risorse possano
essere di aiuto? Se poi si riconosce
onestamente che queste risorse
sono necessarie, non si dovrebbe
dare priorità allo stesso tipo di risorsa esistente in terre non indigene? Da ultimo, in caso di sfruttamento di terre indigene, il minimo
che si dovrebbe fare sarebbe di dibattere la questione con i diretti interessati ed elaborare con loro programmi e attività non estemporanee, per preparare la popolazione e
farla partecipe degli eventuali benefici».
Niente di tutto questo avviene: ai popoli indigeni rimangono soltanto
# A sinistra: cercatori d’oro (garimpeiros) illegali in Terra Yanomami.
Qui sopra: uno Yanomami contesta
la Pec 215.
problemi e distruzioni. «La corsa
al saccheggio delle risorse naturali non rinnovabili - chiosa fratel
Zacquini - non porta nessun
paese al vero progresso. Normalmente serve solo per arricchire
qualcuno, lasciando il debito da
pagare alle future generazioni».
Parole sacrosante ma inascoltate
in un Brasile entrato negli ingranaggi perversi di una crescita
economica insensata che sta calpestando l’ambiente e l’esistenza
o la stessa sopravvivenza dei suoi
popoli indigeni.
Paolo Moiola
SITI CONSIGLIATI:
• www.cimi.org.br
• www.cptnacional.org.br
• www.adital.com.br
• www.survival.it
• http://pib.socioambiental.org
(dell’Instituto Socioambiental, Isa)
SITI YANOMAMI:
• www.hutukara.org
• www.proyanomami.org.br
• www.giemmegi.org
(del Comitato Roraima Onlus)
VIDEOINTERVISTA:
dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, intervistato (agosto 2013)
sulla tematica indigena e sul Brasile.
La videointervista è visibile sul sito
della rivista e su You Tube.
OTTOBRE 2013 MC
25
CENTRAFRICA
di MARCO BELLO
LA CRISI DIMENTICATA
NEL PAESE INESISTENTE
IL CUORE (MALATO)
DEL CONTINENTE
«I
ribelli? Loro ti dicono
chiaro che questa è
una provincia del
Ciad». Chi parla è padre Aurelio Gazzera, missionario
a Bozoum, Repubblica Centrafricana1. Carmelitano scalzo della
provincia ligure, lavora nel paese
dal 1992 e da dieci anni opera in
questa zona a Nord-Ovest.
La Rca è un paese dimenticato,
isolato e senza particolari interessi geo-strategici. Almeno per
ora. Ex colonia francese, la sua
collocazione nel cuore del continente le impedisce l’accesso al
mare. Vasto il doppio dell’Italia
conta circa 5 milioni di abitanti.
Di fatto è diventato uno stato cuscinetto tra la zona islamica a
Nord, Ciad e Sudan, e quella cristiana a Sud, Congo e Repub-
© AFP Photos
Marzo 2013: i ribelli
conquistano Bangui.
Ennesimo colpo di stato
nella Repubblica
Centrafricana.
Ancora la popolazione
subisce saccheggi,
uccisioni, torture, stupri.
Ma la ribellione
ha una connotazione
confessionale ed etnica.
E vi fanno parte molti
stranieri. Ci sono tutti gli
ingredienti per
l’infiltrazione della jihad
internazionale.
Eppure sembra non
interessare i potenti
della Terra. Ma come
si è arrivati a questa
crisi? E quali sono
le prospettive?
26
MC OTTOBRE 2013
©Aurelio Gazzera
# Pagina a fianco: giuramento dell’autoproclamato presidente Michel
Djotodia, con Idriss Déby, presidente del Ciad, 18 agosto scorso.
# A fianco: abitanti di un villaggio
saccheggiato nei pressi di Bozoum,
nel Nord-Ovest.
# Sotto: vaccinazione di una bimba
© AFP Photos/ Xavier Bourgois
durante la campagna contro il
morbillo.
blica democratica del Congo. E
l’attuale crisi politica e umanitaria ha messo in evidenza tutta la
delicatezza della sua posizione e
la fragilità dello stato.
È sgnificativo come nonostante il
paese sia esportatore di diamanti, oro e petrolio, gli indicatori della Rca sono scesi negli
ultimi 30 anni: la speranza di vita
è diminuita dal 1985 a oggi (49,8
a 49,1), così come il reddito medio per abitante (da 909 a 722
Usd). La speranza scolarizzazione è invece aumentata di un
solo anno da 5,8 a 6,8 (Pnud2).
LA STORIA SI RIPETE
Per capire la crisi odierna occorre fare un passo indietro.
Nel 2003 François Bozize aveva
annullato, con un colpo di stato,
dieci anni di regime corrotto di
Ange-Félix Patassé e si era inse-
diato come presidente della repubblica, poi confermato alle
urne nel 2005 e nel 2011. Accolto
all’epoca come il cambiamento
possibile, Bozize ha presto deluso le aspettative mettendo in
piedi una gestione del potere definita «etno-familiare». Tutti i
posti chiave, politici e militari,
erano occupati da membri della
sua stretta cerchia famigliare o
al più della sua etnia, gbaya (o
baya) della zona di Bossangoa.
Un regime parassita e corrotto,
che si permetteva però di trascurare la gestione della sicurezza sul territorio nazionale.
L’esercito, allo sbando, ha lasciato intere parti del paese in
mano a gruppi ribelli nazionali
ed esteri già dal 2005. È famoso
il caso della Lord Resistence
Army (Lra) di Joseph Kony (cfr.
MC giugno 2012), che si è instal-
lata nell’Est della Rca dal 2008, o
di gruppi armati ciadiani e sudanesi arrivati dal Nord. Bozize si è
visto costretto a firmare diversi
accordi di cessate il fuoco con fazioni ribelli, soprattutto del
Nord-Est, la regione più critica e
fuori controllo (2008, 2011).
Ma è alla fine dell’anno scorso
che i più importanti gruppi in
armi, spesso in lotta tra loro, si
uniscono in una coalizione eterogenea e diversificata: la Seleka.
Si tratta di Ufdr (Unione delle
forze democratiche per la riunificazione) e Cpjp (Convenzione
dei patrioti per la giustizia e la
pace), basati su etnie diverse, ai
quali si unisce il Cpsk (Convenzione patriottica di salvezza del
Kodro) costola dissidente del
Cpjp e l’Unione delle forze repubblicane. Numerosi anche i
combattenti sudanesi (originari
del Darfur) e ciadiani che si aggregano alla coalizione per approfittare dei saccheggi. I ranghi
della Seleka si gonfiano infine di
giovani e minorenni delle varie
città, volontari o reclutati a forza,
durante la discesa su Bangui e
nella capitale stessa.
«Ci sono tantissimi sudanesi e
ciadiani - continua padre Aurelio
- sono tipi fisicamente diversi, si
vede a colpo d’occhio. Non parlano né il sango (lingua ufficiale
e più diffusa, ndr) né il francese,
ma solo l’arabo o l’inglese. Interloquire e dialogare con queste
persone è complicato. Altri sono
della zona centrale del paese da
cui proviene il sedicente presidente Michel Djotodia. Anche
molti ministri non conoscono le
OTTOBRE 2013 MC
27
# Sopra: François Bozize, il deposto
presidente della Rca.
# In centro: un gruppo della Seleka.
Evidenti sono i differenti caratteri
somatici presenti.
© AFP Photos/ Xavier Bourgois
© AFP Photos/ Sia Kambou
CENTRAFRICA
# A destra: monsignor Nzapalainga
incontra gli abitanti di un villaggio
nei pressi di Bozoum.
due lingue nazionali». Fatto
grave, secondo molti osservatori, i posti di maggiore responsabilità, i generali e i colonnelli
che controllano le province, sono
stranieri.
I «NUOVI» RIBELLI
La Seleka, che si identifica per la
prima volta il 10 dicembre 2012,
conquista rapidamente diverse
città e punta su Bangui. È la Comunità economica degli stati
dell’Africa centrale (Cesac) che
interviene con una mediazione
che porta agli accordi di Libreville (Gabon) l’11 gennaio 2013.
I mediatori designati sono Denis
Sassou Nguesso, presidente del
Congo, e Idriss Déby Itno del
Ciad. Due vecchie volpi, che ottengono un accordo di cessate il
fuoco. Bozize resta al potere, ma
deve formare un governo di unità
nazionale e «congelare» l’Assemblea Nazionale (il parlamento) che sarà rieletta entro 12
mesi. Un comitato di monitoraggio degli accordi sarà messo in
piedi. Bozize, che deve rinunciare formalmente a ricandidarsi, nomina come primo ministro di transizione Nicolas Tiangaye, avvocato, militante in diverse istanze dell’opposizione.
La Cesac mette a disposizione la
Missione di consolidazione della
pace in Centrafrica (Micopax o
Fomac), già presente in Rca dal
2008, con 700 effettivi, per vegliare sulla parte militare del-
28
MC OTTOBRE 2013
l’accordo, proteggere gli organi
di transizione e il lavoro umanitario.
Ma per la Seleka la fetta di torta
è troppo piccola, solo 5 ministri
su 33, con i principali in mano al
clan Bozize. Il presidente dal
canto suo, afferma: «Je reste le
patron» (Sono sempre il capo3).
Così i ribelli, decidono di farla finita e riprendono le ostilità. Il 24
marzo sono a Bangui, sbaragliando le deboli Forze armate
nazionali (Faca) e 400 militari
Sud africani inviati in aiuto a Bozize. La Micopax invece non reagisce. Il presidente fugge, e Michel Djotodia, leader del Ufdr, si
auto proclama capo dello stato.
Djotodia, già funzionario ministeriale durante i regimi di Patassé e Bozize, era stato nominato da quest’ultimo ambasciatore in Darfur, per poi cadere in
disgrazia ed essere escluso dai
giochi di potere.
Seleka controlla rapidamente
tutto il paese. L’Unione africana
(Ua) non riconosce il nuovo regime, mentre la Cesac prende
atto: convoca due incontri a
Ndjamena (capitale del Ciad), il 3
e il 18 aprile e arriva al compromesso. Gli accordi di Libreville
sono mantenuti validi (pur nella
nuova configurazione a Bangui) e
la transizione dovrà durare 18
mesi.
Quindi tocca a Djotodia fare il
«suo» governo: «Il 31 di marzo è
stato presentato un nuovo governo di transizione - racconta
padre Aurelio - dove 20 ministri
su 34 erano musulmani, in un
paese dove gli islamici sono al
massimo il 15%. Molti erano
della Seleka, tra questi 4-5 parenti stretti del presidente. Ma i
paesi della Cesac non erano
molto contenti, e hanno chiesto
la presenza di tutte le parti, sia
nei consigli di transizione, sia
nel governo. Così il presidente
ha diminuito leggermente il numero dei ministri della Seleka».
Continua il missionario: «Il
primo ministro è sempre Tiangaye: sono obbligati, lui è il
perno su cui gira tutto. Seleka
dice che è il ministro del dialogo
di Libreville. Anche la Cesac si
accontenta per tenere in piedi il
processo di pace. Il primo mese
e mezzo gli incontri internazionali erano soprattutto con il
primo ministro e non con il presidente, non sempre riconosciuto, poi ha iniziato ad andare
in giro pure lui».
LE SFIDE DELLA TRANSIZIONE
«La transizione prevede disarmo
e integrazione dei combattenti.
Questo è un problema, perché
non ci sono i soldi nemmeno per
l’esercito regolare, e inserire altri elementi che non hanno nessuna disciplina, lo indebolirebbe
ancora di più. Poi ci sarebbero le
elezioni, ma non ci sono previsioni di date. Le prospettive non
sono molto radiose, perché le
opposizioni si sono messe tutte
con il vincitore Seleka e sono entrate nel governo. Posizione
questa assunta fin da dicembre».
Padre Aurelio va spesso a Bangui. Per arrivare oggi si passano
molti posti di blocco dei ribelli,
MC ARTICOLI
fettivi diventeranno a regime
3.650 di cui 150 civili. La Misca
ha come compiti: protezione dei
civili, riportare pace e stabilità,
riforma e ristrutturazione dell’esercito nazionale, ed è composta
da uomini di Camerun, Congo,
Gabon e Ciad.
DIRITTI UMANI CERCASI
Dopo la presa di Bangui, le tante
fazioni della Seleka si scatenano
ai quattro angoli del Centrafrica
e la popolazione ne paga le conseguenze. Nella loro avanzata
saccheggi, stupri, violenze di
ogni genere e uccisioni sono all’ordine del giorno. Human Rights Watch, Ong di difesa dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto sulla Rca4 a maggio nel
quale denuncia: «un gran numero di assassinii sono stati
commessi dalla Seleka a Bangui
dopo il colpo di stato del 24
marzo, […] e altre uccisioni sono
state perpetrate dalle stesse
truppe in tutto il paese tra il dicembre 2012 e aprile 2013».
Nel rapporto del segretario generale dell’Onu5 (3 maggio
2013), Ban Ki-moon, è scritto:
«Da quando la Seleka controlla
Bangui, centinaia di cadaveri non
identificati sono stati trovati in
diversi settori della capitale. Se-
©Aurelio Gazzera
dove miliziani improvvisati chiedono qualche soldo. Dal diario
del 4 agosto: «Il viaggio è andato
bene, nonostante le 12 barriere
che i ribelli hanno messo sulle
strade: una media di una ogni 30
km!».
A Bangui è iniziato molto lentamente il disarmo dei ribelli, ma
ci sono poche speranze che funzioni, perché si parla di circa
5.000 unità e quando si ritirano
le armi occorre dar loro qualcosa, riconvertirli, ci vogliono
mezzi, soldi, volontà da tutte le
parti. «La comunità internazionale, in particolare gli stati africani, a inizio maggio avevano
promesso un aumento della
forza multinazionale, però dei
2.000 militari previsti pare che
siano arrivati solo 150 carabinieri del Congo. Sono loro che si
occupano del disarmo, in teoria.
L’esercito regolare si è disintegrato, non accenna a riprendersi. I soldati hanno paura,
quando ritornano nelle caserme
le trovano occupate dai ribelli
che li mettono in prigione o li uccidono».
Dal primo agosto la Micopax
cambia nome passando sotto l’egida della Ua e diventando la Misca (Missione internazionale di
sostegno al Centrafrica). Gli ef-
condo la Croce Rossa locale, almeno 119 persone sono state
uccise […]. Si riporta che 602 feriti sono stati curati negli ospedali di Bangui». E ancora: «L’anarchia che regna in Rca ha
avuto conseguenze disastrose
per le donne e le ragazze, e il
flusso di violenze sessuali, come
stupri, stupri collettivi e atti di
schiavitù sessuale, sembra inarrestabile».
Intanto nella maggior parte del
paese le scuole sono chiuse da
quattro mesi, così come le strutture sanitarie sono prive di farmaci e disertate dagli operatori.
Più in generale i funzionari sono
fuggiti all’arrivo dei ribelli e
hanno paura a tornare sul posto
di lavoro. Inoltre non ci sono più i
soldi per pagarli. Fonti Onu contano in 206.000 gli sfollati interni
(di cui la metà bambini) e oltre
60.000 i rifugiati nei paesi vicini.
Mentre 1,6 milioni di centrafricani hanno bisogno di aiuto di
emergenza.
«Qualcosa si muove, iniziano ad
arrivare i prefetti nominati dal
governo centrale, nelle 16 prefetture in cui è diviso il paese»
ricorda padre Aurelio, senza
troppo ottimismo.
«Questi ribelli, sono sempre in
città, ma hanno ridotto abbastanza le attività, perché ormai
hanno razziato quasi tutto.
Stanno andando nei villaggi».
In effetti, mentre a Bangui la situazione sembra normalizzarsi
poco alla volta, violenze e saccheggi continuano nelle campagne. Ancora padre Aurelio ne è
testimone. Il giorno 7 agosto,
sulla strada Bozoum - Bassangoa ha contato almeno 14 villaggi deserti, raccolto testimonianze di esecuzioni sommarie e
saccheggi. Intanto 2.400 sfollati
si sono presentati negli stessi
giorni alla missione di Bozoum:
«Sono fuggiti da zone a 65-90
km da qui, dopo che i ribelli
hanno ucciso almeno 15 persone, ma temiamo che siano oltre 40. La questione è che non
c’è nessuna autorità a cui rivolgersi per fare giustizia. Coloro
che comandano sono della Seleka, ovvero sono gli stessi che
fanno i saccheggi, quindi c’è
poco da sperare. Inoltre, oggi
continua a pagina 32
OTTOBRE 2013 MC
29
CENTRAFRICA
La parola a monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui
«SERVE IL CONSENSO,
NO AL POTERE CHE ESCLUDE»
La Chiesa cattolica centrafricana è nel mirino della ribellione.
Ma insieme a protestanti e musulmani ha subito creato una piattaforma di
dialogo interreligioso. Per scoprire che le tre confessioni sono sulla stessa
lunghezza d’onda. E allora chi vuole questa guerra?
onsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui è un religioso spiritano. Giovane (46 anni), centrafricano e molto attivo, è
stato ordinato vescovo nel luglio 2012. È attualmente
presidente della Conferenza episcopale centrafricana
e presidente della Caritas nazionale. Lo abbiamo contattato telefonicamente.
M
Monsignor Dieudonné, ci parli della crisi umanitaria nel paese e nella sua diocesi in particolare.
La crisi umanitaria è anche dovuta al fatto che con la
guerra molte Ong hanno lasciato il paese. Inoltre la
gente ha abbandonato le città e si è nascosta nella foresta, dove si nutre di radici, per paura dei ribelli della
Seleka. Con le piogge è grave anche la situazione sanitaria, perché la malaria si sta diffondendo. Non è stato
creato un corridoio umanitario necessario alle poche
Ong rimaste a soccorrere la popolazione. Sulle strade
ci sono sempre dei militari della Seleka che continuano a impedire ai mezzi non governativi di circolare, con posti di blocco nei quali vengono chiesti dei
soldi. Anche le nostre macchine della Caritas vengono
bloccate.
C’è il problema sanitario e quello educativo: a Damara
(città a 80 km da Bangui, ndr) da mesi è chiusa la
scuola. L’ospedale è stato saccheggiato, non ci sono
più medicine. Ho parlato con un medico che non può
lavorare. Chi ha bisogno di cure deve andare a Bangui. Ma il paese è tutto in questa situazione.
Anche l’agricoltura è bloccata. La crisi politica è iniziata a marzo, quando la gente doveva seminare. La
pioggia è arrivata, gli uomini non potevano andare nei
campi perché rischiavano di essere catturati o uccisi.
Senza raccolto la fame arriverà nei prossimi mesi. Le
sementi distribuite da organismi come Caritas e Fao
sono state consumate perché non c’era nulla da mangiare.
A livello della sicurezza c’è un miglioramento?
La sicurezza è migliorata a Bangui, dove è gestita
dalla forza multinazionale Fomac. Ma le armi sono
dappertutto e alcuni quartieri, come Kina e Km5,
sono delle vere polveriere. Quando si tenterà di disarmarli ci potrà essere un effetto bomba.
Sono questi i sobborghi dove sono stati reclutati i li-
30
MC OTTOBRE 2013
velli bassi della Seleka. Gente che vendeva bibite per
la strada e da un giorno all’altro si è trovata con un’uniforme e un fucile mitragliatore in mano, a scorrazzare sui pick up. E senza alcuna formazione. Hanno
iniziato così a chiedere soldi. Sarà difficile smobilitare
queste persone. Diventano dei banditi.
In provincia invece, sono i giovani e i ragazzi delle
città a essere reclutati dai ribelli, complice il fatto che
le scuole sono chiuse. Qui chiedono 50 franchi (7 cent,
ndr) a ogni ciclista che passa, o alla gente che torna
dal campo con il proprio materiale. C’è un racket quotidiano e capillare, ogni qualvolta ci si sposta, si va al
lavoro. Perché la Seleka non paga questi giovani che si
rifanno sulla popolazione.
Nella Seleka qual è la componente religiosa
o etnica?
Esiste una componente religiosa. La gente che ha
preso il potere sta utilizzando mercenari che vengono
dal Ciad e dal Sudan. Lo abbiamo scritto nella lettera
dei vescovi. Li abbiamo incontrati all’interno del
paese e a Bangui. Non parlano né il sango né il francese, piuttosto inglese e arabo. Poi i tre quarti della
Seleka sono giovani musulmani delle regioni del Nord
Est. Abbiamo denunciato che l’ex presidente Bozize
arruolava solo la gente della sua zona, ora sta succedendo lo stesso. Al potere non sono rappresentati
tutti i gruppi e i popoli della Rca. Inoltre dicono di essere composti al 90% da musulmani e il restante 10%
da cristiani.
Non c’è dogana, polizia né gendarmeria. Sono i militari della Seleka che fanno tutto.
Lo stato non esiste. Solo a Bangui c’è una parvenza
grazie alla Fomac.
All’interno del paese non ci sono più funzionari dello
stato, né autorità statali (ufficiali), tutti sono fuggiti in
capitale perché venivano perseguitati dalla Seleka
con l’accusa di essere agenti dell’ex presidente.
Lei è stato recentemente a Roma. Perché a livello internazionale si parla così poco della Rca?
All’inizio della crisi se ne è parlato, ma poi è caduto il
silenzio. Come vescovi abbiamo scritto una lettera al
presidente (di transizione)1. Il 25 giugno ero a Parigi in
una conferenza stampa affollata. Ho detto che la Re-
© Pentecôte sur le Monde
MC ARTICOLI
pubblica Centroafricana è un paese che muore a fuoco
lento, che se nulla viene fatto diventerà il santuario dei
grandi banditi, dei narco trafficanti, dei gruppi ribelli,
di tutti quelli che vogliono destabilizzare. Sono andato
al ministero degli Esteri e alla presidenza della Repubblica francesi per parlare di Centrafrica per attirare
l’attenzione. Recentemente la ministro francese Yamina Benguigui ha dichiarato che in settembre metteranno la Rca a livello delle priorità nell’Onu.
La risposta che ho avuto è che il nostro paese, ogni
volta che succede qualcosa, torna al punto di partenza. Questo scoraggia la comunità internazionale.
Quando ne ho parlato a Roma, il Santo Padre ha citato la Rca all’angelus del 29 giugno. Poi ho incontrato
il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Per noi è una
maniera di uscire dall’isolamento. Sono stato a Roma
in riunione con Caritas Internationalis, con Fao e con
l’ambasciatore francese presso la Santa Sede, sempre
per presentare la situazione e sollecitare un impegno
rapido per il paese. Diverse Caritas già ci aiutano per
le questioni di sanità pubblica e ora vorremmo fare
qualcosa per le scuole.
A livello nazionale cosa fa la Chiesa cattolica per
il ritorno alla pace?
Concretamente la Chiesa cattolica insieme a Chiesa
protestante e confessione musulmana ha creato una
piattaforma di dialogo: facciamo delle riunioni nelle
quali discutiamo. Ci ritroviamo per fare l’analisi della
situazione dal colpo di stato a oggi. Vogliamo fare
delle raccomandazioni ai principali attori. Utilizzeremo lo strumento Giustizia e Pace per verificare se le
raccomandazioni saranno prese in conto. È una maniera per noi per spingere i vari settori a ritrovarsi e
gettare il seme di una nuova maniera di vivere insieme.
La Chiesa cattolica, inoltre, attraverso i suoi elementi,
ha chiesto che le scuole siano riaperte. Ci siamo impegnati, attraverso Jrs (Jesuite refugee service, ndr) un
organismo di Chiesa, ad attivare alcune scuole in zone
dove non c’erano. Attraverso Caritas siamo intervenuti anche per nutrire gli sfollati che fuggivano dalle
zone di conflitto. Abbiamo nutrito medici, malati e rifugiati. A livello reale e concreto, non solo teorico.
# Monsignor Dieudonné Nzapalainga, il giorno della sua ordinazione episcopale, Bangui 22
luglio 2012.
Cosa dicono i musulmani centrafricani della ribellione?
Lavoriamo con gli alti responsabili dell’Islam in Centrafrica e sono sulla stessa nostra lunghezza d’onda.
Ma ci sono degli imam che non sposano la stessa filosofia e dicono cose diverse. L’imam attuale presidente
della comunità musulmana è andato all’interno del
paese e ha condannato tutti quelli che rubano e violentano, dicendo che non sono dei buoni musulmani.
Così le autorità attuali, quando sono entrate a Bangui
non lo hanno cercato, ma hanno incontrato altri
imam, proprio perché lui li aveva criticati.
Nella Seleka i musulmani nazionali sono meno numerosi che gli stranieri e questo disequilibrio pesa molto.
Il presidente della comunità islamica è centrafricano,
ama la sua terra e agisce come patriota, ma penso che
se fosse straniero il discorso cambierebbe. Ma riceve
molte pressioni da parte delle autorità e di altri musulmani.
Secondo lei qual è il cammino per uscire dalla
crisi e riportare la Rca alla pace?
Penso che ci voglia una volontà politica da parte di tutti
quelli che fanno i politici: il presidente, gli oppositori.
Occorre che si punti all’interesse nazionale e smettano
di cercare il potere per il potere e di distruggere, prendere la gente in ostaggio. Decidano di lavorare insieme
per questo paese. Non è un solo gruppo che potrà risolvere, occorre che ci sia davvero un’apertura. È necessaria una conferenza nazionale in cui tutti possano parlare, perché quello che è successo interessa tutto il
paese. Serve un consenso: cercare delle soluzioni in
modo non unilaterale. Se non si accetta di associare
tutti, gli esclusi si faranno un giorno avanti per conquistare il potere. La soluzione è un albero sotto il quale
tutti parlano, dialogano. Chi ha torto riconoscerà i propri torti, chi ha fatto degli errori potrà essere punito.
Insieme e non con le armi. Si lasciano le armi e a cuori
disarmati sarà l’amore, la fraternità, la giustizia, la correttezza, la coesione. Sono questi i valori che dobbiamo
cercare.
Marco Bello
NOTE
1 - Message des évêques de la Rca au chef d’État, 20 giugno 2013.
Reperibile sul sito della Conferenza episcopale centrafricana
www.cecarca.org.
OTTOBRE 2013 MC
31
©Aurelio Gazzera
# Sopra: padre Aurelio Gazzera
seduto tra due ribelli della Seleka,
durante la visita a un villaggio
della parrocchia di Bozoum.
Seleka è una coalizione, ma i
gruppi continuano a dividersi, a
moltiplicarsi. È tutto da vedere
come si sviluppa la situazione o
come degenera».
PICCOLE PIETRE
L’altro grosso problema è che i
ribelli si sono messi in tutti i posti in cui circolano soldi, e tutte
le entrate dello stato, come la
dogana, le intercettano loro. I ribelli hanno inoltre commesso
razzie di ogni tipo, in particolare
hanno incamerato molte auto.
C’è poi un ruolo accertato dei
trafficanti di diamanti nel finanziamento della ribellione: «Il nipote di Bozize era ministro delle
miniere nel 2008 da un giorno
all’altro aveva fatto chiudere le
società di esportazione, per controllare meglio il mercato, danneggiando così i trafficanti. Il
presidente attuale, inoltre, era
console a Nyala in Darfour, Sud
Sudan, dove c’è un fiorente mercato nero di diamanti. Un altro
canale di finanziamento è quello
di alcuni paesi arabi» ricorda padre Aurelio.
Ambiguo il ruolo giocato dal Ciad
nella crisi. Oltre a essere uno dei
principali mediatori negli accordi, il Ciad avrebbe appoggiato
la ribellione. Alcuni leader della
Seleka, ai domiciliari a Ndjamena, sono stati rilasciati poco
prima delle operazioni, mentre
proprio Idriss Déby, presidente
del Ciad, avrebbe dato l’ok per
32
MC OTTOBRE 2013
l’offensiva finale di marzo6, fatto
smentito ufficialmente da Njamena. François Bozize ha invece
dichiarato che dietro alla Seleka
c’è proprio il paese confinante.
«È un ruolo importante – ricorda
padre Aurelio -. A Bozoum abbiamo il console del Ciad, e
guarda caso qui ci sono stati pochi problemi. Le voci dicono che
la Francia abbia lasciato fare il
Ciad per avere mano libera in
Mali. Là ha più interessi». La
Francia ha mantenuto un profilo
molto basso, evacuando i propri
espatriati tardivamente (quando
molti saccheggi si erano consumati) e mantenendo una forza
militare minima, a protezione di
alcuni interessi strategici francesi
nella capitale e dell’aeroporto.
LE MOSSE DELLA CHIESA
La chiesa in Centrafrica è l’istituzione che, dopo lo stato, ha
subìto più danni dai saccheggi
dei ribelli. Le missioni e altre
opere sono state sistematicamente prese di mira: «Razziavano macchine, soldi, carburante, tutto quello che trovavano.
Alcune diocesi sono state messe
in ginocchio, come Bambari,
Bangassou, Kanga Bandaro,
Bossangoa» racconta padre Aurelio.
C’è poi il rischio della connotazione religiosa del potere: «La
Chiesa si è mossa subito, prima
di dicembre. È stata creata una
piattaforma di dialogo tra cattolici, protestanti e musulmani. Poi
quando le cose sono scoppiate il
lavoro è continuato. Stiamo facendo diversi incontri. La preoccupazione è evitare che ci sia un
ritorno, una vendetta contro gli
islamici. Molti dei musulmani lo-
cali non sono d’accordo con questa ribellione. L’altro motivo è di
cercare di alzare la voce, farsi
sentire a livello internazionale,
per avere qualche reazione.
Anche i vescovi hanno parlato, ce
ne sono alcuni molto coraggiosi
(vedi intervista)».
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu,
si è finalmente riunito il 14 agosto
sulla crisi in Rca, dichiarando che
rappresenta una grave minaccia
per tutta la regione e che occorrono progressi rapidi per la transizione politica. Intanto, il 18 agosto, Michel Djotodia ha prestato
giuramento sulla «Carta di transizione» (che sostituisce la Costituzione) di fronte al Parlamento
di transizione e ai presidenti di
Congo e Ciad.
Padre Aurelio, che di crisi in Centrafrica ne ha già vissute, dipinge
un quadro poco rassicurante:
«L’incertezza è grandissima. Ora
c’è una certa calma, ma è molto
fragile, non illudiamoci che sia
risolta, può succedere di tutto.
Un altro movimento ribelle che
scende sulla capitale, l’ex presidente che ritorna con un gruppo
armato, come alcune voci sostengono7. Non c’è nulla di sicuro. La scuola e la sanità non
funzionano, quindi l’instabilità è
grande. Le prospettive, con i ribelli che bloccano tutte le entrate
dello stato, non sono allegre».
Marco Bello
NOTE
1 - Il nome ufficiale, Repubblica Centrafricana (République Centrafricaine),
viene spesso accorciato in Centrafrica, o Rca in sigla.
2 - Pnud, Human Development Report
2013, Explanatory note on Hdr composite indices, Central African Republic.
3 - Il 15 marzo 2013, durante i festeggiamenti per i suoi 10 anni al potere,
François Bozize lascia intendere che
si ricandiderà, in contrasto con gli accordi di Libreville.
4 - République centrafricaine: de nombreuses exactions ont été commises
aprés le coup d’état. Rapporto Hrw, 9
maggio 2013.
5 - Ropport du Secrétaire général sur la
situation en République centrafricaine, Consiglio di Sicurezza Onu, 3
maggio 2013.
6 - République centrafricaine: les urgences de la transition, International Crisis Group, 11 giugno 2013.
7 - L’ex presidente Bozize ha fondato il
Frocca (Fronte per il ritorno all’ordine
costituzionale in Centrafrica).
Così sta scritto
a cura di Paolo Farinella, biblista
LA POLITICA DI DIO
(CHE È LAICO)
«Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12,34)
UN ESODO AL CONTRARIO
Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste
cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del
mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a
ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la
società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana
con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola
persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo
deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare,
può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.
Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione
non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II
che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa
peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini,
pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a
creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.
Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare
per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da
spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei
cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e
sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di
superfluo.
LA POLITICA
PROLUNGAMENTO DELLA CREAZIONE
Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si
prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46),
viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse,
tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul
piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la
Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel
mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella
politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione
dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.
Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche
disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano
complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma
nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva.
Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il
fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso
papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto
OTTOBRE 2013 MC
33
Rendete a Cesare - 7
DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (78)
Così sta scritto
il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà
fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità
dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il
mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non
ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è
senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti
e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone
spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi
dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,1931). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza
tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo
abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo
lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la
scelta.
DIO È LAICO
Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo
del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).
Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli
è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il
suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato.
Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a
quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato
alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il
mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal
compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando
che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le
istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché
il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e
laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la
Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera
il comando del Signore: «Non prendete nulla per il
viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e
non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso
la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.
POLITICA E CARITÀ
La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e
morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano
non lotta per avere uno strapuntino di potere nel
mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno
ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di
quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio
XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il
campo della più vasta carità, della carità politica, a cui
si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione,
essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che
credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della
carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore
di pochi e a danno di molti.
[7 – continua con la prossima e ultima puntata]
DALLA LETTERA A DIOGNETO - 1
V. 1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città
proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e
nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma
come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune
la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro
cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e
fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti
come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai
greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).
DALLA LETTERA A DIOGNETO - 2
VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del
corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma
non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi
dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la
carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più
si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).
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MC OTTOBRE 2013
© AFP mageForum
SPUNTI PER UNA «NUOVA EVANGELIZZAZIONE» IN EUROPA
L’INDIFFERENZA
E IL VANGELO
DI
ANTONIO ROVELLI
(A CURA DI GIGI ANATALONI)
OSSIER
IL SINODO DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
COS’È?
DI
ANTONIO ROVELLI
L’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è tenuta
dal 7 al 28 ottobre 2012, ha avuto per tema «La nuova evangelizzazione per la
trasmissione della fede cristiana». Questo tema è dibattuto da diverso tempo dentro
la Chiesa, ma è diventato di scottante attualità in questi ultimi anni soprattutto
nel mondo Occidentale segnato da consumismo e secolarizzazione.
GLI INSEGNAMENTI DEL MAGISTERO
I documenti preparatori al Sinodo dell’ottobre 2012
hanno sottolineato l’urgenza di trovarsi insieme per
valutare come la «Chiesa viv[a] oggi la sua originaria
vocazione evangelizzatrice, a fronte delle sfide con
cui è chiamata a misurarsi, per evitare il rischio della
dispersione e della frammentazione» (Instrumentum
Laboris [IL] 4).
Indirettamente, questa urgenza evidenzia la presa di
coscienza che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare la sfida della nuova evangelizzazione nella consapevolezza che le trasformazioni non soltanto interessano il mondo e la cultura, ma toccano la Chiesa
stessa nelle sue comunità, nelle sue azioni e nella sua
identità (cf. IL 16). Inoltre manifesta la volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei
cristiani e delle loro comunità. Affinché la Chiesa
«moltiplichi il coraggio e le energie a favore di una
nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la gioia
di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Non si tratta di immaginare soltanto
qualcosa di nuovo o di lanciare iniziative inedite per
la diffusione del Vangelo, ma di vivere la fede in una
dimensione di annuncio di Dio: “La missione […] rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La
fede si rafforza donandola!” (Redentoris Missio [RM]
3)» (IL 9).
Sulla scia del Concilio, papa Paolo VI osservava con
lungimiranza che l’impegno dell’evangelizzazione andava rilanciato con forza e grande urgenza, e, fedele
all’insegnamento conciliare, aggiungeva che l’azione
evangelizzatrice della Chiesa «deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o
riproporre [...] la rivelazione di Dio e la fede in Gesù
Cristo» (Evangelii Nuntiandi [EN] 56).
Papa Giovanni Paolo II, che fece di questo impegno
uno dei cardini del suo vasto magistero, ha sintetizzato nel concetto di nuova evangelizzazione il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle
regioni di antica cristianizzazione. Tale programma
36 MC
OTTOBRE 2013
riguarda direttamente la sua relazione con l’esterno,
ma presuppone, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così
dire, da evangelizzata a evangelizzatrice. Basta richiamare alcune sue parole: «Interi paesi e nazioni,
dove la religione e la vita cristiana erano un tempo
quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura
prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo,
del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo
mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di
povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita
vissuta “come se Dio non esistesse”. [...] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto
vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede
limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge
dovunque rifare il tessuto cristiano della società
umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto
cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono
in questi paesi e in queste nazioni» (Christifideles
laici 34).
Creando il nuovo «Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione», così Papa Benedetto XVI precisa il contenuto del termine «nuova
evangelizzazione»: «Facendomi dunque carico della
Papa Francesco pratica «nuova evangelizazzione»
prima di tutto con i suoi gesti. Le sue parole schiette
esplicitano quanto già fa.
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
LE SORPRESE DI DIO
a novità ci fa sempre un po’ di paura,
perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo
noi a costruire, a programmare, a progettare la
nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche
con Dio. Spesso lo seguiamo, lo accogliamo, ma
fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo
Spirito santo l’anima, la guida della nostra vita,
in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal
nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista,
per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia
della salvezza, quando Dio si rivela porta novità Dio porta sempre novità -, trasforma e chiede di
fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca
deriso da tutti e si salva; Abramo lascia la sua
terra con in mano solo una promessa; Mosè affronta la potenza del faraone e guida il popolo
verso la libertà; gli Apostoli, timorosi e chiusi nel
cenacolo, escono con coraggio per annunciare il
Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca
del nuovo per superare la noia, come avviene
spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta
nella nostra vita è ciò che veramente ci realizza,
ciò che ci dona la vera gioia, la vera serenità,
perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene.
Domandiamoci oggi: siamo aperti alle “sorprese
di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla novità
dello Spirito santo? Siamo coraggiosi per andare
per le nuove strade che la novità di Dio ci offre o
ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà
bene farci queste domande durante tutta la giornata» (Francesco, omelia di Pentecoste 2013).
«L
© AFP mageForum
preoccupazione dei miei venerati predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla
forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di
promuovere una nuova evangelizzazione. […] La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula
uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le
Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della
grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il
primo compito sarà sempre quello di rendersi docili
all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il
cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in
modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio» (Ubicumque et semper, 21/09/2010).
Nel frattempo, sulla scia della Redemptoris missio
(al numero 33) era intervenuta a precisare il senso
del concetto di nuova evangelizzazione anche la Congregazione per la Dottrina della Fede: «In senso proprio c’è la missio ad gentes verso coloro che non conoscono Cristo. In senso lato, si parla di “evangelizzazione” per l’aspetto ordinario della pastorale, e di
“nuova evangelizzazione” verso coloro che non seguono più la prassi cristiana» (Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione, 3/12/2007, n. 12).
OTTOBRE 2013 MC
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UNA SINTESI
Dai vari pronunciamenti del Magistero e dai documenti preparatori al Sinodo emerge che la nuova
evangelizzazione consiste nell’immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano
alla gente di uscire dal «deserto interiore», immagine usata da Papa Benedetto XVI per raffigurare la
condizione umana attuale prigioniera di un mondo
che ha espulso la questione di Dio dal proprio orizzonte. Avere il coraggio di riportare la domanda su
Dio dentro questo mondo; avere il coraggio di ridare
qualità e motivazioni alla fede di molti delle nostre
Chiese di antica fondazione, questo è il compito specifico della nuova evangelizzazione.
Il compito della nuova evangelizzazione non può essere ridotto a un semplice esercizio di aggiornamento di alcune pratiche pastorali, ma richiede una
comprensione molto seria e profonda delle cause che
hanno portato l’Occidente cristiano a trovarsi in una
simile situazione.
Quindi il termine «nuova evangelizzazione» richiama
l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come
quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in paesi di
tradizione cristiana.
La nuova evangelizzazione è da considerarsi anzitutto come un’esigenza, poi come un’operazione di discernimento e infine come uno stimolo alla Chiesa di
oggi.
COSA S’INTENDE PER
NUOVA EVANGELIZZAZIONE
Che cos’è la «nuova evangelizzazione»? Il Beato Papa
Giovanni Paolo II nel primo discorso che avrebbe
dato notorietà e risonanza a questo termine, rivolgendosi ai Vescovi del continente latinoamericano,
così la definiva: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione [dell’America Latina, ndr.]
avrà il suo pieno significato se sarà un impegno vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai
vostri fedeli; impegno non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova
nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» (Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea del
Celam, Port-au-Prince, 9/03/1983, n.3).
La nuova evangelizzazione è «la capacità da parte
della Chiesa di vivere in modo rinnovato la propria
esperienza comunitaria di fede e di annuncio dentro
le nuove situazioni culturali che si sono create in
questi ultimi decenni» (IL 47).
Non si tratta di un nuovo modello di azione pastorale,
che si sostituisce semplicemente ad altre forme di
azione (la prima evangelizzazione, la cura pastorale),
quanto piuttosto di un processo di rilancio della missione fondamentale della Chiesa. Quest’ultima, interrogandosi sul modo di vivere l’evangelizzazione oggi,
non esclude di verificare se stessa e la qualità dell’evangelizzazione delle sue comunità. La nuova evangelizzazione impegna tutti i soggetti ecclesiali (singoli, comunità, parrocchie, diocesi, Conferenze Epi-
38 MC
OTTOBRE 2013
scopali, movimenti, gruppi e altre realtà ecclesiali,
religiosi e persone consacrate) a una verifica della
vita ecclesiale e dell’azione pastorale, e richiede un
lento ma efficace lavoro di revisione del modo di essere Chiesa tra la gente, affinché le comunità cristiane diventino veri centri di irradiazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci
di ascoltare le persone e i loro bisogni.
La nuova evangelizzazione è il nome dato a questo rilancio spirituale, a questo avvio di un movimento di
conversione che la Chiesa chiede a se stessa, a tutte
le sue comunità, a tutti i suoi battezzati
I DESTINATARI
Dai vari documenti e dai pronunciamenti del Magistero si ricava che lo spazio geografico entro cui si
sviluppa la nuova evangelizzazione, senza essere
esclusivo, riguarda primariamente l’Occidente cristiano. Così pure i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono sufficientemente identificati: si
tratta di quei battezzati che nelle nostre comunità vivono una nuova situazione esistenziale e culturale,
dentro la quale di fatto è compromessa la loro fede e
la loro testimonianza.
È chiaro che la nuova evangelizzazione assume l’Occidente come luogo di «esempio tipico», piuttosto
che come obiettivo unico. Perché l’urgenza della
nuova evangelizzazione non può essere ridotta a situazioni che riguardino esclusivamente l’Europa e il
Nord America.
Come afferma Papa Benedetto XVI, «anche in
Africa, le situazioni che richiedono una nuova presentazione del Vangelo, non sono rare. […] La nuova
evangelizzazione è un compito urgente per i cristiani
in Africa, perché anch’essi devono rianimare il loro
entusiasmo di appartenere alla Chiesa. Sotto l’ispirazione dello Spirito del Signore risorto, essi sono chiamati a vivere, a livello personale, familiare e sociale,
la Buona Novella e ad annunciarla con rinnovato zelo
alle persone vicine e lontane, impiegando per la sua
diffusione i nuovi metodi che la Provvidenza divina
mette a nostra disposizione» (Africae Munus nn.
165.171).
© AFMC/J Patias 2011
OSSIER
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
IL «CHE COSA»
In che cosa consiste allora? Perché chiamarla
«nuova»? «Non amo questo aggettivo “nuova”. Sempre la Chiesa ha evangelizzato; se non lo avesse fatto,
non sarebbe più stata la Chiesa di Cristo! Il termine
“evangelizzazione”, poi, contiene già la novità della
“buona notizia”; in questo senso l’espressione “nuova
evangelizzazione” è un pleonasma» (Enzo Bianchi).
Naturalmente la novità non intacca il contenuto del
messaggio evangelico che è immutabile. «Nuova
evangelizzazione non significa un “nuovo Vangelo”,
perché “Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre”
(Eb 13,8)» (IL 164). Per questo, il Vangelo deve essere
predicato in piena fedeltà e purezza, così come è
stato custodito e trasmesso dalla tradizione della
Chiesa. Evangelizzare significa annunciare una persona, che è Cristo. Infatti, «non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse,
il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio,
non siano proclamati» (En 22). «Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che
sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità
e dei gruppi cristiani» (IL 165).
È un dato storico da tutti ammesso che i primi cristiani erano vivacemente missionari, convinti di dover portare al mondo una notizia attesa. Questa vivacità nasceva prima di tutto dall’esperienza del loro
personale incontro con Gesù Cristo più che dalla lettura delle molte emergenze (fame, schiavitù, oppressione politica ...) in cui gli uomini del tempo vivevano.
L’urgenza e l’universalità della missione nasce dall’interno, dalla propria esperienza dell’incontro con
Gesù Cristo. I primi cristiani sono diventati missionari perché hanno fatto un incontro che ha cambiato
la loro vita.
LA NOVITÀ È CRISTO
L’evangelizzazione è sempre l’annuncio della novità
di Gesù Cristo. È questa l’anima profonda di ogni
nuova evangelizzazione, che non voglia essere puramente retorica, o subito vecchia. Quindi parlare di
nuova evangelizzazione significa parlare di una no-
Papa Benedetto XVI durante l’udienza del 15/6/2011.
vità che non tocca soltanto il metodo, ma il Vangelo
stesso. Perché oggi il Vangelo deve misurarsi con urgenze mai incontrate e rispondere a domande inedite. Nuova evangelizzazione è mostrare che il Vangelo sa rispondere ai problemi della post-modernità.
È un punto importante: non è solo una questione di
adattamento, di forma o di strategia, come purtroppo molti sembrano pensare, ma di «comprensione» (rispondere alla domanda «cosa significa/mi
dice il Vangelo oggi?»). Le domande che la storia
pone in ogni epoca al Vangelo non sono mai, o quasi
mai, semplici occasioni che offrano il destro per un
restyling per adattare il messaggio di sempre ai
tempi, alle culture e ai linguaggi di oggi, ma provvidenziali spiragli che possono aiutare a intravedere
contenuti inediti per fare emergere la sua «perenne»
novità anche nell’oggi. Il Vangelo è quello di sempre,
ma nuovo deve essere il modo di comprenderlo, non
soltanto il modo di ridirlo.
IN ASCOLTO DELLA PAROLA
Chiarito questo, se è vero che l’evangelizzazione è rivolta a tutti, e nessuno può esserne escluso perché la
missione della Chiesa, per volontà del Signore, è universale (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,15; Lc 24,47; At 1,8), è
altrettanto vero che essa deve essere evangelizzazione continua della Chiesa, intendendo tale genitivo
in primo luogo come genitivo oggettivo (la Chiesa è
evangelizzata, ha bisogno cioè di ridirsi il Vangelo
per comprenderlo in modo nuovo) e solo in seconda
istanza come genitivo soggettivo (ossia la Chiesa
evangelizza gli uomini). Non si possono dimenticare,
al riguardo, le parole profetiche scritte da Paolo VI
quasi quarant’anni fa, nella sua splendida esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se
stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza
vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno,
essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve
credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. […] Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza
per annunciare il Vangelo» (En 15).
La missione evangelizzatrice della Chiesa consiste
nel farsi eco della Parola perché ogni uomo possa
ascoltarla come rivolta a sé, come Parola salvifica, e
lasciarsi illuminare da essa. Nello stesso tempo la
chiesa, se vuole veramente essere annunciatrice di
questa Parola, deve in primo luogo dedicare tutte le
sue energie ad ascoltare la Parola stessa, sapendo
che «la fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), deve essere e sentirsi «affidata al Signore e alla Parola della
sua grazia» (At 20,32): solo un’ecclesia audiens (che
ascolta) può anche essere un’ecclesia docens (che insegna), perché la Parola che la Chiesa annuncia e testimonia non è sua ma di Dio. È Dio che parla nell’evangelizzatore. Se Dio parla il profeta non può tacere
(Is 7,3; Ger 1,4; 18,18; Ez 1,3). Il profeta non parla di
Dio, lascia parlare Dio; egli parla dopo aver ricevuto
la Parola di Dio.
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OSSIER
SCENARI IN EUROPA
DOVE LA RELIGIONE
DIVENTA IRRILEVANTE
DI
ANTONIO ROVELLI
Alcune note molto sintetiche per capire la realtà europea attraversata da profondi
cambiamenti di carattere culturale e religioso dalle conseguenze inedite sulla vita
della Chiesa. La religione cristiana non solo deve competere con le altre religioni,
ma è sempre più ridotta alla dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita
sociale. Senza una vera comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova
evangelizzazione» resta astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi
schemi e metodi di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però
lasciano tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di
vera evangelizzazione.
TEMPO DI CRISI
Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate della nuova evangelizzazione le chiese di antica
cristianità (soprattutto europee). Questo interpella
direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione
battesimale siamo i primi annunciatori della Buona
Notizia proprio in questa nostra Europa. È un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni cambiamenti soprattutto di carattere
culturale e religioso, che hanno investito le nostre
nazioni.
Forse, guardandoci intorno, contandoci - diminuiscono i sacerdoti e le persone impegnate nella vita
consacrata, si chiudono o vendono le chiese e, pur
avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e
pratica si ritrova ormai ridotto a una minoranza
sempre più emarginata -, aumenta il senso di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa
esperienza di «spiazzamento» dovremmo provarla
nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e
globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento
non più un moto temporaneo, ma il vero «il modo di
essere» della realtà. Sì, l’Europa sta cambiando, e se
non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di noi.
Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo
esserne convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in
questo tempo. Cogliere quest’ora (kairos, tempo
della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa
quindi essenziale per discernere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante.
La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può
svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire
dal consueto, dal rassicurante e dal ripetitivo, ci ob-
40 MC
OTTOBRE 2013
bliga a prendere coscienza della realtà e a uscire
dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se
necessario, impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo dati. Dipende
molto da come viviamo e gestiamo la crisi.
Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della
crisi in cui viviamo.
PLURALIZZAZIONE
DEI RIFERIMENTI CULTURALI
Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo
definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle
loro definizioni di base.
Il primo è la secolarizzazione che non significa automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi
la definiscono come «il processo per mezzo del quale
il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono
che «la secolarizzazione non spinge via la religione
dalla società moderna, ma piuttosto incoraggia un
tipo di religione che non possiede alcuna funzione
importante per l’intera società».
Il secondo è il processo di privatizzazione che accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre prima l’incredulità era un affare
privato, adesso lo diventa la fede, ormai relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso
soffocata da altre priorità.
Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle offerte a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di scelta e di cambiamento. Questo
produce anche modi diversi di vivere la religione e le
culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di cambiare idea, prodotti, consumi e costumi.
Un ultimo aspetto merita di essere considerato, an-
© Cereda - Madrid 2005
© Cereda - Madrid 2005
© Piergiorgio Pescali
che se non frequentemente collegato ai fenomeni già
citati: quella che qualcuno ha chiamato rivoluzione
mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari, in rivista di Sociologia Urbana e
Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p. 27-43 ), ovvero il fatto
che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in
fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le migrazioni, dunque, che
ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare ulteriormente i fenomeni citati.
Migrazioni e cambiamenti
La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è solo un fatto quantitativo, di
numeri che possono impressionare e preoccupare.
La presenza di popolazioni immigrate, con diverso
background storico, culturale, religioso e sociale, di
fatto, ha prodotto «un’Europa plurale» molto diversa
da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di
fatto l’immigrazione produce anche un cambiamento
qualitativo. Infatti la presenza di immigrati non è
culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro
bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli.
SEGNALI DI UN RITORNO
DELLA DOMANDA RELIGIOSA
In controtendenza con il secolarismo, il tracciato culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di
senso con l’aiuto della religione. Si tratta però di una
religione essenzialmente autoreferenziale, sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del
benessere individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo sociale. Anche i riti e
le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono
utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per
ritrovare la pace, la serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si è aperto
un grande supermarket del religioso accessibile a
tutti anche grazie all’internet e alla televisione.
Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente
europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere senza credere e,
d’altra parte, su un credere senza appartenere: all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla
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sua parrocchia succede quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla ricerca
delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi
bisogni di sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente questo ha
poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera a Diogneto che riportiamo a pag.
34, ndr.].
INDIFFERENZA
Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della
maggior parte degli uomini delle nostre società
post–cristiane. L’indifferenza religiosa pone la
Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile
insignificanza e inutilità. È una sorta di indifferenza
generalizzata di chi è deluso dalla politica e dalle
ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di
rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore
delle ipotesi, si trasformano in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo
il ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle
feste liturgiche, rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni (beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate
mondiali) o marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e privilegiando luoghi
come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale parrocchiale.
LA DE-CRISTIANIZZAZIONE
Sfida interna, e di non poco conto, può essere considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o
paganesimo in Europa. Sembra che il cristianesimo
sia sconfitto nell’ambito della vita quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che
va oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle
nuove generazioni dalla Chiesa e dalla sua dottrina è
evidente, e le conseguenze di questo fenomeno non
sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra
pratica religiosa e vissuto quotidiano.
Come la Roma antica, l’Europa moderna sembra simile a un pantheon, a un grande «tempio» in cui
tutte le «divinità» sono presenti, o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia.
Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di
fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da
parte della maggioranza degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani.
I GIOVANI
Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i
giovani. È praticamente impossibile definire in modo
univoco e statico la condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura pluralista
e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un
lato cercano appassionatamente autenticità, affetto,
rapporti personali, grandezza d’orizzonti, dall’altro
sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere,
delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento
etico. Con un futuro, soprattutto lavorativo, estremamente incerto.
42 MC
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Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente sembra esser quello
dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Molti
giovani non hanno neppure la “grammatica elementare” dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza
fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità e
diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono dispersi, con poche referenze e
pochi referenti. Per questo hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si
interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti
dall’ambiente socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi va”, di ciò
che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto
su misura» (Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del Congresso «Nuove
Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio
1997, n. 1.c).
Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel
gioco o nel dramma della vita, quasi dimissionari nei
confronti d’essa, smarriti lungo sentieri interrotti e
appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.
Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una fotocopia del presente.
NUOVE DIVISIONI NELLA SOCIETÀ
La società oggi si divide su questioni diverse da
quelle del passato. Tramontate le classi (almeno
nelle interpretazioni ideologiche diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella
realtà...), oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione, spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi,
© EC
OSSIER
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
spiano e filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati, nei giardini pubblici,
nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare
grandi timori fra i cittadini, anzi.
FORTRESS EUROPE
Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo dell’Europa. La firma dell’accordo di
Schengen nel 1995 compie due operazioni: abolisce i
controlli alle frontiere interne e sposta i controlli alle
frontiere esterne. Resta quindi nitida l’immagine di
una Fortezza Europa impermeabile dall’esterno, soprattutto dal continente africano.
«Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti
dei sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di
repressione della libertà di movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo.
Dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa
almeno 18.673 persone. Di cui 2.352 soltanto nel corso
del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012»
(http://fortresseurope.blogspot.it/).
© Piergiorgio Pescali
© AFMC/S Moreschi
ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali, culturali o pseudo-culturali.
La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli
attori sociali (inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni dagli altri, ma al
proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra
aperti al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che
sono disposti a mettersi in discussione, e/o a mettere
in discussione la società, e coloro che non ci pensano
nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di cui non si vuole tenere conto.
Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi e a
confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque
aperti al dialogo, e coloro che ne negano le basi
stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo
immaginare.
La diffusione della paura nelle nostre società, la sua
strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato
anche economico, sono un segno chiaro che un pezzo
significativo della società rifiuta, per definizione,
qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada, in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i nostri
passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci
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43
OSSIER
POVERTÀ
In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone
che sono esposte al rischio di povertà o di esclusione
sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave
indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il
rischio di povertà o di esclusione sociale è molto più
alto del resto della popolazione (27% rispetto al 23%
della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone a una deprivazione materiale che va
al di là della malnutrizione. Ad esempio, 5,7 milioni
di bambini non possono permettersi indumenti
nuovi e 4,7 milioni di bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi
il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo
un paio di scarpe per il brutto tempo. I bambini che
soffrono di deprivazione materiale producono risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti.
Una forma particolarmente grave di deprivazione
materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la
cui entità è difficile da quantificare. Le stime di cui
si dispone indicano però che in Europa nel
2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei senzatetto è aumentato di recente a causa
dell’impatto sociale della crisi economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor
più preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie
con bambini, giovani e migranti.
ESCLUSIONE SOCIALE
Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine
«esclusi» a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia,
gli esclusi, oggi, sono dei nostri. L’esclusione sociale
è un fenomeno relativamente nuovo per la sua radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio, perché uno soffre in quanto è
parte del sistema. L’escluso è semplicemente ignorato; né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione degli esclusi, perché si tratta di un investimento non
redditizio; gli esclusi non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di
più, nella situazione di occupare il margine, come
quello della pagina. Ma bisogna ricordare che il
margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente, l’esclusione è un’inclusione nel margine
stesso. L’escluso viene collocato al suo posto, gioca il
suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta il valore del lavoro agli occhi di tutti gli
altri. Egli è il cattivo esempio. L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano, nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in
una periferia della geografia urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi.
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OTTOBRE 2013
LA FRANTUMAZIONE
DEI LEGAMI SOCIALI
Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in
apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido»,
descrive il carattere fluido della nostra società, con
la sua assenza totale di «consistenza», di stabilità, e
il carattere effimero, incapace di durata, non solo
delle nostre «cose», ma anche (e soprattutto) delle
nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre più
rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso
letterale del termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza sul
«usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si
estende ai rapporti interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta,
per cercare emozioni altrove e con qualcun altro.
Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro
dal titolo significativo, tradotto in italiano come se
esprimesse un desiderio: «Voglia di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese,
suona molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità - comunità mancante).
IL PROLIFERARE DEI «NONLUOGHI»
Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi. Introduzione a una
antropologia della surmodernità» (Eleutera editrice,
Milano 1993, nuova edizione 2009).
Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai
luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che
hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle
persone e dei beni: autostrade, svincoli, aeroporti,
stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti
o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un
cambiamento (reale o simbolico).
I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Insomma sono quegli
spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati.
Morte del prossimo
Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e
svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa frase riassume bene il
messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel
suo libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009).
Perché si è distanti dal vicino e vicini al lontano.
Nelle società globalizzate il vicino è un nemico potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la globalizzazione ha reso meno evidenti,
favoriscono i rapporti tra persone lontanissime e
sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono
fra chi vive nella stessa città, nella stessa via, nella
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
medesima casa. «Dopo la morte di Dio, la morte del
prossimo è la scomparsa della seconda relazione
fondamentale dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in
una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto
il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque
volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento».
EPOCA DELLE PASSIONI TRISTI
Le foto di queste pagine sono simboliche.
Dal mendicante immigrato a Madrid all’uso commerciale
di Babbo Natale passando per le processioni popolari;
dal povero mercato in Albania a quello ricco in Finlandia, dagli sbarchi di profughi a Lampedusa, alla coda
per un gelato in una gelateria di qualità e prestigio.
© AFMC/Benedetto Bellesi
Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno scritto un libro: «L’epoca delle
passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro tesi è che
la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata da un cambiamento di segno del futuro:
dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia».
Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul presente motivando impegno, applicazione,
entusiasmo, slancio, prospettiva, ma fa implodere
ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A che scopo?», «perché?». Siamo
quindi al nichilismo, che più di un secolo fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro,
così definendolo: «Nichilismo: manca il fine, manca
la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore».
Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema. La storia registra le sue scansioni proprio
grazie al crollo di certi valori e all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo appiattiti su un
«eterno presente» che, non offrendo prospettive
credibili, va vissuto in tutta la sua intensità (tutto e
subito) quando se ne ha la forza, o in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un
tarlo, ha fatto breccia nell’anima.
Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso
molto bene quando ammoniva le chiese dell’Europa
«Spesso tentate da un offuscamento della speranza.
Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che
gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani
condividono questi stati d’animo. Numerosi sono i
segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il
quale, pur nel pieno possesso di immensi segni di
fede e testimonianza e nel quadro di una convivenza
indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il
logoramento che la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale
Ecclesia in Europa, 28/06/2003, n.7).
OTTOBRE 2013 MC
45
OSSIER
QUALCHE SUGGERIMENTO OPERATIVO
SULLE TRACCE DEL
«SOGNO DI DIO»
DI
ANTONIO ROVELLI
Alcuni spunti, non esaustivi e solo accennati, per continuare a riflettere/pensare insieme sulla missione - nuova evangelizzazione in Europa oggi.
«La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si
realizza questo diventare uomo? Come si impara
l’arte di vivere? Qual è la strada della felicità? Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada, insegnare l’arte di vivere. Gesù dice all’inizio della sua
vita pubblica: “Sono venuto per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); questo vuol dire: io ho la risposta alla
vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada
della vita, la strada alla felicità, anzi: io sono questa
strada, il Vangelo, la buona notizia in persona» (La
Nuova Evangelizzazione, Joseph Ratzinger,
10/12/2000).
Prima di tutto va ricordata una cosa fondamentale
per ripensare la missione in Europa: occorre ripartire da Cristo. «Non ci seduce certo, scrive Giovanni
Paolo II, la prospettiva ingenua che, di fronte alle
grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una
Persona, e la certezza che essa ci infonde: io sono
con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo
programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione.
Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da
conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo
compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle
culture, anche se del tempo e della cultura tiene
conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il
terzo millennio» (Novo Millennio Ineunte, 29).
Occorre dunque ritornare alla scuola di Gesù itinerante per le strade della Palestina.
I Vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il gruppo in missione. La comunità dei discepoli
è itinerante come il Maestro. Gesù e i discepoli sono
costantemente davanti alla folla. È stando con Gesù
che si comprende la necessità dell’andare: perché andare, dove e per quale annuncio. Ma è andando che si
sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita, infatti, è itinerante, senza fissa dimora. Non si tratta di
una tecnica pedagogica secondaria, ma di una que-
46 MC
OTTOBRE 2013
stione d’identità: se la comunità non va in missione,
se non sta sempre davanti alla folla, mostra di non
aver capito (e accolto) l’evento di Gesù e non si fa più
segno nel mondo di quell’evento. Il sale non è più
sale.
Un altro luogo privilegiato per l’incontro con Gesù è
la strada: quella in cui incontra Zaccheo, e i lebbrosi,
e il cieco, quella che percorre insegnando e guarendo, quella che lo conduce a Gerusalemme dove si
compiranno i suoi giorni. Gesù sa cos’è la strada. Ha
cominciato a muoversi prima ancora di nascere, nel
grembo della madre. E se non ha «una pietra dove
posare il capo», non gli è mai mancata una strada
dove camminare. Gesù è un pellegrino, un viaggiatore, come il samaritano. Ha la strada nel sangue. È
sulla strada che incontra la gente, che guarisce, che
si commuove, che predica e prega e sfama la folla.
«(Gesù) non sceglie di portare il suo insegnamento
innanzitutto e soprattutto nei luoghi di culto o nei
luoghi della cultura, né in quelli della politica o in
© Gennari/Siciliani
PELLEGRINI «CON» GESÙ IN EUROPA
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
quelli del mercato. Sceglie prioritariamente la
strada: il traffico della strada, dove la sorpresa è
sempre di casa. Non si può scegliere chi incontrare
né da chi lasciarsi incontrare. Non puoi nasconderti
sulla strada; sei esposto ed esponi gli altri al tuo
sguardo. Vi è una presenza (quasi) nuda di noi stessi.
Una presenza precaria, ma – è questo il punto – già
aperta, disponibile all’altro, allo sconosciuto, allo
straniero, incontrando il quale e lasciandosi incontrare dal quale possiamo forse cogliere quello sconosciuto che abita in noi e divenire perciò più coscienti
di noi stessi» (A. Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e non credenti, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p.25-26).
LA MISSIONE «DI STRADA» DI GESÙ
© AFMC/G Zintu
La missione di Gesù è stata una missione popolare
tra la gente e per la gente. La dedizione di Gesù per
la gente è lo specchio luminoso dell’amore di Dio per
tutti: malati, peccatori, stranieri, gente disorientata
come pecore senza pastore. Tutta la miseria del popolo si dispiega davanti a Gesù. È a questo popolo
che Egli annuncia – con le parole e le guarigioni – il
Regno.
L’atteggiamento di Gesù verso la gente nasce da una
sua profonda «compassione» (cioè da un amore profondo, preoccupato, partecipativo e quasi materno
che tende a dare/suscitare la vita) e manifesta la sua
totale dedizione.
Il «come» Gesù ha vissuto concretamente l’amore è il
modello chiaro per chi vuole seguirlo sulla strada dell’annuncio della buona notizia del Regno.
Innanzitutto Gesù si è «spogliato» per entrare in dialogo con le persone: nella pratica dell’incontro interpersonale egli ha vissuto la dimensione dialogica, sempre accompagnata dalla dimensione di auto-svuotamento, di condiscendenza. Gesù non ha mai consegnato a chi incontrava una verità astratta o generica,
ma ha instaurato con le persone una relazione umana,
che diventava per l’interlocutore un tempo favorevole
e decisivo per orientare il senso della vita. Il suo comunicare «in situazione» era preceduto da un cammino
di abbassamento, di condiscendenza, che rinnovava
quel cammino di kenosis (auto-svuotamento) da lui
percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di
uomo come noi (cfr. Fil 2,6-7).
Un’altra caratteristica dell’annuncio del Regno praticato da Gesù era la sua capacita di accoglienza. Gesù
sapeva incontrare veramente tutti: in primo luogo i
poveri, i primi clienti di diritto del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cfr. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea (cfr. Mc 15,42 43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri
come il centurione (cfr. Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) e la
donna siro-fenicia (cfr. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli
uomini giusti come Natanaele (cfr. Gv 1,45-51), o i
peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cfr. Mc 2,1517 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1).
Com’era possibile questo? Perché Gesù era capace di
non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di
fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare senza
© AFMC/G. Anataloni
OTTOBRE 2013 MC
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OSSIER
provare paura e senza sentirsi giudicato. Gesù
creava uno spazio accogliente tra se stesso e colui
con il quale entrava in dialogo; faceva questo mettendosi innanzitutto in ascolto dell’altro in quanto persona come lui, in quanto membro dell’umanità dotato di un volto, di una storia e di un nome precisi, e
cercando dunque di percepire cosa gli stava a cuore,
qual era il suo bisogno.
Ha saputo vedere:
• un uomo dove gli altri vedevano un pubblico peccatore (cfr. Lc 5,29-30);
• una donna dove gli altri vedevano una prostituta
(cfr. Lc 7,36-50);
• la salvezza all’opera dove gli altri vedevano solo
vizio e peccato (cfr. Lc 19,1-10).
È in questo modo che Gesù ha vissuto la sua intera
esistenza come capolavoro d’amore, e così ha compiuto pienamente la volontà di Dio, è stato «l’uomo
secondo il cuore di Dio».
IL SENSO UMANO
DELLA SEQUELA DI GESÙ
Si tratta oggi di dare carne al comandamento dell’amore così come Gesù ce lo ha indicato e mostrato,
comprenderlo in modo rinnovato, adoperandosi per
far emergere quella che si potrebbe definire una
«grammatica umana dell’amore». E questo insieme a
una riscoperta della prossimità: le due istanze sono
strettamente interrelate e vanno di pari passo.
Allora «chi ha spirito missionario sente l’ardore di
Cristo per le anime e ama la Chiesa come Cristo. Il
missionario è spinto dallo zelo per le anime, che si
ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di attenzione,
tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità,
interessamento ai problemi della gente» (Rm 89).
Noi siamo chiamati in Europa a imparare il linguaggio degli uomini di questo tempo. O, forse, prima del
linguaggio, dobbiamo anche imparare l’alfabeto col
quale balbettare le parole del cuore e della simpatia,
prima che della ragione, delle regole e proibizioni.
Questo perché l’evangelizzazione non batta sentieri
aridi, ma sappia respirare a pieni polmoni il vissuto
degli uomini, nostri fratelli e sorelle, perché l’evangelo non sia ridotto alla sola dimensione morale o legale, perché la spiritualità cristiana non sia declinata
in opposizione alla realtà umana e materiale.
Occorre recuperare il senso umano, umanissimo,
della sequela di Cristo, la quale non è riducibile al rispetto di norme, a un affannarsi a tempo pieno, a
un’attività pastorale frenetica, ma esige la gratuità
dell’amore. Questo perché, attraverso di noi e la nostra testimonianza, il Vangelo non diventi sale scipito, ma conservi il suo sapore, non opacizzi la luce,
ma continui a illuminare.
Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione: in questa narrazione dell’amore che è
stato Gesù, morto per gli uomini tutti e risorto in
forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare
non è anzitutto portare una dottrina, comunicare
della verità: è raccontare Gesù Cristo come colui che
ha evangelizzato «Dio» – ha, cioè, reso Dio una buona
48 MC
OTTOBRE 2013
notizia – e ha evangelizzato l’uomo vivendo egli
stesso nella storia e nella condizione umana, e rivelando a ciascuno la sua autentica natura di «salvato».
Questo è il contributo specifico del missionario - pellegrino nel suo cammino in compagnia degli uomini:
vivere, rendendola visibile e tangibile questa prassi
missionaria di Gesù. In questo modo saprà rispondere al grido, spesso in forma di gemito, che percepiamo venire dall’Europa oggi: «Vogliamo vedere
Gesù!» (Gv 12,21), come i pagani chiesero ai discepoli
in occasione della sua ultima pasqua a Gerusalemme.
Questo è il contributo di ogni cristiano, perché la
nuova evangelizzazione non è un «affare» esclusivo
degli uomini e donne di Chiesa, ma è la missione di
ogni battezzato che ha incontrato Gesù nella sua
vita. Come i primi cristiani che, cacciati fuori da Gerusalemme dalla persecuzione «andavano per il
paese e diffondevano la Parola di Dio» (At 8,4) e liberi da schemi e tradizioni, animati dallo Spirito,
seppero evangelizzare in modi nuovi e creativi
(come ad Antiochia, dove per la prima volta il Vangelo fu annunciato specificamente ai non ebrei. Vedi
At 11,19-21).
IMPARARE A SOGNARE
Si tratta allora di imparare di nuovo a «sognare» per
intravedere una nuova visione/immaginazione evangelica che si traduca in azione e significhi una nuova
operatività missionaria, entro il contesto, a un
tempo plurale e globale, dell’Europa di di oggi.
Per questo prima di tutto occorre superare l’autoreferenzialità, cioè, il ripiegamento su noi stessi, sui
nostri limiti, paure e debolezze. Basta piangerci addosso, pensare che tutto dipenda da noi. Dobbiamo
sollevare lo sguardo e lasciarci guidare dal sogno di
Dio per l’umanità e in particolare per questo nostro
Continente. Abbiamo bisogno del coraggio di sognare con Dio.
Secondo, dobbiamo ricordarci che è un cammino
graduale da portare con pazienza, perseveranza e
umiltà. Esige tempo, riflessione, dialogo, voglia e
passione per annunciare Cristo, anche oggi, in questa Europa, da ritenersi vera e propria terra di missione a tutti gli effetti.
In terzo luogo, capire che far/essere nuova evangelizzazione non è mai una rottura con il passato, ma
si colloca nella logica del piano di Salvezza che celebriamo nella Liturgia attraverso l’Eucarestia. Siamo
in un cammino che è allo stesso tempo «continuità e
cambiamento, fedeltà al passato e coraggio di affrontare il futuro, costanza e contingenza, tradizione
Anche le foto di questa terza parte sono simboliche.
Si inizia con il Consolata Happening del 2010 in
Certosa di Pesio e, passando dall’Agorà degli Scout
a Verona, ci si unisce ai giovani della Gmg di Rio in
Brasile lo scorso luglio 2013, per concludere con
il canto universale del Gen Rosso (a Nairobi).
MC EUROPA: NUOVA EVANGELIZZAZIONE
BIBLIOGRAFIA
© The Seed/F Wainaina
e trasformazione». La memoria del passato vissuta
nel presente attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e l’ascolto della Parola, ci dà la forza di «dar ragione della nostra speranza» (1Pt 3,15) in questo oggi
orientato al futuro.
Quarto, la nuova visione non deve essere pensata e
progettata come semplice prolungamento (e magari
miglioramento) del presente, ma deve essere aperta
all’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che
determinano un sostanziale mutamento qualitativo.
Sotto il segno della pienezza, dell’impossibile divenuto possibile, e non semplicemente della ripetitività, delle previsioni rispettate.
Questo è il grande balzo che siamo chiamati a compiere, l’altra riva a cui tendere, la Gerusalemme a
cui ritornare, correndo, pieni di gioia, dopo l’incontro con il Risorto sulla strada di Emmaus.
Insomma, per concludere, si tratta di imparare a
contemplare l’oltre verso cui l’evangelizzazione in
Europa deve protendersi. Animati dalla certezza
che il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e
nei contesti in cui operiamo in Europa, non può essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto
di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a
livello geografico che contenutistico.
La bibliografia su questo argomento è
immensa. Oltre ai documenti e libri già
menzionati nel dossier, segnaliamo qui
solo alcuni dei più recenti.
Zolli F. (a cura di),
Essere Missione Oggi, EMI, 2012
AA.VV., La nuova Evangelizzazione,
in Credere Oggi, 191 – 5/12, Edizioni
Messaggero Padova, 2012
Bianchi E., Nuovi Stili di Evangelizzazione,
San Paolo, 2012
Caramazza G., Dio Pensa Positivo,
Fondamenti e prospettive della Missione
“ai popoli”, EMI, 2012
Meddi L., La parrocchia cambia parroco,
una risorsa per la pastorale, Cittadella,
2012
Meddi L., Dotolo C., Evangelizzare
la vita cristiana, Cittadella, 2012
Albanese G., Missione XL,
per un Vangelo senza confini, Edizioni
Messaggero Padova, 2012
Maggioni B., Nuova Evangelizzazione,
forza e bellezza della Parola, Edizioni
Messaggero Padova, 2012
Casale G., Guai a me se non annuncio
il Vangelo, Meridiana, 2012
Barreda J-A., Europa e Nuova
Evangelizzazione, UUP, 2012
Colzani G., Pensare la Missione, UUP, 2012
Enchiridion della Nuova Evangelizzazione,
Editrice Vaticana, 2012
Sievernich M., La Missione Cristiana,
Queriniana, 2012
Aranda A., Una “nuova” Evangelizzazione.
Che fare? Come fare?, Ares, 2012
Kasper W., Augustin G., La sfida della
nuova evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede, Queriniana, 2012
L’AUTORE
Antonio Rovelli, missionario della Consolata nativo della Brianza. Studi a Londra,
prete nel 1984, missionario in Uganda
dal 1988 al 1996, economo di Casa Madre a Torino fino al 2000, responsabile
dell’animazione missionaria fino al 2008,
fondatore della «Scuola per l’alternativa», è ora responsabile dell’ufficio cooperazione di Missioni Consolata Onlus,
segretario nazionale del Suam (Segretariato Unitario di Animazione Missionaria) e
vice direttore dell’ufficio della pastorale
migranti della diocesi di Torino.
COORDINAMENTO EDITORIALE
Gigi Anataloni, direttore di MC
OSSIER
FINE
© AFMC/G Anataloni
PERÚ
di MIGUEL PIOVESAN e
FRANCISCO G. HERNÁNDEZ
La possibile costruzione
di una strada di 270
chilometri in mezzo
alla foresta amazzonica
della provincia peruviana di Purús accende
le discussioni e le polemiche. Ospitiamo le opinioni di padre Miguel
Piovesan e di monsignor
Francisco González
Hernández, favorevoli
alla realizzazione
dell’opera.
# In alto: una spettacolare immagine
del fiume Purús nella foresta
amazzonica dell’omonima provincia
peruviana.
UCAYALI, PURÚS / COSTRUIRE UNA STRADA NELLA FORESTA?
SENZA USCITA
P
uerto Esperanza. Esiste
una zona del Perú - la provincia di Purús - che è
geograficamente isolata.
Non si può accedere se non per
via aerea. Una via aerea sporadica
e incerta. E anche discriminante
dato che pochi privilegiati possono permettersi di affrontarne
l’altissimo costo.
L’isolamento geografico ha impedito lo sviluppo degli abitanti della
zona, in maggioranza indigeni (vedere box). L’isolamento geografico di Purús ha determinato anche un isolamento sociale, mentale, tecnologico con conseguenze
di sfruttamento da parte di «usurpatori» e conquistatori di turno.
Nel 2004 forze schierate dietro
una ecologia finta e manovrata
hanno creato un parco - Parque
Nacional Alto Purús - che ha circondato e rinchiuso la provincia in
maniera assurda e vergognosa
impedendo lo sviluppo e la comunicazione di questi gruppi etnici
con il resto della nazione e dell’umanità.
La chiesa cattolica - io sono parroco della parrocchia di Santa
Rosa del Purús a Puerto Esperanza - ha sempre cercato di denunciare questi soprusi, gli inganni e la diffusione di notizie
false come la questione degli «indios isolati volontariamente» che
serve alle Ong multinazionali per
farsi una pubblicità funzionale ai
loro scopi.
Fintanto che si presentano come i
protettori di queste popolazioni
«in isolamento volontario» hanno
sempre molti soci che sostengono
il loro ritornello. Avendo tutti i
mezzi di comunicazione a disposizione le Ong sono riuscite a propagare un’immagine irreale sia
degli indigeni che utilizzano al
soldo, che di quelli impegnati a difendere i diritti umani, il progresso e la dignità di ogni essere
vivente.
I vescovi del posto - mons. Larrañeta, mons. Francisco González
Hernández, oltre al vicario episcopale padre Ignacio Iraizoz - hanno
sempre sostenuto, senza paura,
che tutti sono figli dello stesso Padre e hanno gli stessi diritti di evoluzione e accesso a tutte le opportunità. Qui di seguito si può leg-
OTTOBRE 2013 MC
51
PERÚ
gere il pensiero di mons. Francisco González Hernández, vicario
apostolico di Puerto Maldonado (a
cui la mia parrocchia appartiene).
Le sue parole fanno capire, a chi
vuole capire, l’influenza di gruppi
e associazioni «mascherati di
ecologia».
padre Miguel Piovesan,
parroco di S. Rosa del Purús,
Puerto Esperanza, Purús,
Ucayali, Perú
IL VICARIO APOSTOLICO
DI PUERTO MALDONADO
R
isulta triste dover ammettere che la situazione della
vita e delle genti del Purús
non è cambiata per niente rispetto alla secolare prostrazione.
Fin dall’epoca del caucciù e prima
e dopo e adesso, continuano a
succedersi aggressioni di diversi
soggetti contro la vita, la dignità,
la libertà e i diritti dei diversi popoli indigeni che abitano la provincia.
La maggior parte di chi è arrivato
nel Purús non è arrivata per dare,
condividere, insegnare, imparare
o liberare. Costoro sono arrivati
per usurpare, schiavizzare, scommettere, sfruttare, imporre.
Davanti a questa aggressione
poco hanno potuto fare ieri e poco
possono fare oggi, alcuni fratelli
indigeni che sono stati privati e si
continuano a privare del diritto ad
avere una formazione, delle conoscenze, una professione che li
renda capaci di vedere, giudicare
e attuare secondo criteri propri,
indipendenti e liberi. Prima sono
stati i signori del caucciù che li
hanno schiavizzati, poi sono venuti altri sfruttatori, oggi a ingannarli sono gli «assessori», i «tutori ecologici».
Con l’adulazione e varie regalie, i
padroni sceglievano alcuni indigeni perché fossero gli esecutori
della schiavitù tra i loro popoli. Li
sceglievano tra i più ambiziosi o
crudeli perché agissero con ferocia contro i loro stessi fratelli. In
cambio questi padroni ricevevano
un trattamento particolare e proprietà come se fossero dei colonizzatori.
Oggi, assessori travestiti da ecologisti, sociologi, antropologi,
scelgono tra gli stessi indigeni i
rappresentanti di varie Federa-
52
MC OTTOBRE 2013
# A sinistra: padre Miguel Piovesan,
parroco di Puerto Esperanza.
LA PROVINCIA
DI PURÚS
LOCALIZZAZIONE: la provincia amazzonica di Purús si trova nel dipartimento
peruviano di Ucayali (Pucallpa) e confina a Nord con il Brasile e a Sud con il
dipartimento di Madre de Dios
(Puerto Maldonado).
SUPERFICIE: 17.847 chilometri quadrati.
POPOLAZIONE: 4.000 abitanti, 2.500 dei quali indigeni.
POPOLI INDIGENI: Cashinahua, Culina, Sharanahua, Chaninahua, Amahuaca,
Mastanahua, Ashaninka, Yine, Piro; i Cashinahua costituiscono l’etnia più
numerosa, gli Amahuaca la meno (con soltanto una ventina di membri).
CAPOLUOGO DI PROVINCIA: Puerto Esperanza.
COMUNITÀ INDIGENE: 44, soltanto 8 con più di 100 componenti.
ECONOMIA: gli indigeni vivono di caccia, pesca e agricoltura di sussistenza;
l’unica attività economica rilevante è quella legata al commercio del legname
pregiato (cedro e caoba).
ATTRATTIVE: il «Parco nazionale dell’Alto Purús», istituito nel 2004, è il più
esteso del Perú (www.pnaltopurus.pe).
COLLEGAMENTI ATTUALI: voli aerei da Pucallpa, capoluogo di Ucayali, a
Puerto Esperanza (600 chilometri) attuati, due volte a settimana, da North
American Float Plane Service Sac per 140 soles a tratta (il salario minimo
peruviano è di 750 soles); i voli militari costano meno, ma non hanno una frequenza prefissata.
zioni, li promuovono a cariche
pubbliche e fanno loro credere
che la loro consulenza è assolutamente imprescindibile per proteggere i popoli indigeni dai tanti
nemici (immaginari) che sono
pronti ad andare nel Purús (per
quale via?) per sterminarli.
Se i trafficanti del caucciù soddisfacevano la loro avarizia strappando il lattice all’albero della
gomma, se i padroni cercavano la
ricchezza nello sfruttamento
della terra, del legno, delle pelli di
animali, oggi gli ecologisti delle
«multinazionali ambientaliste»
semplicemente si appropriano
delle terre del Purús. Le fanno diventare «i giardini privati del
Primo Mondo», sebbene le chiamino Parchi nazionali, Riserve,
Zone intangibili. Alla fine - e mi ri-
ferisco solamente e puramente al
Purús - costoro si sono convertiti
nei nuovi «padroni». Loro stabiliscono ciò che si deve e ciò che
non si deve fare nel «loro giardino». Agli indigeni, che sono i padroni naturali, un giorno diranno
che ormai non è possibile né pescare, né cacciare, né far uso del
legno, né camminare come e dove
si vuole.
Ad alcuni indigeni daranno una
credenziale nominandoli «guardaboschi» e assegnando loro un
piccolo salario la cui quantità sarà
molto lontana dal salario primomondialista che starà ingrossando il conto bancario di ecologisti, sociologi, antropologi, assessori nelle banche di Pucallpa o
meglio di Lima o di qualsiasi altra
città europea o nordamericana.
MC ARTICOLI
# A lato: i 270 chilometri della strada
con la quale si vorrebbe collegare
Puerto Esperanza (Purús) con Iñapari (Madre de Dios). In basso: manifestanti favorevoli alla strada.
È in tutto questo intreccio che si
collocano i tristi avvenimenti che,
ancora, succedono nel Purús. Gli
«assessori» stanno provocando come in altre circostanze - le aggressioni e minacce contro la
Chiesa cattolica, e in particolare
contro padre Miguel Piovesan,
parroco di Puerto Esperanza.
Non ci sono dubbi per nessuno, e
ancora meno per loro, che la nostra Chiesa in Purús è una delle
poche istituzioni che - senza protezione alcuna e alla luce del sole
- si sta prodigando per reclamare
giustizia e denunciare abusi e
corruzione.
Invece del dialogo e del confronto
di idee e interessi che diano soluzioni oneste, trasparenti e dignitose, si ricorre alla persecuzione
sistematica e ingiusta di padre
Piovesan, lo si diffama, lo si minaccia. Si diffondono contro di lui
documenti falsi, usciti da assemblee false e firmate da persone
che non hanno partecipato e che
poi si indignano vedendo i propri
LA QUESTIONE
PROGETTO: è in discussione un progetto di Legge (n. 1035/2011-Cr) per
collegare con una strada di 270 km
Puerto Esperanza con Iñapari (vedi
mappa); a causa dei territori amazzonici e indigeni che la strada attraverserebbe, il progetto è fonte di un
accesissimo dibattito.
SU POSIZIONI OPPOSTE: sono favorevoli al progetto alcuni politici (capeggiati da Carlos Tubino, congressista
di Fuerza Popular, il partito di Keiko
Fujimori) e la Chiesa locale nelle persone di padre Piovesan e di mons.
Francisco González Hernández, vicario di Puerto Maldonado; tra i contrari ci sono: le organizzazioni indigene Feconapu, Fenamad, Aidesep; le
organizzazioni internazionali Wwf,
Global Witness, Survival International e Survival Italia.
© revista Palabra Viva, Puerto Esperanza
nomi usati per sostentare un attacco a una persona che, invece,
essi riconoscono e rispettano.
In diverse circostanze, questo Vicariato di Puerto Maldonado ha
ricevuto visite di delegazioni purusine che sollecitavano appoggio
per una connessione fisica del
Purús con il Perú. Che colpa si
può imputare a una intera provincia che voglia semplicemente rimanere connessa con lo stato al
quale appartiene? È giusto che
per andare al distretto abitato più
vicino, Sepahua (provincia di Atalaya), si debba camminare 22
giorni attraverso la foresta o 30
giorni per arrivare fino alla strada
di Iñapari-Puerto Maldonado?
Di che cosa vivranno gli abitanti
del Purús se non possono beneficiare del loro legno, cacciare i loro
animali, pescare i loro pesci, vendere i loro raccolti? Quale lavoro
devono svolgere per ottenere denaro che permetta loro di alimentarsi con qualcosa di più che manioca e banane, comperare i ve-
© Rocío Medina, La República
M
i spaventa rileggere quello
che ho scritto fino adesso,
soprattutto pensando ad
altri amici e fratelli, a ecologisti,
antropologi, sociologi onesti e impegnati. Per questo voglio chiarire
che tutto quello che dico lo applico alla provincia del Purús, ingiustamente maltrattata. Là dove
il tempo sembra essersi fermato,
dove gli unici a poter vivere sono
malandrini e truffatori e dove si
offre l’unica esperienza di un
Parco giurassico, dove si condanna l’uomo a vivere isolato, impoverito, privato dei suoi diritti a
una educazione vera, a un lavoro
degno e retribuito, a una salute
accessibile, ad uno sviluppo che,
partendo dalla sua propria cultura, gli permetta di vivere come
un cittadino del Perú e del Mondo
in questo terzo millennio.
PERÚ
L’
insensibilità di Wwf e organizzazioni associate davanti
al problema umano del
Purús potrà squalificare la sua
azione nel resto del mondo? In
particolare colpiscono i metodi
mafiosi usati in modo spregiudicato, come la compera di coscienze stuzzicando gli interessi
individuali dei dirigenti indigeni
senza alcun rispetto per l’indigenza della grande maggioranza.
Estranei e lontani dalla inumana
situazione indigena, con una presenza sporadica, interessata e retribuita, questi ecologisti ci feriscono. Davanti al problema costoro pretendono di convincere la
gente del Purús che non sa, non
può, non ha bisogno di niente perché già vive nel Paradiso e tutto
quello che c’è fuori di esso è
brutto, è vizio, delinquenza, civi# Sotto: un villaggio indigeno nella
foresta del Purús.
lizzazione detestabile. Loro devono continuare a vivere così, isolati, in riserva, esclusi.
Un paio di manifesti recenti - suppostamente realizzati dalle comunità indigene - hanno denunciato
davanti a tutte le istanze mondiali
la malizia e perversità di un sacerdote cattolico che è il «Satana»
del Purús. Eppure, soltanto voi
Wwf-ecologisti avete la possibilità
di arrivare nel Purús in aereo,
sempre e ogni volta che sia necessario. Arrivate e vi portate succulenti stipendi nelle città dove
avete le vostre mogli, figli, la vostra bella casa, la vostra potente
automobile. Al contrario di voi, il
padre Miguel va nel Purús e resta
là, vivendo le scomodità e le mancanze dei purusini. Non portando
via niente, ma anzi portando là,
per condividerlo con gli altri, il
poco o molto che può raccogliere
quando si reca in altri paesi. Il padre Miguel si preoccupa per l’educazione dei giovani, la salute degli
ammalati, l’indigenza degli indigeni, la mancanza di futuro per i
giovani e per le donne. Lo sdegnano le menzogne dei «signori di
turno» che continuano a vivere
magnificamente alle spalle dei
soliti poveri o la furbizia e i pochi
scrupoli dei nuovi «capi».
Perché costoro addirittura si impegnano a minacciare di morte
qualcuno che cerca soltanto di affermare il diritto che tutti abbiamo di vivere dignitosamente?
Come osano redigere documenti
minacciosi e farli firmare a chi
non sa le conseguenze di tale scemenza? Il padre Miguel non è nemico degli indigeni; al contrario è
voce profetica e fastidiosa contro
il potere abusivo e corrotto, l’ingiustizia istituzionalizzata, gli interessi nascosti, la bugia, l’inganno, la strumentalizzazione, la
paura e la prepotenza.
P
er tutto questo, raccomando
con decisione a tutti i credenti, agli uomini e donne di
buona volontà, ai fratelli e sorelle
indigeni, alle varie Comunità, che
non lascino solo il padre Miguel in
questa lotta. A tutti loro dico: non
abbiate paura, so che vi minacciano, vi licenziano dal lavoro, vi
etichettano e vi impediscono di far
uso dei voli «incivili», ma continuando a procedere nella giusta
direzione, alla fine la giustizia divina finirà per darvi qualcosa di
migliore, superando il maltrattamento, la miseria, l’esclusione a
cui siete ancora sottoposti.
mons. Francisco González
Hernández,Vicario apostolico di
Puerto Maldonado, Perú
PER COMUNICARE
CON GLI AUTORI*:
• SITO WEB:
www.parroquiapurus.org
• EMAIL:
[email protected]
(*) La rivista ha dato spazio alle
opinioni di padre Miguel Piovesan
e mons. F. G. Hernández, dopo che
gli stessi avevano letto e criticato
un reportage di Paolo Moiola (pubblicato in 3 puntate a giugno, luglio, agosto 2012) sul confinante dipartimento di Madre de Dios. In
esso si parlava anche di vie di comunicazione (Carretera Interoceanica Sur) e della Fenamad, una
delle organizzazioni indigene contrarie al progetto di strada tra
Puerto Esperanza e Inãpari.
© Global Witness
stiti, acquistare il materiale scolastico per dei bambini, la benzina
per il motore della canoa, pagare
il proprio documento di identità,
gli studi superiori dei figli, gli occhiali, le scarpe, la radio, le medicine eccetera? Dove procurarsi il
denaro per salire sull’aereo per
Pucallpa e pagarsi vitto e alloggio
in città, nel caso ci sia necessità di
andarvi per un’urgenza ospedaliera, un giudizio, un affare qualsiasi?
Libertà Religiosa
di Stefano Vecchia
RIFLESSIONI E FATTI SULLA LIBERTÀ RELIGIOSA NEL MONDO - 13
PER «TUTELARE DIO»
# Germania, Düsseldorf: dimostrante
con una bandiera turca e una
foto del primo ministro turco
Recep Tayyip Erdogan, nel corso
di un comizio del 7 luglio 2013
per sostenere la politica
del governo.
I
n anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei
mass media sulle cosiddette
«leggi antiblasfemia» che in diversi paesi del mondo hanno
portato, e portano, alla violazione del diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti, nonostante
siano giustificate per lo più dalla
volontà di tutelare le fedi della
popolazione, sono invece spesso
lo strumento per reprimere i
gruppi religiosi di minoranza, o
espressioni «non ortodosse» del
credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i
territori che nel mondo applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie
forme di diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s
© Afp photo/Dpa/Henning Kaiser/GErmany out
Bestemmiare, cambiare
credo e diffamare fede,
persone o gruppi religiosi è reato in diversi
paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la
religione, ma nei fatti
soffocano la libertà religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20
paesi, tutti a maggioranza musulmana, la
blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca,
Italia.
Dal Pakistan all’India
alla Turchia alcuni episodi sono saliti alla ribalta dell’attenzione internazionale.
Forum on Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense
indipendente, specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei
198 paesi presi in esame durante
l’anno 2011 dal Pew forum, 32
avevano specifiche leggi antiblasfemia, 20 provvedimenti che
colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per contrastare offese
verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di incitamento all’odio contro un gruppo
religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha
utilizzato, oltre al lavoro diretto
sul campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle Nazioni
Unite, da Human Rights Watch
ad Amnesty International e
International Crisis Group.
Le indagini precedenti avevano
sottolineato un elemento impor-
Libertà Religiosa
LEGGI ANTI APOSTASIA 2011
MEDIO ORIENTE
NORD AFRICA
ASIA PACIFICO
AFRICA
SUBSAHAR.
Egitto
Afghanistan
Comore
Iraq
Iran
Mauritania
Giordania
Malaysia
Nigeria
Kuwait
Maldive
Somalia
Oman
Pakistan
Qatar
Arabia Saudita
© Afp photo/Arif Ali.
Sudan
Siria
Emir. Arabi Uniti
Yemen
LEGGI ANTI BLASFEMIA 2011
MEDIO ORIENTE
NORD AFRICA
ASIA PACIFICO
EUROPA
AFRICA
SUBSAHAR.
Algeria
Afghanistan
Danimarca
Nigeria
Bahrain
India
Germania
Somalia
Egitto
Indonesia
Grecia
Giordania
Iran
Irlanda
Kuwait
Malaysia
Italia
Libano
Maldive
Malta
Marocco
Pakistan
Paesi Bassi
Oman
Singapore
Polonia
Qatar
Turchia
Arabia Saudita
Sudan
Emir. Arabi Uniti
Western Sahara
tante per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi,
confermato nell’ultimo studio: i
paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad
avere maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti
riguardo al fenomeno religioso.
BESTEMMIA E DIFFAMAZIONE
Lo scorso anno ha fatto scalpore
il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione
cristiana arrestata e incarcerata
perché accusata di aver bruciato
pagine di un libro propedeutico
allo studio del Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza
56
MC OTTOBRE 2013
è stata liberata perché le prove
erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta incolpato, è stato recentemente
assolto (si veda pag. 8 di questo
numero di Mc).
Da tempo l’uso strumentale
della legge antiblasfemia è diventato in Pakistan un ostacolo
alla convivenza delle comunità
religiose. Dal musulmano Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della
Indian Rationalist Association, è
stato incriminato, sempre nel
2012, per avere dichiarato che
una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le
sue caratteristiche miracolose
sarebbe stata un falso.
# Pakistan, Lahore, 9 marzo 2013: Cristiani pachistani reagiscono dopo
che manifestanti musulmani hanno
distrutto le case di alcuni membri
della comunità cristiana durante
una protesta per presunte osservazioni blasfeme fatte da un giovane cristiano, Sawan Masih, contro il profeta Maometto.
I due casi, pur essendo di natura
simile, sono stati trattati in modo
diverso sul piano giuridico: il
primo, infatti, è rientrato nell’ambito della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I casi che
riguardano la blasfemia sono
presenti soprattutto in paesi musulmani, quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi.
In ogni caso, sono coinvolti in
queste politiche di «protezione»
della religione anche paesi «insospettabili». La Grecia, ad
esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la
più severa in Europa, riguardo la
blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli Affari religiosi del
marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa religiosa.
Nel 2011, sul totale già citato di
MC RUBRICHE
32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si
trovava in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale. In 13 dei 20
paesi di quell’area la blasfemia è
un crimine. Nella regione AsiaPacifico, sono nove su 50 i paesi
con leggi analoghe, mentre in
Europa questa legge si ritrova in
otto dei 45 paesi del continente
(tra cui anche l’Italia, si veda la
tabella in questa pagina, ndr).
Per quanto riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi
che applicano una legge antiblasfemia: Nigeria e Somalia.
IL DISAGIO DELL’ISLAM
Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e di come le istituzioni
di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla attraverso
provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam. L’attuale influenza di una
versione rigorista della dottrina
musulmana, quella wahhabita,
elaborata nel medioevo islamico
e predominante in Arabia Saudita
e in altri paesi della regione, sta
segnando la pratica di fede nell’ecumene musulmano e anche
la vita di chi musulmano non è. Il
wahhabismo, forte degli abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che ha sostenuto la nascita di
infinite scuole coraniche, moschee, centri di studio, ma anche
la diffusione di ideologie di extraterritorialità e ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà, frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina
alle Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza di
ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto sulla distanza tra i
costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È da questo - ovvero dalla percezione di
una identità islamica minacciata
- che derivano probabilmente
molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva anche il
contrasto continuo all’interno dei
grandi paesi musulmani sull’applicazione della legge coranica
(Shari'a): la giurisprudenza laicista la vorrebbe vincolante per i
soli musulmani, gli oltranzisti invece erga omnes, ovvero imposta
anche alle minoranze. Ulteriori
complicazioni derivano poi dalla
presenza di leggi tribali o locali
nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge
più restrittiva s’impone a scapito
delle istanze di uguaglianza e,
sovente, di sviluppo.
IN CARCERE IL BLASFEMO
TURCO
Un caso recente mostra che la
legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media.
A fine maggio 2013, alla Turchia
è toccato condannare per la
prima volta per blasfemia un
blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45 giorni di detenzione.
Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione semi-ufficiale
Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo
noti e anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle
solide basi laiciste, iscritte nella
sua storia moderna prima ancora che nella costituzione del
1982, ma che sotto il governo
islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura svolta integralista. Non senza resistenze,
interne ed esterne al parlamento
di Ankara e anche sotto lo
sguardo attento delle diplomazie
internazionali, a partire da
quelle dell’Unione Europea.
In un testo pubblicato sul suo
blog lo scorso settembre, Nisanyan (pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica turca) aveva
parlato delle proteste internazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana
Innocence of Muslims, una pellicola di basso livello artistico e
tecnico e ancor minore successo
commerciale, che metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in
diversi paesi musulmani, tra cui
Egitto e Libia. Mentre il premier
turco denunciava il film come
«islamofobico», la sua popolazione si limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.
«Non è un crimine che chiama
all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa
proclamarono di essersi messi
in contatto con Dio e ne ottenOTTOBRE 2013 MC
57
Libertà Religiosa
nero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello
di scuola materna di quella che
noi chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro
Nisanyan.
I CASI DELL’ISLAM ASIATICO
L’Asia meridionale e il Sud-Est
asiatico raccolgono la maggioranza dei musulmani del mondo
(il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora subordinato ai
paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma
devono sottostare a regole elaborate sotto le tende beduine
come negli uffici «glacializzati»
che si affacciano sul Golfo.
L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250 milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo
con 182 milioni di credenti; l’India, grande paese induista, è al
terzo posto (almeno 140 milioni),
all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
© Afp photo/Christophe Archambault
© youtube.org
Malaysia e Borneo sono altri
stati a maggioranza islamica,
mentre consistenti comunità
musulmane si trovano in Cina,
Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e
Sri Lanka.
Tra tutti, il Pakistan si distingue
per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986
per garantire all’allora dittatore
militare Zia ul-Haq l’appoggio
degli islamisti contro gli oppositori. Gli articoli del codice penale
collettivamente indicati come
«legge antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan
un’arma da usare contro avversari politici, in faide personali e
verso le minoranze. Un’arma a
volte letale che arriva a colpire
anche bambini di dieci anni e
persone mentalmente incapaci.
Il governo di Islamabad nega di
avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contradditto# A sinistra: Sevan Nisanyan.
# Qui sotto: Thailandia, Bangkok, 27
settembre 2012: manifestanti musulmani mostrano striscioni durante una protesta contro l’incendiario film anti-Islam Innocence of
Muslims, davanti al consolato degli Stati Uniti. Il filmato amatoriale,
che prende in giro l’Islam e il Profeta Maometto, ha scatenato tumulti mortali in molti paesi. Più di
50 persone sono state uccise in
violenze collegate.
rie, ma secondo le ricerche della
Commissione Giustizia e Pace
della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986 all’agosto 2009, sono almeno 964 i
pachistani finiti sotto processo
per blasfemia: 479 musulmani,
340 ahmadi, 119 cristiani, 14
indù e una decina di fede ignota.
Mancano i dati delle condanne e
di quanti stanno scontando la
pena, ma sono certamente decine. Diversi sono stati uccisi in
carcere oppure subito dopo la liberazione decretata dai giudici.
Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono in misura
rilevante musulmani «ortodossi»
di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o
verso l’estremismo religioso, è
pur vero che le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli accusati in misura superiore.
Stefano Vecchia
Note:
1. Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2. Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra. Ad esempio l’abbandono dell’Islam
per diventare cristiano.
3. Con diffamazione della religione si
intendono la denigrazione o la critica
di un credo religioso.
Cooperando...
www.missioniconsolataonlus.it
MCO
Fondazione
Missioni
Consolata
Onlus
di Chiara Giovetti
NON GIOCHIAMO
© Pamela Adinda - 2008
AL «CATTIVO SELVAGGIO»
Gli Yanomami sono
un popolo feroce, lo
stato-nazione porta la
pace e i nostri tempi
sono probabilmente i
più pacifici che l’umanità abbia mai vissuto.
Queste, in estrema
sintesi, le tesi di tre
studiosi che hanno
scatenato le dure
reazioni di una parte
della comunità scientifica e di attivisti per
i diritti delle popolazioni indigene, che
accusano i tre autori
di aver rimandato indietro di cent’anni il
dibattito e di mettere
in discussione il
diritto alla sopravvivenza di interi popoli,
dell’Amazzonia
e non solo.
I termini del dibattito
Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un
saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose –
gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del
1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e
minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e
«in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda
molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo
secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia
più lupo per l’altro uomo.
Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon
e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo
fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i
popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono
interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che
tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della mi-
OTTOBRE 2013 MC
59
Cooperando…
sera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi
coloniali intervengono con la
forza a metter fine alle guerre
tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da
soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza
l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine
alla spirale di vedette che le
guerre tribali innescano.
Infine, in Declino della violenza
(2011), lo psicologo evoluzionista
Steven Pinker sostiene tesi
molto simili a quelle di Diamond
e si spinge ad affermare che
quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia,
un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro
di Francis Fukuyama, La fine
della storia e l’ultimo uomo
(1992), sebbene Pinker stesso
abbia affermato di non spingersi
fino a parlare di fine della storia
ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della
diffusione delle idee.
Reazioni
Di fronte a queste posizioni dei
tre studiosi, numerosi esponenti
del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle
popolazioni indigene, Survival
(www.survival.it) in testa, sono
letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e
una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com,
sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di
antropologia. In poche parole, le
principali critiche riguardano la
riproposizione da parte dei tre
autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile
come la violenza, estremamente
difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei
popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra.
L’antropologo Greg Laden, in un
articolo apparso sulla rivista The
Slate lo scorso maggio, afferma
che non è mai stato così facile
come nelle società occidentali
rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la
guerra è diventata mortale come
non lo era mai stata prima.
Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon,
Pinker e Diamond hanno effetti
potenzialmente devastanti sulle
società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che
i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle
leve su cui hanno fatto forza
molti governi per giustificare - in
diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli.
Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno
detto la loro contro le tre opere.
Secondo Davi Kopenawa, storico
leader yanomami (vedi anche a
pag. 21 di questo stesso numero,
ndr), non è certo la violenza interna alle comunità a provocare
vittime fra la sua gente: «I nostri
veri nemici», ha dichiarato,
«sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono
impadronirsi della nostra terra».
Ancora, a detta di Benny Wenda,
leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha
occupato illegalmente il nostro
paese nel 1963, ed è allora che
sono davvero iniziati i massacri,
in tutta la Papua Occidentale. Il
governo indonesiano non ci ha
MC RUBRICHE
salvato da un circolo di violenza,
come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza
che non avevamo mai nemmeno
conosciuto: ha ucciso, violentato
e imprigionato il mio popolo, e ha
rubato la nostra terra per arricchirsi».
La situazione sul campo e
la lettera di Fratel Carlo
Zacquini al Papa
I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia
brasiliana) dagli anni Sessanta.
La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival
dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo
Zacquini ha dichiarato: «Quelli
che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante
gli anni trascorsi a visitare un
gran numero di comunità – non
sono così [cioè non sono violenti].
Ci sono sempre tensioni, come ci
sono tensioni in ogni famiglia, e
in ogni paese, ma questo non è
guerra. [...] Vi sono lotte, penso
che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è
davvero molto raro. Le lotte sono
divenute molto più serie quando
sono arrivati i cercatori d’oro e si
sono diffuse le armi da fuoco. Ma
non è una situazione generale, né
costante [...]. Il danno provocato
da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato
da un raffreddore».
Fratel Carlo racconta, in una sua
lettera dello scorso luglio, di aver
sfogliato il rapporto stilato nel
1967 dal procuratore Jáder de
Figueiredo Correia in seguito alle
indagini affidategli dal Ministro
dell’Interno del Brasile, dopo che
una commissione parlamentare
di inchiesta aveva denunciato
gravi irregolarità nel Servizio di
Protezione degli Indios (Spi), cioè
l’ente che, sulla carta, avrebbe
dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo,
così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios
hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono
tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime
e atroci che il missionario ha
sentito e testimoniato nella sua
lunga esperienza di lavoro con gli
Yanomami.
Fratel Carlo ha di recente scritto
una lettera a papa Francesco in
occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale
della Gioventù: «So che tu non
puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della
Norvegia», scrive fratel Carlo,
«ma forse potresti consigliarlo a
qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti
che hanno popolato questo
“grande” paese, il Brasile. [...]
Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta
che si ripercuotono sui mezzi di
comunicazione, specialmente
quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni
esaltati [...], ma guardano al
bene delle popolazioni indigene e
a quello del resto dell’umanità
[...]. Come può un paese, la cui
grandissima maggioranza si dice
cristiana, trattare i diritti umani
in questo modo?».
Oggi, il tentativo di eliminazione
degli yanomami e di molti altri
popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale
e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori
spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte
crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai
la soluzione del problema passa
attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto
del diritto di quei popoli a vivere
nel loro territorio.
«Non è che vogliamo convincere,
né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni”
in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi
scrive. «Se gli Yanomami, nel
corso del tempo, decideranno di
cedere il proprio territorio e le
proprie tradizioni, questa sarà
una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che
il ruolo di noi missionari consista
anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere
gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e
scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi
vuole arricchirsi devastando la
sua terra. Tanto più che, come
sempre ripete Davi Kopenawa,
non ci sono altri mondi, ce n’è
solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per
tutti noi».
Basta, con un semplice esercizio
mentale, sostituire nel paragrafo
sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza
per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano.
Chiara Giovetti
# In queste pagine: foto degli Yanomami del Catrimani durante una cerimonia comunitaria (foto S. Sabatini). Foto come queste potrebbero
facilmente essere utilizzate per
«documentare» la presunta ferocia
di questo popolo.
# Qui sopra: la copertina del libro
«Yanomami» di G. Damioli e G. Saffirio, pubblicato da Il Capitello nel
1996.
OTTOBRE 2013 MC
61
Cooperando…
3
DOMANDE A:
Francesca Bigoni
e Roscoe Stanyon,
antropologi che curanoun
progetto di ricerca sugli
Yanomami con l’Università
di Firenze e collaborano
con padre Corrado
Dalmonego, missionario
della Consolata
a Catrimani (Roraima,
Amazzonia brasiliana).
Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di
una riproposizione di temi già
noti o c’è effettivamente
qualche nuovo elemento.
Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un
momento drammatico in cui
l’esistenza dei popoli indigeni
e la salvaguardia dei territori a
cui sono legati sono minacciati
da ciechi interessi economici e
politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per
rappresentarli come popoli
«primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente
strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei
popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui
sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro
vita sociale, relazione con
l’ambiente, prospettiva spirituale).
L’antropologo Greg Laden
scrive che la violenza, il
tratto culturale attribuito agli
Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale
che ha reso la guerra mortale
e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai
lo erano state prima. Siete
d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva?
62
MC OTTOBRE 2013
Certamente sì. Per esempio, è
ora ben noto che la presunta
violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon,
ammesso che i suoi dati siano
corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un
momento storico particolare.
La sua prospettiva non è stata
confermata da studi in altre
vaste zone di insediamento
degli Yanomami. Per esempio
Giovanni Saffirio, missionario
della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del
Catrimani dal 1968 fino alla
metà degli anni ’90 ha provato
a raccogliere dati, ma i casi di
morti per violenza erano così
rari che non era possibile
neppure fare un confronto
statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto
critica. Attualmente gli studi
antropologici dimostrano che
i comportamenti umani sono,
in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla
situazione particolare in cui ci
si viene a trovare. D’altra
parte Pinker, per sostenere la
sua teoria del «declino della
violenza» nella nostra cultura
rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami
considerate «feroci», utilizza
limitati dati di Chagnon e di
altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio
nella società occidentale, ma
usa criteri statistici scorretti
per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento
di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi
di genocidio di popoli indigeni
e non indigeni.
La storia è chiara e ci insegna
che le più grandi violenze,
sono state quelle con cui la
cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio
dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che
sembra ripetersi, magari con
forme più sottili e subdole,
ancora oggi.
Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un
italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni
indigene in genere?
Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei
territori in cui i popoli nativi
vengono preservati con la loro
cultura e la loro lingua, viene
automaticamente protetta la
biodiversità; al contrario la
perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve
tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo
l’estinzione della nostra
stessa specie umana.
Chiara Giovetti
4 chiacchiere con...
a cura di Mario Bandera
15. BAKITHA
La santità è una conquista che tutti possono raggiungere, a essa possono aspirare uomini e
donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa volta ci incontriamo con Bakhita, una santa
africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta prigioniera da bambina e venduta come
schiava da mercanti senza scrupoli, dopo incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del
Console italiano Callisto Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto, prendendo
i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la dolcezza del suo carattere, le attirano in poco
tempo la simpatia di tutti coloro che la circondano.
Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure
di santi provenienti dal continente africano ce
ne furono parecchi prima di te, non è così?
Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale
Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero
occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco
tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa..
Hai citato uno dei più grandi Padri della
Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e
a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana
delle origini, ma ce ne sono stati altri?
Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si
stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle
Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio,
san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto
forte, come san Benedetto il Moro, originario della
Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24
maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa
Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa
sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e
tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini
antichissime.
La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché
in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo?
Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in
Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori
arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i
sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a
una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame,
improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla
mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza.
Puoi raccontare la tua odissea come schiava?
Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi
anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di
diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un
generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio
su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna
alla fine questo ufficiale mi vendette.
Dove finisti? Chi ti comprò?
Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la
prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò
completamente i programmi del Console e miei. Si
vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente.
Rivoluzione del Madhi, cos’è?
Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un
asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la
4 chiacchere con...
capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando
il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella
islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I
suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e
Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore
dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba
comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il
primitivo puro Islam.
Quindi ci fu una guerra?
Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono
diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di
ritornare in Italia.
E tu immagino che seguisti la famiglia del
Console italiano?
Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la
mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi
da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina).
In Italia dove vi stabiliste?
Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto,
dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola
anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore.
I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in
Africa, ritornarono diverse volte in quel continente,
con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia.
E lì che successe?
Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare
i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne
anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e
il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una
persona libera e potevo prendere la strada che volevo.
Proprio come una persona libera?
Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le
sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889.
E che facesti allora?
Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio
1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne
dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata,
che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita.
Chissà che giornata meravigliosa fu quella!
È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di
Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che
sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio
animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai
sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non
avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i
doni che mi aveva fatto.
Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la
vocazione di consacrarti totalmente a Gesù?
64
MC OTTOBRE 2013
Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore.
Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un
ostacolo insormontabile.
E invece?
Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta
a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie
della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896
pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e
interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi
amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni
mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi
per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi
veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare.
Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per
la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la
cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le
scuole del vostro Istituto.
I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro
raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il
fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare
testimonianza della mia vita, della mia conversione e
della mia vocazione.
Immagino che fu abbastanza pesante questo
continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi?
Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il
Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella
consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno,
io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far
conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi.
Bakhita rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel
1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della
seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di
vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua
esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le
chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto:
«Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva
rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si
spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e
la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la
«madre moretta» prima della sepoltura. La fama
della sua santità si diffuse rapidamente a macchia
d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera,
sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta
nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000.
AMICO.RIV
NICONSOLA
TA.IT
È bello poter vivere questo ottobre missionario nell’entusiasmo di un mandato: «Andate». E nella certezza di una promessa: «Io sono con voi». È consolante sperimentare e vivere,
alla luce della fede, che il mio limite - «alcuni però dubitavano»
- non è da escludere, da seppellire tra gli scarti di cui trabocca
la discarica che intasa la mia coscienza, ma è la frattura, lo spiraglio da riconoscere perché da lì penetri nel mondo quell’amore fornito di «ogni potere» che è il presupposto del «dunque» andate. Mentre io sono insufficiente, Lui ha ogni potere.
Se dubito, e lo riconosco, Lui può promettere: «Sono con voi».
La fede è allora memoria di quella promessa che ieri, oggi, domani si realizza. Memoria del futuro - «tutti i giorni, fino alla
fine del mondo» - che illumina lo snodo del presente. L’unico
luogo e tempo in cui nella mia fragilità può abitare la salvezza,
del mondo, e mia.
Con questo mese riprendono tutte le attività dei nostri centri.
Ti aspettiamo per «dubitare» insieme, e insieme accogliere il
dono della fede che ci fa riconoscere la Sua
presenza in ogni luogo e tempo della nostra vita.
© Af MC/E Balboni 2012
Buon mese missionario da amico.
Buona conclusione, il 24 novembre, dell’anno
della fede.
Luca Lorusso
.03
INDICE
«G
li undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le
nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo”» (Mt 28, 16-20).
\\ 65 EDITORIALE \\ 66 AMICOMONDO \\ 70 VOCE DI PIETRO \\ 72 PER LA PREGHIERA \\ 74 BIBBIA ON THE ROAD
\\ 76 PAROLE DI CORSA \\ 78 MISSIONE & MISSIONI \\ 80 PROGETTO TANZANIA \\ 82 PROGETTO CONGO R.D.
Caro amico
ISTAMISSIO
amicomondo
Un solo corpo
chema per una giornata missionaria sul
tema dell’essere membra differenti di
un unico corpo.
S
PROGRAMMA DELLA GIORNATA
9.30: arrivo.
9.30-10: accoglienza, presentazione della
giornata, breve momento di preghiera.
10-12.15: attività a gruppi.
12.30-13.30: pranzo.
13.30-15.30: attività a gruppi.
15.30-16: conclusione. Ripresa
della giornata, spiegazione
del significato del percorso fatto,
saluti.
MATERIALI
Obiettivi:
• Riconoscere di fare parte di un «corpo»;
• Riconoscere la propria individuale specificità e
«utilità», il proprio ruolo nel meccanismo complessivo
del corpo;
• mettere a confronto la propria vita con la Parola di Dio;
• Prendere consapevolezza delle responsabilità individuali e
collettive nella missione;
• stimolare alla cooperazione.
Destinatari: ragazzi tra 8 e 11 anni. gruppi anche grossi (150-200).
Spazi: ampi. Sia all’ aperto che al chiuso.
Durata: opportunamente modificati e eventualmente ridotti,
gLi spunti proposti possono essere utilizzati per una
giornata missionaria, per un unico incontro più
breve o un percorso articolato in diversi incontri, a seconda delle esigenze.
© Af MC/L Montanari 2010
• Preghiera iniziale e preghiera finale;
• Brano di 1Cor 12, 14-26;
• Un puzzle raffigurante un corpo umano
per ciascun gruppo;
• Bende per legare e da porre sugli occhi;
• Sedie;
• Storia per la quinta tappa;
• Vestiti e oggetti per la rappresentazione
della storia della quinta tappa;
• Macchina fotografica;
• Videoproiettore, Pc, amplificazione,
cavi necessari, parete bianca o telo
per proiezioni, video che parli di un
ospedale missionario (ad esempio
Wamba);
• Cartelloni, pennarelli, scotch, colla,
forbici.
66 amico
OTTOBRE 2013
© Af MC/L Montanari 2010
di p. Peter Njoroge e équipe Amv Bevera
Poi legge e commenta 1Cor
12,14-16: «Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di
molte membra. Se il piede dicesse: “Poiché io non sono
mano, non appartengo al
corpo“, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se
l’orecchio dicesse: “Poiché io
non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del
corpo». E conclude con la seguente provocazione: «Tu potresti pensare che non sei come
gli altri, o di non essere utile,
ma la verità è che noi tutti
siamo diversi; tu sei speciale,
unico, nessuno può fare quello
che tu puoi fare. Sei necessario
nel corpo di Cristo. Il corpo di
Cristo ha bisogno di te!».
Alla fine l’animatore dà ai
gruppi i vari pezzi mancanti
tutti assieme e li invita a cercare la parte che serve per
completare la figura.
2. TUTTO FA UN CORPO
La missione è riconoscere che
siamo tutti membra di un solo
corpo.
L’animatore chiede ai ragazzi:
«Dove sono i vostri nasi?»,
quando rispondono, l’animatore dice: «Smettete di parlare,
non siete mica la bocca!».
«Dove sono le bocche?», e dice
«smettete di muovervi, non
siete la mano o il piede».
«Dove sono le mani?», e dice:
«Voi non siete l’orecchio, come
è possibile che mi sentite?».
L’animatore invita ogni gruppo
a utilizzare le azioni per mostrare le funzioni delle diverse
parti dei loro corpi.
«Come riuscirebbe la tua parte
del corpo a effettuare le seguenti operazioni? I nasi e le
bocche, come farebbero a inviare un sms su un cellulare? Le
mani e il cervello come farebbero ad andare in bicicletta? I
piedi e le orecchie come potrebbero mangiare un gelato?
L’animatore invita poi i gruppi a
mimare delle azioni:
* invio di un sms;
* andare in bicicletta;
* mangiare un gelato.
Riflessione: «Tutto ciò che facciamo richiede la collaborazione di diverse parti del corpo
che lavorano insieme. Abbiamo
bisogno gli uni gli altri».
OTTOBRE 2013
amico 67
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
La missione è riconoscere il
valore di ciascuno di noi.
Fornire a ciascun gruppo i pezzi
di un puzzle che raffiguri un
corpo umano (a seconda dello
spazio disponibile: nasconderli
oppure portarli a staffetta). A
ogni puzzle mancherà un
pezzo, una parte del corpo diversa per ogni gruppo.
Una volta composti i puzzle i
ragazzi si accorgeranno che
non sono completi.
L’animatore provoca i ragazzi
con le seguenti domande:
- Quale parte del corpo manca
nel vostro puzzle?
- Che cosa non può fare questo
bambino nel puzzle?
- Che cosa accadrà al corpo se
la parte mancante continuerà a
mancare?
- Che cosa succede al corpo
quando una parte smette di
funzionare?
© Af MC/M Conti 2010
1. LA PARTE MANCANTE
DEL CORPO
Infine l’animatore legge e commenta 1Cor 12,17-20: «Se il
corpo fosse tutto occhio, dove
sarebbe l’udito? Se fosse tutto
udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo,
come egli ha voluto. Se poi
tutto fosse un membro solo,
dove sarebbe il corpo? Invece
molte sono le membra, ma uno
solo è il corpo».
3. ATTACCA LA PARTE
AL TUTTO
La missione è camminare
insieme.
Il gioco è simile a quello che si
chiama «attacca la coda all’asino». I ragazzi devono attaccare le diverse parti del puzzle
al posto giusto su un busto
umano. Non è un singolo ragazzo a giocare ma più ragazzi
insieme che devono collaborare nel seguente modo:
*un bambino bendato rappresenta i piedi, e un altro con i
piedi legati che rappresenta la
bocca dà le indicazioni;
*un bambino con piedi legati e
occhi bendati che rappresenta
le mani, attacca un cartellino
portato in braccio da due bambini che sono piedi e occhi;
*un bambino con bocca bendata che rappresenta gli occhi,
deve attaccare il cartellino seguendo le indicazioni di un altro che fa da bocca.
L’animatore propone la seguente riflessione: l’occhio non
può dire alla mano, non ho bisogno di te. E la mano non può
dire al piede, non ho bisogno
di te. Tutte e tre le parti del
corpo sono necessarie per vincere la partita. Abbiamo tutti
bisogno di un altro.
L’animatore legge e commenta
1Cor 12,21-22: «Non può l'occhio dire alla mano: “Non ho
bisogno di te”; né la testa ai
piedi: “Non ho bisogno di voi”.
Anzi quelle membra del corpo
che sembrano più deboli sono
più necessarie».
68 amico
OTTOBRE 2013
La missione è farsi carico
delle sofferenze degli altri.
I ragazzi di ogni gruppo vengono suddivisi in sottogruppi
da cinque. Un ragazzo sarà la
testa e il busto (preferibilmente
seduto su una sedia). Gli altri
quattro saranno gli arti che devono compiere alcune azioni:
- dire «Buongiorno!» e salutare
qualcuno;
- starnutire e soffiarsi il naso;
- battere le mani come in un
applauso;
- piegarsi in avanti e toccare i
piedi con le mani.
Poi si chiede di mimare la risposta a queste domande:
«Quando hai mal di pancia cosa
risponde il corpo? Come fai?».
Esempio di Risposta: corpo piegato nel dolore e le mani stringono la pancia (tutti i gruppi lo
fanno).
«Se cadi e ti ferisci il ginocchio
sinistro, come reagisci?».
Il corpo è piegato verso il
basso e le mani tengono il ginocchio sinistro nel dolore (tutti
lo fanno).
«Quando sai che hai vinto un
premio in un concorso d’arte
come rispondi?».
L’animatore legge e commenta
1Cor 12,25-26: «Perché non vi
fosse disunione nel corpo, ma
anzi le varie membra avessero
cura le une delle altre. Quindi
se un membro soffre, tutte le
membra soffrono insieme; e se
un membro è onorato, tutte le
membra gioiscono con lui».
Spunti per la riflessione: «Avete
notato che quando una parte
del corpo è felice, le gambe
saltano di gioia e le mani battono. Allo stesso modo,
quando una parte del corpo è
nel dolore (ad esempio, è infortunato il ginocchio o si ha mal
di pancia), le altre parti del
© Af MC/R Polato 2010
4. SEGUIRE QUELLA
PARTE DEL CORPO
corpo sono colpite. Il nostro
corpo è costituito da molte
parti e sono tutte collegate tra
loro. Se una parte non sta bene
è colpito tutto il corpo». «Allo
stesso modo, la Chiesa, il corpo
di Cristo, è un solo corpo con
molte parti collegate tra loro.
Così, quando ti accorgi che un
tuo amico si sente giù o triste,
che cosa devi fare?». «Siamo in
grado di dargli un orecchio in
ascolto, un po’ di incoraggiamento, un abbraccio o una
pacca sulla spalla. Quando il
nostro amico/a è felice per
qualcosa, siamo in grado di
congratularci o dare un highfive!».
5. UNA MANO
AIUTA L’ALTRA
La missione è aiutarsi a vicenda.
In questa tappa l’animatore
legge la storia seguente e poi
chiede ai ragazzi di rappresentarla.
«Ci sono due ragazzi: uno è
senza le braccia e un altro è
cieco. Devono aiutarsi. Ma
mentre cercano di farlo uno dei
due diventa egoista.
Colui che non può vedere,
deve andare in un posto ma
non vede la strada. E colui che
non ha le braccia lo aiuta mostrando il cammino con la
gamba. Nella difficoltà si stancano, arrivano a un posto, si
fermano e sentono già fame e
sete.
6. COME CURARE IL
CORPO…
La missione è curare il corpo di
Cristo.
Il corpo ha anche bisogno di
essere curato e sostenuto; a
noi sembra una cosa scontata,
ma non è così in ogni parte del
mondo. L’animatore propone
la visione di un video sull’ospedale di Wamba (Kenya) o
su un’altra opera sanitaria missionaria nel mondo.
7. UN CORPO,
DIVERSE MEMBRA
La missione è accettare e
armonizzare le diversità.
Ogni gruppo viene suddiviso
in gruppi più piccoli: a ogni
sottogruppo viene chiesto di
disegnare una parte di un
corpo (testa, braccia, gambe,
mani, piedi, busto…). Però
ogni gruppo non sa cosa faranno gli altri. Nel complesso
potrebbero esserci alla fine diverse parti di corpo di forma,
dimensione, colore diverso.
Alla fine l’animatore invita i ragazzi ad assemblare le varie
parti per comporre un unico
NOTA
L’attività che proponiamo
per il mese missionario, o
comunque per organizzare
una giornata missionaria, è
stata elaborata durante
l’estate 2013. Essa prende
spunto dal tema che la
Diocesi di Milano ha proposto per l’estate 2013
«Every body, un corpo mi
hai preparato».
http://www.chiesadimilano.it/pgfom/oratorio-eragazzi/servizioragazzi/oratorio-e-ragazzi/every-body-uncorpo-mi-hai-preparato1.72376.
Alla proposta di animazione hanno partecipato
diverse parrocchie trascorrendo l’intera giornata al
centro di animazione di
Bevera.
corpo che verrà attaccato su
un cartellone.
Ogni corpo così realizzato può
essere portato alla preghiera
finale.
Peter Njoroge e
équipe Amv Bevera
OTTOBRE 2013
amico 69
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
© Af MC/L Gallo 2012
Subito gridano chiedendo da
mangiare e da bere. Qualcuno
offre volentieri da mangiare.
Ma come fare? Quello che ha
le braccia non può vedere e
quello che vede non può prendere il cibo: il ragazzo che vede
e non ha le braccia dice al suo
compagno: «Alzo la mia gamba
e ti indico dove è il cibo, così
mi dai da mangiare e dopo
mangi tu». Il suo compagno è
d’accordo ma quando trova il
cibo non vuole darlo più al suo
compagno. Dopo molta insistenza gli concede qualcosa ma
alla fine lui ha mangiato di più.
Dopo tanto tempo a chiedere e
senza ricevere il ragazzo senza
le braccia si arrabbia e si allontana buttando via il bastone del
suo compagno. Questi piange
chiedendogli di tornare ad aiutarlo ma lui non torna».
L’animatore lascia una decina
di minuti perché il gruppo abbia il tempo di rappresentare la
storia (prevedendo anche alcuni oggetti che possono aiutare a rappresentare meglio, ad
esempio qualche vestito, il bastone, il cibo). L’animatore può
scattare qualche foto del lavoro finale.
Spunti per la riflessione:
«Quanto valore ha un corpo
completo e quanto soffre un
corpo incompleto. La collaborazione uno con l’altro non è un
favore ma una necessità ed è
fondamentale nella vita.
Voce di Pietro
di Papa Francesco
© Af MC/E Balboni 2012
«Sulle strade del
mondo» è il tema
della prossima Giornata
Missionaria Mondiale.
Proponiamo in queste pagine alcuni stralci del
messaggio scritto da
papa Francesco per
l’occasione.
Sulle strade
del mondo
C
ari fratelli e sorelle,
quest’anno celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale mentre si sta concludendo
l’Anno della fede […].
La fede è dono prezioso di Dio […]. Egli
vuole entrare in relazione con noi per farci
partecipi della sua stessa vita e rendere la nostra
vita più piena di significato, più buona, più bella.
Dio ci ama! La fede, però, chiede di essere accolta, chiede cioè la nostra personale risposta, il
coraggio di affidarci a Dio, di vivere il suo amore,
grati per la sua infinita misericordia. È un dono,
poi, che non è riservato a pochi, ma che viene offerto con generosità. Tutti dovrebbero poter
sperimentare la gioia di sentirsi amati da Dio, la
gioia della salvezza! Ed è un dono che non si può
tenere solo per se stessi, ma che va condiviso. Se
noi vogliamo tenerlo soltanto per noi stessi, diventeremo cristiani isolati, sterili e ammalati. […].
Ogni comunità è «adulta» quando professa la
fede, la celebra con gioia nella liturgia, vive la carità e annuncia senza sosta la Parola di Dio,
uscendo dal proprio recinto per portarla anche
nelle «periferie», soprattutto a chi non ha ancora
avuto l’opportunità di conoscere Cristo. […].
1.
70 amico
OTTOBRE 2013
[…] La missionarietà non è solo una que2.
stione di territori geografici, ma di popoli, di
culture e di singole persone, proprio perché i
«confini» della fede non attraversano solo luoghi
e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e
di ciascuna donna. […].
Spesso l’opera di evangelizzazione trova
ostacoli non solo all’esterno, ma all’interno
della stessa comunità ecclesiale. A volte sono
deboli il fervore, la gioia, il coraggio, la speranza
nell’annunciare a tutti il Messaggio di Cristo e
nell’aiutare gli uomini del nostro tempo ad incontrarlo. A volte si pensa ancora che portare la
verità del Vangelo sia fare violenza alla libertà.
Paolo VI ha parole illuminanti al riguardo: «Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza
dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza di Gesù
Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto
delle libere opzioni che essa farà è un omaggio a
questa libertà» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi,
80). Dobbiamo avere sempre il coraggio e la
gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo, Gesù è venuto in mezzo a noi per indicare la via della sal-
3.
vezza, ed ha affidato anche a noi la missione di
farla conoscere a tutti, fino ai confini della terra.
Spesso vediamo che sono la violenza, la menzogna, l’errore ad essere messi in risalto e proposti.
È urgente far risplendere nel nostro tempo la vita
buona del Vangelo con l’annuncio e la testimonianza, e questo dall’interno stesso della Chiesa.
Perché […] non si può annunciare Cristo senza la
Chiesa. Evangelizzare non è mai un atto isolato,
individuale, privato, ma sempre ecclesiale. […]. E
questo dà forza alla missione e fa sentire ad ogni
missionario ed evangelizzatore che non è mai
solo, ma parte di un unico Corpo animato dallo
Spirito Santo.
Nella nostra epoca, la mobilità diffusa e la
facilità di comunicazione attraverso i new
media hanno mescolato tra loro i popoli, le conoscenze, le esperienze. […]. Inoltre, in aree sempre più ampie delle regioni tradizionalmente cristiane cresce il numero di coloro che sono estranei alla fede, indifferenti alla dimensione religiosa o animati da altre credenze. Non di rado
poi, alcuni battezzati fanno scelte di vita che li
conducono lontano dalla fede, rendendoli così
bisognosi di una «nuova evangelizzazione». A
tutto ciò si aggiunge il fatto che ancora un’ampia
parte dell’umanità non è stata raggiunta dalla
buona notizia di Gesù Cristo. Viviamo poi in un
momento di crisi che tocca vari settori dell’esistenza, non solo quello dell’economia, della finanza, della sicurezza alimentare, dell’ambiente,
ma anche quello del senso profondo della vita e
dei valori fondamentali che la animano. […]. In
questa complessa situazione, dove l’orizzonte
del presente e del futuro sembrano percorsi da
nubi minacciose, si rende ancora più urgente portare con coraggio in ogni realtà il Vangelo di Cristo, che è annuncio di speranza, di riconciliazione, di comunione, annuncio della vicinanza di
Dio […]. L’uomo del nostro tempo ha bisogno di
una luce sicura che rischiara la sua strada e che
solo l’incontro con Cristo può donare. Portiamo a
questo mondo, con la nostra testimonianza, con
amore, la speranza donata dalla fede! […].
Vorrei incoraggiare tutti a farsi portatori
della buona notizia di Cristo […]. Faccio appello a quanti avvertono tale chiamata a corrispondere generosamente alla voce dello Spirito,
secondo il proprio stato di vita, e a non aver
paura di essere generosi con il Signore. […]. Insieme esorto i missionari e le missionarie […] a vivere con gioia il loro prezioso servizio nelle
Chiese a cui sono inviati, e a portare la loro gioia
e la loro esperienza alle Chiese da cui provengono […]. Essi possono diventare una via per una
sorta di «restituzione» della fede, portando la
freschezza delle giovani Chiese, affinché le
Chiese di antica cristianità ritrovino l’entusiasmo
e la gioia di condividere la fede in uno scambio
che è arricchimento reciproco nel cammino di se-
4.
quela del Signore. […]. Un pensiero infine ai cristiani che, in varie parti del mondo, si trovano in
difficoltà nel professare apertamente la propria
fede e nel vedere riconosciuto il diritto a viverla
dignitosamente. Sono nostri fratelli e sorelle, testimoni coraggiosi - ancora più numerosi dei martiri nei primi secoli - che sopportano con perseveranza apostolica le varie forme attuali di persecuzione. Non pochi rischiano anche la vita per rimanere fedeli al Vangelo di Cristo. Desidero assicurare che sono vicino con la preghiera alle persone, alle famiglie e alle comunità che soffrono
violenza e intolleranza e ripeto loro le parole
consolanti di Gesù: «Coraggio, io ho vinto il
mondo» (Gv 16,33). […].
Dal Vaticano, 19 maggio 2013,
Solennità di Pentecoste
Francesco
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
5.
di Dorella Lodeserto
© Af MC/E Balboni 2012
Per la preghiera
Al centro dell’assemblea è
posta una «strada» (di cartoncino o un tappeto) su cui, a
ogni «passo» della preghiera,
verrà poggiata un’orma recante il titolo del «passo»
corrispondente. Al fondo
della strada ci sono un mappamondo e una croce coi cinque colori dei continenti.
Guida: «“Andate e fate discepoli tutti i popoli!”. Si tratta
della grande esortazione missionaria che Cristo ha lasciato
alla Chiesa intera e che rimane
attuale ancora oggi, dopo duemila anni. Ora questo mandato
deve risuonare con forza nel
vostro cuore... sono contento
che anche voi, cari giovani,
siate coinvolti in questo slancio
missionario di tutta la Chiesa:
far conoscere Cristo è il dono
più prezioso che potete fare
agli altri».
Canto: E la strada si apre.
I PASSO: LA CHIAMATA
Guida: «Oggi non pochi giovani
dubitano profondamente che la
vita sia un bene e non vedono
chiarezza nel loro cammino...
La luce della fede illumina questa oscurità, ci fa comprendere
che ogni esistenza ha un valore
inestimabile, perché frutto dell’amore di Dio... Cari giovani,
voi siete i primi missionari tra i
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Uno schema
di preghiera che
prende spunto dalle parole fortemente missionarie
che papa Benedetto XVI ha
lasciato ai giovani nel
messaggio preparatorio per
la Giornata mondiale
della gioventù a
Rio de Janeiro.
Il cammino
della missione
vostri coetanei! ...è in gioco la
salvezza dell’umanità e la salvezza di ciascuno di noi».
Lettore 1: Vocazione. È la parola che dovresti amare di più,
perché è il segno di quanto sei
importante agli occhi di Dio. È
l’indice di gradimento, presso
di Lui, della tua fragile vita. Sì,
perché se ti chiama vuol dire
che ti ama. Gli stai a cuore, non
c’è dubbio. In una turba sterminata di gente, risuona un nome:
il tuo.
(Tonino Bello)
II PASSO: DIVENTARE
DISCEPOLI
Guida: «Il Beato Giovanni Paolo
II scriveva: “La fede si rafforza
donandola”. Annunciando il
Vangelo voi stessi crescete...
Ma che cosa vuol dire essere
missionari? Significa anzitutto
essere discepoli di Cristo... Si
tratta dunque, per ciascuno di
voi, di lasciarsi plasmare ogni
giorno dalla Parola di Dio».
Tutti a cori alterni:
Chiamato ad annunciare la tua
Parola, aiutami, Signore, a vivere di Te e a essere strumento
della tua pace.
Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole,
quando veicolano la tua, non
suonino false sulle mie labbra.
Esercita su di me un fascino
così potente, che io abbia a
pensare come Te, ad amare
come Te, a giudicare la storia
come Te.
Trasportami dal Tabor della
contemplazione alla pianura
dell’impegno quotidiano.
E se l’azione inaridirà la mia
vita, riconducimi sulla montagna del silenzio. E il mio
sguardo missionario arriverà
più facilmente agli estremi confini della terra. (Tonino Bello)
III PASSO: ANDARE!
Lettore 2: Dal Vangelo
secondo Matteo (28,16-20).
Guida: «Evangelizzare significa
portare ad altri la Buona Notizia della salvezza e questa
Buona Notizia è una persona:
Gesù Cristo. Quando lo incontro, quando scopro fino a che
punto sono amato da Dio e salvato da Lui, nasce in me non
solo il desiderio, ma la necessità di farlo conoscere ad altri...
Più conosciamo Cristo, più desideriamo annunciarlo... Cari
giovani, lasciatevi condurre
dalla forza dell’amore di Dio,
lasciate che questo amore
vinca la tendenza a chiudersi
nel proprio mondo, nei propri
problemi, nelle proprie abitudini; abbiate il coraggio di
“partire” da voi stessi per “andare” verso gli altri e guidarli
all’incontro con Dio».
V PASSO: FARE DISCEPOLI
Guida: «L’annuncio di Cristo
non passa solamente attraverso
le parole, ma deve coinvolgere
tutta la vita e tradursi in gesti di
amore».
Lettore 3: Un giorno, uscendo
dal convento, san Francesco incontrò frate Ginepro. Era un
frate semplice e buono e san
Francesco gli voleva molto
bene. Incontrandolo gli disse:
«Frate Ginepro, vieni, andiamo
a predicare». «Padre mio» rispose, «sai che ho poca istruzione. Come potrei parlare alla
gente?». Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro
Guida: «Nessuno può essere te-
Lettore 4: Quando t’imbatti in
una cosa bella, la racconti. E
quando t’imbatti in una cosa
vera, la dici. E se hai capito che
la storia di Gesù ha illuminato il
cammino del mondo e dell’uomo dandogli senso, allora
lo racconti. Non puoi farne a
meno. E se l’incontro con Gesù
ha cambiato la tua esistenza
dandole forza, direzione,
senso, allora inviti gli amici a
condividerla. (Bruno Maggioni)
Guida: «Dio, nel suo amore so-
Tutti: Spirito Santo, che abiliti alla missione, donaci di riconoscere che, anche nel nostro tempo, tante persone sono
in ricerca della verità sulla loro
esistenza e sul mondo. Rendici
collaboratori della loro gioia
con l'annuncio del Vangelo di
Gesù Cristo, chicco del frumento di Dio, che rende buono
il terreno della vita e assicura
l’abbondanza del raccolto.
© Af MC/E Balboni 2012
Breve pausa di silenzio e riflessione personale.
VI PASSO: NELLA CHIESA
stimone del Vangelo da solo.
Gesù ha inviato i suoi discepoli
in missione insieme: “Fate discepoli” è rivolto al plurale... la
nostra missione è resa feconda
dalla comunione che viviamo
nella Chiesa».
IV PASSO: VERSO TUTTI
vrabbondante, vuole che tutti
siano salvi e nessuno sia perduto. Cari amici, volgete gli occhi e guardate intorno a voi:
tanti giovani hanno perduto il
senso della loro esistenza. Andate! ... I “popoli” ai quali
siamo inviati non sono soltanto
gli altri paesi del mondo, ma
anche i diversi ambiti di vita: le
famiglie, i quartieri, gli ambienti di studio o di lavoro, i
gruppi di amici e i luoghi del
tempo libero... ».
acconsentì. Girarono per tutta
la città, pregando in silenzio
per tutti coloro che lavoravano
nelle botteghe e negli orti. Sorrisero ai bambini, specialmente
a quelli più poveri. Scambiarono qualche parola con i più
anziani. Accarezzarono i malati.
Aiutarono una donna a portare
un pesante recipiente pieno
d’acqua. Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san
Francesco disse: «Frate Ginepro, è ora di tornare al convento». «E la nostra predica?».
«L’abbiamo fatta... L’abbiamo
fatta».
(Bruno Ferrero)
(Benedetto XVI)
Canto finale: Andate per le
strade.
Dorella Lodeserto
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amico 73
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
Infondi in me una grande passione per la Verità, salvami dalla
presunzione di sapere tutto.
© Af MC/R Polato 2010
Bibbia on the road
di Antonio Magnante
La fede
secondo Paolo
aolo è un personaggio
complesso e affascinante:
da persecutore delle
Chiese diventa l’annunciatore
instancabile della fede. I cristiani della Galazia parlano
della sua conversione in questi
termini: «Colui che una volta ci
perseguitava va ora annunciando la fede che un tempo
devastava» (Gal 1,23). Da persecutore egli diventa «l’evangelizzatore della fede» (cf. Atti
26,11).
Nell’espressione «annunciare/
evangelizzare la fede», il termine «fede» non va inteso
come un insieme di verità da
credere (si pensi al Credo che si
recita nella S. Messa), nonostante esse non vengano
escluse, ma principalmente
come un’adesione personale a
Gesù Cristo. In questo modo
Gesù diventa l’elemento centrale su cui si misura l’esistenza
del cristiano.
P
74 amico
OTTOBRE 2013
VIVO NON PIÙ IO, MA
VIVE IN ME CRISTO
Paolo esprime questa convinzione nella famosa espressione:
«Vivo non più io, ma vive in me
Cristo. La vita che io vivo adesso
nella carne, la vivo nella fede
del Figlio di Dio che mi amò e
consegnò se stesso per me»
(Gal 2,20). Paolo qui sottolinea
la relazione interpersonale tra
lui e Gesù Cristo. La sua affermazione farebbe addirittura
pensare a un sopravvento della
personalità di Cristo su quella
del credente. Cristo ha preso
possesso della vita di Paolo, infatti egli dice: «Vive in me Cristo», e subito aggiunge: «Vivo
nella fede del Figlio di Dio».
Questa precisazione ci fa capire
in che senso Cristo prende possesso della sua vita. È il totale
abbandono a Cristo che permette a Paolo di entrare nella
vita del credente e stabilire con
Gesù una relazione profonda,
In occasione
dell’anno della fede,
indetto dal papa
Benedetto XVI,
proponiamo il terzo
e ultimo articolo
della serie sulla prima
delle tre virtù
teologali
una comunione che diventa un
costante dono di reciproca presenza. Questa è la ragione per
cui Paolo considera la fede non
come un assenso dato dalla
mente a un insieme di verità, ma
come un abbandonarsi senza
condizioni a Cristo. La fede, tuttavia, non è un atto irrazionale
perché si fonda sulla stessa
azione di Cristo, il quale, come
dice Paolo: «Mi ha amato e ha
consegnato se stesso per me».
L’azione storica di Gesù costituisce per Paolo il solido fondamento per la fede. Cristo ha
suggellato il suo amore per noi
con il dono della sua vita. Anche
Matteo 20,28 e Marco 10,45 affermano che il Figlio dell’uomo
è venuto «per dare la vita in riscatto per molti». Paolo personalizza l’espressione e invece di
dire «per i nostri peccati» (1Cor
15,3), ovvero «per molti» (Mt
20,28; Mc 10,45), egli dice: «Per
me».
È evidente che Paolo voglia enfatizzare la sua relazione personale con Cristo per eliminare
ogni possibile riferimento a
un’adesione meramente
astratta.
All’azione di Gesù di consegnare se stesso «per me», corrisponde un’adesione affettiva e
totalizzante da parte del credente. Se Cristo diventa il centro e il fulcro della vita del credente si realizza nel mondo una
nuova creazione, in alternativa
si rimane a osannare gli eroi
estemporanei che appaiono
sull’orizzonte e poi si dileguano
nell’arco di una generazione.
Al grande abisso di generosità
del Cristo, potrà mai esserci
una risposta di fede adeguata?
Che grande mistero! «Per me»,
«per noi» Cristo ha consegnato
se stesso spontaneamente al
dramma della croce. Per questo io posso affidare totalmente me stesso a lui nella
fede.
In Gal 2,19 Paolo scrive: «Sono
stato crocefisso con Cristo».
Questo fa capire che l’atto di
fede non è indirizzato alla persona di Cristo in astratto, ma
alla sua passione intesa come
azione redentrice. Affermando
che egli «è stato crocefisso con
Cristo», Paolo vuole sottolineare un legame fortissimo con
Cristo, un immedesimarsi affettivo ed esistenziale. Paolo qui
usa la forma verbale greca del
perfetto per indicare il risultato
perdurante di un’azione passata: «Sono stato crocefisso
con Cristo e lo sono ancora».
L’unione che Paolo sperimenta
con la morte di Cristo è un’esperienza così totalizzante che
nella lettera ai Filippesi afferma: «Per me vivere è Cristo»
(1,21). Qui Paolo si riferisce al
Cristo totale, che comprende
passione, morte, sepoltura e
resurrezione. La fede per Paolo
è il mezzo unico e indispensabile per divenire una nuova
creazione (vedi Gal 6,15; 2Cor
5,17).
CHI MI SEPARERÀ?
Egli si sente talmente unito a
Cristo che, in un momento di
fervore quasi mistico, afferma:
«Chi mi separerà dall’amore di
Cristo? Forse la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la
fame, la nudità, il pericolo, la
spada?» (Rm 8,35). Subito
dopo aggiunge: «Io sono convinto che né morte, né vita, né
angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze
né altezza né profondità, né altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio, in Cristo, nostro Signore» (Rm 8,38-39). La
lista dei possibili ostacoli è veramente impressionante. Ab-
braccia le diverse dimensioni
del cosmo. In nessun punto del
mondo esistente si troverà un
ostacolo che possa in qualche
maniera sviare la fede di Paolo
che ha per fondamento Cristo
(cf. 1Cor 3,11).
A questo punto sorge spontanea la domanda: Come si può
arrivare ad una così profonda
fede? Per Paolo la fede è una
reazione alla predicazione del
Vangelo. Il cammino della
stessa fede, dunque, comincia
con l’ascolto del Vangelo o
della parola che riguarda Cristo
e il suo ruolo salvifico. La fede,
perciò, «dipende dalla predicazione e la predicazione a sua
volta si attua per la parola di
Cristo» (Rm 10,17). Il semplice
ascolto può favorire un assenso
intellettuale alle verità che riguardano Cristo. Tuttavia un
semplice «sì» della mente non
è la fede di cui parla Paolo. Per
lui l’ascolto della parola del
Vangelo deve sfociare «nell’obbedienza della fede» (Rm 1,5;
16,26), che consiste in una totale e incondizionata sottomissione a Cristo e in un impegno
di tutta la persona con Dio in
Cristo. Infatti Paolo afferma:
«Poiché se confesserai con la
tua bocca che Gesù è il Signore
e crederai con il tuo cuore che
Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvo» (Rm 10,9). Di qui ne
consegue che la fede in Dio o
in Cristo (1Tess 4,14; 1Cor
1,21-23; Rm 4,24) è un impegno esistenziale verso Cristo
stesso che investe tutta la persona del credente in termini di
relazioni con Dio, con le persone e con la natura. Il vero
atto di fede induce il credente
a uscire da se stesso per esprimere la sua volontà di poggiare
la sua esistenza su Cristo. Non
si confida più in se stessi, ma si
confida unicamente su quanto
Gesù ha detto e fatto nel suo
ministero pubblico. La fede ha
tutte le connotazioni dell’amore: il dono di una perenne
presenza reciproca per vivere in
una osmosi rigenerante.
Antonio Magnante
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AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
ADESIONE A UN «TU»
© Af MC/L Montanari 2010
Parole di corsa
Suor Mariangela
Mesina, missionaria
della Consolata, originaria
di Dorgali (Nu), è stata in Liberia e in Kenya per un totale di
26 anni di missione tra la gente,
con le donne, con ragazzi e giovani. Dal 2007 è in Italia, prima a
Torino, ora a Martina Franca, impegnata nell’Animazione missionaria.
La sua passione per Dio e per le
sue creature fà di quest’intervista un’esplosione colorata e
vivissima di entusiasmo
missionario.
Diventare
cambiamento
I
miei occhi sono ancora pieni di luce quando ripercorro la «genesi» della mia vocazione.
Avevo raggiunto la mia famiglia al mare e all’alba contemplavo i riflessi del sole che sorgeva
dall’acqua: Dio mi si rivelava con la sua bellezza.
Avevo 18 anni e già lavoravo, ma la mia mente
cercava di scoprire qual’era la mia missione nella
vita. Essendo nata a Dorgali (Nu) il mare mi ha
sempre affascinato. Lasciarlo mi sarebbe costato
tanto, ma sentivo che dovevo abbandonarmi e
solcare quelle acque verso terre lontane dove
avrei potuto condividere il poco che avevo e che
ero.
Perché hai deciso di diventare missionaria e, soprattutto, perché missionaria della Consolata?
La fede che avevo ricevuto avrebbe dato gioia a
chi non aveva conosciuto Gesù, soprattutto pensavo ai tanti bambini e persone bisognose d’aiuto.
Non volevo correre il rischio di non essere inviata,
perciò la scelta fu di entrare in un istituto missionario. La bellezza e finezza della Consolata mi conquistò: la missione mi sembrava difficile e io non
all’altezza, ma il 15 agosto, festa dell’Assunta,
promisi a Maria che sarei stata sua missionaria!
Puoi raccontare brevemente la tua missione?
Quel 15 agosto si rivelò poi una data significativa
nella mia vita. Partii per la mia prima missione in
Liberia proprio il 15 agosto 1980. Per 10 anni sono
76 amico
OTTOBRE 2013
stata impegnata nella promozione della donna, in
visite ai villaggi, ai giovani, e nel cammino di fede
dei catecumeni. Nell’89 scoppiò la sanguinosa
guerra guidata da Charles Taylor e nell’agosto del
1990 abbiamo dovuto lasciare la missione. Per
qualche giorno siamo state rifugiate in Costa D’Avorio e poi rimpatriate. In quale giorno? Il 15 agosto! Come non vedere la mano della nostra Madre
Consolata e Consolatrice?!
Mentre attendevo che si riaprisse la Liberia, fui
chiamata ad aiutare in Kenya. Sarebbe stato per
un breve periodo, ma ci rimasi per 16 anni. Il
Kenya mi entusiasmò: l’apertura e il desiderio di
Dio che i giovani avevavo mi aiutarono a dare
tutto quello che potevo. Lavorai nella zona di
Meru e in Nairobi con i gruppi laici, le giovani in
discernimento vocazionale, i bambini di strada...
Dove ti trovi oggi?
Italia! Nel 2007 andai a Torino. Dal 2010 sono a
Martina Franca. Dopo 26 anni di Africa mi sentivo
straniera nella mia patria. Ma io riesco ad adattarmi in fretta e non ci volle molto a capire che anche qui potevo dare il meglio di me stessa.
Che lavoro stai svolgendo?
L’animazione missionaria fra i giovani, i ragazzi e
nelle parrocchie. Collaboro anche col Centro diocesano missionario e con Migrantes. Un’altra attività che svolgo è quella con le coppie di sposi che
© Af.MC/R. Polato 2010
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
© Af MC
vogliono vivere il loro matrimonio come una vocazione e un cammino di santità.
Qual è la difficoltà più grande che incontri?
Vivere un rinnovamento della mente e del cuore
per essere in grado di innescare la vera «Nuova
Evangelizzazione».
Qual è la soddisfazione più grande?
La gente di Martina è accogliente, aperta all’amicizia e generosa. È una gioia grande sperimentare
l’amicizia e tessere rapporti di fede e preghiera.
Ci racconti un episodio significativo della tua
vita missionaria?
Ho difficoltà nello sceglierne uno: ne avrei tantissimi con i bambini di strada, la gioventù, i laici.
Forse ce n’è uno che può riassumere il significato
della mia vocazione missionaria. Durante la mia
prima missione, una donna chiamata Joy iniziò il
catecumenato. Joy non godeva di buona fama nel
paese a causa della sua vita libera dopo essersi separata dal marito. Spesso veniva a trovarmi a casa
con le sue due bimbe, e una di queste, Margareth,
diceva che voleva diventare suora come me. Il desiderio di conoscere Gesù e la fede crescevano in
Joy ogni giorno di più e la sua vita cambiò radicalmente. Ricevette tutti i sacramenti d’iniziazione e
insieme a lei furono battezzate le due bimbe. Ringraziandomi mi disse: «Sorella, tu da un diavolo
che ero, hai fatto di me un angelo!» (non io naturalmente, ma Dio!).
Joy capì che il dono della fede lo doveva condividere con gli altri (in Liberia solo il 2% sono cattolici) e così frequentò il corso di catechista. S’impegnò tanto e durante la guerra andava nelle zone
dei rifugiati. Non solo a evangelizzare e a pregare
con la gente, ma anche a insegnare come usare le
granaglie (sconosciute in Liberia) che venivano
distribuite dalle Ong. Così Joy salvò tanta gente
dalla fame fisica, ma anche spirituale.
E Margareth si fece suora?
Sì! Anche lei divenne un’evangelizzatrice in una
congregazione locale!
Quali sono le sfide missionarie del futuro?
La grande sfida è quella di saper esprimere la
Buona Notizia del Vangelo di Gesù in un linguaggio comprensibile per la mentalità e la sensibilità
della gente di qualunque posto e età essa sia. Essere persone di speranza è un’altra sfida, perché si
aiuta le persone a dare un senso alla vita solo se si
incarnano i valori che durano. L’apertura allo «straniero», a chi vive ai margini (o fuori) dei nostri
«confini» darà alla missione un futuro.
Che cosa possiamo offrire al mondo come famiglia missionaria della Consolata?
Il Carisma della Consolazione che Giuseppe Allamano ci ha trasmesso è un dono grandissimo da
condividere con le persone. Il mondo d’oggi è assetato d’amore e di consolazione. Lo spirito di famiglia caratteristico del nostro istituto è un altro
tesoro che possiamo offrire per arginare il dilagare
dell’individualismo e della solitudine.
Come coinvolgere in questo i giovani?
Per prima cosa dobbiamo conoscere la loro vorticosa trasformazione di mentalità. Conoscerne il
modo di sentire, di apprendere, di relazionarsi.
Una statistica dice che i giovani sono molto più interessati alla fede degli adulti; il problema è che
non ci rinnoviamo e non offriamo loro «un piatto
appetitoso», «un’ancora di salvezza».
Che frase, slogan, citazione proporresti ai giovani dei nostri centri missionari, e perché?
«Diventare il cambiamento che vogliamo vedere
nel mondo!» (Mahatma Gandhi). In tutti c’è un desiderio, anzi una brama insaziabile di vedere presto una situazione migliore a tutti i livelli... e sicuramente questo cambiamento può avverarsi nella
misura in cui avviene in me, perché ciascuno, e
specialmente i giovani, ha l’energia, l’entusiasmo
e la capacità di guidare positivamente il corso
della vita, della storia e della missione.
Luca Lorusso
Missione & Missioni
242 parole che
ti cambiano la vita
l Signore mi chiama a dare tutto e la mia
risposta è ormai chiara e riempie le mie
preghiere e le mie riflessioni: voglio dargli
tutto. Voglio affidarmi a Lui ed essere strumento
missionario nelle sue mani. È Lui quell’ Amore
grande di cui faccio esperienza. È solo Sua la
bellezza che gli altri dicono di vedere in me, ed
è sempre Lui a rendermi “luogo accogliente”
per le persone. È con Lui che mi piace semplicemente stare, assaporando la sua presenza nel silenzio. È Lui che voglio annunciare e testimoniare con la vita. Ed è nella famiglia della Consolata che voglio dire a Lui il mio sì…»
Queste sono alcune frasi della lettera che hai
scritto per chiedere di iniziare il percorso per diventare missionaria della Consolata.
Sì, in tutta la lettera vi sono 242 parole, quelle che
daranno una svolta fondamentale alla mia vita.
Chi è Francesca Allasia?
Ho 25 anni, la laurea magistrale in filosofia, e sono
animatrice al Centro di Animazione Missionaria dei
missionari della Consolata a Torino.
Com’ è cominciato il cammino che ti ha portato
alla decisione di dedicare la tua vita al Signore
diventando missionaria?
© Af MC/F Allasia 2012
«I
di Nicholas Muthoka
Premetto che ogni camNello
scorso numero
mino è personale e
di giugno abbiamo
ciascuno ha la propubblicato un articolo a
pria storia e i propri
firma di Francesca e p. Nitempi. Quando
cholas che parlava della feavevo 17 anni, ero
licità del sentirsi amati.
impegnata in oraIn questo numero p. Nicholas
torio, facevo dopointervista Francesca sulla
sua decisione di diventare
scuola e frequenmissionaria della Consotavo un gruppo di
lata, sulla gioia di ricoetanei. Nonspondere «sì».
ostante tutto
questo, sentivo
una certa inquietudine, cercavo qualcosa di più, qualcosa di diverso al quale ancora non riuscivo a dare un
nome. Avevo bisogno di allargare i miei orizzonti e
ho cominciato a cercare… Dopo aver girato un po’ di
posti sono approdata dai missionari della Consolata
e da lì non mi sono più mossa.
Sono arrivata al Centro di animazione per curiosità, vi
sono rimasta perché mi sono sentita a casa e ho iniziato il discernimento perché mi sono sentita chiamata a impegnare la mia vita per la Missione.
Vi sono stati un episodio, una lettura o un incontro particolarmente significativi che ti hanno
fatto pensare a questa scelta di vita?
Gli incontri con padri e suore impegnati «sul campo»
sono stati per me molto importanti. Mi ha colpito la
loro immediatezza, la loro capacità di accoglienza, la
loro schiettezza e semplicità, il loro essere presenti,
pronti all’ascolto e all’incontro. Mi ha stupito la costanza con la quale continuano a camminare accanto
punto di vista, che condivida la sua esperienza con te
e ti aiuti a mettere a fuoco le difficoltà e le gioie che
una determinata scelta di vita comporta. Solo
avendo ben presente tutte queste cose, la scelta finale (che è sempre e comunque personale) sarà più
libera e consapevole.
Inoltre un momento forte del discernimento è stata
l’esperienza di due mesi che ho fatto un anno fa nelle
missioni del Kenya.
Quando hai capito che il tuo discernimento era
giunto al termine?
Quando mi sono accorta che la mia vita (interessi,
sogni, attività) si stava muovendo tutta in quella direzione e ciò traspariva anche nei miei rapporti con
gli altri.
Hai mai avuto dubbi?
Certamente, nel periodo di discernimento, i dubbi ci
sono e ci devono essere!
Quali sono state le reazioni dei tuoi genitori
quando li hai informati della tua intenzione di diventare suora?
Per fortuna ho sempre potuto contare sul loro appoggio. Sono stati disponibili a condividere con me
questo percorso non solo manifestandomi le loro
preoccupazioni e le loro ansie, ma anche lasciandosi
coinvolgere nella mia scoperta del carisma consolatino. Adesso per loro è bello vedermi davvero felice.
Che cosa pensano i tuoi amici di questa tua
scelta?
Ci sono state le reazioni più diverse: indifferenza,
commozione, partecipazione, interesse, rifiuto. Vi è
anche chi, pur frequentando la chiesa, mi ha chiesto
tempo per elaborare la notizia e chi, pur non essendo credente, mi è particolarmente vicina.
Perché hai fatto una scelta di vita consacrata all’interno della Chiesa di oggi che sembra essere
incapace di adattarsi al nostro tempo, che appare concentrata sulla ricchezza, su quelli che il
Papa ha definito carrierismi e che è oggetto di
scandali?
È vero, nella Chiesa vi sono molte cose che non
vanno. Per fortuna nel corso del mio cammino, ho visto un altro volto della Chiesa: quello vicino ai poveri, agli ultimi, aperto al dialogo, all’accoglienza e
alla consolazione. Una Chiesa veramente missionaria
e anche io voglio esserne parte!
Come ti immagini tra 20 anni?
Citando i Blues Brothers, mi immagino serenamente
in missione per conto di Dio.
Che cosa diresti ai tuoi coetanei che stanno cercando il senso della loro vita?
Non stancatevi mai di cercare e non siate superficiali.
Tenete conto delle opinioni di chi è intorno a voi, non
vanno accettate o rigettate a scatola chiusa, ma sono
occasioni per approfondire la ricerca. Ricordatevi che
ogni scelta è personale e che nessuno può decidere
al vostro posto. E infine come ci ha detto papa Francesco: «La vita va messa in gioco per grandi ideali…
Fidatevi di Gesù!».
Nicholas Muthoka
OTTOBRE 2013
amico 79
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
alla gente, nonostante le difficoltà e le sfide che la
missione pone loro. Mi sono detta: «Da dove viene
tutta questa forza? Chi è o dov’è la sorgente della
gioia, dell’accoglienza, della consolazione e della testimonianza che queste persone quotidianamente
danno?
Ho capito che è il Signore, è il continuo rivolgersi a
Lui che rende possibile tutto ciò, è lo stare alla Sua
presenza; è l’aver donato a Lui la propria vita con abbandono fiducioso ed entusiasta, felici di immergersi
in quell’Amore grande e di dire: «Signore, eccomi!».
Riflettendo su questi aspetti mi sono accorta che riguardavano anche la mia vita, anche io mi sentivo coinvolta da quello sguardo paterno carico di tenerezza
che mi chiedeva di mettermi in cammino, cercando di
capire quale fosse il mio progetto da costruire con
Lui. La preghiera è stata il sostegno fondamentale
delle mie riflessioni.
Si sente spesso parlare di «discernimento» in che
cosa consiste?
A un certo punto diventiamo grandi e ci interroghiamo su ciò che stiamo facendo, sulle nostre scelte
future, su ciò che dà senso alla nostra vita e su ciò
che ci rende davvero felici. La vita diventa progetto e
il discernimento è mettersi in cammino per cercare di
realizzarlo. È un percorso di scoperta, di riflessione e
di valutazione delle diverse possibilità che si aprono
davanti a noi per trovare quella che è davvero giusta
per la nostra vita. Bisogna essere disposti ad affrontare un percorso serio di ricerca, a mettersi in discussione, ad andare in profondità e a cercare qualcuno
con cui potersi confrontare. lnfine bisogna avere il
coraggio di concretizzare, in una scelta coerente,
quanto si è maturato nella ricerca.
Non hai valutato altre scelte possibili di vita
come ad esempio la famiglia?
Come donna, sento la bellezza che vi è nel costruire
una famiglia e nella gioia di poter godere del miracolo della vita che si manifesta nei figli. Il «sì» degli
sposi è una risposta speciale all’amore del Signore.
Io però sento che la mia famiglia è il mondo, vicino
alla sofferenza, alla gioia, ai desideri, ai bisogni degli
uomini.
Quanto è durato il tuo discernimento?
Parallelamente agli studi universitari ho portato
avanti il discernimento. Sono stati anni ricchi di scoperta, di riflessione, di progressivo innamoramento
della missione.
È bello riflettere sulla vita nella sua totalità, così nel
mio cammino le esperienze di studio, di fede, di comunità si sono arricchite a vicenda, diventando complementari.
Durante il discernimento sei stata seguita da
qualcuno con il quale hai condiviso le tappe
della tua crescita spirituale?
Sì, sono stata seguita da una missionaria della Consolata con la quale mi incontravo ogni mese, condividendo riflessioni, domande e tappe del mio cammino. È importante avere una guida con la quale
confrontarsi, ci vuole un riferimento che ti dia il suo
Progetto Tanzania
© Af MC/E Balboni 2012
di Erasto Mgalama
AMICO
maestre
per l’infanzia
D
a quasi 15 anni i missionari della
Consolata di Morogoro (Tanzania)
seguono la formazione e l’educazione di bambini in quattro centri: Kasanga,
Mindu, Mafuru e Lugono, con una media di
60 bambini per ogni asilo.
Il contributo che i genitori di tre dei quattro asili, salvo quello di Kasanga, possono
dare è molto esiguo. Questo spinge i missionari della Consolata a cercare aiuto in
Italia per portare avanti il lavoro di scolarizzazione dei bambini, il futuro del paese. Il
peso del pagamento delle maestre è totalmente finanziato dalle offerte dei benefattori (una maestra viene pagata 80 Euro al
mese). Ci sono 10 maestre.
È da tempo che i missionari cercano di radunare e formare le maestre per garantire
che la distanza fra un asilo e l’altro e la povertà non diventino motivi di peggioramento della qualità dell’offerta educativa e
della demotivazione delle insegnanti.
L’idea dei missionari della Consolata è di
garantire due giorni di aggiornamento per
tre volte l’anno a ciascuna maestra.
Il costo dell’iniziativa sarebbe di 2700 Euro.
Grazie di cuore per il vostro aiuto.
P. Erasto Mgalama
Superiore Regionale Imc Tanzania
80 amico
OTTOBRE 2013
Dopo le due puntate dedicate al progetto
Maternità per il Congo R.D., ecco
un progetto nuovo: Amico Maestre
per l’infanzia dedicato al sostegno dei
quattro asili di Kasanga, Mindu, Mafuru e
Lugono (Morogoro, Tanzania) di cui si occupano i missionari della Consolata.
Sostieni anche tu quest’iniziativa.
Versa un contributo tramite il bollettino
allegato alla rivista specificando
la seguente causale:
AMICO. Progetto Maestre
per l’infanzia Tanzania.
Per altre info visita il nostro sito:
amico.rivistamissioniconsolata.it
TITOLO PROGETTO
Corsi di aggiornamento per le maestre dei
quattro asili di Morogoro, Tanzania.
OBIETTIVI
Mantenere alto il livello qualitativo dell’offerta educativa dei quattro asili di Kasanga,
Mindu, Mafuru, e Lugono, nel territorio di
Morogoro, Tanzania.
Costo per la partecipazione di un singolo
insegnante a un corso:
90 Euro
Per i tre corsi previsti durante l’anno
scolastico da offrire alle 10 maestre,
contributo richiesto:
2.700 Euro
RESPONSABILE
Padre Ippolito Marandu, Imc
[email protected]
Un seminario...
di Ippolito Marandu
che semina missione
arissimi amici di amico,
i nostri saluti piú sentiti dal
Una lettera
agli amici di
seminario di Morogoro a
amico dal responvoi che state facendo uno sforzo
del seminario di
sabile
cosí speciale per i piccolini degli
Morogoro che segue
asili presso le nostre cappelle di
il progetto Amico
Kasanga, Mindu, Mafuru e LuMaestre per
gono. Grazie infinitamente per il
l’infanzia.
vostro affetto. Anche se non siamo
parrocchia ma seminario, portiamo
avanti questi progetti perché danno
senso alla nostra missione e vita.Da missionari,
guardiamo ai piú piccoli e indifesi, quindi, i bambini dei villaggi poveri dove nessun’altro va.
Voi siete veramente dono e grazia perché è difficile per noi portare avanti il seminario e allo
stesso tempo l’impegno per i bambini poveri in
quattro villaggi. Con voi possiamo servire con
gioia.
Permettetemi di condividere con voi qualche
piccolo pezzetto della nostra vita quotidiana: in
questo momento godiamo anche della grazia di
cono (della Consolata) Antipas Tesha, presso la
vedere otto dei nostri ragazzi procedere per il
Cattedrale di Cristo Ré a Moshi (Kilimanjaro). Lui
loro noviziato. Hanno concluso con successo tre
viene da quelle parti. Dopo i suoi tre anni di filoanni di filosofia e la formazione iniziale per la
sofia qui a Morogoro, ha fatto il noviziato a Mavita religiosa missionaria. Cinque vanno a Saputo nel Mozambico e la teologia a Roma. Poi
gana nel Kenya, dove ho fatto il maestro dei noha fatto anche un’anno e mezzo di esperienza
vizi alcuni anni fa, e tre vanno a Maputo nel Mopastorale in Portogallo dove è stato ordinato
zambico. Chi va in Kenya non ha bisogno di imdiacono l’anno scorso. Quando si è fermato qui,
parare nessuna lingua nuova perché lí si parla
nel seminario, qualche tempo prima dell’ordinal’Inglese e lo Swahili come in Tanzania. Quelli
zione, dopo il suo arrivo dal Portogallo, ha detto
che vanno in Mozambico, invece, devono impaa tutti i seminaristi che si impara a fare il missiorare il Portoghese prima del noviziato. Il Portonario facendo il missionario. Secondo lui, si dighese è infatti la lingua nazionale del Mozamcono tantissime cose buone nel seminario, ma
bico.
quando si arriva in un’altra nazione, si scopre
Ciò che tocca il cuore di tutti è vedere l’entusiache il modo di pensare e di fare le cose è cosí dismo di questi ragazzi nel loro cammino verso la
verso da ció che si pensava prima. Bisogna
vita missionaria piena. Sono pronti per le sfide
quindi adattarsi alla vita concreta della gente e
che stanno davanti a loro. Mi fanno tantissime
al suo modo di vedere le cose.
domande sul perché ho fatto il missionario sia in
Auguro anche a voi, cari amici, di diventare misMozambico che in Kenya. Dico sempre loro che
sionari facendo i missionari, aperti alle genti diogni grazia è anche una responsabilitá. Non si
verse che abitano il mondo.
puó prevedere tutto. Fin dall’inizio, il missionaDi nuovo grazie.
rio deve imparare a consegnare il futuro e tutta
Siamo sempre un cuor solo e un’anima sola.
la sua vita a Dio senza riserva. La fiducia in Dio
Assieme formiamo la Chiesa e diventiamo misdiventa cosí cruciale, cosí importante.
sionari.
Alcune settimane fa, l’undici di luglio, assieme ai
Con preghiera e affetto sentito,
diaconi diocesani e ad altri di diverse congregaP. Ippolito Marandu
zioni, è stato ordinato sacerdote il nostro dia-
OTTOBRE 2013
amico 81
AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT
© Af MC/E Balboni 2012
C
Progetto Congo RD
Luca Lorusso
Progetto
maternità:
grazie!
o scorso gennaio
lanciammo il «Progetto Congo Maternità
Sans Fil» per completare un dispensario
maternità nel territorio della missione dei missionari della Consolata Mater Dei, nel quartiere Sans Fil, zona Sud-Ovest di Kinshasa, la
capitale della Repubblica Democratica del
Congo.
Come era già accaduto per i precedenti progetti, anche questa volta le donazioni dei lettori di amico sono riuscite a raggiungere, e
superare, la cifra necessaria.
Grazie dunque a ciascuno di voi.
Con la donazione di un tavolo, di un asciugamani, di un letto, di un wc, di una doccia,
ecc. avete contribuito in modo concreto a
migliorare le condizioni di vita di molte
donne e famiglie.
L
Vieni e... vedi
Sei in cerca
di un nuovo cammino, di un gruppo, di
uno stile di vita rinnovato. Hai desiderio di
conoscere più da vicino il
mondo, le missioni, i popoli con cui lavorano i
missionari della
Consolata...
Ecco i riferimenti di alcune delle case che puoi contattare.
Per le altre visita il sito www.missionariconsolataitalia.it
CERTOSA DI PESIO
CENTRO DI SPIRITUALITÀ
12010 Certosa di Pesio (Cn)
Tel: 0171 738123 / Fax: 0171 738284
http://www.certosadipesio.org
BEVERA (LC)
CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA
Via al Romitaggio 1 - Bevera 23884 - Castello di
Brianza (Lc) - Tel: 039 5310220 / Fax: 039 5311697
[email protected]
MARTINA FRANCA (TA)
CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA
P.zza M. Pagano 15 - 74015 - Martina Franca (Ta)
Tel: 080 4303122 / Fax: 080 4305225
Cerca Gruppo Consolata Martina Franca su Fb.
GALATINA (LE) - MISSIONI CONSOLATA
Via S. Vincenzo de’ Paoli 42 - 73013 Galatina (Le)
Tel: 0836 56 63281 / 0836 569197
[email protected]
82 amico
OTTOBRE 2013
BEDIZZOLE (BS)
CENTRO MISSIONARIO E FORMAZIONE
Via XX Settembre 56 - 25081 Bedizzole (Bs)
Tel: 030 674041 - 030 674888/ Fax: 030 674888
[email protected]
TORINO
CENTRO DI ANIMAZIONE MISSIONARIA
Corso Ferrucci 14 - 10138 Torino
Tel: 011 4400400, chiedi di p. Nicholas Muthoka
[email protected]
www.consolatacam.it - Cerca CAM Torino su Fb.
NERVESA DELLA BATTAGLIA (TV)
CASA MILAICO
Via Solstizio 2 - 31040 Nervesa della Battaglia (Tv)
Tel: 0422 771272 / Fax: 0422 771700
[email protected]
www.milaico.it - Cerca Gruppo Milaico su Fb.
Ti aspettiamo!
MENSILE DEI
MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FONDATO NEL 1899
PER SOSTENERE
I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
già «La Consolata» (1899-1928)
Tramite “Missioni Consolata Onlus”
L
a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità
Sociale) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi
del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI
CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora.
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