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[email protected] 27.01.2016 16:09 [email protected] 27.01.2016 16:09 Lisa Unger Segreti sepolti Traduzione di Leonardo Taiuti [email protected] 27.01.2016 16:09 Titolo originale: Beautiful Lies Copyright © 2006 by Lisa Unger This translation published by arrangement with Crown Publishers, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC. Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. www.giunti.it © 2016 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia Prima edizione: marzo 2016 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0 Anno 2020 2019 2018 2017 2016 [email protected] 27.01.2016 16:09 A Jeffrey Sei tutto. Sempre. Poiché era anonimo, senza nome… del tutto orfano, quidam. Cyprian K. Norwid [email protected] 27.01.2016 16:09 [email protected] 27.01.2016 16:09 25 ottobre 1972 A volte desiderava che fosse morto. Non le bastava desiderare di non averlo mai incontrato o che non fosse mai nato. No, voleva che fosse investito da un’auto o che rimanesse ucciso in maniera violenta, tipo in una rissa, o che gli restasse il braccio incastrato in un macchinario e morisse dissanguato. E desiderava che, in quegli ultimi istanti, sentendo che la vita lo stava abbandonando, capisse che bastardo fosse, che vita sprecata fosse stata la sua. Riusciva a immaginarlo con esattezza. Il sangue che formava una grossa pozza scura mentre lui si pentiva, in preda al terrore, comprendendo con estrema chiarezza che era sul punto di pagare per l’uomo che era stato. In quegli attimi avrebbe provato rimorso, molto. Ma sarebbe stato troppo tardi. Era così che se l’immaginava. Da sola, nel buio, era distesa sulla vecchia trapunta che teneva sul letto. Il radiatore sputava aria calda e secca, e ogni tanto faceva un rumore metallico, come se qualcuno lo stesse colpendo con una chiave inglese. Tese l’orecchio per sentire il lieve respiro di sua figlia, in fondo al corridoio. Un vento impetuoso faceva tremare il vetro della finestra. Sapeva che fuori faceva freddo, più di quanto non fosse mai stato in quell’autunno. Eppure sudava. Il riscaldamento in casa era sempre troppo alto. Di notte la bambina (ormai aveva quasi due anni) scalciava via le coperte. Aspettava proprio di sentire l’improvviso movimento della figlia nel letto. Ma rimaneva in ascolto anche per cogliere altri tipi di rumore. 7 [email protected] 27.01.2016 16:09 Il suo cuore aveva rallentato la corsa e sua figlia aveva finalmente smesso di piangere, ma sapeva che lui sarebbe tornato. Per questo giaceva completamente vestita, felpa grigia, jeans e scarpe da ginnastica, telefono in mano. Accanto al letto, una mazza da baseball. Se fosse tornato, avrebbe richiamato la polizia, anche se era già venuta. C’era un ordine restrittivo. Dovevano intervenire comunque, non importava quante volte li chiamasse. Non riusciva a credere che la sua vita si fosse ridotta a questo. Un vero casino, se non fosse stato per sua figlia, pensava. Quanti errori aveva commesso, quante aspettative aveva deluso. Ma almeno sapeva che una cosa l’aveva fatta bene, nonostante tutto. Sua figlia era felice, sana, e lei l’amava. L’ orologio sul comodino diffondeva nella stanza un bagliore verde e gli unici suoni che si udivano, adesso, erano il respiro della bambina e il ronzio del frigorifero giù nell’ingresso. Era vecchio: più che un ronzio sembrava un rantolo. Ormai non ci faceva quasi più caso, tranne nei momenti in cui restava in ascolto, nel buio, preoccupata di dove lui fosse e di cosa avrebbe potuto fare, ancora. Quando lei gli aveva detto di essere incinta, la loro relazione era quasi finita, sempre che relazione si potesse chiamare. Erano usciti un paio di volte. Lui era andato a prenderla con la sua Monte Carlo e l’aveva portata in una pizzeria dove tutti sembravano conoscerlo. L’ aveva fatta accomodare per prima e le aveva detto che era carina. Gliel’aveva detto diverse volte durante la cena, per riempire i silenzi frequenti della loro stentata conversazione. Erano andati a vedere Il candidato con Robert Redford, e Get away! con Steve McQueen, due film che lei non aveva particolarmente voglia di vedere. Non che lui gliel’avesse chiesto. L’ aveva semplicemente portata al cinema e si era diretto al botteghino per comprare i biglietti. Forse da questo avrebbe dovuto capire alcune cose. Se vai al cinema con una ragazza, non dovresti almeno chie8 [email protected] 27.01.2016 16:09 derle cosa le andrebbe di vedere? Nel cinema buio, con un pacchetto di popcorn tra le gambe, lui aveva giocherellato con i suoi capelli e le aveva sussurrato quanto fosse carina… di nuovo. La seconda volta, durante Getaway!, si era fatta toccare il seno e le era quasi piaciuto; aveva avvertito una sensazione di calore tra le gambe. Quella notte l’aveva accolto nel suo appartamento ed erano andati a letto insieme. Ma non si era fermato a dormire. Dopo quella volta l’avevano fatto ancora, ogni tanto, ma lui non l’aveva più portata a mangiare la pizza o al cinema. Poi, quando aveva cominciato ad abituarsi alla sua voce al telefono, al suo braccio sulle spalle, era piano piano svanito dalla sua vita. Facevano tutti così, no? Un giorno erano una coppia, quello dopo due estranei. Per un po’ lui l’aveva chiamata ogni sera, poi una volta ogni due giorni. Alla fine il telefono aveva smesso di suonare. Lei lo fissava, immobile sul bancone della cucina, e ogni tanto alzava la cornetta per assicurarsi che funzionasse ancora. Non le avevano insegnato a inseguire gli uomini, a chiedere loro di uscire o perché avessero smesso di chiamarla, perciò quando lui sparì, non tentò mai di contattarlo. Certo, non le avevano nemmeno insegnato a farsi palpare da un uomo in un cinema per poi portarselo a letto. In ogni caso, per lei quell’uomo era solo un passatempo, un modo per superare l’esperienza avuta con il precedente. Quanto erano diversi, quei due. Il primo era ricco, la portava a serate di gala in città, le comprava regali, vestiti e gioielli. Le parlava in francese e, anche se lei non capiva una parola, ne restava sempre affascinata. L’errore era stato che quell’uomo era anche il suo capo. Quando si era stancato di averla fra i piedi, le aveva suggerito di trovarsi un altro lavoro. Erano così diversi, quei due… Eppure molto simili. Si stancavano e la mandavano via. Diventavano freddi e distanti. O violenti, come questo. I suoi genitori, due fumatori incalliti, erano morti a due anni di distanza l’uno dall’altro, fin troppo giovani. Sua madre se n’era 9 [email protected] 27.01.2016 16:09 andata lentamente, per un terribile enfisema, e suo padre per un attacco cardiaco. Non aveva fratelli o sorelle, nessuno di fronte a cui vergognarsi della sua gravidanza. Ma nemmeno nessuno che la aiutasse. Maria era la sua unica amica; la donna che viveva al piano di sotto, nota a tutti come Madame Maria. Si guadagnava da vivere leggendo i tarocchi nel suo appartamento, facendosi portatrice della voce della «Dea», come amava dire. Madame Maria le aveva detto che il futuro le riservava un dono. Lo diceva sempre, ma stavolta aveva avuto ragione. Quando ne era stata sicura, era andata a dirglielo. Lui le aveva chiesto come faceva a sapere che fosse suo. Era stato lì che aveva davvero cominciato a odiarlo e a chiedersi come avesse fatto a concedersi così facilmente a una persona tanto spregevole. Gli aveva assicurato che non voleva nulla da lui, che aveva solo pensato di dargli l’opportunità di essere padre. Lui se n’era andato, lasciandola da sola in un parcheggio buio. Aveva cominciato a piovere, una pioggerellina fine, mentre il rombo della sua Monte Carlo si allontanava. Andare a parlarci era stato un errore; l’aveva sopravvalutato. Si era convinta che potesse comportarsi bene con lei. Altro errore. Poi, forse per il senso di colpa, o magari per una qualche capacità residua di amare, lui aveva ricominciato a farsi vivo pochi mesi dopo la nascita della bimba. Sembrava quasi che fare il padre potesse interessargli. Ma dopo un po’ aveva preso a comportarsi come quando la portava al cinema: pensava di poter scegliere cosa fare e quando, e già che c’era di potersi approfittare di lei. Lì era iniziata la battaglia. Era intervenuta la polizia. Lui si era scusato. Lei l’aveva perdonato per il bene della bambina. Ancora, e ancora… fino a quel fatidico pomeriggio. Allora era scoppiata la vera guerra. Da quel momento aveva trascorso molte notti come questa, distesa nel buio vestita da capo a piedi, in attesa. E aveva avuto un sacco di tempo per pensare al perché stesse accadendo tutto ciò. 10 [email protected] 27.01.2016 16:09 Aveva riflettuto su ogni loro conversazione, scomposto e analizzato ogni cosa che aveva detto e fatto, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare di diverso. Ma l’unica conclusione a cui era arrivata era che avrebbe dovuto capirlo sin da quando erano andati al cinema e lui non le aveva chiesto cosa volesse vedere. Già da questo era evidente che razza di uomo fosse. A volte sono le piccole cose che dicono tutto. Ricordava quel pomeriggio; le era rimasto impresso come un tatuaggio. Ricordava di aver ricevuto la telefonata da Maria mentre era al lavoro, di essere corsa a casa, dove permetteva a lui di stare con la bambina mentre lei era di turno. Ricordava di aver udito i vagiti, inconfondibili, terrificanti, come se il suo cuore fosse connesso direttamente a quello della figlia. Era corsa su per le scale salendo due gradini alla volta. Ricordava di essersi precipitata in casa e di averlo visto seduto sul divano, il viso sconvolto dalla paura. La porta della cameretta era chiusa, come se avesse voluto tenere lontano il pianto della bambina. Aveva spalancato quella porta in preda al panico. Sua figlia era nella culla, paonazza in viso, il braccio piegato in maniera innaturale. L’ aveva presa ed era corsa via, gridando: «Che cosa hai fatto? Che cosa hai fatto? Guarda cos’hai fatto!». Lui era rimasto seduto lì, muto, le braccia abbandonate sul divano. Non l’aveva più guardato ed era corsa fuori con la figlia tra le braccia. Non aveva aspettato l’ambulanza, non poteva. Più delicatamente possibile aveva sistemato la piccola sul sedile dell’auto. Le sue grida erano come coltellate che la straziavano. Aveva tentato di mantenere un tono di voce calmo mentre guidava, mormorando: «Va tutto bene, amore. La mamma è qui, la mamma è qui». Al pronto soccorso, il dottore le aveva preso la bambina dalle braccia e lei l’aveva seguito fino al reparto pediatria. Aveva pregato che ci fosse il medico di sua figlia, che lavorava sia all’ospedale che alla clinica pediatrica Little Angels. Le sue preghiere erano state esau11 [email protected] 27.01.2016 16:09 dite e in pochi minuti la bambina era stata affidata alle amorevoli cure del medico. «Oh, piccolina, che ti è successo?» aveva detto lui a bassa voce. Lei non era riuscita a fare altro che restare in silenzio accanto a lui. «So che fa paura, ma devo chiedere alla mamma di aspettare fuori» le aveva detto gentilmente il medico. Non la chiamava mai per nome mentre si occupava della figlia. «Intanto sistemo questo braccino. È sconvolta e la bambina lo capisce, lo sente. Può farsi coraggio e aspettare fuori?» Lei aveva annuito suo malgrado e si era fatta accompagnare da un’infermiera. La donna, una giovane dagli occhi azzurri e occhiali dalla montatura di corno, l’aveva guardata con pietà e sospetto. La stava giudicando, ne era certa. Come possono pensare che abbia fatto del male a mia figlia?, si era chiesta mentre la paura le annebbiava la mente. Possono crederlo davvero? Le era sembrato che il petto le esplodesse per la forza delle emozioni che sentiva dentro, mentre guardava la porta della sala operatoria. Le grida della bimba erano diventate prima mugolii, poi erano cessate. Si era sentita paralizzata, come incatenata alla sedia di plastica arancione su cui l’avevano fatta sedere, incapace di fare domande su quel silenzio. Poi, dopo un tempo infinito, era uscito il medico. «Guarirà presto» aveva detto gentilmente, sedendosi accanto a lei e mettendole una mano sul ginocchio. Le aveva parlato della delicatezza delle ossa dei neonati e di tutte le attenzioni speciali che la piccola avrebbe richiesto d’ora in poi e di cosa avrebbero dovuto fare per farla guarire. Si era ripetuta continuamente le parole «guarirà presto» finché il suo cuore non aveva accolto l’informazione riprendendo il suo ritmo normale e facendola tornare in sé. Era rimasta sospesa su un filo di terrore puro, finché non aveva capito che sua figlia era in salvo. 12 [email protected] 27.01.2016 16:09 «Va tutto bene» le aveva detto il medico, guardandola negli occhi. «Andrà tutto bene.» Ma nel suo sguardo aveva visto anche qualcos’altro. C’era preoccupazione e diffidenza in quel viso solitamente così gentile. Era rimasta in ospedale per quasi tutta la notte, perché la bimba era stata sedata e le avevano ingessato il braccio. Il medico era restato con loro fino al momento delle dimissioni. Mentre si preparava ad andarsene, le aveva toccato il braccio e l’aveva guardata con un’espressione che lei non era riuscita a interpretare. «Ama sua figlia più di ogni altra cosa, vero?» le aveva chiesto con un tono triste. «Più di ogni cosa.» «Sarà in grado di proteggerla?» Era sembrata una domanda così strana, specialmente perché era la stessa che anche lei, nel profondo del cuore, si era già posta. «Chiunque voglia farle del male dovrà prima uccidere me.» Lui aveva annuito. «Speriamo che non si arrivi a tanto. Si assicuri di sporgere denuncia, mi raccomando. E noi ci vediamo alla clinica giovedì, o anche prima, se ci sono problemi.» Il suo tono era diventato severo e lei aveva annuito, obbediente. «Vorrei» aveva detto «che avesse un padre come lei.» Lui l’aveva guardata con aria strana, aveva fatto per dire qualcosa, poi però era rimasto in silenzio. Le aveva sorriso; un sorriso caldo, confortante, pieno di compassione. «Anch’io. Anch’io.» Ogni volta che ripensava a quel momento, il suo cuore si riempiva di odio per l’uomo che aveva fatto del male a sua figlia. L’ odio la rendeva impermeabile a ogni suo tentativo di redenzione, alle sue suppliche e anche alla sua rabbia, che esplodeva contro di lei ogni volta che si rifiutava di fargli vedere la piccola. Era stato un incidente. Non voleva farle del male, diceva. Sembrava dispiaciuto, in effetti. Ma lei continuava a pensare a quello che le aveva chiesto il 13 [email protected] 27.01.2016 16:09 medico. Sarà in grado di proteggerla? L’ unico modo per essere certa di riuscirci era tenere quell’uomo fuori dalla sua vita. Forse si era appisolata un attimo, ma qualcosa l’aveva svegliata e lasciò il telefono per afferrare la mazza da baseball. Restò distesa, in silenzio, ad ascoltare la notte mentre l’adrenalina le saliva dentro. La bambina si girò tra le coperte e sospirò. Sentì un rumore lievissimo, quasi un tintinnio, il suono di una molla di metallo che scatta, come se le porte scorrevoli fossero state aperte. Silenziosamente. Lui non era mai stato silenzioso. Le volte che era venuto, l’aveva fatto in maniera impetuosa, caotica. Sentì un nodo alla gola e si alzò dal letto, lasciando lì il telefono e stringendo la mazza, che ora le sembrava pesantissima. Si avvicinò alla porta e sbirciò nel piccolo soggiorno. Da lì riusciva a vedere l’ingresso. All’improvviso la serratura della porta le sembrò così debole, e si maledisse per non aver installato il paletto e la catenella, come le aveva raccomandato la polizia. Non se l’era potuto permettere. La finestra accanto alla porta aveva le sbarre, ma dava su un pianerottolo che chiunque poteva raggiungere, bastava salire una rampa di scale. Era un’ombra quella che aveva appena visto muoversi dietro la finestra? Le tende erano chiuse, ma le luci del parcheggio erano sempre accese e a volte vedeva l’ombra delle persone che salivano le scale, dirette al proprio appartamento. Si rimise in ascolto, senza udire nulla. Stava per rilassarsi quando lo sentì di nuovo, quel rumore metallico. Era dietro la porta? Il suo respiro si fece affannato. Guardò il telefono che aveva lasciato sul letto e pensò di chiamare la polizia, ma non voleva che tornassero per un altro falso allarme. Era già successo che fossero arrivati quando lui se n’era andato da un pezzo. E anche se le rispondevano sempre con rispetto quando chiedeva aiuto, stava cominciando a sentirsi come il ragazzino che grida al lupo. Se li avesse richiamati per nulla, si sarebbe vergognata a morte. Strinse la mazza con entrambe le mani e si avvicinò alla porta. 14 [email protected] 27.01.2016 16:09 Si muoveva lentamente, in punta di piedi. Lui si presentava sempre sbraitando, picchiando sul battente. Non aveva mai cercato di penetrare in casa di nascosto per far loro del male. O, dando corpo al suo incubo peggiore, per rapire la bambina. Erano scomparsi già tre bambini nella zona, nell’ultimo anno. Ogni notte i loro volti la guardavano dallo schermo della TV, tormentandola con il loro sorriso, i loro occhi dolci. Erano ancora lontani da casa, tutti. Nessuno era stato ritrovato. Non c’era neanche una pista da seguire. Ogni tanto sentiva al telegiornale che c’era stato un avvistamento, in un centro commerciale, in un autogrill o in un parco divertimenti. Ma la traccia non portava mai da nessuna parte. Pensava spesso a quei genitori, al vuoto che dovevano avere dentro, alle terribili domande e alle ipotesi impronunciabili che probabilmente formulavano. Forse, l’unica cosa che li teneva in vita era la speranza, l’unica cosa che teneva lontano il rasoio dai loro polsi e la pistola dalla loro tempia era l’idea che un giorno li avrebbero rivisti. Non osava nemmeno immaginare il tremendo dolore di chi aveva perso un figlio, il dubbio che fosse vivo da qualche parte, o morto… senza sapere quale delle due ipotesi fosse la peggiore. Era arrivata vicino alla porta, accanto al vecchio divano. Non aveva sentito niente mentre si avvicinava piano all’ingresso, perciò rimase ferma, immobile come una statua, tenendo la mazza abbassata. 15 [email protected] 27.01.2016 16:09 1 È buio, quel buio orribile in cui riesci a distinguere gli oggetti ma non gli spazi neri che li dividono. Ho il respiro affannato per lo sforzo e la paura. L’ unica persona al mondo di cui mi fidi giace sul pavimento, accanto a me. Mi chino su di lui e sento che respira ancora, ma con grande difficoltà. È ferito, lo so. Ma non riesco a capire quanto sia grave. Lo chiamo sussurrandogli all’orecchio, ma non mi risponde. Sento il suo corpo, ma non capisco se sta perdendo sangue. Il rumore che ha fatto quando ha colpito il pa vimento, pochi minuti fa, è stato il più agghiacciante che abbia mai sentito. Tasto il pavimento attorno a lui, alla ricerca della sua pistola. Dopo qualche secondo sento il metallo freddo sotto le dita e quasi mi metto a piangere dal sollievo. Ma non ho tempo. Sento la pioggia che cade fuori dall’edificio bruciato, le gocce pesanti che colpiscono il telone di plastica. Penetra anche all’in terno, insinuandosi nei buchi nel tetto e ricadendo sul pavimento di legno marcio e su scalinate distrutte. Il corpo si muove e mugola piano. Lo sento che mi chiama e mi avvicino. «Va tutto bene. Andrà tutto bene» gli dico, anche se non ho motivo di credere in ciò che ho appena detto. Da qualche parte, là fuori o sopra di noi, un uomo che pensavo di amare, insieme ad altri che non riconosco, sta cercando di ucciderci, per proteg gere la verità orribile che ho scoperto. Anch’io sono ferita e provo 16 [email protected] 27.01.2016 16:09 così tanto dolore che potrei svenire, se solo farlo non significasse morire qui, in questo edificio del Lower East Side di Manhattan. Qualcosa si è conficcato nella mia coscia destra. Forse è un proiet tile, o un pezzo di legno, o magari un chiodo. È così buio che riesco a malapena a vedere il foro nei jeans, ma credo che il tessuto sia nero di sangue. Sono frastornata, mi gira la testa, ma tengo duro. Adesso li sento sopra di noi, vedo le luci delle loro torce incro ciarsi nel buio attraverso i buchi nel pavimento. Cerco di control lare il respiro, che mi sembra faccia il chiasso di un treno in corsa. Sento uno di loro dire: «Credo che siano caduti là sotto». Nessuna risposta, ma li sento avvicinarsi tra scricchiolii di legno. Lui si irrigidisce. «Arrivano» dice, la voce poco più che un sus surro. «Vattene di qui, Ridley.» Non gli rispondo. Sappiamo entrambi che non me ne andrò. Lo afferro e lui cerca di alzarsi, ma sul viso gli appare una smorfia di dolore più eloquente del grido che ha soffocato per proteggerci. Se non ce ne andiamo insieme, allora non ce ne andremo affatto. Lo trascino, anche se so che non dovrei muoverlo, fino a un vec chio divano che giace rovesciato vicino a una parete. Vedo quanto soffre. Mentre lo sposto perde nuovamente conoscenza e all’im provviso sembra che pesi venti chili in più. Ma ho visto che riesce a muovere tutti gli arti, ed è già qualcosa. Realizzo che mentre lo trascino sto pregando, con la gamba in fiamme, le forze che stanno per abbandonarmi. Ripeto: Ti prego, Dio, ti prego, ti prego, come un mantra. Il divano rovesciato crea una piccola nicchia contro il muro, abbastanza grande per entrambi. Ce lo infilo e mi stendo sulla pancia accanto a lui. Tiro una vecchia cassa fino al divano e sbircio attraverso le assi di legno. Sono più vicini e sono certa che ci ab biano sentiti, perché hanno smesso di parlare e hanno spento le torce. Stringo la pistola con tutte e due le mani e aspetto. Non ho 17 [email protected] 27.01.2016 16:09 mai sparato prima d’ora e non so neanche quanti proiettili siano rimasti. Credo che moriremo qui. «Ridley, ti prego, non farlo.» La voce riecheggia nel buio e sembra provenire dall’alto. «Possiamo risolvere tutto.» Non rispondo, so che è un trucco. Ormai non possiamo più risolvere un bel niente, ci siamo spinti tutti troppo oltre. Ho avuto fin troppe possibilità di chiudere gli occhi e lasciar perdere, ma non le ho mai sfruttate. Sono pentita? È difficile dirlo, ora che gli spettri si avvicinano. «Sei…» sussurra lui. «Che?» «Restano sei pallottole.» 18 [email protected] 27.01.2016 16:09 2 Fino a poco tempo fa, la mia vita è stata relativamente povera di eventi di rilievo. Il che non significa che mi stessi trascinando senza scopo, prima che la circostanza che sto per condividere con voi ribaltasse il mio mondo. Tuttavia, ora che mi ci fate pensare, non è che facessi poi chissà cosa. Eppure ho motivo di credere che non sia stato un fatto preciso, ma un numero infinito di piccole decisioni a condurmi alle circostanze che hanno cambiato così profondamente sia me che quelli che mi circondano. Alcuni sono morti, tante vite sono state sconvolte, la verità non ci ha reso affatto liberi ma ha distrutto pezzo per pezzo una facciata costruita con grande mae stria, e ci ha lasciati nudi e al punto di partenza. Mi chiamo Ridley Jones e, quando tutto è cominciato, ero una giornalista trentenne che viveva da sola in un appartamento dell’East Village, lo stesso che occupavo quando studiavo alla New York University. Era annidato al terzo piano di un condominio senza ascensore, all’angolo tra la First Avenue e l’Undicesima, sopra una pizzeria chiamata Five Roses. Con il suo portone a sbarre di ferro nere, i corridoi bui e i pavimenti imbarcati, l’onnipresente aroma di aglio e olio d’oliva, aveva un certo fascino. Ed era incre dibilmente economico, mi costava solo ottocento dollari al mese. Se conoscete New York, saprete che pagare così poco è quasi im possibile, anche accontentandosi di un appartamento di sessanta metri quadrati con una sola camera da letto che dà su un cortile 19 [email protected] 27.01.2016 16:09 pieno di cani arrabbiati e ha come unica visuale le stanze degli in quilini del condominio di fronte. Ma il posto non era male, e mi ci trovavo bene. Perfino quando ho potuto permettermi qualcosa di meglio sono rimasta lì, solo per avere intorno uno spazio familiare e restare vicino alla miglior pizza di tutta New York. Forse vi state chiedendo che razza di nome sia Ridley. Mio padre è il dottor Benjamin Jones, un pediatra del New Jersey che vive in una lussuosa e comodissima casa vittoriana con mia madre, ex ballerinacasalinga che lui ama, ricambiato, sin dai tempi in cui si conobbero alla Rutgers, nel 1960. Ebbene, mio padre si era sempre lamentato del suo cognome così banale. Gli sembrava il classico che si dice alla gente quando non si vuol far conoscere la propria identità, come Smith o Black. Crescendo, questa estrema banalità aveva cominciato quasi a metterlo in imbarazzo. Era stato cresciuto in un triste sobborgo di Detroit, Michigan, da persone normali che gli auguravano una vita normale. Ma lui normale non si sentiva, e quando era arrivato il suo turno di dare un nome alla figlia non aveva voluto farle credere di aspettarsi da lei un’esistenza ordinaria come avevano fatto i suoi con lui. Mi chiamò Ridley, come Ridley Scott, il regista. Era da sempre un appassionato di cinema. Pensava fosse un nome insolito per una ragazza, un nome speciale che mi avrebbe incoraggiata a condurre una vita straordi naria. Ed era convinto, sapendomi giornalista a New York, be’, che mi ci stessi impegnando. Anche prima del verificarsi degli eventi che sto per raccontarvi, suppongo che, a modo mio, fossi davvero straordinaria. Questo, forse, solo perché amavo i miei amici, ero felice, mi piacevo (tranne le cosce), mi piaceva il mio lavoro e il luogo in cui vivevo. Ho avuto relazioni piacevoli con gli uomini, anche se finora non ho mai incontrato il vero amore. Chi vive a New York, sa che queste sono cose veramente straordinarie. 20 [email protected] 27.01.2016 16:09 Eppure c’era così tanto che non sapevo, così tanti strati nascosti di un passato di cui non ero a conoscenza. Non voglio credere che una tale ignoranza fosse la causa della mia relativa felicità, ma suppongo che voi, invece, lo pensiate. Di sicuro, comunque, adesso qualcosa in me è cambiato. Il mondo è un luogo diverso, e la felicità, la vera pace, sembra ormai irraggiungibile. La donna che ero un tempo mi sembra un’inguaribile ingenua. La invidio. Quando mi guardo indietro, mi meraviglio di come il corso della mia vita non sia stato modificato da quelle che considero le scelte più importanti che ho fatto. Sono state le mie decisioni apparentemente più insignificanti a cambiare tutto. Pensateci. Pen sate agli eventi improvvisi che vi sono capitati. Non è stata sempre una questione di secondi? Non sono state le scelte più innocue a portarvi ad attraversare una certa strada, o a mettervi fuori peri colo, o a farvici cadere proprio in mezzo? Sono queste le cose che ci cambiano, in fondo. Chi sposiamo, che lavoro scegliamo, come veniamo cresciuti, questo è il quadro generale. Ma, come si dice, il diavolo è nei dettagli. Bene, parliamo dei dettagli, allora. Era un lunedì mattina a New York, l’autunno stava cedendo il passo all’inverno e nell’aria già si sentivano i primi freddi. Era il periodo dell’anno che preferivo, quando il caldo opprimente e l’umidità intrappolata nelle pareti di cemento si sollevavano, la sciandosi alle spalle una città nuova. Quando mi svegliai, quel lunedì, per via della scarsissima luce che filtrava dalla finestra, capii subito che sarebbe stata una gior nata uggiosa. Il vetro era coperto di gocce di pioggia. Fu questo il minuscolo dettaglio che influì sulla mia prima decisione. Allungai il braccio, afferrai il cordless sul comodino e composi il numero. «Ufficio del dottor Rifkin» rispose una voce, piatta come un marciapiede. 21 [email protected] 27.01.2016 16:09 «Sono Ridley Jones» dissi fingendo di avere il mal di gola. «Mi è venuto un brutto raffreddore. Potrei venire comunque, ma non vorrei far ammalare il dentista.» Aggiunsi anche un patetico colpo di tosse, per dare enfasi. Il dottor Rifkin era il mio dentista, un omino che si prendeva cura dei miei denti sin dal mio primo anno di università. Con la sua lunga barba bianca e il ventre prominente, camicia a scacchi e bretelle, scarpe ortopediche e una tenerissima andatura ondeggiante, mi deludeva sempre quando apriva bocca e parlava con un pesante accento di Long Island. Io me lo imma ginavo scozzese, accidenti. «Le sposto l’appuntamento» disse zelante la segretaria, che pro babilmente non se l’era bevuta nemmeno per un secondo ma non gliene importava granché. E così ero libera. La libertà, devo dire, per me è la cosa più importante, più della giovinezza, della bellezza, della fama o del denaro. Forse non più importante dell’amore, ma dentro di me sono molto indecisa in proposito, come confermerebbero alcune persone che mi conoscono bene. Una di queste è Zachary. «Colazione da Bubby’s?» gli dissi quando rispose. Ci fu una pausa in cui lo sentii girarsi nel letto. Qualche mese fa forse mi sarei trovata lì con lui. «Non devi lavorare?» mi chiese. «Sono a progetto, lo sai» dissi, fingendo indignazione. Era vero: avevo appena portato a termine un incarico ed ero in attesa del prossimo, ma non era certo un problema, per tutta una serie di motivi. «A che ora?» mi chiese, e nella sua voce sentii quel triste mi scuglio tra speranza e rimorso che percepivo spesso quando gli parlavo. «Facciamo tra un’ora?» «Okay, a dopo.» 22 [email protected] 27.01.2016 16:09 Zachary era l’uomo che avrei dovuto sposare. Le nostre vite erano intrecciate sin da quando eravamo piccoli. I miei lo adora vano, forse più di mio fratello. Alle mie amiche piaceva un sacco, con quei suoi capelli biondo sabbia e lo sguardo luminoso, il corpo atletico, una carriera da pediatra affermata e il modo in cui mi trattava. Perfino io lo adoravo. Ma ogni volta che si trattava di prendere una decisione, esitavo. Perché? Paura di impegnarmi? In tanti la pensavano così. Ma non io. Posso solo dire che per me le parole «per sempre» non erano compatibili con Zachary. Non c’era niente di preciso che non andasse bene. Eravamo grandi amici, il sesso era piacevole, condividevamo la passione, tra le altre, per la sala dei dinosauri al Museo di Storia naturale e per il gelato alla vaniglia. Ma l’amore è ben più che la somma delle sue parti, giusto? In sostanza, tenevo a lui così tanto che pensavo si meritasse una persona che lo amasse più di me. Se questo per voi non ha molto senso, be’, non siete gli unici. I miei genitori e la madre di Zack, Esme (cui a volte mi sento più vicina che alla mia) sono rimasti sconvolti dalla mia decisione. Da quando eravamo bambini fanta sticavano in maniera neanche troppo velata su un possibile futuro insieme. Perciò, quando abbiamo cominciato a uscire, loro erano entusiasti. E quando ci siamo lasciati credo che abbiano avuto molta più difficoltà di me e Zack a superare la cosa. Quella mattina, lui e io cercavamo di essere amici. Avevo posto fine alla nostra relazione poco più di sei mesi prima e avevamo avuto un po’ di difficoltà a dare avvio a quella che speravo potesse diventare una duratura amicizia, per via della delusione e dei senti menti feriti (e, credo, anche per orgoglio). A volte era imbarazzante vedersi, ma ero fiduciosa. Scesi dal letto e lo spinsi di nuovo contro la parete. Vi ricordate quando ho parlato di pavimenti imbarcati? Be’, nel pavimento della mia camera c’è una vera e propria discesa. Dato che ho un letto a 23 [email protected] 27.01.2016 16:09 rotelle, a volte mi sveglio, soprattutto dopo una notte particolar mente agitata, e mi accorgo di essere finita al centro della stanza. È un inconveniente di poco conto, alcuni potrebbero addirittura definirlo una nota di colore nel folklore dell’East Village. Feci scorrere l’acqua nella doccia e chiusi la porta, per riempire di vapore il minuscolo bagno a piastrelle bianche e nere. Ascol tando il rumore della pioggia andai in cucina e misi su il caffè. Con la mente ancora annebbiata dal sonno aspettai che l’acqua bollisse e che l’aroma del caffè si diffondesse per la cucina. In lon tananza sentivo i rumori della First Avenue e l’odore dei pasticcini di Veniero’s, la pasticceria dietro il mio condominio il cui sistema di ventilazione diffondeva ogni tipo di profumo nel mio cortile. Diedi un’occhiata alle finestre dell’edificio di fronte: il chitarrista avvenente aveva ancora le tende chiuse, la coppia gay era pronta per andare al lavoro ed era seduta al tavolo della cucina con due grosse tazze di caffè (il biondo leggeva The Village Voice e l’altro il Wall Street Journal); la ragazza asiatica faceva il suo yoga mattutino mentre la sua coinquilina sembrava leggere qualcosa ad alta voce nell’altra stanza. Per via del freddo, tutte le finestre erano chiuse e le vite di queste persone si svolgevano davanti a me come su schermi televisivi accesi in muto. Erano dettagli accessori della mia mattinata, come lo ero io per loro quando guardavano fuori dalla finestra e mi vedevano in cucina, in attesa che fosse pronto il caffè. Come ho già detto lavoravo a progetto. Avevo appena conse gnato un profilo di Rudy Giuliani per la rivista New York ed ero stata pagata piuttosto bene. Avevo un altro paio di lavori che bolli vano in pentola, progetti che avevo inviato a editori che mi conosce vano dai tempi in cui lavoravo per Vanity Fair, The New Yorker e The New York Times. Lavoravo regolarmente da quasi sette anni ed ero fiduciosa che, presto o tardi, qualcuno di questi progetti si sarebbe trasformato in un incarico stabile. A me comunque questa formula 24 [email protected] 27.01.2016 16:09 andava bene. All’inizio, la storia del lavoro freelance era stata un problema. Se i miei non avessero integrato i miei magri guadagni subito dopo la laurea, probabilmente sarei stata costretta a tornare a vivere con loro. Tuttavia sono una persona con un po’ di talento, una professionista seria che rispetta le scadenze e una scrittrice dall’ego limitato, che accetta di buon grado suggerimenti e correzioni, e ha saputo costruirsi una buona reputazione e un’utile rete di contatti. Il resto me lo sono guadagnato con il sudore della fronte. Ciò nonostante avrebbe potuto anche non andarmi così bene, se mio zio Max non fosse morto quasi due anni fa. Lo zio Max non era veramente mio zio, perché in realtà era il migliore amico di mio padre dai tempi di Detroit, dove erano cresciuti insieme. Entrambi figli di operai del settore automobilistico, mio padre e Max avevano vissuto nello stesso sobborgo per diciotto anni. Mio padre veniva da una famiglia solida di operai stacanovisti, mentre il padre di Max era un alcolizzato e un violento. Una sera, quando Max aveva sedici anni, la violenza dell’uomo aveva raggiunto l’a pice: aveva picchiato la moglie, che era caduta in coma e non si era più risvegliata. Invece di farlo finire sotto la tutela dello stato, i miei nonni adottarono Max e riuscirono in qualche modo a mandarlo al college insieme a mio padre. Mio padre si era iscritto a medicina, diventando il pediatra che è oggi. Max, invece, si era dedicato al settore immobiliare e aveva fondato una delle società più grandi della East Coast. Non smise mai di cercare il modo di ripagare i miei nonni e mio padre, che essendo persone orgogliose avevano sempre rifiutato qualsiasi risarcimento in denaro. Max allora aveva preso a viziare loro e noi con crociere ai Caraibi e magnifici regali di compleanno, dalle biciclette alle auto nuove. Naturalmente noi lo adoravamo. Non si era mai sposato e trattava mio fratello Ace e me come se fossimo figli suoi. 25 [email protected] 27.01.2016 16:09 Tutti lo ritenevano un uomo felice, perché non c’era un giorno che non avesse il sorriso stampato in faccia o fosse pronto a farsi una bella risata. Tuttavia, anche da bambina, ricordo di aver sempre percepito in lui una profonda tristezza. Guardavo quegli occhi azzurri e ci vedevo dolore, un dolore che si annidava anche agli angoli della bocca. Ricordo come si incupiva, perso nei suoi pensieri, quando credeva che nessuno lo guardasse. E ricordo il modo in cui guardava sempre mia madre Grace, come se fosse un premio scintillante che era stato vinto da qualcun altro. Lo zio Max era un alcolizzato, ma siccome quando beveva era sempre allegro, nessuno ci faceva caso. Alla vigilia di Natale di due anni fa, dopo aver lasciato casa dei miei dove avevamo passato la serata insieme, non fece più ritorno a casa sua. Sembra che si sia fermato in un bar e che poi, diverse ore dopo, sia salito sulla sua Mercedes nera e si sia lanciato giù da un ponte con tutta la macchina, annegando nell’acqua gelida. Se sia stato un incidente o se l’abbia premeditato non lo sapremo mai, sebbene la totale assenza di segni di pneumatici sull’asfalto lasci pensare che non abbia neanche provato a frenare. Quella notte sulle strade c’era molto ghiaccio. Magari era stato per quello, gli pneumatici non avevano fatto presa sulla strada scivolosa. O forse era svenuto al volante e non se n’era nemmeno accorto. Noi preferiamo pensare all’incidente, dato che l’alternativa ci perseguiterebbe tutti. La mia famiglia era in lutto, ma mio padre lo era più di tutti; aveva perso l’uomo con cui aveva condiviso quasi tutta la vita. Tuttora non riteniamo giusto festeggiare la vigilia di Natale, un giorno che avevamo sempre condiviso con Max e lo stesso in cui ci è stato portato via. Nel suo testamento lasciò quasi tutto ai miei genitori e alla fon dazione Maxwell Allen Smiley. L’ aveva creata molto prima che io nascessi e serviva a finanziare miriadi di associazioni di volon 26 [email protected] 27.01.2016 16:09 tariato che offrivano assistenza e riparo alle donne e ai bambini maltrattati. Ma lasciò anche una grossa somma di denaro a me e a mio fratello. Grazie ai consigli di un esperto avvocato, la mia parte venne investita. Ed è per questo che oggi posso godere della libertà che tanto amo. Mio fratello, invece, quei soldi se li è sparati tutti in vena. O almeno credo. Ma questa è un’altra storia. Non pensavo a nulla di tutto ciò, quel lunedì. Stavo solo aspet tando di vivermi una giornata tutta per me. Feci la doccia, mi asciugai i capelli, indossai un paio di jeans, una felpa rosso acceso, un paio di scarpe da ginnastica e un cappellino degli Yankees e uscii. Se l’avessi saputo prima, mi sarei soffermata davanti alla porta, per dire addio a un’esistenza adorabile, a una vita semplice e comoda, una vita che molti mi avrebbero invidiato. Non era per fetta, ovviamente. Ma diciamo che ci andava molto vicino. In corridoio tentai di fare meno rumore possibile. Sospettavo fortemente che Victoria, la mia anziana vicina, origliasse da dietro la porta per capire quando entravo e uscivo di casa. Questo mi spingeva a muovermi come una ladra. Non avevo nulla contro quella donna, era solo che, per via della sua solitudine e della mia compassione, incontrarla poteva significare sempre un ritardo di venti minuti. Quella mattina, però, non fui abbastanza silenziosa. Appena chiusi a chiave il mio appartamento, sentii la porta accanto che si apriva. «Mi scusi» sussurrò. «C’è nessuno?» «Salve, Victoria. Buongiorno» dissi, dirigendomi verso le scale. Victoria era sottile e pallida come un foglio di carta. L’ onni presente vestaglia a fiori le pendeva addosso come appesa a una gruccia. Ormai i suoi capelli erano stati sostituiti da una parrucca grigio chiaro tutta arruffata. Sulla pelle del viso aveva profonde rughe, gli zigomi ricordavano la cera sciolta. Affermava con orgo glio, quasi ogni volta che la incontravi, di avere ancora tutti i denti. 27 [email protected] 27.01.2016 16:10 Purtroppo, gliene erano rimasti solo cinque o sei. Invece di parlare sussurrava, come se avesse paura che qualcuno origliasse da dietro le porte come faceva lei. Mi era sempre piaciuta, anche se di solito facevamo ogni giorno la stessa conversazione e non si ricordava mai chi fossi. Mi raccontava dei suoi tre fratelli, tutti agenti di polizia ormai deceduti. Mi diceva che non avrebbe voluto rimanere nell’ap partamento che un tempo condivideva con la defunta madre, ma che per un motivo o per un altro non si era mai decisa a traslocare. «Oh, se i miei fratelli fossero ancora vivi…» disse quella mat tina, e la voce le venne meno. «Erano agenti di polizia, sa?» «Dovevano essere molto coraggiosi» risposi io, guardando con desiderio le scale ma avvicinandomi alla vecchia signora. Di tutte le risposte che le avevo dato nel corso degli anni, Victoria sembrò apprezzare questa in particolar modo. «Oh, sì» disse sorridendo. «Molto.» Riuscivo a intravedere solo parte della sua figura dietro la porta, aperta solo di pochi centimetri. La vestaglia con i piccoli fiori viola, le gambe avvolte nelle calze, le scarpe ortopediche grigie. Victoria viveva in una capsula del tempo in compagnia dei suoi mobili antichi. Nel suo appartamento non c’era un singolo oggetto che non avesse almeno cinquant’anni più di me, tutto consumato dal tempo, per lo più coperto di polvere. Ogni cosa pareva così pe sante, così radicata in quel luogo che sembrava esserci da sempre. Pesanti armadi e cassettoni di quercia, divani e poltrone di broc cato, specchi incorniciati, un pianoforte a mezza coda con sopra un mucchio di fotografie ingiallite. Ero entrata lì dentro solo qualche volta, quando le avevo fatto la spesa o ero andata a cambiarle una lampadina. Non riuscivo mai ad andarmene senza portarmi via un po’ della sua tristezza e solitudine. C’era un odore che avevo co minciato a definire di «vita putrefatta»: un’esistenza ormai guasta, andata a male per il poco utilizzo. 28 [email protected] 27.01.2016 16:10 Di solito mi chiedevo quali scelte avesse fatto nella vita per finire senza nessuno accanto. Come ho già detto, ultimamente a questa cosa delle scelte ci penso molto più spesso. Scelte impor tanti, insignificanti. Forse una volta, come me, anche lei aveva ac canto un uomo meraviglioso e innamorato che voleva sposarla; forse, come me, anche lei l’aveva respinto per motivi non del tutto chiari nemmeno a lei stessa. Forse era stata quella la prima deci sione che l’aveva portata a condurre un’esistenza del genere. Aveva una nipote che ogni tanto veniva a trovarla da Long Island (capelli cotonati, cappotto di lana rossa a tre quarti, scarpe costose) e una badante che si occupava di lei tre volte la settimana (una persona diversa ogni volta, che svolgeva quel compito con l’entusiasmo e l’energia dei condannati a morte); un paio di volte avevo visto entrare dei volontari. Vivevo in quel condominio da più di dieci anni e non l’avevo mai vista uscire di casa. Mi sembrava quasi che non potesse uscire, che se avesse fatto un passo fuori, sul pianerottolo, si sarebbe sbriciolata in un mucchietto di polvere. «Be’, se fossero ancora vivi, non sopporterebbero di certo tutto il rumore che viene dal piano di sopra» cinguettò la signora. L’ avevo sentito anch’io, un tizio nuovo che portava le sue cose su per le scale. Ma non sono mai stata una ficcanaso. «Sta solo traslocando, Victoria. Non si preoccupi, sono certa che presto smetterà.» «Lo sai che ho ancora tutti i miei denti?» «È fantastico» risposi con un sorriso. «Sembri una così brava ragazza» disse lei. «Come ti chiami?» «Ridley. Abito qui accanto, se le serve qualcosa.» «Che nome curioso per una ragazza così carina» disse lei, sco prendo le gengive in una parodia di sorriso. Io salutai e me ne andai per la mia strada. Pareti e gradini di pietra grigia, una balaustra rossa e pavimenti 29 [email protected] 27.01.2016 16:10 di legno bianco e nero mi accompagnarono di sotto. Al secondo piano, la luce fluorescente sul soffitto baluginò e si spense, poi si riaccese di colpo. Tutte le luci del palazzo facevano così, era un problema dell’impianto elettrico che la padrona di casa, Zelda, non sembrava avere intenzione di risolvere. «Ma cosa credi, che abbia i soldi per riparare tutto lo strama ledetto palazzo? Vuoi che ti aumenti l’affitto?» mi aveva risposto quando ero andata a lamentarmi. Questo aveva messo fine alla questione; me ne feci una ragione, limitandomi ad assicurarmi che non ci fosse mai nulla a bloccarmi la strada verso l’uscita di sicurezza. Al pianoterra, nello stretto corridoio che conduc eva alla porta, trovai un appunto sulla mia cassetta delle lettere, che non svuotavo dal venerdì precedente per pura pigrizia. Troppe riviste! mi rimpro verava il postino con la sua calligrafia nervosa. Riuscii a malapena ad aprire la cassetta per via della quantità esagerata di lettere, bol lette, pubblicità, cataloghi, copie delle riviste Time, Newsweek, New York e Rolling Stone. Presi tutto, rifeci di corsa i tre piani di scale che avevo appena sceso, aprii la porta di casa e buttai tutto dentro, poi richiusi e me ne andai di nuovo. Ora, probabilmente vi starete chiedendo se è davvero neces sario che vi racconti fin nei minimi particolari il momento in cui sono uscita di casa. Ma questi due episodi, le piccole decisioni che ho preso prima di uscire in strada, hanno cambiato tutto. Se fossi stata una persona diversa, magari non mi sarei fermata a parlare con Victoria. O forse mi sarei fermata più a lungo. Avrei potuto ignorare la cassetta delle lettere, non vedere il messaggio del po stino, o fregarmene. Sono tutte scelte che chiunque avrebbe potuto fare. Le riconosciamo con chiarezza solo dopo che il momento è ormai passato. Sarebbero bastati trenta secondi in più o in meno e non avrei alcuna storia da raccontarvi. Non sarei io a farlo. 30 [email protected] 27.01.2016 16:10 Altre piccole decisioni le presi per strada. Ero in ritardo, perciò invece di girare a destra e farmela a piedi fino a TriBeCa (una lunga passeggiata, certo, ma fattibile se si ha il tempo), optai per un taxi. Fu lì, sul ciglio della strada, che li vidi. Una giovane madre, con i capelli castani legati in una coda alta, un bimbo nel passeggino e l’altro accanto a lei, mano nella mano, in attesa al semaforo. Non c’era nulla di insolito in loro, cioè niente che la maggior parte della gente non avrebbe notato. Mi colpì solo il contrasto con Victoria, la bellezza e l’energia di queste giovani vite a confronto con il triste e solitario crepuscolo dell’anziana signora che avevo appena incontrato. La guardai. Era una donna minuta, ma in lei c’era quella forza che solo le giovani madri sembrano avere. Aveva quella singolare capacità di tenere sotto controllo milioni di movimenti e fattori esterni, la calma necessaria per tirare fuori un pacchetto di Chee rios dalla tasca di una borsa per pannolini un attimo prima che un faccino inizi a contorcersi e a piangere, l’abilità di assumere un’espressione che comunichi compassione e comprensione a un bimbo che a malapena riesce a parlare. Era tutto così musicale, quasi una sinfonia, e per un istante ne fui rapita. Poi mi voltai verso il mare di taxi in avvicinamento, sperando di trovarne uno… erano le otto e trenta di un lunedì mattina di pioggia. Buona fortuna! Non ce n’era nemmeno uno vuoto, ovviamente. Insieme a me, altri ansiosi pendolari in attesa dello stesso taxi agli angoli del marcia piede. Mi rassegnai ad arrivare in ritardo e decisi di prendere un caffè. Ma, quando il mio sguardo tornò per un attimo alla fami gliola dall’altro lato della strada, sentii un campanello d’allarme. La madre era china sul passeggino e il bambino, dimenticato per un secondo, aveva messo un piede in strada. Il flusso continuo del traffico si era un po’ placato ma il bambino, con i suoi jeans sbiaditi, il cappotto rosso e il cappellino nero, stava per essere in 31 [email protected] 27.01.2016 16:10 vestito da un furgone bianco in avvicinamento. Dentro, l’autista stava parlando con foga al cellulare, incurante della strada. Tutti dicono sempre di avere una gran confusione in testa. Io invece ricordo ogni secondo. Mi trasformai in proiettile, non pen savo più, avevo in testa solo una cosa. Corsi in strada. Ricordo la giovane madre alzare lo sguardo dal passeggino sentendo la gente gridare. Vidi l’espressione sul suo viso passare dalla confusione al terrore, le persone sul marciapiede voltarsi a guardare; vidi il bambino ignaro che camminava barcollando verso di me. Sentivo il cemento duro sotto i piedi, il sangue pulsarmi nelle orecchie. Ero completamente concentrata sul bambino, che mentre mi piegavo e lo afferravo, mi guardava con un sorriso confuso. Tutto sembrò rallentare, tranne me; il tempo si deformava, sbadigliava, ma io ero un razzo. Sentii il calore del suo corpo, la morbidezza del cappotto mentre lo sollevavo fra le braccia. Vidi il parafango del furgone, sentii il metallo del paraurti graffiarmi il piede mentre mi tuffavo di lato. Il veicolo proseguì sulla First Avenue, senza nemmeno ral lentare, come se l’autista non avesse neppure visto di sfuggita il dramma che si era consumato davanti a lui. Ero un fascio di nervi, digrignavo i denti per la determinazione e la paura, ma mi rilassai quando sentii il bambino scoppiare a piangere, e lo vidi che mi guardava impaurito. La madre mi corse incontro e me lo prese dalle braccia. Il bimbo smise di piangere e cominciò a mugolare, come se un istinto primordiale gli avesse detto che aveva appena evitato il grande buio. Almeno per ora. La gente mi circondò, guar dandomi preoccupata. Stavo bene? Sì, stavo bene. Avevo fatto una buona azione, questo pensate. Tutto era andato per il meglio. In fin dei conti chiunque con un minimo di reattività e un cuore avrebbe fatto lo stesso. Ma qui entrano in gioco le pic cole cose di cui ho parlato finora. Accanto a me, all’angolo tra la First Avenue e l’Undicesima, c’era un fotografo del New York Post. 32 [email protected] 27.01.2016 16:10 Stava tornando dal distretto di polizia, dopo un servizio su alcuni criminali da due soldi arrestati quella notte. Voleva fermarsi per un boccone al Five Roses, ma naturalmente alle otto e trenta del mat tino era chiuso. Perciò aveva ripiegato sulla pasticceria all’angolo per un caffè e un cornetto. Entrambi, ora, giacevano ai suoi piedi, là dove li aveva lasciati cadere per afferrare la macchina fotografica e immortalare tutta la scena. 33 [email protected] 27.01.2016 16:10 3 Doveva essere stata una settimana povera di notizie. E, okay, le foto scattate dal tizio del Post erano abbastanza sensazionali, bisogna dirlo. Fatto sta che anche per me erano arrivati i famosi quindici minuti di celebrità. Che posso dire? Me li sono goduti tutti. Non sono una persona timida e adoro parlare, perciò ho concesso tutte le interviste che mi hanno chiesto: Good Day New York, The Today Show, il Post, il Daily News. Il telefono squillava di continuo ed era piuttosto divertente, devo ammetterlo. Anche i miei hanno goduto di una certa gloria riflessa sul Record del New Jersey. Neanche loro sono persone timide. Il venerdì la mia immagine era su ogni giornale e ogni canale televisivo dell’area di New York. Mi mandarono addirittura sul ca nale nazionale, grazie a quelli della CNN. La gente mi fermava per strada per abbracciarmi o stringermi la mano. New York è già una città molto particolare, ma quando sei il «cittadino del momento» diventa assolutamente surreale. Un’intera popolazione, di solito ostinatamente solitaria e distaccata, improvvisamente mi sorrideva a ogni angolo di strada. Credo che quando qualcuno compie una buona azione a New York si inneschi un meccanismo per cui gli altri si accorgono che, nonostante l’indifferenza generale, c’è an cora qualcuno che veglia su di loro. «Non ci posso credere, Rid» disse Zack bevendo il suo drink al NoHo Star. L’ eco di centinaia di altre conversazioni rimbalzava 34 [email protected] 27.01.2016 16:10