I Quaderni dall`Isola-X

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I Quaderni dall`Isola-X
I Quaderni dall'Isola-SALEGROSSO
X Quaderno dall'Isola
La letteratura delle immagini è la vita.
Prendo l'autobus, respiro il passato nel presente. Questa dolcezza ti appartiene, Dove sei? Cosa fai?
Anima mia. Questo sole cade sul lato gelido del pianeta che s'è spostato nella nicchia cosmica per far
posto all'inverno.
Viaggio libero, senza più appuntamenti, respirando appena una coda di gasolio bruciato, bruciando
appena la coda di un rosso. Tutto è in attesa della sera come se il parco, ad esempio, già sveglio rimanesse
immobile sul proprio letto di foglie, pigro a rallegrarsi degli ultimi tratti di luce calda, tiepida e del colore
ancora vivace. Ancora un minuto, prima di darmi alla notte, al tacito incessante darsi da fare per trovare
un buco, per fuggire il freddo, l'inverno. Una lapide artica, rischiarata da glaciali insegne. Una lapide
lastricata di passi: la strada. Almeno le statue in restauro dell'Isola Memmia hanno una casa di carta e
mani dolci che le accarezzano.
Nel mio film il protagonista verrà sorpreso dal buio e per tre secondi resterà immobilizzato sulle scale
prima di trovare il pulsante e avere così il tempo necessario per entrare in casa. La luce delle scale ha
sempre i minuti contati.
Ogni notte le forze dell'ordine assaltano le tane dei peccatori e fanno pulizia sulle strade, lasciando alla
città deserta deserti sonni senza sogni.
Non voglio la morte, che per altri versi è meschina in quanto cieca e sorda come un tempo dilatato dalla
gola di una galleria. E non vorrei mai più ossequiare i manganelli neri come la notte, gettati sulle teste
degli zingari rintanati in topaie di fiume. E' difficile soffrire per il mondo, ma per tutto ciò che ami e che
ti sta a cuore è fin troppo facile. Salvaci, o Signore!
Baudelaire aveva il tempo per recitare le litanie di Satana. Io, invece, vado e vengo in questo quartiere
senza aeroporti, dove, pertanto, è difficile spiccare il volo. Ma fin tanto che riuscirò a muovermi,
dilatando questo punto morto, avanzerò di un centimetro al giorno sull'orizzonte. Recito anch'io le litanie
di Satana, angelo dell'insofferenza, della pigrizia e del vacuo trastullo. Una vita senza senso: ecco il senso
del male, non certo la malattia, la lotta contro il silenzio artificiale, la guerra contro i grigi angeli del
terziario nascosti dentro ognuno di noi.
L' homunculus nel cervello e nel cervelletto, incravattato e super figo che ci sussurra all'orecchio, per vie
interne, di trovare una sistemazione in attesa della morte: non una tana, ma una bella casa confortevole,
tutta chiusa come una prigione. Se il male ha un nome, questo si chiama tacito consenso, e se ha un
cognome, si chiama conformismo.
Ti chiamerò Agata, tra due rive che mettono in relazione il lago profondo, dove cade il tuo sentire, con
l'oceano dove si disperde il dolore nell'infinito spaziale raduno di ciò che amiamo.
La morte è ciò che rende invisibile il sentimento. Se non avremo saputo coltivare tale impulso in tanti
anni, davanti a noi resteranno soltanto corpi morti e disperazione.
Ascoltate!
Gesù non è solo appannaggio dei credenti. Non è di loro proprietà. La sua parola è del mondo, è nel
mondo. Voi, credenti, avete tentato infelicemente di appropriarvene, ma del tepore delle vostre case, delle
vostre parrocchie e dei vostri santuari Gesù ride (dietro l'angolo di una porta, nascosto, ascolta tutte le
scempiaggini).
Gesù è ovunque, soprattutto dove lo spirito non ha calato la sua luce. Nelle zone d'ombra dove cristallina
la neve perenne gela sotto l'ascella sudata della rupe, e dove il fumo esce dai camini di case ammuffite.
Gesù è scaltro: predilige il vigore della vita (inverno affascinante e crudele) al sogno anemico delle
religioni insipide come la formalità dei nostri accoppiamenti e dei nostri matrimoni religiosi combinati.
Torno dall'oltretomba per segnali due cose: il Vangelo Secondo Tommaso e
l'Omunculus sporto sul fianco della Cattedrale di Strasburgo.
Dopo un periodo di pausa, i pensieri s'affollano nella mente e ognuno di loro esige almeno una pagina di
quaderno. Fanno la fila davanti alla mia penna, e allora devo correre in fretta, come se la pagina fosse un
cesso e la penna lo stronzo pendente.
Gli appartamenti delle prostitute sono tesori nascosti nella città: non crescono come funghi, ma si
interrano come tartufi. Gli appartamenti psichedelici delle prostitute sono il capolinea dei rapporti umani.
Una taverna che offre il vino senza etichetta, un vino forte, sintetico ed inebriante, fatto di trielina,
mastice e uva passa. I miniappartamenti ammobiliati sono la caverna nel polmone, l'aneurisma
nell'arteria; sono una magra, forte, robusta, mortale ***** consolazione. Sono la tesi e l'antitesi, la
violenza e la dolcezza. La coesistenza della pazzia, della colpa, della saggezza e della coscienza. La
nudità, l'ancestrale, la rappresentazione. Sono un buco invisibile che in realtà non so o non voglio
decifrare. Sono il luogo dove si va a fare l'amore, ma nello stesso tempo non si fa. E' un meta
comportamento: il sofà di un analista che non guarisce i mali. Ma se non ci fossero, le puttane
rinascerebbero davvero come funghi, come la Carità di Caravaggio, come alcova materna.
Ma che importanza ha? Ogni donna abbraccerebbe con le proprie cosce, volontariamente, ogni figlio
perso in questo mondo, e ritrovato vagante dietro un angolo. Ma chi l'ha detto che le puttane sono cattive?
Sicuramente sono molto più buone e più affettuose di molte genitrici ufficiali, così poco puttane ma così
spudoratamente troie!
“E' dentro ad una vasca!” Così disse del nonno deposto nella bara, così lo vide il piccolo Jacopo che,
come tutti i bambini del mondo, è un grande poeta.
In fondo, dentro a questi stracci ci sto bene; stracci che mostrano “l'usura degli inginocchiatoi”. Anche la
mia faccia è uno straccio ammuffito su cui cresce pelosa una barba. Non vi è compiacimento in questa
descrizione. Vorrei, tutto sommato, apparire più pulito, sbarbato, decente, brava persona. Vorrei
possedere una spina dorsale meno barocca, un portamento più rinascimentale come il dolcissimo San
Giorgio del Donatello. Invece, sono un disgraziato, il dentro e il fuori si specchiano, coincidono.
Migliorerò. Sono un fantasma che cammina con lo sguardo sui tetti anneriti di questa città e che rimira le
cupole della basilica come compiacenti protuberanze materne. Cerco amore nelle ceneri dell'inverno
distribuite in un cielo qua e là bucato da macule solarizzate. Scuoto queste ceneri come l'alba fredda e
ventosa dopo la calda notte del falò. Ripenso ai miei errori, alle bugie, e attendo come sempre che la
mannaia spirituale compia il suo corso.
Di questa macchina incancrenita mi piacciono i cigolii.
Sono depresso, come un fiore strappato alla terra che, dopo aver goduto del brivido traslucido
(*************) sul vaso di Boemia, si ripiega anzitempo, lasciando i propri petali devitalizzati sul
tavolo di un tinello senza cielo.
Dove sei, anima mia?
Ho incubi di fredda disperazione, si avvicina il Natale, probabilmente sogno il Natale, e il passato emerge
come un drago dalle colline impolverate del lago (alcune foto in b/n sono stirate dentro un album nascosto
in un buco profondo). I banchetti gravidi di befane incendiano lo sguardo dei bimbi.
Nella prosa infuocata di Mandel'stam un diretto accelerato frena disperatamente, inchioda e balza
indietro, in rinculo rispetto al tempo, inversamente alla scia stroboscopica della corsa. Tutta indietro nel
tunnel del già stato; a tutta birra verso l'altra apertura del tempo, l'atra bocca e l'unica davvero possibile.
Nessuna lacerazione, soltanto un chiarimento. Ripercorrere noi stessi, alla ricerca del tempo perduto,
sostando qua e là nel disimpegno che raccorda un vagone all'altro. Mentre la matrice fa dietro-front.
Sorseggiamo lo spettacolo del paesaggio da un finestrino all'altro e abbracciamo il tempo perso come il
nostro fratello più caro.
C'è qualcosa di universale là fuori: il canto del gallo alle quattro della mattina e il fischio del treno. Due
cose che uniscono noi antichi bambini a noi adulti insonni, che uniscono i vivi ai morti. Un passato
lontano al futuro dei nipoti e di tutte le generazioni che verranno. Due segni dell'alba che misurano il
tempo in un altro modo.
Misuro la pagina n.13 con il righello arancione del semaforo stradale. Corro da un semaforo all'altro come
una linea spezzata. Il rosso mi taglia la strada. Quando parcheggio sono un dente tra i trentasettemila denti
che ai lati assicurano la strada alle case. Come un topo mi introduco nell'enigmatica luce dei campanelli
senza cognome.
Preannuncio la mia futura cessazione della vita. Devo soltanto scegliere il tempo e il luogo opportuni, e le
modalità. La morte è un gioco da ragazzi. Gira e rigira, ho capito che in questo mondo per me non c'è
posto. Sono stanco di cercare nel vuoto qualcosa che mi sfugge. In ognuno di noi facciamo scappare la
verità come una brutta bestia, depistiamo il nostro cammino. Sei bugiarda e ti odio!
Un sole bellissimo mi sorprende durante una passeggiata che mi porta fino all'AMAG, la torre bianca
ottagonale che si riflette sul fiume, le cui acque tremano per il gelo che le sorprende sotto le sponde. Cielo
e acqua si baciano senza toccarsi. Mi reco nella vicina nota pasticceria, e per voto di castità rinuncio alla
brioche tutta sublimata in quella dolce macchia di latte sul caffè.
Vorrò scrivere una storia o girare un film attorno alla vicenda di due fratelli: uno dabbene, famoso,
laureato e rispettabile, ammogliato con casa, figli e professione, l'altro sbandato, malmesso, disoccupato.
Il “buono” si ammala mentre il “poco di buono” rimane in salute. La madre piange tutte le sue lacrime e
maledice il cielo per aver scelto il migliore come vittima sacrificale del destino. Il fannullone, allora,
innanzi al dolore della madre e al proprio disagio, compie un voto davanti all'altare: ”Signore, se tu salvi
mio fratello, io in cambio ti do la mia vita”. La grazia si realizza e lo scapestrato, come da accordo preso
con il padre celeste, si toglie la vita. Dopo l'ultima badilata di terra gettata sulla fossa dello scapestrato, la
madre e il figlio ****** appena fuori dal cancello del cimitero danno un ultimo commovente sguardo alla
tomba del suicida, che porta nell'aldilà segretamente il suo atto di fede, il riscatto di tutta una vita.
Il mio barbiere è uomo d'altri tempi per modi, fatti, sostanza.
Una goccia insanabile cade pedissequamente da decine d'anni, con la precisione d'un orologio, sulla
guarnizione di metallo del lavandino. E' lei, la goccia, in realtà il senso metaforico e traslato della
costanza, continuità, precisione e professionalità del barbiere. Quella goccia, che non deve e non può
mancare, è un esercizio del tempo, una particolare condizione flessibile riguardo alla “stretta” dei
rubinetti.
Il pettine del barbiere è una strisciolina d'osso plasmata in anni di lavoro dall'impronta del palmo della
mano. Il pettine: l'oggetto sacro, l'osso sacro, lo strumento. Tutto il resto è mestiere: danza di precisione
tra pollice, indice, forbici e cuoio capelluto. Se dovessi mettere due oggetti nell'enciclopedia
dell'essenziale che rappresentino il “mio” barbiere, vi metterei la goccia e il pettine, il tempo e lo spazio,
il ritmo e l'arpa.
Condizione pesante di isolamento. Denutrizione, malessere. Rivedere queste aule che non ho mai visto.
Risentire queste musiche che non ho mai sentito. Notte fonda dentro a questi neon a forma di lampadine a
forma di candele. Mania del nuovo dentro al vecchio logoro schema del nuovo.
Il DAMS è una scuola di snob, che è sorta grazie alla coagulazione di alcuni intellettuali del PCI attorno
ad una trovata straordinaria: vendere un sacco di fumo ad una massa di sprovveduti. L'operazione è
riuscita, e questa massa di studenti intellettuali da strapazzo, del tutto digiuni di lingua, storia e filosofia è
andata a gonfiare il letto del fiume dell'inettitudine e dello snobismo post-moderno, ludico e nonsense.
Naturalmente, prendendo di mira come deteriore, reazionario, fascista e stucchevole, “convenzionale”
tutto ciò che aveva sapore di “nero”, di quell'aria zolfo-misto elettrica che è il sapore dei freni bruciati
della realtà. Il DAMS vive, nel mondo delle favole staliniane, la sua ultima patetica stagione parigina.
Una monade nell'universo finito di una bottiglia, un veliero nella credenza della nonna, caduto per
disgrazia nelle mani di un nipotino distratto.
Anamaria: una delle poche cose serie, reali, vere della mia vita. Lei sola in lotta perenne contro la mia
pazzia, la mia famiglia fredda. Lei sola, in perenne assalto per difesa, amore, abbraccio, contro gli uomini
impagliati, la “gente a modo”. Anamaria, di essenziale franchezza, abbraccio notturno. Salvatrice più
calda, viva, umana della nostra realtà compatta, inamidata, imbalsamata. Anamaria ti amo, un abbraccio.
Una bella cartellina con dentro dei fogli bianchi formato protocollo che metterò vicino al telefono di casa
per prendere appunti. Gli adesivi di RAI 1 che attaccherò sotto le suole delle mia scarpe, e la penna di
RAI 1 che regalerò a mia madre tra i tanti gustosi oggetti avuti in omaggio, accostabili per gustosa
meraviglia soltanto a quelli trovati sulla spiaggia deserta la mattina presto. Ecco tutto ciò che mi resta di
questo convegno non ancora iniziato.
Toccare, toccare, ecco la grande carenza, la necessità. Toccare pube, seni, pancia, mani, piedi. Toccare,
fare l'amore, ecco la necessità e la carenza. Non toccarsi con le idee, ma con le mani.
Stalker, ovvero le mie memorie. Una condizione di straniamento, di immersione mistica nei sentimenti
delle persone care, vive e morte, sempre più lontane nel flauto orante che accompagna cani e uomini oltre
la realtà fisica, dentro quella spirituale. Anche un solo frammento di quel film è prezioso come una
carezza d'amore.
Le parole che ho ascoltato in questo pomeriggio, di questi due gran signori, di continuare a lottare per i
nostri ideali, umani e sinceri. E tutto questo, che è pochissimo e tantissimo, è già una vera e valida
ragione di essere qui oggi. Sono contenta di ascoltare insieme a te.
Tua
Ana.
La miopia non sempre è nociva alla visione. A volte indica il limite opportuno, il confine naturale del tuo
intervento conoscitivo sul mondo, ti consente di mettere a fuoco soltanto gli oggetti più vicini a te stesso.
Viviamo davvero in un secolo insanguinato, dove recidive, recessioni, celebrazioni sono all'ordine del
giorno, e dove il futuro è una botola nascosta a una estremità del tronco morto, del moncone di tunnel
incompiuto a trenta corsie, che doveva essere il futuro istituzionale.
Ma nemmeno per il futuro individuale vi è la benché minima traccia di un sentiero.
Il POTERE è un male interno, è un virus capace di recidere il nervo vocale, creando così patologie,
afasie, dislessie vocali, alterazioni. Il potere non ama la vera poesia, e la vera poesia non ama il potere.
Che strada devo percorrere? La mia strada potrà mai avere un cuore?
Questo mondo è una grande prigione, ma un anno fa tu eri ancora vivo, ora sei tutt'uno con la terra. La tua
esperienza è stata diversa dalla mia, io sono ancora vivo, tu no. E io sono disperato, disperato per la tua
morte. Lucio, amico mio!
Non ti telefono, ma è come se ti avessi telefonato. Oggi è il tuo onomastico. Ti telefonerò.
Il silenzio, un lungo corridoio, un raggio di luce, una cascatella, al riparo la prima volta dentro la casa, e
la seconda dentro al sonno…la terza…
Il gioco della dama tra il signor ****** e Gianni. Gianni perde la partita. “Alle nove spegniamo le luci!”,
urla la suora. Odiosa suora! E alle nove si spengono le luci, e la partita è ancora in atto. “Mica
disturbiamo nessuno!”, sussurra ******. Restano accese soltanto le luci sopra i letti. Due mosse, poi
***** a bassa voce, ma con contentezza, dice: “Ho vinto!” Sulla porta appare maestosa la suora, con le
mani sui fianchi. ***** raccoglie in tutta fretta le pedine, una cade per terra e ruota nell'oscurità. “La
cercherò domani”, esclama con un filo di voce ***** per compiacere la suora. “Domani!”, ribatte la
suora. Gianni e ****** si dividono, ognuno nelle proprie sponde, sotto le coperte. “Buona notte!”, dice la
suora. “Buona notte”, ribattono i due.
Mondo dei sogni e mondo della realtà. La donna fa parte del mondo dei sogni. Eppure, la madre. Pur
essendo donna, fa parte del mondo della cruda realtà: ella ha già sognato nel sonno cosmico della
creazione, quando l'ordine, il segno, l'imprinting coagularono il visibile attorno all'invisibile. L'anima non
è altro che un campo di forze, un magnete che attrae su di sé, ispirandola, la vita. L'espirazione, è
evidente, è la restituzione del coagulo alla forza centripeta. Tutto è un respiro, che potremmo sintetizzare
aprendo e chiudendo la mano da bocciolo a corolla, da bozzolo a farfalla.
La donna, quindi, è sogno per la sua bellezza, tenerezza e dolcezza. A lei vorrei stringermi in perenne
contatto sessuale, e a lei dedicare facendomi notare più che posso, questo passaggio, questa mia
coscienza, queste mie colture di carezze. Mia madre, invece, è la realtà, getta via i fiori appena sfioriti,
cucina verze e fagioli senza pietà, ma sa anche raccogliere la carta dei regali di natale e piegarla, metterla
via per ogni evenienza.
Come poter spianare gli errori? Mi devo difendere? Ho tirato fuori tutto, ho fatto saltare l'intera palazzina
in cui avevo murati vivi tutti i miei mali. Ho quindi distrutto porte, recinzioni di manicomi. Ora sono me
stesso, nel senso che manifesto al mondo tutto il mio male e la mia mostruosità. Ma non ho perso la fede,
ma capisco cosa significa perdere progressivamente la forza. Mi avvicino ad un bivio pericoloso in cui
dovrò scegliere se vivere o morire, e sarà lì a quel bivio che dovrò farmi forza di tutto ciò che possiedo
oltre le mie tasche vuote e i miei vestiti. Dovrò a quel punto decidere se vivere o morire, ma non potrò più
fuggire da questa resa dei conti e allora non potrò più agire per gli altri, ma solo per me stesso: per
salvarmi o per eliminarmi.
Il tempo dei tergiversamenti è terminato. Noi siamo ciò che siamo, la forza o l'inclino alla morte, l'oblio.
Ma ora che mi avvicino al bivio, dico per davvero che non ci vuole alcun coraggio a morire, perché è più
facile di quanto si possa immaginare, ma ce ne vuole molto, moltissimo ad andare avanti e a sopportare di
convivere e alimentare la propria mostruosità: meglio la mesta nera morte, il sonno senza tempo né
spazio, né inizio o fine. Quando perdi la forza, perdi la voglia di vivere, ti indebolisci, non trovi ragione
sufficiente per continuare. E' come aver ancora voglia di scrivere, ma non avere più la forza per prendere
in mano la penna. Non è mancanza di fiducia, ma mancanza di energia e di speranza. E allora preferisci il
salto, il fatidico salto mentale nel buio e nel silenzio. Ma io spero ancora di salvarmi, non so perché, ma
lo spero, spero di salvarmi.
Questi ultimi giorni del 92 sono duri, perché subissati dal peso schiacciante degli eventi. Quest'anno
violento ha inciso dentro di me un dubbio. Sono esausto, anche le finanze sono dubbie, le mie malattie
psichiche non sono più mascherate da nevrosi, ma sono parte integrante di me, non più dolori passeggeri
o sotterranei. La pazzia è una inesauribile fuoriuscita, diventa fisiologica, la alimenti mangiando e
respirando. Si annida come polvere sui tappeti o come ombra sotto i piedi. E' sempre lì, è il “nemico che
marcia nelle tue stesse scarpe”. E' l'inspirazione e l'espirazione. E' lo scotto che si paga quando si pretende
di vivere a tutti i costi. E allora la domanda è: dove si trova la normalità per poter imparare la normalità?
Non esiste normalità, ma avvicinamento progressivo a un “bene” che soltanto noi possiamo interpellare,
perché è il nocciolo sepolto dal nostro cattivo presagio, è l'osso della pesca, incorruttibile anche quando la
polpa è bacata e putrefatta. Quando saremo ossa staremo meglio; intanto, però, avviciniamoci con un
minimo di lucidità al “momento”, interpelliamo la nostra dura coscienza! Oppure, mandiamo tutto
affanculo!
La poesia dell'adolescente è un tappeto che si srotola, cosparso di passioni. Spesso non esente da tutte le
alterazioni cinematografiche e letterarie, nel quale l'adolescente si perde. Questa poesia diaristica è degna
di attenzione anche se tutta racchiusa sotto l'elastico delle mutande. Poi vi sono coloro che perseverano in
questo esercizio della trascrizione sentimentale contaminata da citazioni. Di loro sono piene le fosse,
arrivano ovunque e spesso i più “colti” condiscono con parole insensate e difficili i loro versi; da Circe a
Dioniso verseggiano di cose a loro oscure, e invece che srotolare la vita come gli adolescenti, la rotolano
su pergamene di marmo che nessuno potrà mai leggere. Questi cantori dell'assurdo si complicano la vita e
sono lauto appannaggio di quella critica senza scopo che il DAMS ha soffiato come inchiostro lungo gli
alvei piatti della provincia.
Per ultimi, dimenticati, vi sono i poeti: fanciulli che hanno perso l'innocenza. Essi sono dei “magici”, che
con cura e lontano dal mondo raccolgono alcuni frammenti **** di sogno e li pongono uno a fianco
dell'altro per anni e anni, affinché si conoscano o si respingano. Molti frammenti dormiranno in eterno o
moriranno, altri, per ragioni oscure, raggiungeranno il sole o il volto distratto e opaco degli uomini.
Valente mi ha parlato delle proprietà miracolose della resina: quella del pino, dell'abete, dell'abete rosso.
Lui la conserva in una scatoletta di ferro con apertura a farfalla, una ex scatoletta di grasso di foca,
presumo. Valente è un uomo eccezionale, è un taglialegna: il flessibile, l'accetta, tutto ciò che affetta e
dilania i tronchi, lui l'ha provato sulla mano, sul tallone e sul braccio. Valente ha ferite su tutto il corpo,
eppure grazie alla resina degli alberi s'è guarito. Valente ha il sangue che bolle. Egli unisce il secolo
passato a quello che verrà: con un braccio tiene il XIX e con l'altro il XXI. Lui, uomo degli inizi e uomo
della fine, al centro del XX come un camuno dalle braccia tese, Atlante dei boschi, conosce il soffio vitale
del cosmo e del suo “intimo capire”.
Ho appena rivisto “Busetto”, veniva dopo di me nell'ordine alfabetico dell'appello, compagno modello
delle scuole medie. L'ho riconosciuto da due cose: dalla postura “country” delle gambe e dall'angolo a 45°
delle orecchie. Mio caro, vecchio compagno, non ti ho bloccato, non ti ho chiesto se hai moglie, figli e
lavoro, ti ho lasciato lì, tranquillo, e questo è stato il modo migliore per salutarti.
Lucio non era uomo da CD, ma da grandi dischi di vinile, da estrarre obliqui dalla carta paglierina con la
“lama” compresa tra pollice e indice della mano destra e il palmo della sinistra, appoggiati con cura al
piatto, puliti con una carezza di velluto dalla polvere elettrostatica, e percorsi fisicamente dal diamante
lungo binari sottili come capelli. No, Lucio non sarebbe mai stato un uomo da CD, la trottola rotante alla
velocità della luce l'avrebbe fatto ridere.
Delle volte mi sento estraneo a questo mondo, mi sveglio nel sonno e non capisco. Sono un fantasma in
carne e ossa e parlo con me stesso: io sono il sottoscritto, ma solo da morti ci si trova sotto la propria
scrittura. Il nostro nome sulla pietra è ciò che resta di noi in superficie. Darò disposizioni in proposito allo
scalpellino. In fondo, il suicida è una che ama dettare non solo il giorno della propria nascita, ma anche
quella della propria morte, cioè il proprio nome per esteso lungo un certo arco di tempo.
La bellezza e la saggezza di un uomo sono la somma di tutte le sue sofferenze la sublimazione di questa
somma in “gioia silenziosa”. L'immagine dell'uomo è sempre di colui che compone l'ultima sommità del
pinnacolo, perché in essa appoggia i suoi piedi, e non può essere che il cielo e il dirupo ciò che egli ha
davanti, cioè la morte. Ogni filo bianco della barba di Augusto intreccia melodie dedicate al mondo in una
visione onnicomprensiva che non può accettare particolarismi, ma un'apertura delle braccia verso tutto il
cosmo.
Vorrei mettere Marisa Monte assieme a Giulio Capiozzo e ad Ares Tavolazzi e condire il tutto con la
psichedelia organistica di Beppe Carletti. Sarebbe interessante “costringerli” a suonare assieme. Del resto,
solo una donna, una “partoriente” può “sostituire” la pace di Augusto e la lotta di Demetrio.
Marisa Monte ha una voce calda, disinibita, generosa, carnosa, genitale, di quella sessualità naturale,
femminile, che poco ha a che fare con l'erotismo, con la manifestazione consapevole e provocatoria degli
attributi.
Nulla di esibizionistico, dunque, nella “partoriente” Marisa. Capiozzo è un pachiderma, un rullo
compressore, una mitragliatrice Breda. Batte i tamburi allo stesso modo con cui gli “antichi” braccianti
percuotevano la spiga per separare la pula dal grano. Capiozzo è uno che esige il sangue dalla batteria,
non per niente era il percussionista degli Area. Tavolazzi, quando suona si trasforma in un contrabbasso;
solo le mani muovendosi lungo l'asse determinano la persistenza dell'umano, lo strumento vero e proprio,
invece, è pluricomposto dalla carena lignea a destra e dalla struttura ossea, nervosa e muscolare di
Tavolazzi a sinistra. Beppe Carletti è puro, cristallino come la lama di una roccia, il profilo di una mente,
la trasparenza di un lago alpino; è un sognatore, è il primo e l'ultimo dei Nomadi.
Rimpiango l'oscurità mefitica della mia cara, piccola grotta.
Vorrei arrivare al 12° quaderno, ma le onde d'urto del male sbattono il mio fragile scafo sulle rocce. Devo
espatriare, abbandonare tutto, allontanarmi alla svelta, fuggire. Ho ancora qualcosa dentro di me che mi fa
resistere.
In tutti gli anni che abbiamo trascorso assieme, Lucia non mi ha mai messo da parte, neanche per un
attimo.
Questi quaderni sono l'impronta stupida del tempo perso, dei vuoti di solitudine senza valore.
Abbandonato in una carlinga, in preda a strani incubi, si potrebbe pensare di… Tirando le somme, sono
solo. Arido, inacidito, tento di infagottarmi di spirito e di vitalità, ma dietro un'obesità stucchevole sono
rachitico e vuoto.