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Lisa Unger
Segreti sepolti
Traduzione di
Leonardo Taiuti
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Titolo originale:
Beautiful Lies
Copyright © 2006 by Lisa Unger
This translation published by arrangement with Crown Publishers, an imprint of
the Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC.
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti
è puramente casuale.
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© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: marzo 2016
Ristampa
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Anno
2020 2019 2018 2017 2016
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A Jeffrey
Sei tutto. Sempre.
Poiché era anonimo, senza nome… del tutto orfano, quidam.
Cyprian K. Norwid
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25 ottobre 1972
A volte desiderava che fosse morto.
Non le bastava desiderare di non averlo mai incontrato o che non
fosse mai nato. No, voleva che fosse investito da un’auto o che rimanesse ucciso in maniera violenta, tipo in una rissa, o che gli restasse
il braccio incastrato in un macchinario e morisse dissanguato. E desiderava che, in quegli ultimi istanti, sentendo che la vita lo stava
abbandonando, capisse che bastardo fosse, che vita sprecata fosse stata
la sua. Riusciva a immaginarlo con esattezza. Il sangue che formava
una grossa pozza scura mentre lui si pentiva, in preda al terrore,
comprendendo con estrema chiarezza che era sul punto di pagare per
l’uomo che era stato. In quegli attimi avrebbe provato rimorso, molto.
Ma sarebbe stato troppo tardi. Era così che se l’immaginava.
Da sola, nel buio, era distesa sulla vecchia trapunta che teneva
sul letto. Il radiatore sputava aria calda e secca, e ogni tanto faceva
un rumore metallico, come se qualcuno lo stesse colpendo con una
chiave inglese. Tese l’orecchio per sentire il lieve respiro di sua figlia,
in fondo al corridoio. Un vento impetuoso faceva tremare il vetro
della finestra. Sapeva che fuori faceva freddo, più di quanto non
fosse mai stato in quell’autunno. Eppure sudava. Il riscaldamento
in casa era sempre troppo alto. Di notte la bambina (ormai aveva
quasi due anni) scalciava via le coperte. Aspettava proprio di sentire
l’improvviso movimento della figlia nel letto. Ma rimaneva in ascolto
anche per cogliere altri tipi di rumore.
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Il suo cuore aveva rallentato la corsa e sua figlia aveva finalmente
smesso di piangere, ma sapeva che lui sarebbe tornato. Per questo
giaceva completamente vestita, felpa grigia, jeans e scarpe da ginnastica, telefono in mano. Accanto al letto, una mazza da baseball. Se
fosse tornato, avrebbe richiamato la polizia, anche se era già venuta.
C’era un ordine restrittivo. Dovevano intervenire comunque, non
importava quante volte li chiamasse.
Non riusciva a credere che la sua vita si fosse ridotta a questo.
Un vero casino, se non fosse stato per sua figlia, pensava. Quanti
errori aveva commesso, quante aspettative aveva deluso. Ma almeno
sapeva che una cosa l’aveva fatta bene, nonostante tutto. Sua figlia
era felice, sana, e lei l’amava.
L’ orologio sul comodino diffondeva nella stanza un bagliore verde
e gli unici suoni che si udivano, adesso, erano il respiro della bambina
e il ronzio del frigorifero giù nell’ingresso. Era vecchio: più che un
ronzio sembrava un rantolo. Ormai non ci faceva quasi più caso,
tranne nei momenti in cui restava in ascolto, nel buio, preoccupata
di dove lui fosse e di cosa avrebbe potuto fare, ancora.
Quando lei gli aveva detto di essere incinta, la loro relazione era
quasi finita, sempre che relazione si potesse chiamare. Erano usciti
un paio di volte. Lui era andato a prenderla con la sua Monte Carlo
e l’aveva portata in una pizzeria dove tutti sembravano conoscerlo.
L’ aveva fatta accomodare per prima e le aveva detto che era carina.
Gliel’aveva detto diverse volte durante la cena, per riempire i silenzi
frequenti della loro stentata conversazione.
Erano andati a vedere Il candidato con Robert Redford, e Get­
away! con Steve McQueen, due film che lei non aveva particolarmente voglia di vedere. Non che lui gliel’avesse chiesto. L’ aveva
semplicemente portata al cinema e si era diretto al botteghino per
comprare i biglietti. Forse da questo avrebbe dovuto capire alcune
cose. Se vai al cinema con una ragazza, non dovresti almeno chie8
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derle cosa le andrebbe di vedere? Nel cinema buio, con un pacchetto
di popcorn tra le gambe, lui aveva giocherellato con i suoi capelli e le
aveva sussurrato quanto fosse carina… di nuovo. La seconda volta,
durante Getaway!, si era fatta toccare il seno e le era quasi piaciuto;
aveva avvertito una sensazione di calore tra le gambe. Quella notte
l’aveva accolto nel suo appartamento ed erano andati a letto insieme.
Ma non si era fermato a dormire. Dopo quella volta l’avevano fatto
ancora, ogni tanto, ma lui non l’aveva più portata a mangiare la
pizza o al cinema. Poi, quando aveva cominciato ad abituarsi alla
sua voce al telefono, al suo braccio sulle spalle, era piano piano svanito dalla sua vita. Facevano tutti così, no? Un giorno erano una
coppia, quello dopo due estranei. Per un po’ lui l’aveva chiamata ogni
sera, poi una volta ogni due giorni. Alla fine il telefono aveva smesso
di suonare. Lei lo fissava, immobile sul bancone della cucina, e ogni
tanto alzava la cornetta per assicurarsi che funzionasse ancora.
Non le avevano insegnato a inseguire gli uomini, a chiedere loro
di uscire o perché avessero smesso di chiamarla, perciò quando lui
sparì, non tentò mai di contattarlo. Certo, non le avevano nemmeno
insegnato a farsi palpare da un uomo in un cinema per poi portarselo
a letto.
In ogni caso, per lei quell’uomo era solo un passatempo, un modo
per superare l’esperienza avuta con il precedente. Quanto erano diversi, quei due. Il primo era ricco, la portava a serate di gala in città,
le comprava regali, vestiti e gioielli. Le parlava in francese e, anche se
lei non capiva una parola, ne restava sempre affascinata. L’errore era
stato che quell’uomo era anche il suo capo. Quando si era stancato di
averla fra i piedi, le aveva suggerito di trovarsi un altro lavoro. Erano
così diversi, quei due… Eppure molto simili. Si stancavano e la mandavano via. Diventavano freddi e distanti. O violenti, come questo.
I suoi genitori, due fumatori incalliti, erano morti a due anni
di distanza l’uno dall’altro, fin troppo giovani. Sua madre se n’era
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andata lentamente, per un terribile enfisema, e suo padre per un
attacco cardiaco. Non aveva fratelli o sorelle, nessuno di fronte a
cui vergognarsi della sua gravidanza. Ma nemmeno nessuno che la
aiutasse. Maria era la sua unica amica; la donna che viveva al piano
di sotto, nota a tutti come Madame Maria. Si guadagnava da vivere
leggendo i tarocchi nel suo appartamento, facendosi portatrice della
voce della «Dea», come amava dire. Madame Maria le aveva detto
che il futuro le riservava un dono. Lo diceva sempre, ma stavolta
aveva avuto ragione.
Quando ne era stata sicura, era andata a dirglielo. Lui le aveva
chiesto come faceva a sapere che fosse suo. Era stato lì che aveva davvero cominciato a odiarlo e a chiedersi come avesse fatto a concedersi
così facilmente a una persona tanto spregevole. Gli aveva assicurato
che non voleva nulla da lui, che aveva solo pensato di dargli l’opportunità di essere padre. Lui se n’era andato, lasciandola da sola in
un parcheggio buio. Aveva cominciato a piovere, una pioggerellina
fine, mentre il rombo della sua Monte Carlo si allontanava. Andare
a parlarci era stato un errore; l’aveva sopravvalutato. Si era convinta
che potesse comportarsi bene con lei. Altro errore.
Poi, forse per il senso di colpa, o magari per una qualche capacità
residua di amare, lui aveva ricominciato a farsi vivo pochi mesi dopo
la nascita della bimba. Sembrava quasi che fare il padre potesse interessargli. Ma dopo un po’ aveva preso a comportarsi come quando
la portava al cinema: pensava di poter scegliere cosa fare e quando, e
già che c’era di potersi approfittare di lei. Lì era iniziata la battaglia.
Era intervenuta la polizia. Lui si era scusato. Lei l’aveva perdonato
per il bene della bambina. Ancora, e ancora… fino a quel fatidico
pomeriggio. Allora era scoppiata la vera guerra.
Da quel momento aveva trascorso molte notti come questa,
distesa nel buio vestita da capo a piedi, in attesa. E aveva avuto
un sacco di tempo per pensare al perché stesse accadendo tutto ciò.
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Aveva riflettuto su ogni loro conversazione, scomposto e analizzato
ogni cosa che aveva detto e fatto, chiedendosi cosa avrebbe potuto
fare di diverso. Ma l’unica conclusione a cui era arrivata era che
avrebbe dovuto capirlo sin da quando erano andati al cinema e lui
non le aveva chiesto cosa volesse vedere. Già da questo era evidente
che razza di uomo fosse. A volte sono le piccole cose che dicono
tutto.
Ricordava quel pomeriggio; le era rimasto impresso come un tatuaggio. Ricordava di aver ricevuto la telefonata da Maria mentre
era al lavoro, di essere corsa a casa, dove permetteva a lui di stare con
la bambina mentre lei era di turno. Ricordava di aver udito i vagiti,
inconfondibili, terrificanti, come se il suo cuore fosse connesso direttamente a quello della figlia. Era corsa su per le scale salendo due
gradini alla volta. Ricordava di essersi precipitata in casa e di averlo
visto seduto sul divano, il viso sconvolto dalla paura. La porta della
cameretta era chiusa, come se avesse voluto tenere lontano il pianto
della bambina. Aveva spalancato quella porta in preda al panico. Sua
figlia era nella culla, paonazza in viso, il braccio piegato in maniera
innaturale. L’ aveva presa ed era corsa via, gridando: «Che cosa hai
fatto? Che cosa hai fatto? Guarda cos’hai fatto!». Lui era rimasto
seduto lì, muto, le braccia abbandonate sul divano. Non l’aveva più
guardato ed era corsa fuori con la figlia tra le braccia.
Non aveva aspettato l’ambulanza, non poteva. Più delicatamente
possibile aveva sistemato la piccola sul sedile dell’auto. Le sue grida
erano come coltellate che la straziavano. Aveva tentato di mantenere
un tono di voce calmo mentre guidava, mormorando: «Va tutto bene,
amore. La mamma è qui, la mamma è qui».
Al pronto soccorso, il dottore le aveva preso la bambina dalle
braccia e lei l’aveva seguito fino al reparto pediatria. Aveva pregato
che ci fosse il medico di sua figlia, che lavorava sia all’ospedale che
alla clinica pediatrica Little Angels. Le sue preghiere erano state esau11
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dite e in pochi minuti la bambina era stata affidata alle amorevoli
cure del medico.
«Oh, piccolina, che ti è successo?» aveva detto lui a bassa voce.
Lei non era riuscita a fare altro che restare in silenzio accanto a lui.
«So che fa paura, ma devo chiedere alla mamma di aspettare
fuori» le aveva detto gentilmente il medico. Non la chiamava mai
per nome mentre si occupava della figlia. «Intanto sistemo questo
braccino. È sconvolta e la bambina lo capisce, lo sente. Può farsi
coraggio e aspettare fuori?»
Lei aveva annuito suo malgrado e si era fatta accompagnare da
un’infermiera. La donna, una giovane dagli occhi azzurri e occhiali
dalla montatura di corno, l’aveva guardata con pietà e sospetto. La
stava giudicando, ne era certa. Come possono pensare che abbia
fatto del male a mia figlia?, si era chiesta mentre la paura le annebbiava la mente. Possono crederlo davvero?
Le era sembrato che il petto le esplodesse per la forza delle emozioni che sentiva dentro, mentre guardava la porta della sala operatoria. Le grida della bimba erano diventate prima mugolii, poi
erano cessate. Si era sentita paralizzata, come incatenata alla sedia
di plastica arancione su cui l’avevano fatta sedere, incapace di fare
domande su quel silenzio. Poi, dopo un tempo infinito, era uscito il
medico.
«Guarirà presto» aveva detto gentilmente, sedendosi accanto a
lei e mettendole una mano sul ginocchio. Le aveva parlato della delicatezza delle ossa dei neonati e di tutte le attenzioni speciali che la
piccola avrebbe richiesto d’ora in poi e di cosa avrebbero dovuto fare
per farla guarire. Si era ripetuta continuamente le parole «guarirà
presto» finché il suo cuore non aveva accolto l’informazione riprendendo il suo ritmo normale e facendola tornare in sé. Era rimasta
sospesa su un filo di terrore puro, finché non aveva capito che sua
figlia era in salvo.
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«Va tutto bene» le aveva detto il medico, guardandola negli occhi.
«Andrà tutto bene.»
Ma nel suo sguardo aveva visto anche qualcos’altro. C’era preoccupazione e diffidenza in quel viso solitamente così gentile.
Era rimasta in ospedale per quasi tutta la notte, perché la bimba
era stata sedata e le avevano ingessato il braccio. Il medico era restato
con loro fino al momento delle dimissioni. Mentre si preparava ad
andarsene, le aveva toccato il braccio e l’aveva guardata con un’espressione che lei non era riuscita a interpretare.
«Ama sua figlia più di ogni altra cosa, vero?» le aveva chiesto
con un tono triste.
«Più di ogni cosa.»
«Sarà in grado di proteggerla?» Era sembrata una domanda così
strana, specialmente perché era la stessa che anche lei, nel profondo
del cuore, si era già posta.
«Chiunque voglia farle del male dovrà prima uccidere me.»
Lui aveva annuito. «Speriamo che non si arrivi a tanto. Si assicuri
di sporgere denuncia, mi raccomando. E noi ci vediamo alla clinica
giovedì, o anche prima, se ci sono problemi.» Il suo tono era diventato
severo e lei aveva annuito, obbediente.
«Vorrei» aveva detto «che avesse un padre come lei.»
Lui l’aveva guardata con aria strana, aveva fatto per dire qualcosa, poi però era rimasto in silenzio. Le aveva sorriso; un sorriso
caldo, confortante, pieno di compassione. «Anch’io. Anch’io.»
Ogni volta che ripensava a quel momento, il suo cuore si riempiva di odio per l’uomo che aveva fatto del male a sua figlia. L’ odio
la rendeva impermeabile a ogni suo tentativo di redenzione, alle
sue suppliche e anche alla sua rabbia, che esplodeva contro di lei
ogni volta che si rifiutava di fargli vedere la piccola. Era stato un
incidente. Non voleva farle del male, diceva. Sembrava dispiaciuto,
in effetti. Ma lei continuava a pensare a quello che le aveva chiesto il
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medico. Sarà in grado di proteggerla? L’ unico modo per essere certa
di riuscirci era tenere quell’uomo fuori dalla sua vita.
Forse si era appisolata un attimo, ma qualcosa l’aveva svegliata e
lasciò il telefono per afferrare la mazza da baseball. Restò distesa, in
silenzio, ad ascoltare la notte mentre l’adrenalina le saliva dentro. La
bambina si girò tra le coperte e sospirò. Sentì un rumore lievissimo,
quasi un tintinnio, il suono di una molla di metallo che scatta, come
se le porte scorrevoli fossero state aperte. Silenziosamente.
Lui non era mai stato silenzioso. Le volte che era venuto, l’aveva
fatto in maniera impetuosa, caotica. Sentì un nodo alla gola e si
alzò dal letto, lasciando lì il telefono e stringendo la mazza, che ora
le sembrava pesantissima. Si avvicinò alla porta e sbirciò nel piccolo
soggiorno. Da lì riusciva a vedere l’ingresso. All’improvviso la serratura della porta le sembrò così debole, e si maledisse per non aver
installato il paletto e la catenella, come le aveva raccomandato la
polizia. Non se l’era potuto permettere. La finestra accanto alla porta
aveva le sbarre, ma dava su un pianerottolo che chiunque poteva
raggiungere, bastava salire una rampa di scale.
Era un’ombra quella che aveva appena visto muoversi dietro la finestra? Le tende erano chiuse, ma le luci del parcheggio erano sempre
accese e a volte vedeva l’ombra delle persone che salivano le scale,
dirette al proprio appartamento. Si rimise in ascolto, senza udire
nulla. Stava per rilassarsi quando lo sentì di nuovo, quel rumore
metallico. Era dietro la porta? Il suo respiro si fece affannato.
Guardò il telefono che aveva lasciato sul letto e pensò di chiamare
la polizia, ma non voleva che tornassero per un altro falso allarme.
Era già successo che fossero arrivati quando lui se n’era andato da un
pezzo. E anche se le rispondevano sempre con rispetto quando chiedeva
aiuto, stava cominciando a sentirsi come il ragazzino che grida al lupo.
Se li avesse richiamati per nulla, si sarebbe vergognata a morte. Strinse
la mazza con entrambe le mani e si avvicinò alla porta.
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Si muoveva lentamente, in punta di piedi. Lui si presentava
sempre sbraitando, picchiando sul battente. Non aveva mai cercato
di penetrare in casa di nascosto per far loro del male. O, dando corpo
al suo incubo peggiore, per rapire la bambina. Erano scomparsi già
tre bambini nella zona, nell’ultimo anno. Ogni notte i loro volti la
guardavano dallo schermo della TV, tormentandola con il loro sorriso, i loro occhi dolci. Erano ancora lontani da casa, tutti. Nessuno
era stato ritrovato. Non c’era neanche una pista da seguire. Ogni
tanto sentiva al telegiornale che c’era stato un avvistamento, in un
centro commerciale, in un autogrill o in un parco divertimenti. Ma
la traccia non portava mai da nessuna parte. Pensava spesso a quei
genitori, al vuoto che dovevano avere dentro, alle terribili domande
e alle ipotesi impronunciabili che probabilmente formulavano. Forse,
l’unica cosa che li teneva in vita era la speranza, l’unica cosa che
teneva lontano il rasoio dai loro polsi e la pistola dalla loro tempia
era l’idea che un giorno li avrebbero rivisti. Non osava nemmeno
immaginare il tremendo dolore di chi aveva perso un figlio, il dubbio
che fosse vivo da qualche parte, o morto… senza sapere quale delle
due ipotesi fosse la peggiore.
Era arrivata vicino alla porta, accanto al vecchio divano. Non
aveva sentito niente mentre si avvicinava piano all’ingresso, perciò
rimase ferma, immobile come una statua, tenendo la mazza
abbassata.
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È buio, quel buio orribile in cui riesci a distinguere gli oggetti ma
non gli spazi neri che li dividono. Ho il respiro affannato per lo
sforzo e la paura. L’ unica persona al mondo di cui mi fidi giace
sul pavimento, accanto a me. Mi chino su di lui e sento che respira
ancora, ma con grande difficoltà. È ferito, lo so. Ma non riesco a
capire quanto sia grave. Lo chiamo sussurrandogli all’orecchio,
ma non mi risponde. Sento il suo corpo, ma non capisco se sta
perdendo sangue. Il rumore che ha fatto quando ha colpito il pa­
vimento, pochi minuti fa, è stato il più agghiacciante che abbia
mai sentito.
Tasto il pavimento attorno a lui, alla ricerca della sua pistola.
Dopo qualche secondo sento il metallo freddo sotto le dita e quasi
mi metto a piangere dal sollievo. Ma non ho tempo.
Sento la pioggia che cade fuori dall’edificio bruciato, le gocce
pesanti che colpiscono il telone di plastica. Penetra anche all’in­
terno, insinuandosi nei buchi nel tetto e ricadendo sul pavimento
di legno marcio e su scalinate distrutte. Il corpo si muove e mugola
piano. Lo sento che mi chiama e mi avvicino.
«Va tutto bene. Andrà tutto bene» gli dico, anche se non ho
motivo di credere in ciò che ho appena detto. Da qualche parte,
là fuori o sopra di noi, un uomo che pensavo di amare, insieme
ad altri che non riconosco, sta cercando di ucciderci, per proteg­
gere la verità orribile che ho scoperto. Anch’io sono ferita e provo
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così tanto dolore che potrei svenire, se solo farlo non significasse
morire qui, in questo edificio del Lower East Side di Manhattan.
Qualcosa si è conficcato nella mia coscia destra. Forse è un proiet­
tile, o un pezzo di legno, o magari un chiodo. È così buio che riesco
a malapena a vedere il foro nei jeans, ma credo che il tessuto sia
nero di sangue. Sono frastornata, mi gira la testa, ma tengo duro.
Adesso li sento sopra di noi, vedo le luci delle loro torce incro­
ciarsi nel buio attraverso i buchi nel pavimento. Cerco di control­
lare il respiro, che mi sembra faccia il chiasso di un treno in corsa.
Sento uno di loro dire: «Credo che siano caduti là sotto». Nessuna
risposta, ma li sento avvicinarsi tra scricchiolii di legno.
Lui si irrigidisce. «Arrivano» dice, la voce poco più che un sus­
surro. «Vattene di qui, Ridley.»
Non gli rispondo. Sappiamo entrambi che non me ne andrò.
Lo afferro e lui cerca di alzarsi, ma sul viso gli appare una smorfia
di dolore più eloquente del grido che ha soffocato per proteggerci.
Se non ce ne andiamo insieme, allora non ce ne andremo affatto.
Lo trascino, anche se so che non dovrei muoverlo, fino a un vec­
chio divano che giace rovesciato vicino a una parete. Vedo quanto
soffre. Mentre lo sposto perde nuovamente conoscenza e all’im­
provviso sembra che pesi venti chili in più. Ma ho visto che riesce
a muovere tutti gli arti, ed è già qualcosa. Realizzo che mentre lo
trascino sto pregando, con la gamba in fiamme, le forze che stanno
per abbandonarmi. Ripeto: Ti prego, Dio, ti prego, ti prego, come
un mantra.
Il divano rovesciato crea una piccola nicchia contro il muro,
abbastanza grande per entrambi. Ce lo infilo e mi stendo sulla
pancia accanto a lui. Tiro una vecchia cassa fino al divano e sbircio
attraverso le assi di legno. Sono più vicini e sono certa che ci ab­
biano sentiti, perché hanno smesso di parlare e hanno spento le
torce. Stringo la pistola con tutte e due le mani e aspetto. Non ho
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mai sparato prima d’ora e non so neanche quanti proiettili siano
rimasti. Credo che moriremo qui.
«Ridley, ti prego, non farlo.» La voce riecheggia nel buio e
sembra provenire dall’alto. «Possiamo risolvere tutto.»
Non rispondo, so che è un trucco. Ormai non possiamo più
risolvere un bel niente, ci siamo spinti tutti troppo oltre. Ho avuto
fin troppe possibilità di chiudere gli occhi e lasciar perdere, ma
non le ho mai sfruttate. Sono pentita? È difficile dirlo, ora che gli
spettri si avvicinano.
«Sei…» sussurra lui.
«Che?»
«Restano sei pallottole.»
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Fino a poco tempo fa, la mia vita è stata relativamente povera di
eventi di rilievo. Il che non significa che mi stessi trascinando senza
scopo, prima che la circostanza che sto per condividere con voi
ribaltasse il mio mondo. Tuttavia, ora che mi ci fate pensare, non è
che facessi poi chissà cosa. Eppure ho motivo di credere che non sia
stato un fatto preciso, ma un numero infinito di piccole decisioni a
condurmi alle circostanze che hanno cambiato così profondamente
sia me che quelli che mi circondano. Alcuni sono morti, tante vite
sono state sconvolte, la verità non ci ha reso affatto liberi ma ha
distrutto pezzo per pezzo una facciata costruita con grande mae­
stria, e ci ha lasciati nudi e al punto di partenza.
Mi chiamo Ridley Jones e, quando tutto è cominciato, ero
una giornalista trentenne che viveva da sola in un appartamento
dell’East Village, lo stesso che occupavo quando studiavo alla New
York University. Era annidato al terzo piano di un condominio
senza ascensore, all’angolo tra la First Avenue e l’Undicesima,
sopra una pizzeria chiamata Five Roses. Con il suo portone a sbarre
di ferro nere, i corridoi bui e i pavimenti imbarcati, l’onnipresente
aroma di aglio e olio d’oliva, aveva un certo fascino. Ed era incre­
dibilmente economico, mi costava solo ottocento dollari al mese.
Se conoscete New York, saprete che pagare così poco è quasi im­
possibile, anche accontentandosi di un appartamento di sessanta
metri quadrati con una sola camera da letto che dà su un cortile
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pieno di cani arrabbiati e ha come unica visuale le stanze degli in­
quilini del condominio di fronte. Ma il posto non era male, e mi ci
trovavo bene. Perfino quando ho potuto permettermi qualcosa di
meglio sono rimasta lì, solo per avere intorno uno spazio familiare
e restare vicino alla miglior pizza di tutta New York.
Forse vi state chiedendo che razza di nome sia Ridley. Mio
padre è il dottor Benjamin Jones, un pediatra del New Jersey che
vive in una lussuosa e comodissima casa vittoriana con mia madre,
ex ballerina­casalinga che lui ama, ricambiato, sin dai tempi in
cui si conobbero alla Rutgers, nel 1960. Ebbene, mio padre si era
sempre lamentato del suo cognome così banale. Gli sembrava il
classico che si dice alla gente quando non si vuol far conoscere la
propria identità, come Smith o Black. Crescendo, questa estrema
banalità aveva cominciato quasi a metterlo in imbarazzo. Era stato
cresciuto in un triste sobborgo di Detroit, Michigan, da persone
normali che gli auguravano una vita normale. Ma lui normale non
si sentiva, e quando era arrivato il suo turno di dare un nome alla
figlia non aveva voluto farle credere di aspettarsi da lei un’esistenza
ordinaria come avevano fatto i suoi con lui. Mi chiamò Ridley,
come Ridley Scott, il regista. Era da sempre un appassionato di
cinema. Pensava fosse un nome insolito per una ragazza, un nome
speciale che mi avrebbe incoraggiata a condurre una vita straordi­
naria. Ed era convinto, sapendomi giornalista a New York, be’, che
mi ci stessi impegnando.
Anche prima del verificarsi degli eventi che sto per raccontarvi,
suppongo che, a modo mio, fossi davvero straordinaria. Questo,
forse, solo perché amavo i miei amici, ero felice, mi piacevo (tranne
le cosce), mi piaceva il mio lavoro e il luogo in cui vivevo. Ho avuto
relazioni piacevoli con gli uomini, anche se finora non ho mai
incontrato il vero amore. Chi vive a New York, sa che queste sono
cose veramente straordinarie.
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Eppure c’era così tanto che non sapevo, così tanti strati nascosti
di un passato di cui non ero a conoscenza. Non voglio credere
che una tale ignoranza fosse la causa della mia relativa felicità,
ma suppongo che voi, invece, lo pensiate. Di sicuro, comunque,
adesso qualcosa in me è cambiato. Il mondo è un luogo diverso,
e la felicità, la vera pace, sembra ormai irraggiungibile. La donna
che ero un tempo mi sembra un’inguaribile ingenua. La invidio.
Quando mi guardo indietro, mi meraviglio di come il corso
della mia vita non sia stato modificato da quelle che considero
le scelte più importanti che ho fatto. Sono state le mie decisioni
apparentemente più insignificanti a cambiare tutto. Pensateci. Pen­
sate agli eventi improvvisi che vi sono capitati. Non è stata sempre
una questione di secondi? Non sono state le scelte più innocue a
portarvi ad attraversare una certa strada, o a mettervi fuori peri­
colo, o a farvici cadere proprio in mezzo? Sono queste le cose che
ci cambiano, in fondo. Chi sposiamo, che lavoro scegliamo, come
veniamo cresciuti, questo è il quadro generale. Ma, come si dice,
il diavolo è nei dettagli.
Bene, parliamo dei dettagli, allora.
Era un lunedì mattina a New York, l’autunno stava cedendo
il passo all’inverno e nell’aria già si sentivano i primi freddi. Era
il periodo dell’anno che preferivo, quando il caldo opprimente e
l’umidità intrappolata nelle pareti di cemento si sollevavano, la­
sciandosi alle spalle una città nuova.
Quando mi svegliai, quel lunedì, per via della scarsissima luce
che filtrava dalla finestra, capii subito che sarebbe stata una gior­
nata uggiosa. Il vetro era coperto di gocce di pioggia. Fu questo il
minuscolo dettaglio che influì sulla mia prima decisione. Allungai
il braccio, afferrai il cordless sul comodino e composi il numero.
«Ufficio del dottor Rifkin» rispose una voce, piatta come un
marciapiede.
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«Sono Ridley Jones» dissi fingendo di avere il mal di gola. «Mi
è venuto un brutto raffreddore. Potrei venire comunque, ma non
vorrei far ammalare il dentista.» Aggiunsi anche un patetico colpo
di tosse, per dare enfasi. Il dottor Rifkin era il mio dentista, un
omino che si prendeva cura dei miei denti sin dal mio primo anno
di università. Con la sua lunga barba bianca e il ventre prominente,
camicia a scacchi e bretelle, scarpe ortopediche e una tenerissima
andatura ondeggiante, mi deludeva sempre quando apriva bocca
e parlava con un pesante accento di Long Island. Io me lo imma­
ginavo scozzese, accidenti.
«Le sposto l’appuntamento» disse zelante la segretaria, che pro­
babilmente non se l’era bevuta nemmeno per un secondo ma non
gliene importava granché.
E così ero libera. La libertà, devo dire, per me è la cosa più
importante, più della giovinezza, della bellezza, della fama o del
denaro. Forse non più importante dell’amore, ma dentro di me
sono molto indecisa in proposito, come confermerebbero alcune
persone che mi conoscono bene. Una di queste è Zachary.
«Colazione da Bubby’s?» gli dissi quando rispose. Ci fu una
pausa in cui lo sentii girarsi nel letto. Qualche mese fa forse mi
sarei trovata lì con lui.
«Non devi lavorare?» mi chiese.
«Sono a progetto, lo sai» dissi, fingendo indignazione. Era vero:
avevo appena portato a termine un incarico ed ero in attesa del
prossimo, ma non era certo un problema, per tutta una serie di
motivi.
«A che ora?» mi chiese, e nella sua voce sentii quel triste mi­
scuglio tra speranza e rimorso che percepivo spesso quando gli
parlavo.
«Facciamo tra un’ora?»
«Okay, a dopo.»
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Zachary era l’uomo che avrei dovuto sposare. Le nostre vite
erano intrecciate sin da quando eravamo piccoli. I miei lo adora­
vano, forse più di mio fratello. Alle mie amiche piaceva un sacco,
con quei suoi capelli biondo sabbia e lo sguardo luminoso, il corpo
atletico, una carriera da pediatra affermata e il modo in cui mi
trattava. Perfino io lo adoravo. Ma ogni volta che si trattava di
prendere una decisione, esitavo. Perché? Paura di impegnarmi? In
tanti la pensavano così. Ma non io. Posso solo dire che per me le
parole «per sempre» non erano compatibili con Zachary. Non c’era
niente di preciso che non andasse bene. Eravamo grandi amici, il
sesso era piacevole, condividevamo la passione, tra le altre, per la
sala dei dinosauri al Museo di Storia naturale e per il gelato alla
vaniglia. Ma l’amore è ben più che la somma delle sue parti, giusto?
In sostanza, tenevo a lui così tanto che pensavo si meritasse una
persona che lo amasse più di me. Se questo per voi non ha molto
senso, be’, non siete gli unici. I miei genitori e la madre di Zack,
Esme (cui a volte mi sento più vicina che alla mia) sono rimasti
sconvolti dalla mia decisione. Da quando eravamo bambini fanta­
sticavano in maniera neanche troppo velata su un possibile futuro
insieme. Perciò, quando abbiamo cominciato a uscire, loro erano
entusiasti. E quando ci siamo lasciati credo che abbiano avuto
molta più difficoltà di me e Zack a superare la cosa.
Quella mattina, lui e io cercavamo di essere amici. Avevo posto
fine alla nostra relazione poco più di sei mesi prima e avevamo
avuto un po’ di difficoltà a dare avvio a quella che speravo potesse
diventare una duratura amicizia, per via della delusione e dei senti­
menti feriti (e, credo, anche per orgoglio). A volte era imbarazzante
vedersi, ma ero fiduciosa.
Scesi dal letto e lo spinsi di nuovo contro la parete. Vi ricordate
quando ho parlato di pavimenti imbarcati? Be’, nel pavimento della
mia camera c’è una vera e propria discesa. Dato che ho un letto a
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rotelle, a volte mi sveglio, soprattutto dopo una notte particolar­
mente agitata, e mi accorgo di essere finita al centro della stanza.
È un inconveniente di poco conto, alcuni potrebbero addirittura
definirlo una nota di colore nel folklore dell’East Village.
Feci scorrere l’acqua nella doccia e chiusi la porta, per riempire
di vapore il minuscolo bagno a piastrelle bianche e nere. Ascol­
tando il rumore della pioggia andai in cucina e misi su il caffè.
Con la mente ancora annebbiata dal sonno aspettai che l’acqua
bollisse e che l’aroma del caffè si diffondesse per la cucina. In lon­
tananza sentivo i rumori della First Avenue e l’odore dei pasticcini
di Veniero’s, la pasticceria dietro il mio condominio il cui sistema
di ventilazione diffondeva ogni tipo di profumo nel mio cortile.
Diedi un’occhiata alle finestre dell’edificio di fronte: il chitarrista
avvenente aveva ancora le tende chiuse, la coppia gay era pronta
per andare al lavoro ed era seduta al tavolo della cucina con due
grosse tazze di caffè (il biondo leggeva The Village Voice e l’altro il
Wall Street Journal); la ragazza asiatica faceva il suo yoga mattutino
mentre la sua coinquilina sembrava leggere qualcosa ad alta voce
nell’altra stanza. Per via del freddo, tutte le finestre erano chiuse
e le vite di queste persone si svolgevano davanti a me come su
schermi televisivi accesi in muto. Erano dettagli accessori della mia
mattinata, come lo ero io per loro quando guardavano fuori dalla
finestra e mi vedevano in cucina, in attesa che fosse pronto il caffè.
Come ho già detto lavoravo a progetto. Avevo appena conse­
gnato un profilo di Rudy Giuliani per la rivista New York ed ero
stata pagata piuttosto bene. Avevo un altro paio di lavori che bolli­
vano in pentola, progetti che avevo inviato a editori che mi conosce­
vano dai tempi in cui lavoravo per Vanity Fair, The New Yorker e The
New York Times. Lavoravo regolarmente da quasi sette anni ed ero
fiduciosa che, presto o tardi, qualcuno di questi progetti si sarebbe
trasformato in un incarico stabile. A me comunque questa formula
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andava bene. All’inizio, la storia del lavoro freelance era stata un
problema. Se i miei non avessero integrato i miei magri guadagni
subito dopo la laurea, probabilmente sarei stata costretta a tornare a
vivere con loro. Tuttavia sono una persona con un po’ di talento, una
professionista seria che rispetta le scadenze e una scrittrice dall’ego
limitato, che accetta di buon grado suggerimenti e correzioni, e ha
saputo costruirsi una buona reputazione e un’utile rete di contatti. Il
resto me lo sono guadagnato con il sudore della fronte.
Ciò nonostante avrebbe potuto anche non andarmi così bene,
se mio zio Max non fosse morto quasi due anni fa. Lo zio Max
non era veramente mio zio, perché in realtà era il migliore amico
di mio padre dai tempi di Detroit, dove erano cresciuti insieme.
Entrambi figli di operai del settore automobilistico, mio padre e
Max avevano vissuto nello stesso sobborgo per diciotto anni. Mio
padre veniva da una famiglia solida di operai stacanovisti, mentre
il padre di Max era un alcolizzato e un violento. Una sera, quando
Max aveva sedici anni, la violenza dell’uomo aveva raggiunto l’a­
pice: aveva picchiato la moglie, che era caduta in coma e non si era
più risvegliata. Invece di farlo finire sotto la tutela dello stato, i miei
nonni adottarono Max e riuscirono in qualche modo a mandarlo
al college insieme a mio padre.
Mio padre si era iscritto a medicina, diventando il pediatra
che è oggi. Max, invece, si era dedicato al settore immobiliare e
aveva fondato una delle società più grandi della East Coast. Non
smise mai di cercare il modo di ripagare i miei nonni e mio padre,
che essendo persone orgogliose avevano sempre rifiutato qualsiasi
risarcimento in denaro. Max allora aveva preso a viziare loro e
noi con crociere ai Caraibi e magnifici regali di compleanno, dalle
biciclette alle auto nuove. Naturalmente noi lo adoravamo. Non si
era mai sposato e trattava mio fratello Ace e me come se fossimo
figli suoi.
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Tutti lo ritenevano un uomo felice, perché non c’era un giorno
che non avesse il sorriso stampato in faccia o fosse pronto a farsi
una bella risata. Tuttavia, anche da bambina, ricordo di aver
sempre percepito in lui una profonda tristezza. Guardavo quegli
occhi azzurri e ci vedevo dolore, un dolore che si annidava anche
agli angoli della bocca. Ricordo come si incupiva, perso nei suoi
pensieri, quando credeva che nessuno lo guardasse. E ricordo il
modo in cui guardava sempre mia madre Grace, come se fosse un
premio scintillante che era stato vinto da qualcun altro.
Lo zio Max era un alcolizzato, ma siccome quando beveva era
sempre allegro, nessuno ci faceva caso. Alla vigilia di Natale di due
anni fa, dopo aver lasciato casa dei miei dove avevamo passato
la serata insieme, non fece più ritorno a casa sua. Sembra che si
sia fermato in un bar e che poi, diverse ore dopo, sia salito sulla
sua Mercedes nera e si sia lanciato giù da un ponte con tutta la
macchina, annegando nell’acqua gelida. Se sia stato un incidente
o se l’abbia premeditato non lo sapremo mai, sebbene la totale
assenza di segni di pneumatici sull’asfalto lasci pensare che non
abbia neanche provato a frenare. Quella notte sulle strade c’era
molto ghiaccio. Magari era stato per quello, gli pneumatici non
avevano fatto presa sulla strada scivolosa. O forse era svenuto al
volante e non se n’era nemmeno accorto. Noi preferiamo pensare
all’incidente, dato che l’alternativa ci perseguiterebbe tutti.
La mia famiglia era in lutto, ma mio padre lo era più di tutti;
aveva perso l’uomo con cui aveva condiviso quasi tutta la vita.
Tuttora non riteniamo giusto festeggiare la vigilia di Natale, un
giorno che avevamo sempre condiviso con Max e lo stesso in cui
ci è stato portato via.
Nel suo testamento lasciò quasi tutto ai miei genitori e alla fon­
dazione Maxwell Allen Smiley. L’ aveva creata molto prima che io
nascessi e serviva a finanziare miriadi di associazioni di volon­
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tariato che offrivano assistenza e riparo alle donne e ai bambini
maltrattati. Ma lasciò anche una grossa somma di denaro a me e a
mio fratello. Grazie ai consigli di un esperto avvocato, la mia parte
venne investita. Ed è per questo che oggi posso godere della libertà
che tanto amo. Mio fratello, invece, quei soldi se li è sparati tutti in
vena. O almeno credo. Ma questa è un’altra storia.
Non pensavo a nulla di tutto ciò, quel lunedì. Stavo solo aspet­
tando di vivermi una giornata tutta per me. Feci la doccia, mi
asciugai i capelli, indossai un paio di jeans, una felpa rosso acceso,
un paio di scarpe da ginnastica e un cappellino degli Yankees e
uscii. Se l’avessi saputo prima, mi sarei soffermata davanti alla
porta, per dire addio a un’esistenza adorabile, a una vita semplice
e comoda, una vita che molti mi avrebbero invidiato. Non era per­
fetta, ovviamente. Ma diciamo che ci andava molto vicino.
In corridoio tentai di fare meno rumore possibile. Sospettavo
fortemente che Victoria, la mia anziana vicina, origliasse da dietro
la porta per capire quando entravo e uscivo di casa. Questo mi
spingeva a muovermi come una ladra. Non avevo nulla contro
quella donna, era solo che, per via della sua solitudine e della mia
compassione, incontrarla poteva significare sempre un ritardo di
venti minuti. Quella mattina, però, non fui abbastanza silenziosa.
Appena chiusi a chiave il mio appartamento, sentii la porta accanto
che si apriva.
«Mi scusi» sussurrò. «C’è nessuno?»
«Salve, Victoria. Buongiorno» dissi, dirigendomi verso le scale.
Victoria era sottile e pallida come un foglio di carta. L’ onni­
presente vestaglia a fiori le pendeva addosso come appesa a una
gruccia. Ormai i suoi capelli erano stati sostituiti da una parrucca
grigio chiaro tutta arruffata. Sulla pelle del viso aveva profonde
rughe, gli zigomi ricordavano la cera sciolta. Affermava con orgo­
glio, quasi ogni volta che la incontravi, di avere ancora tutti i denti.
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Purtroppo, gliene erano rimasti solo cinque o sei. Invece di parlare
sussurrava, come se avesse paura che qualcuno origliasse da dietro
le porte come faceva lei. Mi era sempre piaciuta, anche se di solito
facevamo ogni giorno la stessa conversazione e non si ricordava mai
chi fossi. Mi raccontava dei suoi tre fratelli, tutti agenti di polizia
ormai deceduti. Mi diceva che non avrebbe voluto rimanere nell’ap­
partamento che un tempo condivideva con la defunta madre, ma
che per un motivo o per un altro non si era mai decisa a traslocare.
«Oh, se i miei fratelli fossero ancora vivi…» disse quella mat­
tina, e la voce le venne meno. «Erano agenti di polizia, sa?»
«Dovevano essere molto coraggiosi» risposi io, guardando con
desiderio le scale ma avvicinandomi alla vecchia signora. Di tutte
le risposte che le avevo dato nel corso degli anni, Victoria sembrò
apprezzare questa in particolar modo.
«Oh, sì» disse sorridendo. «Molto.»
Riuscivo a intravedere solo parte della sua figura dietro la porta,
aperta solo di pochi centimetri. La vestaglia con i piccoli fiori viola,
le gambe avvolte nelle calze, le scarpe ortopediche grigie.
Victoria viveva in una capsula del tempo in compagnia dei suoi
mobili antichi. Nel suo appartamento non c’era un singolo oggetto
che non avesse almeno cinquant’anni più di me, tutto consumato
dal tempo, per lo più coperto di polvere. Ogni cosa pareva così pe­
sante, così radicata in quel luogo che sembrava esserci da sempre.
Pesanti armadi e cassettoni di quercia, divani e poltrone di broc­
cato, specchi incorniciati, un pianoforte a mezza coda con sopra un
mucchio di fotografie ingiallite. Ero entrata lì dentro solo qualche
volta, quando le avevo fatto la spesa o ero andata a cambiarle una
lampadina. Non riuscivo mai ad andarmene senza portarmi via un
po’ della sua tristezza e solitudine. C’era un odore che avevo co­
minciato a definire di «vita putrefatta»: un’esistenza ormai guasta,
andata a male per il poco utilizzo.
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Di solito mi chiedevo quali scelte avesse fatto nella vita per
finire senza nessuno accanto. Come ho già detto, ultimamente a
questa cosa delle scelte ci penso molto più spesso. Scelte impor­
tanti, insignificanti. Forse una volta, come me, anche lei aveva ac­
canto un uomo meraviglioso e innamorato che voleva sposarla;
forse, come me, anche lei l’aveva respinto per motivi non del tutto
chiari nemmeno a lei stessa. Forse era stata quella la prima deci­
sione che l’aveva portata a condurre un’esistenza del genere.
Aveva una nipote che ogni tanto veniva a trovarla da Long
Island (capelli cotonati, cappotto di lana rossa a tre quarti, scarpe
costose) e una badante che si occupava di lei tre volte la settimana
(una persona diversa ogni volta, che svolgeva quel compito con
l’entusiasmo e l’energia dei condannati a morte); un paio di volte
avevo visto entrare dei volontari. Vivevo in quel condominio da più
di dieci anni e non l’avevo mai vista uscire di casa. Mi sembrava
quasi che non potesse uscire, che se avesse fatto un passo fuori, sul
pianerottolo, si sarebbe sbriciolata in un mucchietto di polvere.
«Be’, se fossero ancora vivi, non sopporterebbero di certo tutto
il rumore che viene dal piano di sopra» cinguettò la signora.
L’ avevo sentito anch’io, un tizio nuovo che portava le sue cose
su per le scale. Ma non sono mai stata una ficcanaso.
«Sta solo traslocando, Victoria. Non si preoccupi, sono certa
che presto smetterà.»
«Lo sai che ho ancora tutti i miei denti?»
«È fantastico» risposi con un sorriso.
«Sembri una così brava ragazza» disse lei. «Come ti chiami?»
«Ridley. Abito qui accanto, se le serve qualcosa.»
«Che nome curioso per una ragazza così carina» disse lei, sco­
prendo le gengive in una parodia di sorriso. Io salutai e me ne andai
per la mia strada.
Pareti e gradini di pietra grigia, una balaustra rossa e pavimenti
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di legno bianco e nero mi accompagnarono di sotto. Al secondo
piano, la luce fluorescente sul soffitto baluginò e si spense, poi si
riaccese di colpo. Tutte le luci del palazzo facevano così, era un
problema dell’impianto elettrico che la padrona di casa, Zelda,
non sembrava avere intenzione di risolvere.
«Ma cosa credi, che abbia i soldi per riparare tutto lo strama­
ledetto palazzo? Vuoi che ti aumenti l’affitto?» mi aveva risposto
quando ero andata a lamentarmi. Questo aveva messo fine alla
questione; me ne feci una ragione, limitandomi ad assicurarmi
che non ci fosse mai nulla a bloccarmi la strada verso l’uscita di
sicurezza.
Al pianoterra, nello stretto corridoio che conduc eva alla porta,
trovai un appunto sulla mia cassetta delle lettere, che non svuotavo
dal venerdì precedente per pura pigrizia. Troppe riviste! mi rimpro­
verava il postino con la sua calligrafia nervosa. Riuscii a malapena
ad aprire la cassetta per via della quantità esagerata di lettere, bol­
lette, pubblicità, cataloghi, copie delle riviste Time, Newsweek, New
York e Rolling Stone. Presi tutto, rifeci di corsa i tre piani di scale
che avevo appena sceso, aprii la porta di casa e buttai tutto dentro,
poi richiusi e me ne andai di nuovo.
Ora, probabilmente vi starete chiedendo se è davvero neces­
sario che vi racconti fin nei minimi particolari il momento in cui
sono uscita di casa. Ma questi due episodi, le piccole decisioni che
ho preso prima di uscire in strada, hanno cambiato tutto. Se fossi
stata una persona diversa, magari non mi sarei fermata a parlare
con Victoria. O forse mi sarei fermata più a lungo. Avrei potuto
ignorare la cassetta delle lettere, non vedere il messaggio del po­
stino, o fregarmene. Sono tutte scelte che chiunque avrebbe potuto
fare. Le riconosciamo con chiarezza solo dopo che il momento è
ormai passato. Sarebbero bastati trenta secondi in più o in meno e
non avrei alcuna storia da raccontarvi. Non sarei io a farlo.
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Altre piccole decisioni le presi per strada. Ero in ritardo, perciò
invece di girare a destra e farmela a piedi fino a TriBeCa (una lunga
passeggiata, certo, ma fattibile se si ha il tempo), optai per un taxi.
Fu lì, sul ciglio della strada, che li vidi. Una giovane madre, con i
capelli castani legati in una coda alta, un bimbo nel passeggino e
l’altro accanto a lei, mano nella mano, in attesa al semaforo. Non
c’era nulla di insolito in loro, cioè niente che la maggior parte della
gente non avrebbe notato. Mi colpì solo il contrasto con Victoria,
la bellezza e l’energia di queste giovani vite a confronto con il
triste e solitario crepuscolo dell’anziana signora che avevo appena
incontrato.
La guardai. Era una donna minuta, ma in lei c’era quella forza
che solo le giovani madri sembrano avere. Aveva quella singolare
capacità di tenere sotto controllo milioni di movimenti e fattori
esterni, la calma necessaria per tirare fuori un pacchetto di Chee­
rios dalla tasca di una borsa per pannolini un attimo prima che
un faccino inizi a contorcersi e a piangere, l’abilità di assumere
un’espressione che comunichi compassione e comprensione a un
bimbo che a malapena riesce a parlare. Era tutto così musicale,
quasi una sinfonia, e per un istante ne fui rapita. Poi mi voltai verso
il mare di taxi in avvicinamento, sperando di trovarne uno… erano
le otto e trenta di un lunedì mattina di pioggia. Buona fortuna!
Non ce n’era nemmeno uno vuoto, ovviamente. Insieme a me, altri
ansiosi pendolari in attesa dello stesso taxi agli angoli del marcia­
piede. Mi rassegnai ad arrivare in ritardo e decisi di prendere un
caffè. Ma, quando il mio sguardo tornò per un attimo alla fami­
gliola dall’altro lato della strada, sentii un campanello d’allarme.
La madre era china sul passeggino e il bambino, dimenticato per
un secondo, aveva messo un piede in strada. Il flusso continuo
del traffico si era un po’ placato ma il bambino, con i suoi jeans
sbiaditi, il cappotto rosso e il cappellino nero, stava per essere in­
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vestito da un furgone bianco in avvicinamento. Dentro, l’autista
stava parlando con foga al cellulare, incurante della strada.
Tutti dicono sempre di avere una gran confusione in testa. Io
invece ricordo ogni secondo. Mi trasformai in proiettile, non pen­
savo più, avevo in testa solo una cosa. Corsi in strada. Ricordo la
giovane madre alzare lo sguardo dal passeggino sentendo la gente
gridare. Vidi l’espressione sul suo viso passare dalla confusione
al terrore, le persone sul marciapiede voltarsi a guardare; vidi il
bambino ignaro che camminava barcollando verso di me. Sentivo
il cemento duro sotto i piedi, il sangue pulsarmi nelle orecchie. Ero
completamente concentrata sul bambino, che mentre mi piegavo
e lo afferravo, mi guardava con un sorriso confuso. Tutto sembrò
rallentare, tranne me; il tempo si deformava, sbadigliava, ma io ero
un razzo. Sentii il calore del suo corpo, la morbidezza del cappotto
mentre lo sollevavo fra le braccia. Vidi il parafango del furgone,
sentii il metallo del paraurti graffiarmi il piede mentre mi tuffavo
di lato. Il veicolo proseguì sulla First Avenue, senza nemmeno ral­
lentare, come se l’autista non avesse neppure visto di sfuggita il
dramma che si era consumato davanti a lui. Ero un fascio di nervi,
digrignavo i denti per la determinazione e la paura, ma mi rilassai
quando sentii il bambino scoppiare a piangere, e lo vidi che mi
guardava impaurito. La madre mi corse incontro e me lo prese
dalle braccia. Il bimbo smise di piangere e cominciò a mugolare,
come se un istinto primordiale gli avesse detto che aveva appena
evitato il grande buio. Almeno per ora. La gente mi circondò, guar­
dandomi preoccupata. Stavo bene? Sì, stavo bene.
Avevo fatto una buona azione, questo pensate. Tutto era andato
per il meglio. In fin dei conti chiunque con un minimo di reattività
e un cuore avrebbe fatto lo stesso. Ma qui entrano in gioco le pic­
cole cose di cui ho parlato finora. Accanto a me, all’angolo tra la
First Avenue e l’Undicesima, c’era un fotografo del New York Post.
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Stava tornando dal distretto di polizia, dopo un servizio su alcuni
criminali da due soldi arrestati quella notte. Voleva fermarsi per un
boccone al Five Roses, ma naturalmente alle otto e trenta del mat­
tino era chiuso. Perciò aveva ripiegato sulla pasticceria all’angolo
per un caffè e un cornetto. Entrambi, ora, giacevano ai suoi piedi,
là dove li aveva lasciati cadere per afferrare la macchina fotografica
e immortalare tutta la scena.
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Doveva essere stata una settimana povera di notizie. E, okay, le foto
scattate dal tizio del Post erano abbastanza sensazionali, bisogna
dirlo. Fatto sta che anche per me erano arrivati i famosi quindici
minuti di celebrità. Che posso dire? Me li sono goduti tutti. Non
sono una persona timida e adoro parlare, perciò ho concesso tutte
le interviste che mi hanno chiesto: Good Day New York, The Today
Show, il Post, il Daily News. Il telefono squillava di continuo ed era
piuttosto divertente, devo ammetterlo. Anche i miei hanno goduto
di una certa gloria riflessa sul Record del New Jersey. Neanche loro
sono persone timide.
Il venerdì la mia immagine era su ogni giornale e ogni canale
televisivo dell’area di New York. Mi mandarono addirittura sul ca­
nale nazionale, grazie a quelli della CNN. La gente mi fermava per
strada per abbracciarmi o stringermi la mano. New York è già una
città molto particolare, ma quando sei il «cittadino del momento»
diventa assolutamente surreale. Un’intera popolazione, di solito
ostinatamente solitaria e distaccata, improvvisamente mi sorrideva
a ogni angolo di strada. Credo che quando qualcuno compie una
buona azione a New York si inneschi un meccanismo per cui gli
altri si accorgono che, nonostante l’indifferenza generale, c’è an­
cora qualcuno che veglia su di loro.
«Non ci posso credere, Rid» disse Zack bevendo il suo drink
al NoHo Star. L’ eco di centinaia di altre conversazioni rimbalzava
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