ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria

Transcript

ricerca traslazionale e ricerca clinica in pediatria
Gennaio-Marzo 2013 • Vol. 43 • N. 169 • pp. 51-59
tavola rotonda
Ricerca traslazionale e ricerca clinica
in pediatria
Tavola Rotonda
Giornate “Giovani” di Pediatria (Napoli, 10 dicembre 2012)
a cura di Fabio Sereni
Fabio Sereni (Milano): Desidero aprire questa Tavola Rotonda con una considerazione non solo necessaria e
doverosa, ma anche affettuosa.
Moderatore ideale di questa Tavola Rotonda sarebbe stato il professor Antonio Cao, che voi tutti sapete è
mancato pochi mesi orsono. Antonio Cao è stato, infatti, il vero precursore, in Italia, della necessità di un
collegamento organico, in pediatria,tra ricerca di base e ricerca clinica. Appena nominato Direttore, nella
sua Sardegna, di una Clinica Pediatrica Universitaria ha creato intra-moenia un laboratorio di ricerca
di base e, extra-moenia, una ricerca CNR strettamente collegata alla clinica. Antonio Cao era fermamente
Professore Emerito
convinto che nella formazione culturale del pediatra moderno fossero essenziali le nozioni che sono alla
di Pediatria, Università
base dei meccanismi patogenetici.Infine Antonio Cao ha creato e diretto, per più di 25 anni, la rubrica di
degli Studi di Milano
Prospettive in Pediatria denominata Frontiere, che ha sempre voluto essere una necessaria fonte di informazione per i pediatri dei progressi in ricerca traslazionale. Questa Tavola Rotonda vuole quindi anche essere un omaggio alla
sua memoria e al suo modo di concepire la cultura pediatrica.
Ringrazio i relatori che hanno accettato di partecipare, anche perché davvero rappresentano la eccellenza nella ricerca
pediatrica italiana, ognuno nel suo campo. E ringrazio anche il numeroso pubblico in sala, con tanti giovani ricercatori. Molti
importanti aspetti del rapporto tra ricerca di base e ricerca clinica dovranno oggi essere discussi.Chiedo quindi ai relatori
il massimo di concisione e concretezza, per potere giungere a conclusioni valide sul piano della politica della ricerca, e
anche della formazione dei pediatri del futuro.
Sono qui presenti due Direttori della Ricerca di due importanti istituzioni, e cioè Maria Grazia Roncarolo del San Raffaele e Bruno
Dallapiccola del Bambino Gesù, istituzioni nelle quali ricerca di base e ricerca clinica pediatrica da tempo coesistono e hanno
prodotto molto bene, secondo ogni obiettiva valutazione. Chiederei a loro di inquadrare il problema, e anche di rispondere alla
domanda di come vedono la possibilità che ricerca pediatrica avanzata possa essere condotta anche in quelle istituzioni che non
hanno le stesse grandi potenzialità di laboratorio, di strumentazioni e di competenze simili a quelle che loro oggi dirigono.
La parola, per prima a Maria Grazia Roncarolo.
Maria Grazia Roncarolo (Milano): Desidero iniziare il mio intervento con una breve premessa.
Affinché oggi una istituzione possa svolgere
ricerca biomedica eccellente sono necessari:
a) una massa critica di ricercatori con competenze complementari che garantiscano costanti interazioni, discussioni, interscambi di idee
Università Vita-Salute
e di cultura (la cross-fertilization dei saperi); b) le
San Raffaele, Milano
strutture dedicate alla ricerca che permettono
ai singoli istituti/università di essere competitivi
ed in grado di “attrarre cervelli”. c) le risorse finanziarie adeguate.
Non vi è dubbio che su questo ultimo punto il nostro Paese appare in
chiara difficoltà. Infatti, a fronte di un numero di ricercatori più che
adeguato ed a una produttività scientifica di tutto rispetto, l’Italia
non ha finanziamenti sufficienti. Infatti è tra gli ultimi paesi europei
dell’OCSE in termini di finanziamenti a ricerca e sviluppo con un investimento inferiore all’’1% del prodotto interno lordo (solo la Grecia
e il Messico destinano alla ricerca meno fondi di noi).
Soddisfatti questi preliminari requisiti è però anche necessario che i
medici ricercatori siano motivati e che sia chiaro il focus della ricerca.
La motivazione del medico pediatra ad intraprendere la carriera del
ricercatore è il primo grande problema, oggi, in Italia. Io credo fortemente che i ricercatori italiani abbiano una marcia in più rispetto
a molti stranieri, nonostante le palesi carenze organizzative e strutturali, ma manca loro la certezza che verranno valutati in rapporto
ai risultati ottenuti e che la loro competenza di medici ricercatori
verrà valorizzata dal sistema. Inoltre, in Italia manca la creazione
e la definizione di un iter di formazione e di carriera per i medici
ricercatori. Penso in particolare alla necessità di unificare il percorso dottorato di ricerca e specializzazione clinica post-laurea al fine
di formare dei physician scientists in grado di dedicarsi a ricerche
traslazionali che hanno come obiettivo primario la messa a punto
di nuove approcci diagnostici e terapeutici basati sui risultati della
ricerca di laboratorio.
Vi è infine la necessità che sia sempre chiaro il focus della ricerca. In
particolare per le istituzioni di medie e piccole dimensioni è fondamentale specializzarsi e focalizzarsi su tematiche precise, creando
al proprio interno tutte le competenze necessarie per alimentare la
filiera della ricerca traslazione: dal letto del malato al bancone del
laboratorio per ritornare al letto del malato.
51
a cura di Fabio Sereni
Fabio Sereni: Grazie, Maria Grazia. Hai esposto con grande
lucidità le premesse necessarie affinché una moderna ricerca, che parta dalla fisiopatologia e arrivi alla clinica possa
essere condotta. Ma io ti avevo anche chiesto di dirci se a
tuo avviso, possa essere possibile fare ricerca pediatrica
avanzata anche in strutture di minori dimensioni, rispetto,
ad esempio al San Raffaele ove tu operi.
Maria Grazia Roncarolo: è chiaro che chi lavora in grandi istituti scientifici come il San Raffaele ha molti vantaggi non solo
perché l’istituzione fornisce gli elementi di cui sopra, ma anche
perché può accedere a tecnologie di avanguardia che danno al
ricercatore tutti gli strumenti necessari per svolgere il proprio
lavoro. L’Istituto scientifico San Raffaele è il primo istituto in Italia
in termini di pubblicazioni medico-scientifiche e studi clinici sperimentali: grazie alla sua struttura multidisciplinare, alle tecnologie
disponibili e all’interazione continua tra i ricercatori e i clinici delle
diverse aree mediche è diventato negli anni un punto di riferimento,
anche oltre i confini nazionali, per la cura di diverse patologie pediatriche, tra cui le malattie genetiche, le malattie neurodegenerative e
il diabete. Allo studio e cura di queste patologie si dedicano in maniera specifica l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica
(HSR-TIGET), l’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE), e l’Istituto
di Ricerca sul Diabete (DRI), esempi di strutture mirate alla ricerca
traslazione riconosciute a livello internazionale.
L’HSR-TIGET, rappresenta un centro di eccellenza per la ricerca di
base e clinica in terapia genica e cellulare. I ricercatori sono impegnati nella scoperta delle cause genetiche delle malattie rare e nello sviluppo di nuove strategie di cura, che comprendono la terapia
genica, l’utilizzo di cellule staminali, e la modulazione del sistema
immunitario. Il lavoro al HSR-TIGET si focalizza in particolare sulle
malattie genetiche del sangue, del sistema immune e del sistema
lisosomiale.
Un successo del HSR-TIGET, che è stato portato ad esempio in tutto
il mondo, è lo studio clinico di terapia genica per i bambini malati di
ADA-SCID, i cosiddetti “bambini bolla”. Le cellule staminali del sangue del paziente sono state corrette in laboratorio con il gene sano e
successivamente trapiantate nel piccolo malato, portando alla cura
definitiva. I bambini così trattati oggi vanno a scuola e fanno una
vita normale.
L’INSPE, si occupa di malattie neurologiche infiammatorie, degenerative e vascolari. Un team di neurologi, genetisti, patologi e biologi
è appositamente dedicato alle malattie neuromuscolari rare che colpiscono la popolazione pediatrica. Le specifiche competenze permettono un approccio integrato per la diagnosi, la caratterizzazione
clinica e il supporto terapeutico ai pazienti, anche nelle forme più
rare. L’attività di ricerca ha lo scopo di identificare le cause delle
neuropatie genetiche e di mettere a punto terapie innovative. È in
corso uno studio clinico, il primo al mondo, con cellule staminali
adulte generate in laboratorio che ha lo scopo di rigenerare i muscoli
nei bambini affetti da distrofia muscolare di Duchenne.
Il DRI studia i meccanismi responsabili del diabete di tipo 1 e si occupa della messa a punto di terapie avanzate in grado di ripristinare
la tolleranza immunologica. Inoltre, ha un programma di trapianto di
isole tra i primi al mondo in termine di numero di pazienti trattati ed
efficacia della cura.
La domanda se il medico ricercatore che opera in strutture molto più piccole del San Raffaele e non dotate di tutte le infrastrutture, possa ottenere gli stessi risultati ed essere efficace nella
sua ricerca è quindi molto pertinente. Infatti, dobbiamo riconoscere che oggi non è più possibile svolgere la propria ricerca in
52
isolamento, in un piccolo laboratorio artigianale come succedeva 50-60 anni fa. Con la completa decodificazione del genoma gli
scienziati hanno avuto a disposizione, quasi da un giorno all’altro,
un numero enorme di informazioni genetiche, una moltitudine di dati
da analizzare e da interpretare. Questo evento storico ci ha costretto
a voltare pagina, a trovare una nuova metodologia per affrontare i
problemi scientifici in modo più complesso e quindi più completo:
non più un gene, ma una moltitudine di geni che determinano la
firma molecolare (molecular signature) di un tessuto biologico, di
un organo o di un individuo, non più una singola proteina ma una
cascata (pathway) di proteine che regolano interi sistemi biologici.
Questa new wave della ricerca biomedica richiede attività su scala
molto più ampia rispetto al passato, perché deve basarsi sulla utilizzazione di tecnologie avanzate e di approcci complessi, quali ad
esempio lo studio dell’intera struttura genetica (wide genome screening), l’analisi complessiva delle proteine (proteomica), l’utilizzo di
piccoli RNA prodotti dalle cellule per regolare l’espressione delle
proteine (microRNAs), l’imaging in vivo delle cellule e dei tessuti, la
bioinformatica, le nanotecnologie, i modelli sperimentali per l’accensione o spegnimento regolato di un singolo gene (modelli knock-in e
knock-out) etc. è quindi necessario un approccio multidisciplinare e
un vero gioco di squadra, in cui i ricercatori di base devono lavorare
fianco a fianco con i ricercatori clinici, ma anche con gli statistici, i
fisici, etc.
L’obiettivo finale non è solo l’avanzamento delle conoscenze, ma
anche la realizzazione della medicina personalizzata. La figura del
medico ricercatore, ponte tra la ricerca e la clinica, e la ricerca
traslazionale, ponte tra il letto del malato e il bancone del laboratorio, sono sempre più centrali in questo approccio multidisciplinare, che necessita della costante interazione e confronto
tra modelli sperimentali e modelli umani di malattia.
Sulla base di questa visione, nei prossimi anni i piccoli centri o
laboratori basati sull’eccellenza dei singoli e l’iniziativa individuale dovranno fare scelte strategiche mirate. Dovranno attrezzarsi e
organizzarsi in networks su tematiche specifiche. Dovranno fare
sistema e gioco di squadra. Solo così potranno rimanere produttivi e
contribuire alla ricerca biomedica di eccellenza.
F.S.: Grazie, professoressa. Il tuo argomentare è stato soprattutto, a mio modo di vedere, un invito ai giovani ricercatori che
non operano in grandi strutture, a lavorare “in rete”
Sentiamo ora sulle stesse problematiche, Bruno Dallapiccola,
Direttore Scientifico del Bambino Gesù.
Bruno Dallapiccola (Roma): Vorrei tentare di
rispondere al quesito posto dal moderatore ricordando due recenti episodi.
Il primo riguarda un’audizione dei mesi scorsi
presso il Senato dove, insieme ad altri colleghi,
siamo stati chiamati a discutere una proposta di
legge di una senatrice della Lega, che ipotizzaOspedale Pediatrico
va di creare in ogni regione italiana un centro di
Bambino Gesù, Roma
farmacogenetica, gestito dai farmacologi. L’altro
episodio, più recente, riguarda una presa di posizione del Parlamento francese, che ha ipotizzato di creare su tutto il territorio nazionale due centri per le analisi genomiche. Questi
due modelli di splitting (suddivisione) e di lumping (accorpamento),
esemplificano modi antitetici di non razionalizzare o di razionalizzare
e di non economizzare o di economizzare le risorse nella traslazione
nella pratica clinica alcune delle più significative tecnologie “-omiche”.
Tavola rotonda
Ho il privilegio di lavorare presso il più grosso Ospedale pediatrico
italiano, che è classificato come Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), e che, di conseguenza, è chiamato ad assolvere alla missione istituzionale di offrire eccellenza nella assistenza
e nella ricerca traslazionale.
All’interno del nostro complesso progetto di ricerca gli interessi appaiono specificamente focalizzati verso la genetica. Infatti, alcuni
rilievi statistici suggeriscono che addirittura il 71% dei pazienti che
accedono ai policlinici pediatrici siano affetti da una patologia geneticamente determinata o a larga componente genetica (McCandless
et al., 2004).
Partendo da questa premessa, vorrei tentare di rispondere al quesito
che mi è stato posto, richiamando una mia recente presentazione
tenuta presso il Centro internazionale di studi e formazione dell’Istituto Gaslini, che ho provocatoriamente intitolato “Al di qua e al di là
del genoma”.
Viviamo, da medici e ricercatori, un momento particolarmente stimolante del progresso scientifico, quello della “rivoluzione genetica”, avviata dal sequenziamento del genoma umano, e dobbiamo
riuscire a coglierne le potenziali ricadute sulla diagnosi, sul controllo
e il trattamento delle malattie e, in generale, sulla capacità di incidere sul benessere e sulla qualità della vita delle persone. Indipendentemente dallo specifico ruolo e dalla posizione che occupiamo,
per il solo fatto di essere medici abbiamo l’obbligo di comprendere
le tendenze della ricerca, non rinunciando, ognuno per la propria
competenza, a prendere parte attiva al dibattito collegato a questo
processo di trasformazione, destinato ad investire traslazionalmente
la salute e l’economia, con riflessi di tipo legale, sociale ed etico.
Tuttavia, questa proiezione verso il futuro non può non tenere conto
dei traguardi dai quali ci muoviamo, per evitare che l’attenzione,
eccessivamente orientata verso gli obiettivi non ancora raggiunti
o non ancora validati, faccia perdere di vista alcuni capisaldi della
professione medica.
In questo contesto credo non sia difficile rispondere al quesito del
moderatore e identificare il ruolo, per nulla marginale, che compete
ai ricercatori pediatri che lavorano presso strutture che non offrono
le stesse potenzialità delle istituzioni più grandi, come quella presso
la quale svolgo la mia attività. In particolare, ritengo che esistano
almeno tre ambiti principali nei quali essi possono svolgere un ruolo
di impatto. Il primo è quello clinico; il secondo è quello “di nicchia”;
il terzo, forse, il più importante, è quello delle alleanze strategiche.
Per questo, anche a fronte della eccitazione che producono gli approcci altamente innovativi all’analisi genomica e agli aspetti ad
essa collegati, non possiamo non partire dalla clinica, che è il fondamento da cui si muove tutto il progresso scientifico della medicina,
anche quello più sofisticato ed avanzato, e che continua a reclamare il bisogno di uno spazio autonomo di ricerca. Alcuni ambiti
della pediatria, come quello delle malattie rare e della dismorfologia,
documentano il ruolo centrale della semeiotica nell’inquadramento
dei pazienti e la necessità di sviluppare ricerche in ambito clinico,
dalla scoperta di nuove malattie, allo studio della loro storia naturale, alla condivisione di linee-guida per la loro presa in carico ed
il loro trattamento. Nello specifico, circa l’80% delle 7.000-8.000
malattie rare sono di interesse pediatrico e, sebbene il 70% di
esse abbia un’origine ereditaria, al momento sono disponibili test genetici solo per circa 3.500 malattie, a sottolineare il
ruolo centrale della clinica nella loro diagnosi (www.orpha.net).
Inoltre, circa il 50% dei pazienti affetti da sindromi dismorfiche non
viene al momento inquadrata, neppure presso i centri di competenza. Questo ha giustificato la creazione di reti di esperti, come
illustrano le esperienze del progetto Europeo DYSCERNE (Griffiths
et al., 2010) e del progetto italiano RDDR (Dentici et al., 2012), che
documentano la possibilità di ottenere un consenso diagnostico in
circa il 23% dei casi, in precedenza privi di un inquadramento. D’altro canto, la clinica fornisce il materiale biologico indispensabile alla
ricerca genetica, con la quale concorre a scoprire nuove malattie, a
ridefinirne la nosologia e a identificarne le basi biologiche. Un clinico bene formato e orientato alla ricerca, anche disponendo di
dotazioni limitate, può diventare il protagonista di ricerche che
si rivolgono ad aree di nicchia, all’interno delle quali il clinico
può occupare ruoli di rilievo. Per avere successo in questa direzione
è necessario un sostanziale cambio della mentalità, ancora diffusa nel
nostro Paese, che spesso crea barriere alla condivisione e freni alle alleanze e alla formazione di reti.
Questo modello può aiutare il pediatra a guardare i problemi di ogni
paziente utilizzando un approccio di system medicine (medicina di sistema), che fa riferimento alla superconvergenza dei dati clinici e -omici
della persona (Topol, 2012). Questo schema può essere traslato alla
Pediatria, nell’ottica di una “pediatria di sistema”. Secondo Hood e Flores (2012) un modello di riferimento potrebbe essere quello della
Medicina 4P, acronimo di Preventiva, Predittiva, Personalizzata e
Partecipativa. La medicina delle 4P promuove il coinvolgimento
dei singoli nella gestione della propria salute, con un’informazione
completa, accurata e trasparente, in modo da permettere scelte
consapevoli e partecipate, in un’ottica di empowerment.
Seguendo questo ragionamento, possiamo fare nostro il “manifesto”
lanciato da Thomas Boat (2007) in un articolo dedicato alla ricerca pediatrica, che ne prevede un futuro brillante, a condizione che si sappiano
riconoscere e si diano risposte ad una serie di opportunità emergenti.
Le scoperte della biomedicina e la loro traslazione in nuove conoscenze e strumenti a vantaggio della diagnosi e della terapia richiedono la
formazione di un maggior numero di pediatri-scienziati, l’adozione di
nuove tecnologie, l’aumento delle risorse dedicate alla ricerca e alla
formazione e la disseminazione delle attività di ricerca nella comunità
dei pediatri. I pediatri dovranno perciò essere educati a diventare
protagonisti nella ricerca, non solo quella tradizionale, ma anche
quella prefigurata dalla rivoluzione post-genomica, ed ognuno di
essi deve trovare il proprio spazio, all’interno di questo percorso,
assecondando le proprie capacità e le opportunità.
Fabio Sereni: Grazie Maria Grazia e grazie Bruno.
Credo proprio che questa Tavola Rotonda non avrebbe potuto
avere migliore apertura, con due vere e proprie “microrelazioni” di due illustri ricercatori-pediatri, che ci hanno indicato non
solo le condizioni necessarie affinchè una ricerca “avanzata”
possa essere condotta, ma anche, e direi soprattutto, hanno
sottolineato la possibilità, o meglio la necessità che tale ricerca
non sia prerogativa elitaria di pediatri che hanno la ventura di
operare in grandi centri dotati di competenze e strumentazioni
sofisticate, ma sia opportuna e utile anche da parte di pediatriricercatori che lavorano in strutture minori. Gli interventi della
Roncarolo e di Dallapiccola hanno implicitamente anticipato
quanto dovremo discutere nella seconda parte della Tavola Rotonda, e cioè della necessaria pianificazione di una formazione
specifica per giovani ricercatori.
A questo punto della discussione passiamo dai ricercatori-clinici ai clinici-ricercatori.
La parola spetta per primo a Andrea Biondi cui chiedo:
Tu che sei essenzialmente un clinico-oncologo e che hai creato
nella struttura che dirigi un laboratorio avanzato di ricerca, potresti fare anche di più se il tuo laboratorio fosse inserito in un
contesto più ampio di ricerca “traslazionale”?
53
a cura di Fabio Sereni
Andrea Biondi (Milano): Il mio punto di partenza come ricercatore, diversamente da quanto suppongo sia stato per la Roncarolo e per
Dallapiccola, è stato clinico, ed è stato un reparto ospedaliero di riferimento per la diagnosi
e cura dei bambini con malattie emato-oncologiche (leucemie e linfomi), che nella realtà
Direttore Clinica
milanese si colloca all’interno di un ospedale
Pediatrica, Università
(Monza) ad alta specializzazione e di insegnaMilano-Bicocca
mento (Università di Milano-Bicocca), ma non
pediatrico. Il progetto di costruire un Centro di ricerca dedicato alle leucemie del bambino (Centro M. Tettamanti) è
stato inizialmente fortemente voluto dai genitori consapevoli
che di fronte a malattie per le quali non è possibile ancora la
guarigione in tutti i casi, è necessario investire nella ricerca
come unica risposta seria per migliorare il futuro.
Una struttura di ricerca con un forte collegamento con la clinica e le sue domande può avere successo ad alcune condizioni:
1. Focalizzazione rispetto ai progetti. La clinica suggerisce continuamente nuove domande, ma è necessario contenerle per evitare la dispersione. Si riesce ad essere competitivi se si riescono a coniugare la capacità di porre domande
rilevanti per la clinica con quella di avere accesso a modelli e
strumenti in grado di poterle affrontare in modo competitivo alla
rapidissima evoluzione tecnologica.
2. Collegamento funzionale e di collaborazione a livello nazionale ed internazionale con istituzioni/gruppi di ricerca in ambito
affine per supplire alle dimensioni di una massa critica limitata. Questo aspetto è divenuto particolarmente rilevante negli anni recenti
per l’impatto della genetica-molecolare, della bioinformatica, della
modellistica animale, in ogni ambito della ricerca biomedica. La rapidissima evoluzione in campo tecnologico necessita di investimenti
di persone e risorse che non sono economicamente compatibili con
la dimensione di un singolo laboratorio di ricerca.
Non ci sono dubbi che essere inseriti in un contesto più ampio
(istituzione di ricerca di un ospedale pediatrico o più in generale
di ricerca in campo biomedico) offrirebbe vantaggi sia sul piano di
investimenti comuni nelle core facilities che per l’integrazione con
gruppi di ricerca con competenze complementari. Al contrario una
struttura più piccola è certamente più agile e flessibile ad esigenze
nuove che nel tempo vengono considerate strategiche.
Un ultimo aspetto che vorrei sottolineare riguarda il contenuto “traslazionale”. Essere a contatto con i problemi della leucemia del bambino,
ha guidato e fortemente influenzato le priorità. La rivoluzione della
genetica molecolare è stata rapidamente “trasferita al letto del malato” perché è stato facile comprendere che gli strumenti e conoscenze
utilizzate per un progetto di ricerca anche di base sarebbero entrate
rapidamente nella “normalità” dell’approccio diagnostico e nel monitoraggio della leucemia. Essere a diretto contatto con la clinica ed
avere medici con una formazione di ricercatore (Medical scientists)
ha reso il processo possibile. Oggi in tutto il mondo occidentale sta
divenendo sempre più complessa la formazione di Medical scientists,
requisito indispensabile ad una vera ricerca “traslazionale”.
Fabio Sereni: Dopo Andrea Biondi un altro pediatra-ricercatore di chiara fama internazionale, Alberto Martini, cui
chiedo:
Tu che hai creato una efficiente rete internazionale di ricerche cliniche in reumatologia pediatrica giudichi necessario, o comunque giovevole, una connessione organica
“intra-moenia” con la ricerca di base?
54
Alberto Martini (Genova): il ruolo del pediatra
nel processo traslazionale è essenziale e va dalla
creazione, mediante studi in laboratorio, dei presupposti teorici dell’efficacia potenziale di una
nuova terapia fino a rendere fattibile, una volta
disponibile il farmaco, la conduzione di studi clinici controllati che ne dimostrino la sicurezza e
Istituto Gaslini,
l’efficacia. Sia l’FDA (U.S.A.) che l’EMA (Comunità
Università di Genova
Europea) hanno varato di recente la cosiddetta
regola pediatrica, secondo la quale ogni industria
che intende registrare un nuovo farmaco per uso nell’adulto deve fornire dati sulla sua sicurezza ed efficacia anche nel bambino, se, in
età pediatrica, esiste una malattia equivalente a quella per cui viene
chiesta la registrazione nell’adulto. A fronte di questo impegno l’industria riceve dei benefici economicim il più importante dei quali è un
prolungamento di 6 mesi del brevetto. Tuttavia, fare studi controllati
in malattie rare, quali sono la maggioranza di quelle del bambino, non è facile per vari motivi. Occorre radunare in un tempo
ragionevole un numero sufficiente di pazienti (e questo è possibile solo attraverso la creazione di vaste reti internazionali) e definire
criteri affidabili e validati attraverso cui giudicare in maniera attendibile l’effetto dei farmaci (spesso i criteri in uso nell’adulto non
sono applicabili al bambino). La reumatologia pediatrica è stata, tra le
specialità pediatriche, quella che per prima ha tratto vantaggio dalla
regola pediatrica grazie all’esistenza di due grandi reti che agiscono
in stretta collaborazione PRINTO (Pediatric rheumatology International
trial organization), che fondammo 16 anni fa, che ha sede al Gaslini
e che raduna tutti i centri di reumatologia pediatrica del mondo con
l’eccezione del Nord America che è invece coordinato dall’altra rete il
PRCSG (Pediatric rheumatology collaborative study group). Entrambe
queste reti, ancor prima che venisse varata la regola pediatrica, avevano definito e validato i criteri con cui giudicare l’efficacia dei farmaci
nelle malattie reumatiche del bambino. Tramite la collaborazione di
queste reti è stato possibile effettuare gli studi che hanno portato alla
registrazione di tutti i nuovi farmaci biologici attualmente impiegati
nella terapia dell’artrite idiopatica giovanile.
La presenza di un laboratorio che fornisca i presupposti
scientifici per il successivo impiego di un farmaco in clinica è perciò essenziale, ma non esaurisce il contributo che
il pediatra ricercatore può dare al processo traslazionale
necessario per portare il farmaco fino al letto del malato.
Fabio Sereni: Siamo quasi giunti alla fine di questo primo giro di
interventi. Non ci resta che sentire l’altra faccia della medaglia e
cioè come vivono il rapporto della pediatria clinica due giovani
scienziati da anni impegnati con successo, full-time, in ricerca traslazionale. La parola, per primo, ad Alberto Auricchio, professore
a Napoli di Genetica Clinica e “Principal Investigator” al TIGEM.
Interverrà subito dopo Maria Pia Rastaldi, direttore del Laboratorio
di Nefrologia Sperimentale della Fondazione D’Amico di Milano.
Alberto Auricchio (Napoli): Nella mia carriera
scientifica, da ricercatore che ha focalizzato la
propria attenzione su malattie pediatriche,
l’interazione con la clinica è stata e continua ad essere fondamentale. Per esempio,
l’identificazione di geni responsabili per forme mendeliane di disordini della motilità inTIGEM, Napoli
testinale è partita dalla osservazione clinica di
Università Federico II
pazienti con queste rare malattie e dallo studio
di Napoli
dei loro geni. Quindi il lavoro di ricerca in laboratorio è nato dalla osservazione clinica. In tempi più recenti mi
Tavola rotonda
sono occupato di sviluppare tecniche di terapia genica per malattie rare di interesse pediatrico, come le malattie da accumulo
lisosomiale. In questo caso il lavoro è partito in laboratorio per
approdare poi al test nel paziente.
La ricerca attuale, con le relative possibilità di finanziamento
e di formazione per giovani ricercatori, tende ad essere sempre
più “traslazionale” cioè ad avere ricadute dirette sulla salute dei
pazienti. Chiaramente questa ricerca è legato a doppio filo con
la clinica, in maniera simile gli esempi di esperienza personale
che vi ho riportato. La Comunità europea offre molte di queste
opportunità di finanziamento e anche in Italia ci si sta muovendo in questo senso. Pertanto questo è un momento particolarmente favorevole, perché un giovane pediatra possa investire in
ricerca, sia essa clinica che di base.
Il mio personale consiglio ad un giovane laureando in Medicina
o specializzando in Pediatria che ha interesse verso la ricerca
e che vuole intraprendere un percorso formativo in questo
senso è quello di passare un periodo più o meno lungo in un
laboratorio di ricerca di base applicata a tematiche di interesse pediatrico. Questo laboratorio dovrebbe essere cutting
edge in termini di ricerca sviluppata e con un track record di
pubblicazioni scientifiche di alto livello. Sarebbe auspicabile che
questo laboratorio fosse all’estero, per rendere l’esperienza il più
formativa possibile anche dal punto di vista del contatto con realtà
di eccellenza straniere e per l’apprendimento della lingua inglese.
Nella mia personale opinione un’esperienza di questo tipo non
solo rappresenta un passaggio fondamentale per chi della ricerca (anche clinica) vuole fare la sua professione, ma anche per
quei giovani che dopo quest’esperienza dovessero decidere di
investire in una carriera più prettamente assistenziale.
Maria Pia Rastaldi (Milano): Per chi si occupa di ricerca di base, credo che uno stabile
rapporto di inter-relazione con la clinica garantisca almeno due vantaggi fondamentali: il
primo riguarda la possibilità di tenere in considerazione le priorità e le urgenze dal punto
di vista dei pazienti; il secondo è la possibilità
Fondazione D’Amico,
di verifica immediata della valenza dei risultati
Milano
della ricerca di base nell’uomo.
In ambito nefrologico, soprattutto nefrologico
pediatrico, si può affermare con certezza che esiste una domanda urgente di terapie specifiche. La maggior parte delle
malattie glomerulari viene trattata ancora oggi in modo aspecifico perché le conoscenze eziologiche e patogenetiche non
sono complete. Il nostro laboratorio, attraverso lo studio della
barriera di filtrazione, e in particolare della cellula podocitaria,
sta cercando di capire aspetti fisiopatologici che possano condurre al miglioramento diagnostico e quindi anche terapeutico delle
patologie proteinuriche. Il passaggio delle conoscenze dal laboratorio ad applicazioni pratiche, diagnostiche e terapeutiche,
non è ovviamente immediato. I clinici ci ricordano questi aspetti
quotidianamente, con le problematiche che sorgono per i
loro pazienti, e la loro collaborazione è fondamentale per la
traslazione dei risultati.
Il secondo aspetto, cioè la possibilità di verificare su materiale
biologico umano se le scoperte della ricerca di base sono rilevanti nelle patologie umane, costituisce un vantaggio irrinunciabile. Consente per esempio di verificare se molecole o vie
di segnale, studiate in vitro e nei modelli sperimentali, siano
coinvolte specificamente, da un punto di vista sia spaziale che
temporale, in una determinata malattia, oppure facciano parte
di meccanismi patogenetici comuni a patologie diverse.
Per quanto concerne la possibilità di un rapporto più organico
e anche meno “locale” con la clinica, credo che questo sia responsabilità del ricercatore. Sappiamo che oggi la clinica, almeno nel contesto italiano attuale, soffre di carenze di personale
e di una serie di incombenze amministrative che riducono il tempo
a disposizione degli operatori. Quindi, è compito del ricercatore
riuscire a far passare il messaggio che quanto si sta facendo
è utile al clinico, e può influenzare nel medio e lungo periodo,
proprio la pratica quotidiana. È necessario organizzare riunioni
periodiche, e soprattutto essere capaci di coinvolgere i clinici non
solo nei progetti di ricerca e nelle riunioni di laboratorio, ma
anche nelle richieste di finanziamento, in modo che parte dei
finanziamenti possa essere utilizzato per l’acquisizione di personale che possa lavorare “a ponte” tra laboratorio e reparto.
Infine, desidero sottolineare l’importanza che hanno in questi
processi le fondazioni e le associazioni che operano a sostegno
dei pazienti. Le organizzazioni no-profit hanno un’importanza
strategica fondamentale, di supporto e di comunicazione e vanno sensibilizzate e coinvolte sui temi della ricerca. Da questo
punto di vista, ancora una volta il parere del clinico e la sua
collaborazione sono indispensabili ad instaurare un solido ed
efficace rapporto con il mondo del no-profit.
Fabio Sereni: Qui termina la prima parte della Tavola Rotonda.
La seconda parte sarà dedicata al possibile ruolo delle Società scientifiche pediatriche nel sostenere la ricerca, che
abbiamo definito avanzata e che, con una certa semplificazione, si può definire come caratterizzata da una interfaccia
operativa tra ricerca di base (traslazionale) e ricerca clinica.
Ma prima di dare la parola ad Armido Rubino, Francesco Chiarelli e Giovanni Corsello è opportuno dedicare un breve tempo
a domande e commenti da parte del pubblico presente.
Ha alzato per primo la mano Riccardo Troncone, cui spetta
quindi subito la parola, ma subito dopo interverranno altri
che vedo desiderosi di interloquire.
Riccardo Troncone (Napoli): Desidero sottolineare che è necessario distinguere due diverse professionalità: quella del clinico che fa ricerca e quella del clinico che partecipa alla ricerca
in un progetto “esterno”. Penso inoltre che sia particolarmente
importante discutere del percorso di formazione alla ricerca dei
giovani specializzandi. La concomitanza tra specializzazione e
dottorato è una realtà nella nostra facoltà, così come il soggiorno
all’estero di specializzandi impegnati nella ricerca.
Alberto Martini: Come Collegio dei professori universitari abbiamo
presentato la proposta di possibile commistione dottorato e specializzazione, proposta che è stata inclusa nella legge Gelmini. Ma
manca ancora, per essere effettiva, la legge di riordino del dottorato.
Francesco Chiarelli (Chieti): Secondo l’attuale normativa è
possibile che uno specializzando trascorra dodici mesi all’estero
anche per essere formato nella ricerca.
Andrea Lo Vecchio (Napoli): Sono un dottorando al primo anno,
che ha già avuto un’esperienza di lavoro all’estero, ove ho avuto
modo di osservare e di apprezzare notevoli differenze rispetto
all’Italia. Il problema fondamentale per me resta quello dei possibili sbocchi professionali per un giovane che vuole fare ricerca.
55
a cura di Fabio Sereni
Sergio Maddaluno (Napoli): La mia domanda, come specializzando, è la seguente: se volessi dedicarmi e intraprendere un
percorso nel campo della ricerca, quale sbocco professionale
posso attendermi?
Bruno Dallapiccola: Mi sentirei un fallito se non consigliassi a
giovani che hanno questa intenzione di insistere nella loro vocazione. In primis è necessario un tutor o un gruppo di riferimento.
Il pediatra ricercatore del futuro è un pediatra che impara la ricerca e fa meglio la clinica. È necessaria la creazione di un sistema che accolga “i nuovi professionisti”. Posso citare l’esempio
dell’Ospedale pediatrico “Bambino Gesù”, che ogni anno offre
ai giovani circa 200 contratti di ricerca, con fondi disponibili nei
budget dei progetti di ricerca in corso.
Alberto Martini: Ed io vorrei aggiungere: se fosse pienamente
accolta la nostra proposta di fusione dottorato-specializzazione
si potrebbe diventare dottore in ricerca in una determinata specialità pediatrica (ad esempio in gastroenterologia pediatrica) e
si potrebbero così meglio determinare sbocchi professionali.
Alfredo Guarino (Napoli): La buona ricerca è basata su passione,
rigore, capacità intellettuale. Il ricercatore non sarà mai ricco, la passione è il driver della ricerca. Il modello delle malattie rare e della ricerca di laboratorio traslazionale non è l’unico modello. Il laboratorio
rimane un (toll) per la ricerca clinica. I modelli cambiano velocemente, ma il fondamento, perché siano seri, è la selezione onesta. Finora,
in Italia, il metodo della selezione onesta è stato tradito.
Salvatore Auricchio (Napoli): A questo punto della discussione
vorrei porre l’accento sull’importanza del rapporto tra ricerca nelle
specialità pediatriche e ricerca nelle analoghe specialità dell’adulto.
È ovvio che per fare una buona clinica vi deve essere alla base la
ricerca, e la ricerca, per essere competitiva, deve raggiungere una
massa critica. Per le specialità pediatriche (parlo per la gastroenterologia che è il mio settore di competenza) esiste oggi un gap enorme tra la qualità della ricerca pediatrica e quella dell’adulto. Credo
quindi che alla base debba essere ripensato il nostro rapporto con
le specialità dell’adulto.
Generoso Andria (Napoli): Due brevi considerazioni su alcuni punti finora discussi. La prima sul concetto di massa critica. La
massa critica può anche essere creata dal nulla, se esiste una forte
personalità in grado di crearla. Questo è l’esempio che ci ha lasciato
Antonio Cao, che è riuscito a fondare, partendo da zero, un grande
centro di ricerca di base e traslazionale in Sardegna. Massa critica,
poi, non significa che coloro che sono interessati ad un certo tipo di
ricerca scientifica debbano fisicamente risiedere nello stesso posto.
Gli eccellenti risultati ottenuti da Alberto Martini e dal suo gruppo
confermano che è possibile produrre ad altissimi livelli con una
ricerca puramente clinica di sperimentazione farmacologica, che
utilizza la comunità scientifica internazionale,diffusa in un mondo
ormai globalizzato. Un secondo commento riguarda la possibilità di
sbocchi occupazionali per giovani pediatri che si siano dedicati alla
ricerca. Quali sono le istituzioni in cui è possibile assorbire pediatri con una formazione in ricerca? Penso che ci si debba limitare
ai dipartimenti universitari di pediatria e a 3-4 istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico, in quanto la maggior parte dei cosiddetti ospedali pediatrici non è molto produttiva in campo scientifico.
Fino a qualche anno fa avrei detto che le possibilità di occupazione
per giovani ricercatori di estrazione pediatrica erano molto limitati
56
nell’ambito universitario, a causa di una gerontocrazia che aveva
accumulato nei ruoli universitari un gran numero di docenti anziani.
Da qualche anno il grosso di questi docenti è uscito dai ruoli e quindi
ha creato spazio per personale più giovane. D’altra parte la cosiddetta riforma Gelmini ha previsto nuovi posti di ricercatore a tempo
determinato, che dovrebbero idealmente essere banditi quando le
università sono in grado di garantire con fondi dedicati la progressione di carriera a professore associato, ovviamente per le persone
meritevoli. Ecco perché per i giovani motivati è questo il momento
di seguire la propria vocazione, formarsi in centri qualificati e scommettere sul futuro.
Fabio Sereni: Siamo così giunti alla parte conclusiva di questa
Tavola Rotonda.
La parola, ora, ai rappresentanti delle società scientifiche, cui
spetta il compito istituzionale di favorire lo sviluppo di una ricerca pediatrica di alto livello qualitativo in Italia. Do per primi
la parola ad Armido Rubino, fondatore e primo presidente della Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP), e subito dopo a
Francesco Chiarelli, attuale presidente della stessa Società.
Ad Armido Rubino chiedo:
Quali sono stati i principali motivi che ti hanno spinto a fondare
la Società Italiana di Ricerca Pediatrica?
Armido Rubino (Napoli): Preciso che motivi
hanno spinto non solo me ma anche i numerosi colleghi che hanno voluto la fondazione della
SIRP. Due cose erano intollerabili e ci spingevano
a reagire: la vergognosa scarsità di attenzione, in
generale e in particolare per il sostegno finanziario alla ricerca scientifica, con l’Italia confinata al
Fondatore e primo
fondo delle relative classifiche fra i paesi europresidente della
pei. Ciò avviene malgrado l’ottima qualità della
Società Italiana
di Ricerca Pediatrica ricerca pediatrica italiana che, dopo un lungo
(SIRP)
cammino di ripresa da pesanti ritardi, gode ormai di posizioni e riconoscimenti notevoli nel quadro internazionale
nei campi di numerose specialità pediatriche; la ben nota e inaccettabile condizione dei giovani, in particolare i talenti impegnati nella
ricerca pediatrica universitaria ed extrauniversitaria: si tratta di una
straordinaria miniera di risorse umane per le quali il futuro resta problematico, anche a causa della scarsa attenzione a razionali collegamenti tra formazione e lavoro. Come è noto si tratta di un gravissimo
problema del Paese, fatta eccezione per pochi fortunati peraltro in
un sistema generale poco meritocratico.
Siamo convinti che una situazione generale così grave richiede, tra
l’altro, un forte impegno da parte di una società che ponga la ricerca scientifica al centro dei propri obiettivi e conseguenti azioni.
Si tratta, tra l’altro, di correggere una vera e propria anomalia
generale nel campo delle discipline cliniche nel nostro Paese:
la confusione fra società scientifiche nel senso più stretto della
parola (cioè operanti per la promozione e l’attuazione di ricerca
scientifica, con compagini societarie costituite da soggetti per
i quali la ricerca costituisce attività principale e prioritaria) e
società la cui composizione e conseguenti obiettivi si avvicina
di più a quella delle associazioni tra professionisti. Guardando ai
paesi scientificamente più evoluti, per esempio gli Stati Uniti, le “Società di ricerca scientifica” sono distinte da quelle che accolgono più
in generale i professionisti operanti nel corrispondente settore. Anche in Italia, se guardiamo all’ambito generale del Sapere non medico, ma anche al sapere biomedico nelle sue varie articolazioni delle
discipline di base, cogliamo l’esistenza di società specificamente e
Tavola rotonda
interamente devolute alla ricerca scientifica, distinte da quelle che
accolgono tutti coloro che, in possesso delle corrispondenti lauree
e/o specializzazioni, svolgono le rispettive attività professionali.
Nasceva così, circa quattro anni orsono, la Società Italiana di Ricerca
Pediatrica con precisi connotati statutari:
• una compagine societaria costituita da soggetti selezionati e
accettati sulla base di comprovata attività scientifica svolta nella comunità nazionale, ma nel quadro di collegamenti e riconoscimenti internazionali;
• apertura a presenze di ricercatori anche non pediatri – o anche
non medici – nella consapevolezza del crescente ruolo della
ricerca prodotta anche da non pediatri, tuttavia finalizzata al
progresso delle conoscenze con ricadute sulla salute in infanzia
e adolescenza. Da qui l’obiettivo di promuovere rapporti tra pediatri e non pediatri verso comuni obiettivi di potenziali ricadute
per la “ricerca di interesse pediatrico”.
Le azioni messe in campo comprendono: progetti di ricerca SIRP;
corsi di formazione alla ricerca scientifica; attivazione di gruppi
per la formulazione di posizioni societarie su questioni controverse; attività di comunicazione attraverso il sito web; attività editoriali anche online di tipo divulgativo destinate alla popolazione
generale.
Desidero commentare più in dettaglio i “Progetti di ricerca SIRP”.
Si tratterà di progetti di ricerca programmati e condotti da uno o
più Soci, i quali sottopongono alla Società i progetti medesimi per
eventuale patrocinio e finanziamento (in relazione alle risorse disponibili e/o a quelle specificamente acquisite per il progetto medesimo, attraverso l’azione di fund raising). I progetti potranno essere
spontaneamente proposti, ovvero sollecitati con appositi bandi SIRP
riferiti a determinati ambiti di ricerca scientifica di interesse pediatrico. Il principal investigator (autore della proposta e/o titolare della
partecipazione al bando) è Socio SIRP con la più ampia possibilità di
collaborazioni con altri ricercatori o gruppi. È vivamente raccomandata la presenza, tra i collaboratori, di almeno un socio SIRP Junior.
Il progetto è sottoposto a una valutazione qualitativa attuata da apposita Commissione, nominata dal Consiglio Direttivo, che si avvarrà
anche di qualificate competenze di reviewers esterni alla Società. Il
giudizio è basato sulle caratteristiche intrinseche del progetto, i curricula del principal investigator e degli altri partecipanti, le caratteristiche della (o delle) struttura(e) in cui il progetto dovrà essere realizzato.
Sono adottati criteri di valutazione che mirano a garantire sia la qualità scientifica dei progetti approvati che la loro coerenza e pertinenza con le finalità della Società: contenuti innovativi; originalità e
rilevanza della ricerca proposta; importanza dei “risultati attesi” per
i potenziali effetti sulla salute in età evolutiva; metodi e strategia di
sviluppo del progetto; congruità economica; eventuale disponibilità
di fondi in cofinanziamento; caratteristiche della struttura ospitante e facilities a disposizione per la ricerca; eventuali collaborazioni
scientifiche, con relative certificazioni di disponibilità dei collaboratori. A seguito di valutazione positiva del progetto, la SIRP si fa carico
del relativo finanziamento o anche solo cofinanziamento.
Per la promozione delle varie attività societarie sono operative Commissioni riguardanti specifici ambiti: “sperimentazione farmaci e
trials clinici”; “ricerca in neonatologia”; “ricerca in Neuroscienze e
sviluppo in età evolutiva”; “ricerca sui determinanti ambientali della
salute infantile”; “ricerca in adolescentologia”; “ricerca in nutrizione”. Altri ambiti potranno essere individuati.
Altre Commissioni sono operative con finalità più generali: promozione della ricerca scientifica; ricadute della ricerca scientifica sulla
promozione della salute in età evolutiva; rapporti con altre società
scientifiche e con fondazioni; comunicazione e informazione; for-
mazione dei giovani alla ricerca scientifica; internazionalizzazione;
promozione e coordinamento dei gruppi di lavoro.
Intendiamo inoltre promuovere e attuare opera di divulgazione, destinata alla popolazione generale e in particolare alle famiglie, sia
attraverso attività editoriali sia online, su temi di educazione alla
salute in età infantile e adolescenziale.
Concludo richiamando tre aspetti generali che caratterizzano l’intera
attività societaria.
In primo luogo: la cura dei collegamenti con la comunità scientifica
internazionale, con particolare attenzione alla costruzione di rapporti
con specifici Centri di ricerca, sia per favorire permanenze prolungate di giovani per attività di formazione alla ricerca, sia per costruire
collaborazioni su specifici progetti.
In secondo luogo: impegno all’interazione con le culture scientifiche non pediatriche ma comunque riguardanti la salute in infanzia
e adolescenza.
Last but not least: forte impegno, anche attraverso l’attribuzione di
specifiche funzioni a singoli soci, nella cura dei rapporti collaborativi
con tutte le società scientifiche di area pediatrica in primis la Società
Italiana di Pediatria.
Ho tentato di rispondere alla domanda “perché avete fondato la
SIRP?”. È appena il caso di aggiungere che, ove la domanda fosse
stata “in che misura sono realizzati gli obiettivi?”. La risposta sarebbe
stata tutt’altro che trionfalistica. La Società è neonata, nata peraltro in
un periodo di grave crisi finanziaria nel Paese. Azioni e risultati sono
ovviamente connessi alle risorse finanziarie disponibili. Altrettanto ovviamente le risorse vanno acquisite con modalità eticamente irreprensibili. Da qui alcune recenti modifiche statutarie, tra cui l’introduzione
della figura del “Socio sostenitore” e la stessa trasformazione in SIRPOnlus. L’auspicio è che la macchina messa in campo possa costituire,
soprattutto per i più giovani, un utile strumento per la ricerca scientifica di interesse pediatrico nel nostro Paese.
Fabio Sereni: A Franco Chiarelli chiederei:
Ha la SIRP, un progetto per formare giovani ricercatori di base
che abbiano cultura e interessi pediatrici? Quali possibili modalità?
Francesco Chiarelli (Chieti): La Società Italiana
di Ricerca Pediatrica (SIRP) ha nel suo Statuto il
preciso obiettivo di “Tutela, promozione e valorizzazione, in ambito nazionale e internazionale,
degli investimenti a sostegno dello sviluppo di
nuove conoscenze che abbiano potenziali positive ricadute sulla salute dei bambini”; inoltre,
Presidente della
di “svolgere azione divulgativa, di informazione
Società Italiana
e sensibilizzazione verso la pubblica opinione, la
di Ricerca Pediatrica
(SIRP) - Università di politica, la società, le pubbliche amministrazioni
sulle questioni che attengono alle attività di riChieti
cerca scientifica” con particolare riferimento alla
formazione dei giovani alla ricerca scientifica; infine, la SIRP prevede
la figura dei Soci Junior, cioè di soci di età inferiore a 35 anni che sono
“documentatamente impegnati in attività di formazione alla ricerca
scientifica di interesse pediatrico”.
Inoltre, la SIRP ha di già organizzato ed intende organizzare in futuro
corsi di formazione alla ricerca scientifica dedicati a giovani ricercatori, dove essi possano conoscere ed imparare le nuove frontiere della ricerca, le nuove metodologie, come scrivere e rivedere un
lavoro scientifico, come presentare a meeting internazionali, come
eseguire e come interpretare una revisione sistematica della letteratura, come utilizzare le nuove tecnologie informatiche (tablet e
smartphone) per la ricerca scientifica, ecc.
57
a cura di Fabio Sereni
La SIRP ha anche dato, insieme al Collegio dei Professori Universitari di Pediatria (Co.P.U.Pe) ed al Coordinamento dei Direttori delle
Scuole di Specializzazione in Pediatria, un contributo sostanziale al
riconoscimento di un anno della Scuola di Specializzazione in Pediatria da spendere per il successivo Dottorato di Ricerca in Scienze
Pediatriche; ciò consentirebbe di abbreviare il Dottorato di Ricerca
a 2 anni anziché a 3 anni. L’obiettivo successivo che SIRP si propone di perseguire è la possibilità che il Dottorato di Ricerca venga
retribuito in modo migliore, allineandosi ai paesi del Nord Europa. Si
avrà anche l’obiettivo di rendere omogenei i Dottorati di Ricerca in
Pediatria, in termini di criteri per l’ottenimento del titolo di Dottore
di Ricerca (ad esempio, numero di lavori pubblicati a primo nome,
stage in prestigiosi Istituti internazionali, acquisizione e padronanza
documentata di metodiche di ricerca avanzata, ecc.).
Non appena le condizioni finanziarie della SIRP lo consentiranno, la
nostra Società intende, inoltre, istituire una Borsa di Studio, intitolata
ad Antonio Cao, per permettere ad un giovane ricercatore italiano di
trascorrere un anno in un prestigioso istituto di ricerca.
Fabio Sereni: E a Chiarelli chiederei anche:
Ha la SIRP in cantiere qualche progetto per incentivare la cultura dei clinici ai problemi scientifici di “base”?
Francesco Chiarelli: La SIRP è estremamente impegnata in questo
settore e persegue questo obiettivo attraverso la pianificazione e
realizzazione di sessioni congiunte, dedicate alla ricerca scientifica
ed alle ricadute di essa sulla attività clinica pediatrica, durante il
Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria (SIP) e delle Società affiliate. Nel 2013 sono previste sessioni dedicate alla
ricerca scientifica nel Congresso Nazionale della SIP, della Società
Italiana di Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI), della Società Italiana
di Infettivologia Pediatrica (SITIP), della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP) e della Società Italiana di
Neurologia Pediatrica (SINP).
La SIRP, inoltre, ha sul suo sito web (www.sirped.it) sessioni e rubriche che hanno lo scopo di diffondere le più recenti ed autorevoli acquisizioni nella ricerca scientifica che abbiano rilevanti implicazioni
e ricadute per la attività clinica rivolta ai bambini: la SIRP fa notizia
pubblica sul sito recenti lavori di Soci della SIRP; la SIRP sulla notizia
include commenti di un socio SIRP ad un recente lavoro di grande
rilevanza di ricerca di base o clinica, che insieme alle News dalla
Letteratura Scientifica ha lo scopo di aggiornare rapidamente ed in
modo autorevole i pediatri italiani; infine, la SIRP, in collaborazione
ed in accordo con prestigiose società scientifiche internazionali (ad
esempio ESPGHAN, ESPE, ecc.) pubblica Consensus Statements e
Linee Guida su importanti temi di pediatria, in modo da offrire ai
pediatri italiani quanto di meglio e di più aggiornato vi sia in circolazione, in modo da offrire ai bambini italiani una sempre migliore
qualità delle cure.
La SIRP si impegnerà molto nei prossimi anni in modo proattivo
nel garantire che gli eventi formativi per la formazione continua
del medico pediatra siano ispirati sempre più al rigore scientifico
e condotti con una metodologia internazionalmente riconosciuta.
Fabio Sereni: Conclude la serie di interventi Giovanni Corsello,
non solo neopresidente della Società Italiana di Pediatria, ma
anche professore universitario.
La mia domanda è la seguente:
Cosa pensi che l’Università potrebbe fare (e non fa) per formare
giovani pediatri (o anche biologi e biotecnologi) alla ricerca di
interesse pediatrico?
58
Giovanni Corsello (Palermo): Nel corso degli anni si è assistito ad un progressivo allontanamento dei laureati in medicina e chirurgia
dall’addestramento alla ricerca scientifica dovuto a cause diverse tra cui:
•
•
•
La difficoltà di una pratica in tal senso duPresidente SIP,
rante il corso di laurea e in parte anche
Università di Palermo
durante i corsi di specializzazione, per un
prevalente addestramento di ordine professionalizzante;
Carenza di proposte metodologiche strutturate verso la ricerca
nelle Università e nelle scuole di specializzazione;
Carenza di dottorati veramente orientati alla ricerca in area pediatrica (esperienze limitate per numeri e tipologia).
Nello stesso tempo l’attività di ricerca è diventata uno degli indicatori di qualità del sistema più diffusi e accettati. Ricerca e innovazione
sono le leve principali per la crescita e lo sviluppo di un paese moderno, pur nella difficoltà di reperire risorse dedicate.
Nelle Università diventa necessario e strategico definire modelli organizzativi e aree funzionali a supporto della ricerca, come
viene diffusamente fatto per la didattica. Sono necessari non
solo i manager per la didattica, ma anche per la ricerca nelle
diverse aree. Spesso i ricercatori di area biomedica e clinica sono
autodidatti e devono gestire sia le attività organizzative di ricerca,
che gli aspetti relativi alla tutela intellettuale e alla valorizzazione dei
risultati della propria ricerca. È necessario reclutare il personale
universitario in modo coerente con gli obiettivi di promuovere
la ricerca e non utilizzarlo a scopi prevalentemente didattici o
assistenziali, pur nella condivisione che la ricerca nelle discipline cliniche non può essere sganciata da una utile integrazione delle competenze. La pari dignità tra attività di ricerca e attività
assistenziale va sancita ai vari livelli istituzionali.
Per quanto riguarda nello specifico la pediatria, bisogna valorizzare di
più le ricerche multidisciplinari, che includono anche le aree biologiche e le attività traslazionali, nonché i settori specialistici dell’adulto.
Interazione e integrazione diventano fondamentali in questo ambito.
Altro aspetto da curare, in parte collegato al precedente, è quello
della internazionalizzazione, da attuare favorendo gli scambi e i contatti dei giovani ricercatori con le istituzioni di ricerca estere.
Fabio Sereni: La SIP ha in programma progetti per educare i
pediatri a comprendere meglio che la ricerca è presupposto per
la buona assistenza?
Giovanni Corsello: La SIP deve farsi carico di un messaggio a
tutti i pediatri che senza una buona attività di ricerca non si
possono garantire né buona formazione né buona assistenza.
Promuovere indagini sullo stato attuale della ricerca pediatrica in
Italia e diffonderli attraverso i suoi strumenti editoriali (Prospettive in
Pediatria; Italian Journal of Pediatrics; Pediatria, sito WEB);
Favorire attività multidisciplinari mettendo in rete gruppi di studio e
società affiliate, nonché società di medicina dell’adulto;
Promozione della ricerca tra i giovani, con un approccio di formazione metodologico a comprendere i risultati della ricerca e a “fare”
ricerca;
Internazionalizzazione attraverso studi e iniziative condivise con altre società scientifiche di area pediatrica europee ed internazionali
(premi e soggiorni di ricerca all’estero).
Fabio Sereni: Grazie Presidente. Hai concluso molto puntualmente ed esaurientemente questa Tavola Rotonda.
Tavola rotonda
Abbiamo trascorso più di due lunghe ore ascoltando il punto di vista, sugli attuali problemi della ricerca pediatrica italiana, di
molte autorevole personalità con diverse competenze. A me spettano solo alcune considerazioni conclusive.
Se il futuro della ricerca pediatrica italiana dipendesse in maniera predominante dalla presenza, nel nostro Paese, di valenti ricercatori, di base e clinici, e di strutture efficienti, e anche se vi fosse ragionevole certezza che le buone intenzioni programmatiche
degli attuali responsabili della politica culturale delle due più importanti società scientifiche fossero attuate, io credo che sarebbe
lecito, alla fine di questa Tavola Rotonda, essere moderatamente ottimisti.
Abbiamo infatti inteso con quale giustificata soddisfazione Maria Grazia Roncarolo e Bruno Dallapiccola ci hanno parlato della
ricerca traslazionale e clinica dei due grandi centri di ricerca che dirigono, abbiamo anche saputo che ogni anno, solamente al
Bambin Gesù, vengono assegnati circa 200 contratti di ricerca per giovani ricercatori. E poi Andrea Biondi e Alberto Martini ci
hanno fatto partecipi di ricerche che, nelle istituzioni che attualmente dirigono, sono sicuramente di livello molto elevato, secondo
ogni standard internazionale. E infine, Alberto Auricchio e Maria Pia Rastaldi, due giovani e affermati ricercatori di base, ci hanno
testimoniato come il loro raggiunto successo sia dovuto alla collaborazione con una pediatria italiana di alto livello, e cioè a un
ben stabilito e fruttuoso rapporto tra ricerca traslazionale e ricerca clinica.
Se ciò non bastasse abbiamo anche avuto assicurazione da Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria, e da
Francesco Chiarelli, Presidente della Società Italiana di Ricerca Pediatrica, che saranno programmati nel prossimo futuro corsi
di formazione per giovani ricercatori e saranno proposte nuove normative volte a creare legittimi sbocchi di lavoro ai giovani
ricercatori italiani.
Per riassumere con poche parole quanto abbiamo inteso, si può quindi dire che in Italia esistono oggi aspetti positivi per la ricerca
pediatrica avanzata, traslazionale e clinica.
Ma purtroppo tutto questo non basta a giustificare il cauto ottimismo cui ho accennato più sopra. Non esiste infatti futuro, per
la ricerca biomedica avanzata, senza adeguati fondi che garantiscano la possibilità di costante sviluppo e innovazione, e senza
un reclutamento consistente e continuo di giovani ricercatori, cui sia possibile dare ragionevoli certezze di sbocchi carrieristici.
L’attuale crisi economica e la lecita incertezza sulle priorità delle future politiche culturali del nostro paese non inducono certo
all’ottimismo.
Io credo, per concludere, che bene abbia fatto la Direzione di Prospettive a organizzare questa Tavola Rotonda, come contributo
alla conoscenza dei problemi attuali e come stimolo per i responsabili a un impegno urgente ed efficace per assicurare la continuità e lo sviluppo di una ricerca avanzata pediatrica nel nostro paese.
59