effetto placebo nella pratica medica: utilita` e problemi

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effetto placebo nella pratica medica: utilita` e problemi
EFFETTO PLACEBO NELLA PRATICA MEDICA: UTILITA’ E PROBLEMI
Franco Garonna
Direttore Medico
Casa di Cura Neuro-psichiatrica “Park Villa Napoleon”, Preganziol (Tv)
“Dottore mi faccia quella iniezione contro il dolore …. . Dottore dopo quella pillolina
rosa ho dormito … . Ogni cambio di stagione ho bisogno di una curetta ricostituente
…”. A dispetto degli sforzi che il medico compie ogni giorno per assicurare la terapia
migliore per il proprio assistito, il paziente reclama una terapia, anzi una “non
terapia” che comunque egli percepisce come benefica per la sua salute !!
Nella azione terapeutica del medico l’effetto placebo si combina variamente alla
efficacy - efficacia teorica – e alla effectiveness – efficacia nella pratica dell’intervento, che sia farmaco o altro. Tanto più la malattia è di lunga durata, e
maggiori sono gli aspetti psicologici e contestuali che incidono sul decorso della
malattia, tanto più l’effetto placebo diventa dominante sulla efficacia attesa
dall’intervento medico. Più che un effetto placebo, si tratta spesso di un “rapporto
placebo medico-paziente”. E’ il medico stesso, non potendo trovare una soluzione
razionale al problema presentato dal paziente, a proporre un farmaco che abbia
effetto placebo, un farmaco cioè che pur non avendo alcun effetto scientificamente
provato sull’organo o sul sintomo venga percepito dal malato come una possibilità
di cura. L’inganno è reciproco, il medico tenta di aggirare l’ostacolo della propria
impotenza, il paziente accetta più o meno consapevolmente questa soluzione,
sempre migliore rispetto alla resa. Ma da questo reciproco inganno ecco nascere
una parziale remissione della sintomatologia, e tutto sommato un’azione che dà
beneficio. Il risultato dell’intervento di cura del medico è comunque raggiunto, e
questo è l’importante. Come diceva un grande scienziato: “Non so perché funziona,
ma funziona !” Da questo risultato pratico deriva la successiva convinzione sempre
più radicata nel malato che quell’intervento sia effettivamente la soluzione, sino a
ripresentarsi poi un aggravamento del sintomo o una recrudescenza della malattia
che riporta la relazione allo stallo antecedente. Utilizzare l’effetto placebo è lecito,
ma perseverare non è eticamente corretto. Quando, se e come il medico deve
avvertire il malato che il farmaco prescritto non ha un’ efficacia fondata
sull’evidenza scientifica? Certamente già nella prescrizione del farmaco. Il consenso
del malato alla terapia deve essere sempre un consenso informato. Ma allora ecco
svanire l’effetto placebo, che si fonda proprio sulla convinzione del malato e del
medico che qualcosa è meglio di nulla, e questo qualcosa può essere anche nulla. In
realtà l’alone placebo è presente in ogni atto medico, e se noi medici ne fossimo più
consapevoli potremmo meglio sfruttarne l’effetto a tutto vantaggio della cura, e
della soddisfazione del malato come del medico stesso. L’utilizzo del placebo è
connaturato alla storia stessa della medicina. Solo che i medici dell’antichità si
convincevano dai risultati, anche se temporanei e occasionali, che l’intervento
medico o chirurgico applicato fosse effettivamente un rimedio efficace. I salassi, la
scarificazione malleolare, l’uso di olii estratti da animali e altri rimedi più o meno
stravaganti per secoli hanno rappresentato il bagaglio tecnico del medico. Uno tra i
tanti aneddoti riguarda il collega americano della fine del ‘700, il dottor Elisha
Perkins. Egli sosteneva che le malattie si potevano curare mediante il tocco sulla
cute di bastoncini. Nel corso di una grande epidemia di febbre gialla a New York, egli
si recò in città per applicare la sua tecnica. Fu colpito dall’infezione e vi morì. Un suo
allievo, John Haygarth ritenne che i bastoncini anziché di legno dovessero essere di
metallo, e applicò con successo questa tecnica nel caso di dolori articolari.1 Solo nel
‘900 si incominciò a studiare l’effetto placebo con metodo scientifico. Un grande
contributo fu dato da Freud e la psicoanalisi. Il fatto che con la parola e la relazione il
medico potesse influire positivamente o negativamente sui sintomi somatici del
malato, mise in evidenza il fatto che le malattie, non solo quelle psichiche, possono
subire anche importanti modificazioni di decorso, indipendentemente dalla efficacia
e correttezza delle procedure terapeutiche. Un esperimento condotto alla fine degli
anni ’90 confermò queste osservazioni. Furono divisi 200 soggetti affetti da malattie
varie identificabili in due gruppi, al primo gruppo furono espressi dal medico una
incerta diagnosi e pessimismo nei risultati, al secondo gruppo furono espressi una
diagnosi certa e un atteggiamento realisticamente positivo sui risultati. Applicando
le stesse procedure terapeutiche, il miglioramento nel primo gruppo fu del 39%, nel
secondo gruppo del 64%.2 Sicurezza e ottimismo del medico hanno dunque nel
malato un effetto placebo che porta a rafforzare l’efficacia terapeutica. L’effetto
placebo costituisce dunque un elemento importante della cura , a volte più efficace
della cura stessa. Secondo una visione integrata della medicina moderna, in cui si
combinano aspetti biologici, psicologici e sociali sia nel determinismo, che nel
decorso e negli esiti delle malattie si è cercato di spiegare razionalmente i fenomeni,
a volte sorprendenti e inimmaginabili, che avvengono nel paziente e nella sua
malattia. Predisposizione genetica, risposte di tipo autoimmunitario, attivazione del
sistema stress correlato (ipotalamo-ipofisi-corticosurrene), sostanze proinfiammatorie come le colecistochinine, oppiodi endogeni come le endorfine,
sistema dopaminergico e amigdala sono considerati tra i responsabili biologici
dell’effetto placebo. Ma tutti questi sono in stretta interconnessione con gli aspetti
psicologici, resilienza, atteggiamento fiducioso e ottimista, risposte condizionate a
risultati positivi, e con il “patrimonio” sociale che ogni individuo è capace di
costruire nel corso della sua esistenza. Un chirurgo americano, Charlie White, classe
1905, recentemente deceduto all’età di 109 anni amava dire ai suoi numerosi amici
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Pozgain I et Al: Placebo and Nocebo Effect, A Mini-Review. Psychiatria Danubiana, 2014; Vol. 26, No 2:100-107.
Thomas KB: General practice consultations: is there any point in being positive? Br Med J 1987; 294:1200-2.
che vivere era come trascorrere una intera giornata in un parco divertimenti e
quando si arriva alla chiusura attendere con gioia l’inizio del giorno dopo. Il Dr.
White non fu mai toccato, nonostante lutti e difficoltà personali, dalla depressione.
Certamente un fattore di rischio di malattia è rappresentato dalla depressione.
Questo disturbo incide negativamente sul decorso di malattie, porta il soggetto a
trascurare la cura di sé, a isolarsi e perdere quel patrimonio sociale che è
fondamentale per una esistenza “buona”.3 Curare la depressione e intervenire con
appropriatezza su questo importante e diffuso disturbo diventa una priorità nella
pratica del medico sia generalista che specialista. L’impatto che una diagnosi, anche
molto pesante, ha sul malato attiva un processo endo-psichico e comportamentale
che risulta decisivo nella durata e nell’esito della malattia. Anche di fronte ad una
malattia dall’esito prevedibilmente infausto, la capacità del medico di dare speranza
è essenziale ad assicurare una buona qualità di vita nel suo paziente. Lipton nel suo
libro del 2007 “Biology of Belief”4 riporta il caso di un malato di carcinoma esofageo.
Nonostante le cure, il malato peggiorava. Tutti in famiglia e il suo medico credevano
che la malattia non lasciava scampo e che, se anche fossero migliorate le condizioni
generali, il tumore si sarebbe ripresentato in tutta la sua fatalità. Dopo poche
settimane di malattia, il paziente decedette. All’autopsia, in realtà, il tumore era
fortemente regredito. Lipton sostiene che il malato era morto non a causa del
tumore, ma perché era convinto che non sarebbe sopravvissuto, e tutti
nell’ambiente in cui viveva erano convinti che non c’era speranza. L’effetto negativo
che ha sulla persona e sulla sua malattia si chiama nocebo. Anche quando
l’informazione su un atto medico è corretta e completa, l’effetto che essa ha può
risultare negativo, al punto da accentuare i sintomi o farne comparire di nuovi. La
situazione più frequente è quella degli effetti indesiderati e collaterali che
giustamente l’informazione deve contenere. Spesso il malato tenderà a sviluppare
quei sintomi, anche se rari e soggettivi, che il medico o più spesso la lettura del
foglietto illustrativo hanno segnalato. L’utilizzo facile e diffuso del web da parte dei
pazienti espone loro ad una informazione non selettiva e spesso errata o fonte di
pregiudizi sulle terapie. Le aspettative del malato riguardo all’esito delle terapie e ai
rimedi per i suoi sintomi sono talvolta irrealistiche e facilmente condizionabili. Il
malato accetta acriticamente ogni cosa possa attenuare le proprie sofferenze anche
in assenza di efficacia comprovata. Ciò avviene soprattutto in malattie o disturbi
cronici che richiedono terapie sintomatiche e mai risolutive. In una recente metaanalisi5 l’effetto placebo/nocebo delle terapie è del 18% nei casi di emicrania, e del
74% nella sclerosi multipla. Ma certamente sono i malati psichici quelli più soggetti
all’effetto placebo dei farmaci. Kirsh6 in un lavoro del 2002 ha sostenuto che l’80%
dell’effetto antidepressivo è dovuto ad effetto placebo. Ma sappiamo che l’effetto
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What is the good life di David Von Drehele – TIME, sept 8-15 2014.
Lipton BH: The Biology of Belief – Hay House, 2007.
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Data-Franco J, Berk M: The nocebo effect, a clinicians guide. Aust NZ J Psychiatry 2013; 47:617-23.
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Kirsh I et Al.: The Emperors New Drugs, An Analysis of Antidepressant Medical Data submitted to the US FDA. 2002.
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placebo interviene solo nei primi giorni di cura, mentre la terapia antidepressiva
richiede diverse settimane prima di essere efficace. L’effetto placebo/nocebo è la
causa più frequente di abbandono della terapia da parte dei malati. E spesso questi
effetti negativi sull’esito della terapia sono anche incoraggiati da una forte
stigmatizzazione dei trattamenti farmacologici in psichiatria da parte dell’opinione
pubblica. Studi recenti di Kato7 e Benedetti8 hanno dimostrato che sia
l’antidepressivo che il placebo sono in grado di indurre cambiamenti in diverse aree
cerebrali in rapporto con importanti funzioni cognitive, come la capacità di
aspettativa, l’apprendimento, la memoria e la modulazione emotiva. L’efficacia degli
psicofarmaci è in relazione ai contesti in cui è attuata la terapia, e dipende
fortemente dalla relazione che si instaura tra medico e paziente. Nella ricerca clinica
controllata in medicina si cerca di ridurre l’effetto placebo con l’utilizzo dei gruppi di
controllo, cui viene somministrato un farmaco di confronto di dimostrata efficacia.
In questi casi il raggiungimento di equivalenza di efficacia tra i due farmaci a
confronto, consente di dimostrare la validità di un nuovo trattamento. Nella pratica
medica è necessario tenere in giusta considerazione l’effetto placebo, non negando
mai al proprio paziente l’accesso ad una informazione accurata e consapevole che lo
metta al riparo da falsi convincimenti. Uno psiconalista del ‘900, Michael Balint
sosteneva che in medicina esistono non una ma due malattie, quella obiettivabile e
quella che il malato percepisce. Ad entrambe queste malattie deve essere rivolta
l’attenzione del medico, se vuole ben sfruttare l’azione placebo a tutto vantaggio del
malato e del successo terapeutico.
7
Kato S: Review of placebo effect and re re-evaluation of psychotherapy focusing on depressive disorders. SSZ 2013;
115:887-900.
8
Benedetti F: Placebo effects, understanding the mechanisms in health and disease. Oxford University Press. New
York, 2009.