Economia Europa

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Economia Europa
Segretariato Europa CGIL
Politica economica in Europa
Indice
Premessa: azioni di politica economica.....................................................................................................1
Quadro macroeconomico pil .....................................................................................................................3
Quadro macroeconomico investimenti .....................................................................................................4
Quadro macroeconomico inflazione .........................................................................................................5
Quadro macroeconomico import-export..................................................................................................6
Bilancio Pubblico........................................................................................................................................6
Condizioni generali della produzione, produttività e ricerca e sviluppo ...............................................8
Produzione industriale e lavoro...............................................................................................................10
Lavoro .......................................................................................................................................................11
Premessa: azioni di politica economica
La crisi economica mondiale ha condizionato la crescita dell’Europa e molti osservatori
attribuiscono la minore dinamica del pil proprio alla congiuntura internazionale. Sono in
molti a ritenere che questa crisi sia molto più grave di quella che si può osservare dalla
sola minore crescita del reddito. Inoltre, gli organismi internazionali preposti a dare
delle risposte, così come altri organismi intermedi, sono indiscutibilmente più deboli. In
qualche modo si riaffaccia una intuizione di Einaudi: “il mercato non può esistere senza
altre istituzioni”. Si osserva una sorta di eccesso di potere del mercato che non può
essere risolto con più regole o liberalizzazioni, piuttosto dalla creazione-rafforzamento
di uno o più organismi capaci di controbilanciare questo eccesso di discrezionalità del
mercato. A ciò occorre aggiungere che lo stato nazione è più debole: quando decide di
adottare manovre finanziarie anticicliche, queste sono del tutto inadeguate per
determinare un’inversione di tendenza. Forse questa crisi finanziaria che condiziona gli
aspetti accumulativi del sistema produttivo può diventare utile. Potrebbe essere una
grande occasione per ridisegnare la programmazione economica a livello internazionale
o almeno comunitario. Infatti, gli interventi di soccorso delle istituzioni pubbliche verso
il sistema finanziario per rispondere alla crisi dei subprime dovrebbe misurarsi con due
aspetti economici inediti: questa crisi è figlia del passato, cioè oggi si manifestano i
danni (creativi) degli anni novanta e inizio secolo; il secondo aspetto è legato alla
trasformazione dei modelli accumulativi del capitalismo legato ai grandi mutamenti
tecnologici che privilegeranno il settore manifatturiero come strumento di increasing
return (rendimento crescente). Sostanzialmente le istituzioni pubbliche non devono
risolvere solo un problema contingente, ma anche evitare di adottare provvedimenti che
inibiscano la trasformazione (necessaria) del sistema produttivo, anche per contrastare
la stagflazione. In qualche modo si devono risolvere i problemi immediati del sistema
finanziario, abbassando i tassi di interesse e immettendo nuova liquidità, ma occorre
anche evitare gli errori del 2001. Infatti, la riduzione del costo del denaro concorse a
gonfiare la bolla immobiliare e per questa via generare un “effetto ricchezza” che non
corrispondeva a valori economici reali. La stessa apertura dei mercati internazionali ha
condizionato l’operato delle economie sviluppate, agendo come strumento di pressione
per abbassare i costi di produzione, mentre l’abbondante liquidità ha “stimolato” gli
intermediari finanziari e gli investitori. In qualche modo si può sostenere che gli
1
interventi (pubblici) adottati nel 2001 per rispondere alla crisi finanziaria ha gettato le
basi per un’altra crisi finanziaria, e di dimensioni più preoccupanti.
Ogni intervento pubblico, quindi, deve agire con un occhio al futuro per evitare gli
errori del passato. Il vero protagonista sarà l’economia reale, non la finanza. Se agli
inizi del 2000 non era ancora definito l’obiettivo del sistema economico internazionale,
oggi è pò più chiaro.
La crescita economica (reale) procede su sentieri che privilegiano l’attività produttiva di
beni intermedi e di investimento, con una spiccata propensione alla ricerca e sviluppo,
assieme a delle forti ricadute nel commercio internazionale. Sostanzialmente il
contributo dei “consumi” delle famiglie alla crescita economica tende a ridursi.
L’intervento pubblico (europeo, nazionale, ocde) dovrebbe agire nel solco della
“programmazione economica” per anticipare la domanda di beni e servizi. In definitiva,
se questa crisi finanziaria è l’esito di un recente passato, il target della crescita
economica difficilmente può fondarsi sull’aumento dei consumi attraverso delle misure
finanziarie.
In primo luogo occorre, anche per “legge”, ripristinare una convergenza tra utili e prezzi
delle imprese. Quando i tassi di interesse di lungo periodo sono, per esempio al 5,5%,
perché mai i capitali di rischio devono dare ritorni del 20-25%? Un intervento del
Parlamento europeo teso a ridurre gli errori (orrori) delle cosiddette “agenzie di
valutazione”, non è più rinviabile. D’altra parte è la stessa dimensione e target del
nuovo paradigma produttivo, unitamente alla diversa importanza dei consumi, a
suggerire delle misure di contenimento della rendita. In secondo luogo occorre
predisporre una politica economica (pubblica) capace di superare i multipli dei singoli
stati e sviluppare le necessarie economie di scala per la generazione di sapere che
condizionerà il nuovo paradigma economico. Se i consumi delle famiglie contribuiranno
in misura più contenuta del passato alla crescita economica, che non significa una
rinuncia alla politica dei redditi, servono misure pubbliche capaci di anticipare
(indirizzare) il sistema economico per evitare gli errori del passato.
L’Europa sarebbe un ambito ideale per realizzare delle manovre economiche
anticicliche, ma la logica nazionale è difficile da superare. Un conto è immaginare
una manovra economica europea che muova 1-2 punti pil europeo, un altro sono i
multipli di 1-2 punti di pil per singolo stato. Forse si muovono maggiori risorse
finanziarie, ma l’impatto economico è giustappunto un multiplo di quello che sarebbe
necessario. Purtroppo in Europa non ci sono più grandi leaders politici per immaginare
un ruolo attivo dell’Europa e del parlamento europeo, ma alcuni stati cominciano a
prefigurare delle misure che, pur partendo dal proprio territorio, vedono nell’Europa un
riferimento. Per esempio la Germania ha duramente criticato il modello finanziario
anglosassone e i suoi criteri di regolamentazione, fino a prefigurare un nuovo ruolo per
l’Unione Europea in contrapposizione al sistema economico-finanziario angloamericano1. L’aspetto più interessante è il rilancio della politica industriale e
dell’economia produttiva come una condizione ineluttabile per trovare “stabilità”.
Forse l’attuale crisi potrebbe essere l’occasione per assegnare un ruolo autentico alla
politica economica dell’UE, almeno pari a quella finanziaria.
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Fiancial Times, 11 giugno 2008
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Quadro macroeconomico pil
Come sottolineato in premessa, la crisi economica e finanziaria dell’Europa ha radici
internazionali ed in particolare finanziarie, ma gli aspetti qualitativi della produzioneaccumulazione hanno un ruolo decisivo nel modello europeo di società e di economia.
Infatti, c’è una peculiarità dell’economia europea rispetto a quella anglosassone: il suo
carattere “industriale”, unita alla significativa presenza pubblica nell’economia che, per
inciso, ha permesso di attutire l’impatto della crisi internazionale con strumenti
automatici, a differenza da quanto accade negli Stati Uniti.
In questo senso la modernità dell’intervento pubblico europeo è la nota più innovativa
nell’attuale scenario politico.
Il dibattito politico ed economico concentra la propria attenzione sui diversi livelli di
crescita del pil, come se la composizione dello stesso fosse del tutto ininfluente, o come
se i punti di partenza degli stati europei fossero identici. In realtà l’unica “identità” è
l’appartenenza all’area europea, che è una condizione sufficiente per analizzare la
crescita economica, ma non esaustiva. L’accento sulla crescita economica dei paesi
dell’est deve fare i conti con il peso relativo di questi paesi rispetto alla componente
storica (UE a 12). Il peso economico dell’UE a 12 in pps per inhabitant a prezzi
correnti2 rispetto all’UE a 27 rimane saldamente al di sopra del 70% nel 2007, mentre
era del 72% nel 1998. In sintesi, quando si parla dell’est Europa parliamo di una
frazione dell’economia europea. La sola Germania rappresenta i 2/3 dell’economia dei
paesi dell’est. In qualche modo la crescita dei paesi dell’est, in contrapposizione alla
bassa crescita dell’UE a 12, solo in misura molto contenuta e parziale può contribuire
alla soluzione della crisi economica. È insufficiente la crescita del pil europeo (area
euro) del secondo trimestre del 2008 (-0,2%), ma la situazione dell’est Europa, a parte
la Slovakia (1,9%), non manifesta trend di crescita così distanti: Latvia (0,1%),
Lithuania (1,1%), Hungary (0,6%), Poland (1,4%).
Il pil per capita in pps (UE a 27=100) in qualche modo suggerisce l’inevitabilità della
migliore crescita dell’est Europa. Dal 1997 al 2008 i paesi di area euro hanno perso
terreno da 115,9 a 110, ma tutti i paesi dell’est Europa si trovano ben al di sotto del
numero indice 100: la repubblica Czech passa da 73 a 82,4; Estonia da 41,9 a 71,7;
Lithuania da 38,2 a 62,2; Poland da 46,9 a 54,6; Romania da 26 a 41,9; Croatia da 44,4
a 56,6.
Il miglioramento economico e sociale dell’est Europa è quindi inevitabile, soprattutto se
consideriamo che “aderendo” all’area economica comunitaria è necessaria una
riconversione-ristrutturazione del proprio tessuto produttivo per sperare di integrarsi
all’economia reale europea e, successivamente, ambire all’UEM-UP.
La cessione di frazioni di “peso economico” da parte dei paesi di area euro non è strana,
in qualche modo è stata pilotata, piuttosto è l’ambigua politica comunitaria
nell’affrontare la crisi a lasciare più di un dubbio. Se la crescita del pil di Germania,
Francia, Italia, Spagna, Danimarca registra delle continue revisioni, fino a considerare il
segno meno per il secondo trimestre del 20083, la mancata crescita non è attribuibile alla
cessione di “potere” economico all’est Europa, piuttosto ad un riassetto del tessuto
produttivo almeno prossimo a quello intervenuto agli inizi del 1990, ancorché i tratti
peculiari dei singoli sistemi economico-produttivi condizionano lo sbocco dalla crisi.
Diversamente non si spiegherebbe la minore produttività del capitale italiano rispetto
2
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Eurostat, agosto ’08
Germania -0,5%, Francia -0,3%, Italia -0,3%, Spagna 0,0%, Danimarca 0,0%.
3
alla media europea, mentre quella francese e tedesca è significativamente più alta4.
Rimane difficile la situazione per i paesi storici dell’Europa se consideriamo che il pil
per capita in pps ha segnato un forte rallentamento: la Germania passa da 124 a 111
(1997, 2008), la Francia passa da 114,9 a 108,8 (1997, 2008), la Spagna da 93,5 a 104,3
(1997, 2008), l’Italia da 119,3 a 98,5 (1997, 2008). Inoltre, per la Spagna si osserva una
crisi di specializzazione al pari dell’Italia, anche se le politiche adottate, cioè un
significativo incremento delle spese per R&S, fanno supporre un’azione politica tesa a
privilegiare la conoscenza come asse di trasformazione del proprio tessuto produttivo.
In qualche modo la Spagna sembra interessata da una crisi di “maturità” più che da
declino come sembra per l’Italia.
In estrema sintesi l’andamento del pil per capita in pps è l’effetto della mancata crescita
del pil, ma la natura ed i tratti qualitativi dei fattori di produzione pongono i singoli
paesi su policy molto diverse.
Quadro macroeconomico investimenti
Di particolare rilievo è la propensione all’accumulazione del sistema economico, cioè la
quota (flusso) degli investimenti fissi lordi sul pil5. Per tutti questi ultimi 10 anni sia per
l’UE area euro e sia per l’UE a 27 gli investimenti sono prossimi al 20% del pil, con una
leggera tendenza a crescere. Infatti, per 2007 e le previsioni per il 2008 gli investimenti
sono vicini al 21% del pil. All’interno dell’UE a 27 è possibile tratteggiare alcune
importanti differenze. I paesi “maturi” o “avanzati” hanno una quota di investimenti
rispetto al pil vicina al 20%, mentre i paesi dell’est Europa o comunque in ritardo, in
particolare per pil per capita in pps, ha un rapporto molto più alto. L’avvicinamento
all’area economica europea, l’obsolescenza del proprio apparato produttivo e la
necessità di integrarsi al sistema manifatturiero europeo, costringe i paesi in ritardo ad
utilizzare quote importanti del proprio reddito negli investimenti per colmare il gap
“strutturale”, mentre i paesi di area euro hanno più o meno adeguato i propri
investimenti fissi lordi, ma qualificato gli sforzi dal lato della conoscenza con una forte
crescita della spesa in R&S e formazione, fino a sfiorare il 5% del pil. Diversamente
non si spiegherebbe la differenza negli investimenti registrata in molti paesi: 18,5% del
pil della Germania contro il 31% dell’Estonia (2007); il 21,5% della Francia contro il
30% della Romania; il 21% dell’Italia contro il 26,6% della Lithuania.
Anche i paesi di area euro che avevano un punto di partenza molto basso (Spagna e
Grecia) destinano agli investimenti quote crescenti del proprio reddito, rispettivamente
31% e 25%. In qualche modo la specializzazione produttiva e il target dell’output
condiziona gli agenti economici: chi è integrato nel sistema economico internazionale
privilegia la conoscenza, mentre chi si trova in ritardo privilegia l’infrastruttura. Per
l’Italia sarebbe necessario un approfondimento, ma è opportuno sottolineare come il
peso degli investimenti sia in linea con la media europea di area euro, mentre quella
legata alla conoscenza sia prossima a quella dei paesi in ritardo infrastrutturale. In
qualche modo l’Italia è un paese che si allontana dall’Europa della conoscenza, cosi
come si allontana dall’Europa che adegua la propria infrastruttura fisica. Una dicotomia
che può essere risolta con riforme di struttura e una politica economica programmatica,
che da troppi anni latita in Italia.
4
Domar: σ=Δy/I (produttività degli investimenti, cioè la variazione dell’output rispetto agli investimenti).
A rigor di logica gli investimenti non dovrebbero essere computati nel pil, ma assumo un tratto
importante per qualificano lo stesso reddito. Infatti, per definizione il y (reddito) è la somma di c
(consumi) e I (investimenti) e g (spesa pubblica).
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4
Specularmene si osserva una forte contrazione del risparmio6 per quasi tutti i paesi UE.
Da un lato ha pesato la contrazione del reddito da lavoro dipendente e dall’altro la
trasformazione della “natura” del risparmio. In realtà si osserva una diversa propensione
al risparmio in funzione della disponibilità di reddito. Diversamente sarebbe difficile
spiegare come il reddito risparmiato in Germania sia rimasto in questi ultimi 10 anni più
o meno sugli stessi valori (16,26 nel 1996 e 16,19 nel 2006), mentre per l’Italia si
registra una caduta verticale del tasso tendenziale di risparmio, che in futuro potrebbe
pregiudicare anche gli investimenti (22,66 nel 1996 e 15,06 nel 2006). Come la
Germania anche la Francia ha mantenuto gli stessi livelli di risparmio, come la Spagna,
rispettivamente 14,90 nel 1996 e 14,89 nel 2006, e 11,14 nel 2000 e 10,46 nel 2006.
Solo i paesi che hanno visto erodere i redditi da lavoro dipendente o allentare la
politica dei redditi si osserva una contrazione del reddito risparmiato. L’erosione
dei redditi da lavoro dipendente mette in crisi l risparmio delle famiglie. Servirebbero
politiche economiche redistributive a favore dei salari per rilanciare la domanda e la
produttività. Di converso, la minore propensione al risparmio dell’est Europa è legata
alle prospettive (positive) dei loro sistemi economici che in qualche modo rallenta il
tasso di risparmio, oltre a dei limiti fisiologici nell’utilizzo del proprio reddito7.
Quadro macroeconomico inflazione
Se la bassa crescita dell’Europa nel suo insieme dovrebbe suggerire ben altra attenzione,
l’inflazione ha catturato l’attenzione (nel dibattito politico ed economico) di quasi tutti i
soggetti istituzionali, sociali e politici. Il problema è il target dell’inflazione europeo
(2%), senza distinguere se siamo in presenza di inflazione da domanda o da offerta.
Mentre negli anni settanta l’inflazione in Europa era una inflazione da domanda, oggi
l’inflazione nasce per intero nel processo produttivo. In questo caso i diversi livelli di
inflazione alla produzione suggerisce che ci sono sistemi economici che affrontano il
problema dell’aumento delle materie prime in modo significativamente diverso: chi ha
economie di scala adeguate in qualche modo ha dei prezzi alla produzione più
contenute, chi opera in un sistema di piccole imprese, cioè di diseconomie di scala, ha
dei prezzi alla produzione più alti.
Rimane comunque alta la pressione sull’inflazione al consumo (HICP) dell’UE di area
euro. Se il numero indice era 100 nel 2005, a luglio del 2008 l’indice è pari a 108, 47%,
con un aumento dell’8,5% dal 2005 e del 4% e più rispetto al corrispondente mese del
2007. Se l’inflazione media dell’UE a 27, così come per l’UE a 12, rimane ancorata al
4% come media, nei paesi dell’est Europa si osserva un incremento rispetto al 2005
(=100) che fa dell’UE a 12 l’area economica dalla più bassa inflazione8. Infatti, la
Romania a luglio 2008 ha un indice pari a 121,27; la Repubblica Ceca ha un indice pari
a 112,6; la Slovenia ha un indice pari a 114,13; la Bulgaria ha un indice pari a 131,21.
In qualche modo la paura di crescita incontrollata dei prezzi paventata dalla BCE, come
dalla Commissione UE, se comparata al rischio dei paesi europei di non area euro, o
degli Stati Uniti, è fortemente ridimensionato. Nonostante la pressione dei prezzi sulle
materie prime, la crescita dei prezzi in Europa è abbastanza sotto controllo, e
l’insistenza di molte istituzioni su questo tema sembra più un’azione politica (sui redditi
da lavoro dipendente e annesso loro contenimento). L’analisi economica e finanziaria
passa in secondo piano. Se si effettuassero le dovute comparazioni si osserverebbe che il
6
Si ricorda l’identità S=I.
Curva dell’utilizzo del reddito di Engeals (economista russo da non confondere con l’amico di K.
Marx).
8
La migliore performance è comparativa, non assoluta.
7
5
problema principale dell’Europa non è l’inflazione, piuttosto la mancata crescita dovuta
a politiche restrittive e all’insufficiente politica economica e industriale.
Quadro macroeconomico import-export
Il rallentamento della congiuntura internazionale inevitabilmente condiziona le
prospettive di crescita dell’import e dell’export. I tassi di crescita dell’export di tutta
l’Europa hanno fatto registrare una contrazione, anche se il periodo più difficile
sembrerebbe alle spalle, nel senso che nel 2008 comincia a manifestarsi una
controtendenza: si passa da un segno meno ad un segno più. Nel giugno del 2008 si
hanno segnali in chiaroscuro, ma il segno meno nel corso dell’anno fa il paio con il
segno più. Per esempio, a giugno 2008 l’euro area ha fatto segnare un 1,4%, mentre nel
corrispettivo mese del 2007 si osservava un segno meno dello 0,5%. Si osserva un calo
delle importazioni, ancorché in misura più contenuta delle esportazioni. È probabile che
una parte degli investimenti, in particolare per l’est Europa ed i paesi come l’Italia, la
Spagna e la Grecia, una parte degli investimenti si traduca in maggiori importazioni con
un incremento del reddito disponibile, ma con una contrazione della crescita del pil. Se i
forti tassi di crescita degli investimenti dell’est Europa non trovano velocemente un reequilibrio dal lato della generazione di sapere, gli investimenti potrebbero diventare un
vincolo alla crescita, così come è avvenuto per l’Italia e potrebbe accadere per la
Spagna.
Bilancio Pubblico
Le politiche di bilancio pubblico sono “figlie” degli accordi di Maastricht e del Patto di
Stabilità e Sviluppo. Questi accordi prevedono il pareggio di bilancio nel medio e lungo
termine al fine di liberare risorse finanziarie per gli investimenti e per alleggerire il
“mercato” dai vincoli legati all’intervento della pubblica amministrazione. Il saldo di
bilancio della pubblica amministrazione, ai fini europei, in questi ultimi anni ha fatto
registrare per tutti paesi europei a 27, così come per quelli di area euro, un progressivo
avvicinamento al pareggio di bilancio. L’Europa a 25 passa da un disavanzo pari a
meno 4,2% del pil del 1996 a meno 0,9% del 2007, mentre l’area euro passa da -4,2% a
meno 0,6% del pil. A cavallo degli anni 2000 si registra una crescita del disavanzo,
comunque prossimo al 3%, in ragione della crisi economica di quegli anni (crisi della
neteconomy e ristrutturazione “dimensionale” del sistema produttivo), ma i
provvedimenti (strutturali) adottati durante la fase di avvicinamento alla moneta unica
dei paesi di area euro, così come la scelta dei paesi dell’est Europa di aderire all’UE,
seppur con tempi differenziati, ha determinato un immediato rientro dalla soglia del 3%.
In qualche modo le politiche “restrittive” dei bilanci della pubblica amministrazione
hanno in se la tendenza alla deflazione e al contenimento della spesa pubblica.
In realtà, il contenimento della spesa pubblica andrebbe indagato con maggiore
puntualità. Più che un contenimento della spesa pubblica i governi europei, almeno per
l’area euro, hanno adeguato la spesa pubblica al solo tasso di inflazione, mentre il
rientro dal deficit eccessivo è, per lo più, attribuibile alla riduzione dei tassi di interesse
che hanno alleggerito gli oneri finanziari sul debito pubblico. Non è solo l’Italia ad
essere interessata da questa dinamica, ma anche i paesi che hanno un debito pubblico
significativamente più contenuto. La stessa resistenza dei governi europei all’aumento
prima e al non abbassamento poi dei tassi di interesse della BCE, ha la sua “ragione” nel
contenimento degli oneri finanziari legati alla riduzione dei tassi di interesse,
6
permettendo di liberare risorse da destinare agli investimenti o ad iniziative sociali, così
come per migliorare la spesa pubblica nel campo della ricerca, università e formazione.
I dati di bilancio comparabili dei paesi europei relativamente ai saldi di bilancio sono
quelli del 2007, mentre quelli del 2008 sono fortemente condizionati dalla crescita
economica. Mai come in questi ultimi anni la crescita economica impatta sul sistema
produttivo e sul sistema pubblico, come se vi fosse stato un avvicinamento “sistemico”
tra l’economia pubblica e privata. Non a caso i saldi di bilancio migliori sono quelli dei
paesi che hanno una crescita del pil migliore. Molti paesi di area euro, così come per i
paesi dell’est Europa, hanno bilanci pubblici prossimi al pareggio di bilancio, cioè
sarebbe possibile adottare delle politiche pubbliche anticicliche pari allo spread che li
separa dalla soglia del 3%, anche se la Commissione Ue così come la BCE sembrano
molto più preoccupate dall’inflazione, piuttosto che dalla bassa crescita. Gli spazi di
manovra non sono limitati. Solo per fare alcuni esempi il Belgio è a -0,2%; la
Danimarca a 4,4%, la Germania allo 0,0%, l’Irlanda allo 0,3%, la Spagna al 2,2%. Solo
la Francia, l’Italia, la Grecia e il Portogallo hanno deficit di bilancio per il 2007 e per il
2008 che si avvicinano alla soglia del 3%, rispettivamente -2,7, -1,9, -2,8, -2,6, mentre
per i paesi dell’est Europa lo spread è, paradossalmente, quasi migliore di molti dei
paesi virtuosi dell’area euro: Bulgaria 3,4%, Repubblica Ceca -1,6% Latvia 0,0%
Lithuania -1,2%, Polonia -2,0% Slovenia -0,1%.
I saldi di bilancio pubblico non possono illustrare la complessità e la diversità della
spesa pubblica che si osserva nei paesi europei a 27 e di area euro. Nel corso di questi
ultimi anni il peso della spesa pubblica rispetto al pil è sensibilmente scesa in tutti i
paesi. L’Ue a 27 passa da 46,8% del pil a 45,8% del 2007, mentre il contenimento della
spesa pubblica rispetto al pil per l’UE a 12 è molto più accentuato: nel 1997 era pari al
49,4% e nel 2007 era pari al 46,1% del pil, più o meno in linea con l’incremento della
spesa pubblica al solo tasso di inflazione e alla riduzione degli oneri sul debito. In
particolare per le economie avanzate e/o complesse si osserva una maggiore incidenza
della spesa pubblica sul pil, in ragione della relazione einaudiana tra mercato e stato. La
spesa pubblica è particolarmente alta nei sistemi capitalisti complessi (anno 2007):
50,8% del pil per la Danimarca, 52,6% per la Francia, 48,5% per l’Italia, Belgio 48,9%,
Germania 43,8%, Austria 48,2%, mentre per i paesi a capitalismo “arretrato” si registra
una spesa pubblica più contenuta: Romania 36,9%, Estonia 33,7%, Latvia 38,0%,
Slovacchia 36,9%. Poi ci sono i paesi intermedi che si trovano in mezzo al guado e che
probabilmente dovranno fare una scelta politica per equilibrare i fallimenti del mercato,
cioè un adeguamento della pressione fiscale e per questa via della spesa pubblica,
oppure seguire il modello anglosassone di sistema economico. La scelta non sarà
ininfluente per tutta l’Europa. La Markel è intervenuta proprio su questo tema
privilegiando il modello di integrazione europeo. Non a caso la pressione fiscale è
strettamente legata al target dell’intervento pubblico, con punte particolarmente alte per
la Francia 45,0%, la Svezia 48,5%, il Belgio 46,1%, mentre l’Italia si colloca tra i paesi
a maggiore pressione fiscale e quelli a bassa pressione fiscale, cioè 42,2%. L’analisi
della pressione fiscale deve fare i conti con le diverse modalità di finanziamento della
spesa sociale, che modifica sensibilmente il peso complessivo del fisco9.
Sia la pressione fiscale e sia la spesa pubblica è condizionata dall’incidenza del debito
pubblico, ancorché in un sistema intrecciato come quello europeo, così come la gestione
dello stesso, mutano l’incidenza sul sistema dei pagamenti correnti10. Mediamente per
tutti i paesi si osserva un discreto contenimento del debito pubblico, collocandosi vicino
al 66% del pil per l’area euro nel 2007 contro il 73,6% del 1996, con un miglioramento
di 7 punti percentuali. Tra le migliori performance di rientro dal debito pubblico
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Roberto Artoni, Università Bocconi di Milano; Felice Roberto Pizzuti, Università La Sapienza di Roma.
Pasinetti
10
7
troviamo il Belgio con una riduzione sull’intero periodo considerato di 42 punti
percentuali, la Spagna con 30 punti percentuali, l’Italia con 17 punti percentuali e la
Grecia con 16 punti percentuali. I punti di partenza non sono uguali per tutti. Infatti, nel
2007 solo l’Italia ha un debito pubblico più alto del 100% del pil, mentre quei paesi che
lo avevano nel corso di questi ultimi 10 anni lo hanno ridotto sensibilmente, soprattutto
grazie alla crescita del pil: il Belgio da 127% a 84,9%, la Grecia dal 111% a 94,5%,
l’Italia da 121% a 104%.
In ragione delle diverse possibilità-opportunità dei paesi dell’Ue nell’affrontare l’attuale
crisi economica, si possono immaginare due livelli di intervento pubblico: uno
microeconomico per gli stati teso a creare le condizioni del cambiamento paradigmatico
dei processi accumulativi; il secondo macroeconomico determinato dalla Commissione
UE.
Condizioni generali della produzione, produttività e ricerca e sviluppo
Il senso del mutamento dei processi accumulativi, che da anni interessa la dinamica del
sistema capitalistico, è nel rapporto, sempre più complesso, tra l’estensione e il carattere
della conoscenza scientifica e la realizzazione di innovazioni per il sistema produttivo.
Infatti, diversamente dalle fasi iniziali dello sviluppo industriale, in cui l’attività
inventiva degli scienziati appariva come il naturale presupposto di “salti tecnologici”
che si sarebbero riversati sull’attività produttiva, il processo del cambiamento
tecnologico si è andato manifestando in forme sempre più diffuse e con modalità assai
più composite. Ciò è dovuto al consolidamento delle scienze sperimentali nella sfera
delle attività produttive11, ma anche e soprattutto alla “saldatura” tra la dimensione
“inventiva” del progresso tecnico e quella “innovativa” collegata alla produzione .
Quello che si è affermato è, in altri termini, una sorta di “regime di innovazione
continua”12; un processo caratterizzato essenzialmente da un’attività sempre meno
occasionale di “progettazione” tecnologica, sollecitata da una domanda sempre più
“sofisticata” conseguente al trend di crescita del reddito pro-capite.
In particolare, la “progettazione tecnologica” del nuovo sviluppo industriale non si è
tradotta solo in una più selezionata concentrazione della produzione industriale nei paesi
avanzati nel comparto manifatturiero, ma anche in “oggetto” stesso della produzione,
dando vita ad una offerta di beni assai più variegata, in cui è frequente la comparsa di
nuovi prodotti o di nuovi standards dei prodotti già esistenti. Il nuovo sviluppo
industriale si caratterizza per una “crescente intensità tecnologica” della produzione, e
lungo questo sentiero si è esteso a livello mondiale, secondo un processo “cumulativo”,
rilevabile dai dati del commercio internazionale. Tra il 1980 e il 1990 gli scambi
mondiali di beni manufatti sono raddoppiati, ma quelli di beni ad alta intensità
tecnologica sono triplicati; rispetto agli inizi degli anni ’90 il commercio di questi beni è
addirittura quadruplicato, arrivando a rappresentare più del 30% del totale
manifatturiero, una incidenza quasi doppia rispetto alla fine degli anni ’70. Il rilievo
11
In riferimento a questo importante passaggio che segna l’evoluzione del rapporto tra scienza e tecnica
si rimanda allo studio di Paolo Rossi (1962) “I filosofi e le macchine. 1400 -1700” , Feltrinelli Saggi,
2002. Nel percorrere lungo queste linee la storia dell’Occidente moderno l’Autore ricorda come “..nelle
forme che ha assunto fra il Quattrocento e il Settecento…questo stretto rapporto era assente sia nella
civiltà antica sia in quella medievale. …Le arti meccaniche vennero concepite, per due millenni, come
necessarie al sapere, ma forme inferiori di conoscenza, immerse fra le cose materiali e sensibili, legate
alla pratica e all’opera delle mani. …Per tutto il secolo XVII “vile meccanico” è un insulto che, ove
venga rivolto a un gentiluomo, lo induce a sguainare la spada”.
12
Quinto Rapporto ENEA – L’Italia nella competizione tecnologica Internazionale. Ed Franco
Angeli. 2007.
8
economico delle produzioni ad elevato contenuto tecnologico si conferma ulteriormente
in materia di invenzioni. Il dato registrato dai brevetti indica un ancor più evidente
spostamento delle risorse produttive nella direzione di questi beni, con una quota dei
brevetti nei settori ad alta tecnologia sul totale dei brevetti mondiali che passa da valori
intorno al 40% nei primi anni ‘90, a valori superiori al 45% nei primi anni del 2000.
L’importanza di questa trasformazione è ancor più rilevante se si considera la
pervasività del suo impatto sull’insieme dei moderni sistemi produttivi e sulla capacità
di ridefinirne, progressivamente, i contorni. L’incessante sviluppo della cosiddetta
“economia dei servizi” non rappresenta così un’alternativa alla specializzazione
produttiva del settore manifatturiero, piuttosto un’estensione ai comparti dei servizi
degli stessi processi innovativi, anche in questo caso con la creazione di nuovi servizi e
con l’ammodernamento di quelli preesistenti. Queste trasformazioni sono possibili solo
in concomitanza con l’esistenza di un sistema manifatturiero avanzato. Similmente,
l’emergere di una domanda di beni di consumo ad alta intensità tecnologica13
costituisce un’ulteriore conferma dell’esistenza di un trend di “sviluppo tecnologico”
del sistema economico, ormai parte integrante e imprescindibile dello sviluppo.
Gli elementi di “trasformazione” delle moderne economie industriali fin qui richiamati,
rappresentano l’essenza dell’“economia della conoscenza”. Ma questa nuova condizione
dello sviluppo non è stata ancora compresa fino in fondo. Il “mutamento strutturale” del
sistema capitalistico è legato alle nuove modalità di interazione tra cambiamento
tecnologico e logiche dell’attività produttiva e, in assenza di direzioni certe e univoche
del rapporto tra stato delle conoscenze scientifiche e realizzazione di innovazioni
tecnologiche per il sistema produttivo14, i paesi si sono focalizzati sulla costituzione di
propri “sistemi nazionali d’innovazione”15 al fine di “dominare” un nucleo di specifiche
competenze tecnologiche. Questa “attitudine” è una condizione necessaria per i paesi
per “produrre” innovazione nel sistema economico e, in senso dinamico, per creare un
percorso cumulativo di crescita della conoscenza e di creazione di “vantaggi
competitivi” di tipo tecnologico.
Sostanzialmente, le caratteristiche dello sviluppo dei moderni sistemi capitalistici e il
ruolo “inedito” giocato dal cambiamento tecnologico, e sono così complesse da
escludere qualsiasi visione “semplificatrice” delle condizioni necessarie per la crescita
economica. Se si vuole condizionare l’attuale processo di sviluppo è necessario, quindi,
strutturare una capacità di “progettazione tecnologica”.
Almeno due sono, dunque, le osservazioni che dovrebbero accompagnare la riflessione
sullo sviluppo. La prima osservazione è la seguente: i “nuovi canoni” dello sviluppo
non possono prescindere da una valenza più ampia del significato di sviluppo, cioè dalla
qualità della nuova “domanda” socio-economica da cui parte la sollecitazione
“tecnologica”16. La seconda osservazione riguarda il ruolo giocato dalla natura e
13
Si veda a quest’ultimo proposito Palma D., Prezioso S. “Progresso tecnico e dinamica del prodotto in
una economia in ritardo”. Workshop “l’Italia nella competizione tecnologica internazionale”, 16 marzo
2007, Enea-Roma3-Associazione Rossi Doria.
14
Per una articolata e aggiornata disanima sulla questione si rimanda a Fagerberg J. (2004) “What do we
know about innovation?” Lessons from the TEARI Project (una trattazione più estesa di questo lavoro è
presente nell’Oxford Handbook of Innovation a cura di Fagerberg J., Mowery D.C. e Nelson R.R.,
(2005), Oxford University Press.
15
Il riferimento ai “sistemi nazionali d’innovazione” si vuole qui ricondurre alla trattazione concettuale
di Lundvall B.A., (1992), National Systems of Innovation: Towards a Theory of Innovation and
Interactive Learning, Pinters Publishers, London. Adottando un approccio ampio Lundvall sostiene che
un “sistema nazionale di innovazione include tutte le parti dell’organizzazione economica nazionale”,
individuando tecnologia e innovazione come risultato di una storia che coinvolge lo sviluppo nazionale.
16
L’evoluzione della struttura della domanda che si è accompagnata nei più recenti decenni alla crescita
dei redditi pro-capite nei maggiori paesi industrializzati rappresenta senz’altro un passaggio importante
nella definizione di obiettivi di “qualità” dello sviluppo. Questioni come la protezione della salute umana
e la salvaguardia dell’ambiente hanno assunto una centralità sempre maggiore nel più generale dibattito
9
dall’evoluzione degli specifici “sistemi nazionali d’innovazione”, profondamente
condizionati tanto dai target dei diversi attori (privati e pubblici), quanto dall’esistenza
di specifiche “barriere” di natura tecnologica.
Perseguire l’obiettivo dello sviluppo significa, quindi, individuare gli snodi della
qualità, vale a dire gli elementi della conoscenza su cui si fonda, lasciando alla
distribuzione della “ricchezza” l’eventuale aggiustamento del processo. Questi obiettivi,
in ragione delle questioni strutturali richiamate, suggeriscono un’attenta
“programmazione” da parte del settore pubblico, non solo le finalità da perseguire, ma
anche in relazione alla dimensione dei numerosi vincoli che l’accesso alla tecnologia
pone e alla capacità di farvi fronte.
Produzione industriale e lavoro
La produzione industriale, escludendo le costruzioni, nel corso dell’ultimo anno non ha
fatto registrare nessun miglioramento. Nell’insieme dei paesi dell’UE a 27 come per
quelli di area euro si osserva un progressiva stagnazione della produzione industriale,
con alcuni paesi, in particolare l’Italia, che evidenziano delle difficoltà che sembrano
più la manifestazione di un declino industriale piuttosto che di un ri-assetto del sistema
produttivo. Per l’Italia, tra luglio 2007 e il giugno 2008, si osserva un calo della
produzione significativo: da un indice 99 (anno 2000=100) a 96,8. La Germania, nello
stesso periodo, passa da 118 a 120. Quindi, se la contrazione della produzione
industriale vale per tutti i paesi, alcuni di questi hanno risposto in modo diametralmente
opposto in ragione della propria specializzazione produttiva di cui si diceva nel
paragrafo precedente. Inoltre, l’Italia è l’unico paese, assieme all’UK, ad avere un
numero indice inferiore a 100 (anno 2000). Anche la Spagna ha registrato una profonda
contrazione della produzione industriale, da 109 a 102, ma la flessione sembra più una
crisi di riassestamento più che di declino industriale, non fosse altro per un indice sopra
la soglia di 100. Per quasi tutti i paesi si oscilla tra un lieve segno più, in particolare per
l’est Europa in ragione del mutamento-riconversione della propria struttura produttiva, e
una sostanziale tenuta per molti dei paesi storici dell’UE: la Repubblica Ceca passa da
166 a quasi 170, la Bulgaria da 179 a 182, la Polonia da 159 a 169, la Danimarca da 109
a 108, l’Irlanda da 150 a 145, la Francia da 105 a 102, la Finlandia da 125 a 125, la
Svezia da 116 a 115.
Il target del tessuto produttivo è rilevabile dalla produttività del lavoro per ora lavorata
(UE a 15=100), ancorché la produttività del capitale appare non solo più significativa,
ma anche qualitativamente più rappresentativa. Infatti, la produttività del lavoro è una
“curva derivata” dalla produttività del capitale17. In generale si osserva una contrazione
della produttività per tutti i paesi dell’Ue, sia a 27 che di area euro, ancorché alcuni
paesi spiccano par la bassissima produttività. In particolare l’Italia ha un tasso di
produttività pari alla media dell’UE a 27 (88 nel 2007), cioè una bassissima produttività
del capitale investito, come se l’orizzonte di questo paese non fosse più l’Europa storica
ma quella “emergente”. Stessa riflessione può essere svolta per il Portogallo (59,2) e la
sullo “sviluppo sostenibile” ma hanno, soprattutto, iniziato a segnare il passo di nuovi processi di
sviluppo tecnologico nei paesi avanzati che attualmente occupano una posizione di leadership
tecnologica. Solo per rimanere in ambito europeo è possibile citare le dinamiche tecnologiche dei “new
comers” scandinavi, Danimarca e Svezia in particolare, intorno a tecnologie connesse alla Salute e ai temi
energetici-ambientali, o la Germania, che sta intraprendendo nelle nuove tecnologie ambientali importanti
azioni di investimento e sviluppo tecnologico”. Per maggiori dettagli sui dati si rimanda al Quinto
Rapporto Enea sull’Italia nella competizione tecnologica internazionale, Ed. FrancoAngeli 2007 e al
Rapporto Enea Energia e Ambiente 2006, Cap.6.
17
Sergio Ferrari e Roberto Romano
10
Grecia (71,8). Ma la compressione-riduzione della produttività per tutta l’Europa può
anche significare che siamo d’innanzi ad una nuova stagione industriale, così come è
accaduto all’inizio del 2000. Generalmente i paesi di area euro manifestano tassi di
produttività più alti dell’est Europa, con un indice sistematicamente sopra la soglia 100.
Nel 2007 la Germania si colloca a 109,7, il Belgio a 123,7, la Danimarca a 100,3,
l’Irlanda a 106,5, la Francia a 11918, la Svezia a 106. Tutti i paesi dell’est Europa sono
molto al di sotto della soglia 100 (Ue a 15=100): la Bulgaria a 32,0, l’Estonia a 50,7, la
Polonia a 45,5, la Slovenia 72,6, la Lithuania 48,2.
Una parziale, ma significativa, spiegazione è data dalla spesa in ricerca e sviluppo che
ogni singolo paese destina per “innovare” la propria struttura produttiva. Tutti i paesi di
area euro hanno una spesa complessiva per ricerca e sviluppo molto più alta dei paesi
dell’est Europa, e non a caso hanno una produttività del lavoro molto più alta. Gli ultimi
dati disponibili sono relativi al 2006, ma non per questo sono meno rappresentativi dello
stato dell’arte. Per incidenza si segnalano la Danimarca (2,43%), la Germania (2,53%),
la Spagna (2,1%), la Finlandia (3,37%) e la Svezia (3,73%). Di segno contrario, sempre
nell’area euro, si osserva la bassa propensione alla ricerca per l’Italia (1,1%), la Grecia
(0,6%), il Portogallo (0,83%).
Se è vero che mediamente i paesi di area euro destinano maggiori risorse (in percentuale
del pil) per la ricerca e sviluppo, molti paesi dell’est Europa hanno raccolto la sfida
dell’innovazione, collocandosi sopra anche ad alcuni paesi storici dell’Ue (Italia,
Portogallo e Grecia): l’Estonia (1,14%), la Slovenia (1,59%). Tutti gli altri paesi hanno
delle risorse finanziarie destinate alla ricerca che oscillano tra lo 0,50% e lo 0,80%. In
particolare si osserva per quasi tutti gli stati che la componente privata (industriale) di
ricerca è sempre molto più alta di quella pubblica. Solo in Italia e in altri pochi paesi la
spesa pubblica per la ricerca è più alta di quella privata. In media la spesa privata in
ricerca e sviluppo in Germania rappresenta il 67,6% del totale, il 57,4 in l’Irlanda, il
59,5% in Danimarca, in Francia il 52%, in Finlandia il 66,6%, in Italia il 39,7%, cioè
poco sopra la media dei paesi dell’est Europa.
Inoltre, sotto il profilo della competitività e della coesione sociale, unitamente alla
capacità di generare innovazione tecnologica, un adeguato profilo scolastico
contribuisce alla crescita, sia del reddito individuale come di quello della società nel suo
insieme, ma la relazione non è direttamente proporzionale. Tra l’altro, i livelli
d’istruzione dell’Italia sono in qualche modo in linea con la struttura economica: 33%
della popolazione tra i 25 e 64 anni relativamente alla secondaria superiore (41% per la
Francia, 55% per la Germania, 52% per la Danimarca, 57% per la Gran Bretagna); 12%
per post laurea (23% per la Francia, 28% per la Germania, 29% per la Danimarca, 26%
per la Gran Bretagna). Indubbiamente un adeguato livello di formazione professionale
aiuterebbe l’Italia a creare almeno alcune condizioni per “ri-progettare” il proprio
futuro, ma senza un’adeguata (qualitativamente) domanda, il rischio è quello di
un’ulteriore mortificazione dei giovani.
Lavoro
Per una descrizione e analisi dei livelli salariali in Europa, unitamente alle condizioni
lavorative si rimanda al numero 4, del 26 marzo 2008 del Segretariato per l’Europa, ma
l’aspetto che occorre puntualizzare rispetto alla situazione dell’occupazione è la crescita
o meno del tasso di occupazione, indicatore molto più sensibile del tasso di attività,
come di quello della disoccupazione che appare il più delle volte non molto
rappresentativo, non fosse altro per la diversa “individualizzazione” dei disoccupati che
avviene a livello mondiale. Tra il 1996 e il 2007 si osserva un significativo incremento
18
La Francia è uno dei pochi paesi a far crescere la proprio produttività.
11
del tasso di occupazione sia per i paesi dell’UE a 27 e sia per quelli dell’area euro. Per
l’UE a 27 il tasso di occupazione passa da 60,7% a 65,4% del 2007, mentre per l’Ue a
15 si passa da 60,3% a 66,9% del 2007. Tra i paesi di area euro solo l’Italia si colloca al
di sotto della media europea, cioè al 58,7%. Inoltre, l’allargamento del tasso di
occupazione in Italia è stato conseguito a “margine”, cioè attraverso l’inclusione nel
mercato del lavoro di figure a basso contenuto formativo, che fa il paio con la bassa
crescita economica in generale e della produttività in particolare, unitamente al basso
contenuto di innovazione dal lato delle imprese. Si può osservare questo: tutti i paesi
che hanno affiancato alle politiche dell’occupabilità delle politiche industriali e di
ricerca hanno non solo migliorato il tasso di occupazione, ma anche il target del lavoro
(lavoro buono). Questo segno è il tratto caratteristico dell’incremento del tasso di
occupazione europeo. L’esperienza maturata in questi anni potrebbe diventare
importante per affrontare l’imminente crisi che attraversa l’Europa nel suo insieme.
Roberto Romano
CGIL Lombardia
Nicola Nicolosi
Responsabile Segretariato Europa CGIL
Roma, 02/09/2008
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