IMP_Giardino_delle_delizie.qxp:Terrazza imp. S

Transcript

IMP_Giardino_delle_delizie.qxp:Terrazza imp. S
Narratori
Indrajit Hazra
Il giardino delle delizie terrene
Traduzione di Gioia Guerzoni
Titolo originale:
The garden of earthly delights
Copyright © Indrajit Hazra, 2003
First published in India by Roli Books Pvt Ltd., 2003
Glossario a cura di Sara Bianchi
www.metropolidasia.it
© 2010 Metropoli d’Asia S.r.l.
Piazza Principessa Clotilde 6
20121 Milano – Italia
Prima edizione: giugno 2010
Ristampa
Anno
6 5 4 3 2 1 0
2014 2013 2012 2011 2010
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato
A mio padre
e alla sua visione distorta delle cose serie
e delle cose frivole
che ho felicemente abbracciato
INDICE
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Hiren
Manik
Hiren
Manik
Hiren
Manik
Hiren
Manik
Hiren
Manik
Hiren
Manik
Edizione straordinaria
Epilogo
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Glossario
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Sono il ragazzo dimenticato dal mondo
Quello che cerca e distrugge.
– James Newell Osterberg, Search and Destroy
«Sapete cos’è un’ondata di marea? Non avete mai
visto quel flutto distruttivo – la furia del mare?».
Un po’ confusi, diciamo che ne abbiamo sentito
parlare, ma non ci è mai capitato di vederne una.
Ghanada sorride e dice: «Be’ c’era da aspettarselo.
Ascoltate, allora. Fu quando andai a Tahiti
per commerciare in perle…».
– Premenda Mitra, Mosha
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Hiren
Tutto cominciò con un evento accidentale.
Ovvio, non so quale sia la vostra idea di evento accidentale, ma di certo so cosa voglio dire io. Non è un «fatto
riconducibile all’ambito della pura contingenza o dell’imprevedibilità», oppure, peggio ancora, «un accadimento inaspettato che causa perdite o danni, e che non è
dovuto a nessuno sbaglio o cattiva condotta da parte della
persona danneggiata, ma per le conseguenze del quale tale
persona potrebbe aver diritto a un aiuto legale». Se pensate che questi siano eventi accidentali, siete fuori strada.
O forse sto parlando di tutt’altra cosa. Evento accidentale come nel caso di un disco che avanza, gira, vortica, e all’improvviso, il flusso della musica si interrompe. La puntina salta a metà pezzo, non si ferma ma
semplicemente ripete il verso, il mezzo verso, a volte trascina una sola parola all’infinito, finché morte non ci separi, fino all’intervento umano. E l’intervento umano
c’è sempre.
Perché un solco in un pezzo di plastica diventi una
trappola che non molla mai la presa è, ovviamente, un
mistero. Ma quello che mi è chiaro – come il giorno è diverso dalla notte – è che l’evento accidentale che si verificò quel mattino era predestinato, come quel giro sul vinile che invariabilmente si blocca nello stesso punto, qualunque sia il mese, l’anno, o il clima.
Tutto ciò che posso dire è che mi sento più a mio agio
con questo significato, nella derivazione di «acciden13
tato»: «un’irregolarità della superficie (come quella della
luna, per esempio)».
Il mio negozio era all’inizio della strada, davanti a un
ostello per scapoli (quello che, in questa parte della città,
viene ancora definito «pensionato») e vicino a un sordido
baretto. In realtà non posso davvero chiamare «negozio»
il posto in cui stavo, perché allora era soltanto un cubo di
vetro tenuto insieme da una serie di assi inchiodate e incollate. Avevo in mente di ampliarlo, di migliorarlo, ma
bisognava aspettare. Ero ancora in fase di assestamento,
dopo quattro anni di quella nuova vita come operatore di
un telefono pubblico e come compagno di una sola donna.
Sono convinto che la fortuna ci abbia messo lo zampino. Altrimenti come spiegare che un uomo – la cui
istruzione e situazione familiare oscillavano tra l’orribile
e il penoso – avesse incontrato una ragazza non solo carina e rispettabile, ma anche proprietaria di una casa con
un po’ di spazio a pianterreno che non le serviva?
La gente veniva a fare le telefonate. In quegli anni,
parte della mia esistenza ruotava intorno ai brandelli di
conversazione che ascoltavo.
«Sì... e dovrei arrivare alle otto, massimo alle nove...».
«Con chi cazzo pensa di parlare? Le dica di rivolgersi
così a sua madre!».
E qualche volta erano brandelli di brandelli.
«...mani..., mio... non posso... sai... va be...».
Oppure: «E allora?... non era...amo... energia... hai...
amore...».
Io completavo le frasi, le rimpolpavo fino a farle diventare intere conversazioni. I personaggi che continuavano a entrare chiudendosi alle spalle la porta, abbastanza trasparente da mostrarli per quel che erano, non
avevano la più pallida idea che stessi aggiungendo un po’
di colore alle loro parti, che scegliessi dei ruoli per riempire il mio tempo. In realtà li strappavo al contesto e li in14
filavo in una commedia di cui potevo scrivere il copione
senza temere di essere denunciato per diffamazione.
C’erano un paio di habitué. La ragazza che sembrava
vagamente un’attrice e che chiamava sempre lo stesso
numero. Pensai subito che parlasse con un fidanzato,
lontana dalle orecchie indiscrete dei suoi genitori. Ma un
giorno la sentii dire: «... allora stai bene, mamma. Dovrei arrivare il quattordici...».
Poi c’era un signore di mezza età con problemi di salivazione (vedevo gli schizzi atterrare sul microfono) che
chiamava sempre quei numeri lunghissimi che pubblicizzano sui giornali, e il cui conto alla fine era sempre parecchio salato.
E qualche volta io chiamavo Uma. Lo so, lo so, stava
al piano di sopra, quindi perché telefonare? Ma la verità
è che al telefono sembrava sempre più affascinante. La
sua voce dolce assumeva una nota più rauca viaggiando
nei cavi del telefono.
Prendevo sul serio il mio lavoro. Essendo la mia prima
e unica attività imprenditoriale, l’orario continuato non
mi preoccupava. Dicevo ai miei clienti che ero aperto
ventiquattro ore su ventiquattro, ed era vero.
E così arriviamo al secondo punto. Soffro di insonnia.
All’inizio ero preoccupato. È passato parecchio tempo
da quando ho scoperto di avere questo problema e non
ricordo come mi sentissi allora, ma penso di essermi preoccupato. Me ne stavo lì raggomitolato nel letto, come
natura vuole, e mi concentravo per riuscire a dormire.
Ma il sonno non arrivava.
Prendevo tutte le pillole necessarie per evitare di rimanere sveglio, ad agitarmi e a ondeggiare qua e là come una
nave ubriaca. Ma l’unico risultato era che, a detta degli
altri, avevo un’espressione ancora più arrapata del solito.
Così lasciai perdere, accettai la mia condizione, e alla
fine decisi addirittura di trarne vantaggio mettendo su
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un’attività lucrosa aperta ventiquattro ore su ventiquattro. Dopo una decina di giorni cominciavo a sentirmi
stanco, poi il sonno arrivava e crollavo più o meno per
sei ore.
Quel particolare mattino, la luce al neon del mio cubo
di vetro emise uno strano ronzio. Quando alzai lo
sguardo mi aspettavo di vedere un gruppetto di mosche
o qualche creatura alata. Invece era il solito, sedentario
tubo fluorescente, con le chiazze porpora alle estremità.
Tanto tra poche ore l’avrei spento.
La notte era passata abbastanza bene, e tre clienti avevano fatto delle chiamate a lunga distanza. Non li avevo
mai visti prima. Uno parlava una lingua che non riuscivo
a identificare. Sembrava bengalese, ma forse era l’accento a lasciarmi perplesso.
Un altro tizio aveva chiesto il prefisso di un Paese europeo che non avevo mai sentito prima (e che ora mi sono
dimenticato). Così dovetti spulciare tutti i prefissi internazionali. Se lo annotò, ma poi fece una chiamata locale.
Il signore aveva un aspetto vagamente familiare. Ma
d’altronde, tutti hanno qualcosa di vagamente familiare,
se ci pensi bene.
Quando l’alba stava bussando alla porta e il solito
gruppetto di corvi si esibiva nel suo coro barocco, ero assorto in un articolo che avevo iniziato a leggere il mattino precedente.
«Sai che entro il 2020», avevo detto, sfogliando il giornale, a Uma, la donna con cui vivevo al piano di sopra, «la
depressione sarà la seconda principale causa di morte?»
«E qual è la prima? L’amore?», mi aveva chiesto, mostrando ben poco interesse, mentre aggiungeva strati su
strati di stoffa sopra la biancheria intima e si preparava
ad andare al lavoro, in biblioteca.
«Qui dice le malattie cardiovascolari. Ma ti rendi
conto di cosa significa? Non so cosa pensare. T’imma16
gini? Morire di angoscia?», avevo detto, questa volta alzando gli occhi e fissando Uma.
«Hiren, mai sentito parlare di suicidio? Lo fanno in
tanti, di questi tempi, e io devo andare. Sennò faccio
tardi. È abbastanza strano che io arrivi tutti i giorni in
ritardo anche se abito a una sola fermata d’autobus...».
Aveva preso in fretta due libri, si era messa le scarpe
e mi aveva detto di alzarmi perché così poteva chiudere
la porta.
«A meno che tu non voglia restare qui e dormire»,
aveva aggiunto.
«Manca ancora un giorno, probabilmente... no, qui
parlano di qualcos’altro. Dicono che siccome l’aspettativa di vita aumenterà, diciamo fino a 120 anni e anche
di più, le sensazioni accumulate sovraccaricheranno il
cervello, portando a un nuovo tipo di follia».
«Leggi un sacco di cazzate ultimamente. Allora, o te
ne stai a dormire, o stai sveglio, oppure andiamo», aveva
detto, questa volta con genuina irritazione.
L’avevo seguita al piano di sotto, le avevo dato un po’
di moneta presa dalla cassa, e mi ero seduto alla mia postazione, lasciando libero il tipo che mi sostituiva.
Fu solo alle prime ore della mattina seguente che ritornai al mio articolo, ma la luce tremolante rendeva difficile la lettura.
Stavo armeggiando con il neon quando vidi delle
persone davanti al mio negozio. Erano in quattro e stavano osservando la strada dove pian piano si accendevano sempre più luci, la foto di una bruna poco vestita incollata sul pannello di vetro dentro al cubicolo,
e me.
Il fatto che più persone si riunissero a quell’ora del mattino poteva soltanto significare che c’era un’emergenza.
Probabilmente dovevano chiamare molto lontano per annunciare un decesso o qualcosa del genere. Non erano
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nemmeno le sei, quindi le tariffe erano dimezzate. Ma per
me qualsiasi chiamata a quell’ora era grasso che colava.
Fissavano a turno i tre oggetti della loro attenzione
con movimenti rapidi, come per trovare un legame nascosto che ci unisse – la mattina che stava iniziando, la
pin-up in biancheria intima e me, dietro al bancone – con
una logica interna.
In quella mattinata in cui tutto ronzava, la gente e il
neon, pensai di aver già visto una di quelle persone.
L’unico problema era che aveva un trucco pesante e la
parrucca, e indossava un sari. Nell’equivoca scenografia
della luce tremolante e della sinfonia di corvi, avevo finito per decidere che era un uomo.
A un certo punto notai che le quattro figure indossavano tutte dei sari – quelli sintetici, da due soldi, che le
puttane mettono quando non devono far colpo. Erano
ancora lì all’entrata a lanciare i loro sguardi un-due-tre
quando pensai di mostrarmi interessato e chiedere se volevano fare una telefonata.
Ma prima che potessi calarmi nella parte del commerciante cortese, due di quelle «signore» avanzarono
verso di me. Lanciandomi un’occhiata, una di loro mi
disse: «Faccio un’urbana».
«Prego», risposi io con gentilezza, fingendo di non essere per niente incuriosito dal loro aspetto.
Avevano la barba di qualche giorno, ma i peli sulle
mani erano accuratamente pettinati. Eunuchi, ecco cos’erano. Ma prima di tutto erano clienti e se non si mettevano a battere le mani, sculettare, alzare la sottana e
chiedere soldi, non mi davano alcun fastidio.
Attivai la linea. La scatola nera sopra il telefono riprese vita, con una sfilza di zeri rossi che annunciava lo
scorrere della conversazione.
Finsi di tornare al mio articolo, ma continuai a guardarli. Uno aveva la voce molto acuta e un lembo del sari
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infilato in vita. La carne che ne fuoriusciva era evidentemente quella di un uomo, con pieghe mascoline, ben
diverse dalle rotondità compatte delle donne grasse.
Un altro era magrissimo, con un viso così secco che se
qualcuno l’avesse sfregato con una mano forse avrebbe
prodotto scintille. Era lui che mi era sembrato familiare,
e per un secondo avevo temuto che si fosse accorto che
lo fissavo. In mezzo a tutti quegli accessori da donna
spuntava un pomo d’Adamo, incongruo quanto una
scena porno in un film Disney.
Stavo cercando di capire come parlano tra di loro gli
eunuchi, quando uno di quelli rimasti fuori fece roteare
una spranga e mandò il vetro della cabina in mille pezzi.
«Che cazzo fai?», urlai, preso totalmente alla sprovvista.
Anche in mezzo a quel delirio, mi resi conto che il coro
dei corvi, già parecchio sonoro, aveva alzato il volume.
Come se nessuno avesse sentito una parola di quello
che avevo detto, gli altri tre si misero a dargli manforte.
Per prima cosa distrussero la cabina del telefono. Uno
di loro aveva persino un mazzuolo, e quando ebbero
spaccato tutto il legno, e il vetro era sparpagliato a terra
in tante schegge simili a diamanti, strapparono la fotografia della ragazza incollata all‘interno di quello spazio
che fino a poco prima era circondato dalle pareti.
Ripetei «che cazzo state facendo?» almeno cinque
volte; dopodiché passai all’azione.
La spranga roteante mi colpì un braccio e io urlai,
mentre il dolore viaggiava simultaneamente in ogni direzione. I quattro eunuchi non aprirono bocca mente scatenavano la loro furia su tutto ciò che li circondava.
Ma aspettate un attimo. Non sembravano infuriati.
Non avevano l’aspetto di chi sta portando a termine una
missione con rabbia o passione.
Anzi, mentre un altro colpo atterrava sulla mia mano
destra, che istintivamente cercava di evitare che la spranga
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si abbattesse sul telefono sopra la mia scrivania, notai che
uno di loro (non quello con la faccia magrissima) aveva
un’ombra di sorriso sul viso deformato dal testosterone.
«Lasciatemi stare! Lasciatemi stare! Non fatemi del
male!», li implorai con la voce ormai ridotta a un sussurro, mentre mi accasciavo a terra e guardavo il mio negozio ridotto a un cumulo di vetri rotti, mobili spaccati,
filo strappato e telefoni accatastati.
Vicino a un pezzo di plastica bucherellata che poco
prima formava il microfono di un telefono, vidi un brandello di carta con una scollatura e un accenno di reggiseno trasparente. Ci dovevano essere altre parti del poster sparpagliate a terra tra i vetri, il legno e i mattoni.
Notai anche che la mia mano si era gonfiata fino a
raggiungere proporzioni innaturali e stava cambiando
rapidamente colore. Non c’erano tracce di sangue, in
nessun punto. Il mio negozio non era assicurato («Senti,
lo faccio il prossimo anno, giuro») e io nemmeno.
Quindi, vedendo il mio cubicolo solido e rassicurante
trasformarsi in un ammasso di macerie, mi aspettavo che
quegli eunuchi pazzi semplicemente mi spaccassero la
testa, senza fare domande.
In quel preciso istante, uno di loro mi sollevò per il
colletto e mi sbatté la faccia contro il muro. Il sari gli era
scivolato dalla spalla, e vedere il corpetto imbottito artificialmente e la sottogonna da cui spuntava un ombelico da uomo non fu uno spettacolo piacevole.
Dopo avermi strappato la camicia mi parlò con una
voce maschile perfettamente normale. «Porco schifoso!
Secondo te non conosciamo il significato di questo
posto? Te ne stai qui fermo come un baccalà, ma dovresti
sapere con chi fare affari se vuoi vivere qui. Pensavi di
poter aprire il tuo negozietto e che tutto sarebbe andato
liscio? Porco schifoso!».
Dopodiché mi diede un gran pugno in pancia.
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