Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 1

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Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 1
Lezione 1
Dove si scopre che una storia può avere tante forme ma un racconto finisce solo quando è
davvero finito
Lingua e struttura. C'è qualcosa che unisce la lingua della narrativa e la struttura dei racconti
o dei romanzi? Insomma, le parole sono una cosa, la forma delle storie un'altra, o no? Sono
due cose distinte oppure si può trovare un modo per trattarli insieme, questi due temi? Sì, va
bene, posso cavarmela dicendo che le storie scritte con una lingua più densa e più ricca in
genere hanno una struttura più lunga e complessa. In effetti L'Ulisse di Joyce, La ricerca del
tempo perduto di Proust o Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda sembrerebbero
stare lì a dimostrarlo. E però ci sono anche dei romanzi lunghi scritti con un linguaggio
stringato e racconti brevi con una lingua complessa. E costruzioni ingegneristiche dalle
soluzioni spericolate erette con parole semplici. Ma pure brevi testi lineari quasi ermetici. Non
tutto è semplice, come in Raymond Carver: storie brevi, linguaggio sintetico, perfetto, amen.
E a proposito di Carver, Mondadori ha pubblicato un Meridiano con dentro tutte le sue storie.
Così mi sono andato a rileggere quei racconti che finora stavano separati in raccolte dal titolo
Vuoi star zitta, per favore o Di cosa parliamo quando parliamo d'amore o Cattedrale o Se hai
bisogno, chiama (cavolo, quant'era bravo Raymond Carver a trovare i titoli!). E proprio lui,
uno degli autori più amati, o perlomeno più citati nelle scuole di scrittura, mi ha suggerito una
risposta. Insomma, non proprio direttamente, visto che un autore morto parla attraverso i
suoi libri, ma si capisce solo se lo si intende per bene. E la risposta è che ogni testo, quando è
riuscito, trova il suo equilibrio tra la struttura della narrazione e la lingua usata, insomma tra
la sua forma e le sue parole. Il modo in cui Carver me l'ha suggerito, lo vedremo tra poco,
analizzando il modo in cui usa le parole e la forma che dà a una sua storia, pubblicata due
volte e con due titoli diversi, Il bagno e Una cosa piccola ma buona.
Editor mani di forbice
Per parlare di questo racconto multiforme di Carver (che ci permetterà di rispondere
anche a una domanda che spesso viene posta da chi vuole scrivere narrativa: quando un
racconto può dirsi finito?) dobbiamo velocemente sbrigare una questione preventiva, e cioè la
relazione tra questo scrittore americano e il suo principale editor, Gordon Lish. Il rapporto tra
uno scrittore e il suo editor è decisamente un rapporto complesso. C'è chi come Stephen King
dice: «L'editor ha sempre ragione... Per dirla in altri termini, scrivere è umano, editare è
divino». E c'è chi non lo ringrazia nemmeno nei suoi libri, come la maggior parte degli scrittori
italiani, per cui degli editor conoscono il nome solo gli addetti ai lavori e se lo sussurrano tra
iniziati come fosse il nome di Voldemort, il misterioso mago malvagio di Harry Potter. Per
quanto riguarda Carver e Lish, sappiamo che il lavoro dei due fu comune fino a un certo
punto della vita dello scrittore, e doveva funzionare più o meno così, uno scriveva e l'altro
sforbiciava. D'accordo con l'altro? In disaccordo? Non è facile rispondere a queste domande e
forse non lo sapremo mai. Ecco cosa ne dice Alessandro Baricco, che qualche tempo fa si è
preso la briga di andare a scartabellare gli originali di alcuni racconti dello scrittore rivisti dal
suo editor: «Carver stesso non era in grado di tenere quello sguardo implacabile sul mondo
che i suoi racconti sfoggiano. Anzi, in certo modo lui aveva l'antidoto contro quello sguardo.
Lo abbozzava, quello sguardo, forse l'ha perfino inventato, ma poi tra le righe, e soprattutto
nei finali, lo confutava, lo spegneva. Come se ne avesse paura. Costruiva paesaggi di ghiaccio
ma poi li venava di sentimenti, come se avesse bisogno di convincersi che, nonostante tutto
quel ghiaccio, erano vivibili. Umani. Alla fine la gente piange. O dice Ti amo. E la tragedia è
spiegabile. Non è un mostro senza nome. Gordon Lish dovette intuire che, al contrario, la
visione pura e semplice di quei deserti ghiacciati era ciò che di rivoluzionario aveva
quell'uomo in testa. Ed era ciò che i lettori avevano voglia di sentirsi raccontare. Cancellò
minuziosamente tutto ciò che poteva scaldare quei paesaggi, e quando ce n' era bisogno,
aggiunse perfino del ghiaccio». Quindi Lish che in laboratorio crea la prosa di Carver. Sarà,
ma lo scrittore, parlando di Cattedrale, una raccolta scritta dopo aver smesso di collaborare
con Lish, dice proprio: «C'è un'apertura in questo libro, come mai nei libri precedenti. Per
diversi mesi non avevo scritto nulla. Dopodiché ho scritto Cattedrale, totalmente diverso da
qualsiasi cosa scritta prima. Tutte le storie presenti in questo libro sono in qualche modo più
dense e più interessanti. Sono più generose, e non più ridotte al minimo». Sembrerebbe una
dichiarazione d'intenti molto precisa, no? Di uno che sa di aver scritto in un certo modo,
ridotto al minimo, e che adesso ha scelto di diventare più denso, più interessante, più
generoso. Uno che vuole dare un'altra forma alle sue parole. Del tutto consapevolmente?
Carver la raccontava così: «Non ho piani, ma sono cambiate le circostanze della vita. Ho
smesso di bere e forse ora che sono più vecchio sono più fiducioso. Non so, ma ritengo
importante che uno scrittore cambi, che ci sia uno sviluppo naturale e non una decisione».
Comunque quello che mi interessa qui sono solo i racconti - siano stati o no creati da
Carver o dal suo editor mani di forbice o da tutti e due insieme - e un po' come succede per
la musica pop, che m'importa se era Lennon o se era Mc Cartney la mente dei Beatles? O se
Il mio canto libero era più di Battisti o più di Mogol?
Farsi un bagno nella paura
La storia di cui parliamo è dura. Senza scampo. Americana per tanti versi (e Robert
Altman l'infilò nel suo film tratto da Raymond Carver, Short cuts, in italiano America oggi),
universale per altri. Un bambino che sta per compiere gli anni viene investito. I genitori lo
vegliano in ospedale, lui dorme senza che si capisca bene che cosa abbia davvero.
La versione pubblicata per prima, nel 1981 con il titolo The bath, (Il bagno nella
traduzione di Riccardo Duranti), comincia così:
Sabato pomeriggio la madre andò in macchina alla pasticceria del centro commerciale.
Dopo aver sfogliato un raccoglitore con le foto delle torte incollate sulle pagine, ne ordinò una
al cioccolato, la preferita di suo figlio. La torta che aveva scelto era decorata con un'astronave
sulla rampa di lancio sotto una pioggia di stelle bianche. SCOTTY, il nome del bambino,
sarebbe stato scritto in glassa verde come fosse il nome dell'astronave.
Il pasticcere rimase ad ascoltarla assorto mentre lei gli spiegava che il figlio avrebbe
compiuto otto anni. Era anziano, il pasticcere, e indossava uno strano grembiule, pesante,
con lacci che gli passavano sotto le ascelle, si incrociavano sulla schiena e poi tornavano sul
davanti dove erano legati in un grosso nodo. Mentre la stava ad ascoltare, si asciugava
continuamente le mani sul grembiule. Gli occhi umidi le fissavano le labbra, mentre lei
esaminava i campioni e parlava.
Le diede tutto il tempo che voleva. Non aveva mica fretta.
La madre scelse la torta-astronave e gli diede il proprio numero di telefono. La torta
sarebbe stata pronta lunedì mattina, con largo anticipo sulla festa di compleanno del
bambino, prevista per lunedì pomeriggio. Fu tutto quello che il pasticcere era disposto a dire.
Nessun complimento, solo le informazioni essenziali, niente che non fosse indispensabile
Il lunedì mattina il bambino stava andando a scuola. Era insieme a un suo compagno.
Si passavano un sacchetto di patatine e il bambino che compiva gli anni stava cercando di far
dire al suo amico che regalo gli avrebbe portato.
A un incrocio, il bambino che compiva gli anni scese dal marciapiede senza guardare e
fu subito gettato a terra da una macchina che passava. Cadde su un fianco, la testa nel
canalino di scolo, le gambe verso la strada che si muovevano come se stesse cercando di
arrampicarsi su un muro.
Il suo compagno rimase lì con le patatine in mano. Si stava chiedendo se doveva finirle
o proseguire fino a scuola.
Il bambino che compiva gli anni non pianse, ma non gli andava neanche più di parlare.
Non volle rispondere quando l'altro bambino gli chiese che effetto faceva essere investiti da
una macchina. Si rialzò e s'incamminò verso casa, al che l'amichetto lo salutò con la mano e
si diresse a scuola.
Il bambino che compiva gli anni raccontò a sua madre quello che era successo. Si
sedettero sul divano. Lei gli teneva le mani in grembo. Stavano così, quando il bambino
ritrasse le mani e si stese sul divano.
Naturalmente, la festa di compleanno non si fece. Invece, il bambino che compiva gli
anni era in ospedale. La madre gli stava seduta accanto. Aspettava che il figlio si svegliasse. Il
padre si precipitò in ospedale dall'ufficio. Si sedette accanto alla moglie. E così tutti e due
aspettavano che il bambino si svegliasse. Aspettarono per ore, poi il padre tornò a casa per
farsi un bagno.
L'uomo tornò a casa dall' ospedale. Percorse le strade a velocità più sostenuta del
dovuto. Finora la sua vita era stata bella: il lavoro, la paternità, la famiglia. Era stato felice e
fortunato. Ma la paura gli aveva fatto venire voglia di farsi un bagno.
Una telefonata all'improvviso
Da notare alcune cose. Non ci sono nomi, tranne quello del bambino, che così risalta
tra tutti gli altri personaggi. Addirittura è scritto già nel primo paragrafo in lettere maiuscole,
che stanno a indicare il modo in cui compare sulla torta di compleanno, ma che si accendono
come un neon nella mente del lettore: SCOTTY. E comunque per tutto il resto di questo breve
incipit il nome non si ripete, ma viene invece ripetuto continuamente il termine bambino anzi
la frase il bambino che compiva gli anni come a suggerire una forma di fragilità assoluta,
quasi impersonale. Anche il modo in cui il padre decide di tornare a casa per farsi un bagno è
casuale. Eppure questo bagno dà il nome al racconto, e infatti poco dopo arriva la frase che
introduce uno degli elementi essenziali, anch'esso ripetuto più tardi, della storia: la paura, la
paura gli aveva fatto venire voglia di farsi un bagno.
E poi arriva una telefonata, stiamo a vedere:
Entrò nel vialetto di casa e rimase seduto in macchina, cercando di mettere in moto le
gambe. Il bambino era stato investito ed era in ospedale, ma sarebbe andato tutto bene.
Scese dall'auto e si avviò verso la porta di casa. Il cane abbaiava e il telefono squillava.
Continuò a squillare mentre l'uomo apriva la porta e tastava il muro in cerca dell'interruttore
della luce.
Alzò la cornetta e disse: «Sono entrato in casa in questo momento!».
«C'è una torta che non è stata ritirata.»
Ecco cosa disse la voce all' altro capo del filo. «Come dice, scusi?» chiese il padre.
«La torta» disse la voce. «Sedici dollari.»
Il marito si tenne la cornetta premuta contro l'orecchio, cercando di capire. «Non ne so
niente» disse. «Non se ne esca con questa scusa» disse la voce. Il marito riattaccò. Andò in
cucina e si versò del whisky. Poi chiamò l'ospedale. Le condizioni del bambino erano
stazionarie.
Mentre la vasca si riempiva, l'uomo si insaponò la faccia e si fece la barba. Era appena
entrato nella vasca quando sentì di nuovo il telefono. Uscì e attraversò di corsa la casa,
dicendosi: «Che stupido! Che stupido!», perché non si sarebbe trovato in quella situazione se
non se ne fosse andato dall' ospedale. Alzò la cornetta e gridò: «Pronto!».
La voce disse: «È pronta».
Il padre tornò in ospedale poco dopo mezzanotte. La moglie era ancora seduta sulla
sedia accanto al letto. Alzò gli occhi sul marito e poi tornò a guardare il bambino. Da un
impianto sopra il letto pendeva un flacone con un tubicino che lo collegava al bambino.
«Cos'è?» chiese il padre.
«Glucosio» rispose la madre.
Il marito le mise una mano dietro la testa.
«Tra poco si sveglierà» disse l'uomo.
«Lo so» disse la donna.
Dopo qualche secondo, lui disse: «Va' a casa per un po'. Ti do il cambio».
Lei scosse la testa. «No» disse.
«Davvero» disse lui. «Va' a casa per un po'. Non ti devi preoccupare. Sta solo
dormendo, tutto qui.»
Un'infermiera aprì la porta. Li salutò con un cenno del capo mentre si avvicinava al
letto. Tirò fuori il braccio sinistro del bambino da sotto le coperte e gli tastò il polso. Poi rimise
il braccio sotto le coperte e scrisse qualcosa su una tabella attaccata al letto.
«Come sta?» chiese la madre.
«È stazionario» rispose l'infermiera. Poi disse: «Il dottore ripasserà tra poco».
«Stavo dicendo a mia moglie che forse dovrebbe andare a casa a riposarsi un po'»
disse l'uomo. «Dopo la visita del dottore.»
«Certo che può farlo» disse l'infermiera.
La donna disse: «Sentiamo che cosa ci dice il dottore». Si portò una mano agli occhi e
abbassò un tantino la testa.
L'infermiera disse: «Naturalmente».
La telefonata che interrompe il bagno del padre è un altro evento casuale, ma
aumenta la tensione nella storia. Inoltre noi sappiamo che a farla è il pasticcere, invece il
padre non sa niente della torta fatta preparare e non ritirata.
Su questa telefonata Carver, nel saggio Fuochi, ci ha detto una cosa interessante sul
modo in cui agli autori vengono le idee e anche su come sono pronti a cogliere gli influssi
esterni che per altri sarebbero insignificanti: «Non molto tempo fa a Syracuse, dove abito, ero
nel bel mezzo della stesura di un racconto quando ha squillato il telefono. Ho risposto.
All'altro capo del filo c'era la voce di un uomo, chiaramente nero, che chiedeva di un certo
Nelson. Aveva sbagliato numero, gliel'ho detto e ho riattaccato. Sono tornato al mio racconto.
Ben presto, però, mi sono accorto che stavo introducendo nella storia un personaggio nero,
un personaggio per certi versi sinistro di nome Nelson. Da quel momento la storia ha preso
una piega diversa. Per fortuna, lo capisco adesso e in qualche modo l'avevo capito anche
allora, era proprio la piega giusta. Quando avevo cominciato a scrivere quel racconto, non
avrei potuto preparare o prevedere la necessità della presenza di Nelson. Ma ora, a racconto
ultimato e di prossima pubblicazione su una rivista, il fatto che Nelson ci sia dentro, col suo
aspetto sinistro, mi pare giusto e appropriato e, credo, corretto da un punto di vista estetico.
E mi pare giusto, anche, che questo personaggio sia finito dentro il mio racconto con una sua
appropriatezza, qualcosa di molto occasionale, di cui ho avuto il buonsenso di fidarmi». E
come vedremo più avanti, oltre alla telefonata in questo racconto compare anche Nelson, in
un modo inatteso e lasciato vago dall'autore, ma sicuramente, come la telefonata che arriva
fin dentro casa dei genitori di Scotty, anche questo nome è il senso di un annuncio - certo
non benevolo.
Le parole che Carver usa in questa versione della storia sono davvero ridotte al
minimo, i personaggi non hanno un volto, non hanno un aspetto, non hanno nemmeno nomi,
sono solo il padre, la madre, l'uomo, la donna, l'infermiera, il dottore, il bambino. E non ha un
nome nemmeno finora la malattia del bambino, che resta misteriosa, non detta. Anche se il
lettore pensa già di sapere di cosa si tratta e la paura aleggia su tutta la storia.
Un dottore dalla pelle morbida e abbronzata
Quando finalmente arriva un medico, qualche particolare in più ci viene svelato,
cominciamo a conoscere il nome della madre - è il dottore a pronunciarlo, non il marito che
non la chiama per nome, così non ci appare nemmeno sotto una luce intima, è solo
un'informazione che serve per alcuni passi successivi del racconto - e veniamo a sapere come
lei vede e giudica il dottore che arriva, come lo considera lontano da sé e dal suo dramma, un
uomo di successo incapace di capire davvero qualcosa di quello che succede. In questo caso,
la brevissima descrizione del medico, cosa rara in questa versione poco descrittiva ci dice
tantissimo su come la madre lo vede e a cosa davvero pensa. Mentre intanto la paura
aumenta.
Il padre fissò per un po' suo figlio, il minuscolo petto che si alzava e si abbassava sotto
le coperte. Sentì la paura aumentare. Cominciò a scuotere la testa. Diceva tra sé e sé: il
bambino sta bene, solo che invece di dormire a casa, dorme qui. Il sonno è uguale dovunque
si dorma.
Il dottore entrò nella stanza e strinse la mano all'uomo. La donna si alzò dalla sedia.
«Ann» disse, salutandola con un cenno del capo. «Vediamo prima di tutto come sta»
disse il dottore. Si avvicinò al letto e misurò il polso del bambino. Gli sollevò prima una
palpebra e poi l'altra. Tirò giù le coperte e auscultò il cuore. Gli premette le dita in diversi
punti del corpo. Andò ai piedi del letto e consultò la tabella. Vi annotò l'ora, scribacchiò
qualcosa e poi osservò il padre e la madre.
Il dottore era un bell'uomo, con la pelle morbida e abbronzata. Indossava un completo
col panciotto, una cravatta a tinte vivaci e ai polsini aveva i gemelli.
La madre diceva tra sé e sé: È appena tornato da un evento pubblico. Magari gli hanno
dato una medaglia.
Il dottore disse: «Non c'è da esaltarsi, ma neanche da preoccuparsi. Si dovrebbe
svegliare abbastanza presto». Guardò di nuovo il bambino. «Dovremmo saperne di più
quando arrivano i risultati delle analisi.»
«Oh, no» esclamò la madre.
Il dottore disse: «A volte succede».
Il padre disse: «Allora lei non lo chiamerebbe coma, vero, dottore?»
Rimase in attesa, guardando il medico.
«No, non voglio definirlo coma» disse il dottore.
«Dorme. Si rimette in forze. Il corpo sta facendo il suo dovere.»
«È coma» disse la madre. «Una specie di coma.»
Il medico disse: «Non lo definirei così».
Prese le mani della donna tra le sue e le diede dei colpetti affettuosi. Strinse ancora la
mano al marito.
Ora la paura ha preso corpo e la parola che nessuno voleva pronunciare viene detta:
coma. Ma quasi a sottolinearne l'importanza e la paura che provoca, Carver non la fa entrare
in scena direttamente, la fa annunciare da una frase detta al negativo, quasi un inutile,
estremo esorcismo: Allora lei non lo chiamerebbe coma, vero, dottore? Da questo momento
in poi, nello spazio di poche righe, questa parola si ripete altre tre volte, si raggruma nella
trama delle parole che formano il racconto, diventa un grumo densissimo. E tornerà più
avanti, ripetuta due volte in un altro momento del racconto.
Ma continuiamo a leggere.
La donna appoggiò le dita sulla fronte del figlio e le tenne lì per un momento. «Almeno
non ha la febbre» disse. Poi aggiunse: «Però, non so. Sentigli un po' la fronte».
L'uomo sfiorò la fronte del bambino. Disse: «Secondo me, è normale che abbia questa
temperatura adesso».
La donna rimase lì in piedi ancora un po', tormentandosi un labbro con i denti. Poi
tornò a sedersi.
Il marito le si sedette accanto. Avrebbe voluto dirle qualcos'altro. Ma non aveva idea di
che cosa dire. Le prese la mano, e se la portò in grembo. Questo lo fece sentire meglio. Gli
dava l'impressione di dire qualcosa. Rimasero seduti così per un po', guardando il bambino
senza parlare. Di tanto in tanto lui le stringeva la mano. Alla fine lei la ritirò.
«Ho pregato» disse.
«Anch'io» disse il padre. «Ho pregato anch'io.»
Un'infermiera tornò e controllò il flusso del flacone. Passò un altro medico e si
presentò. Il medico indossava dei mocassini.
«Lo portiamo di sotto per fare altre lastre» disse loro. «E vogliamo anche fare una
TAC.»
«Una TAC?» chiese la madre. Era in piedi tra il nuovo dottore e il letto.
«Non è niente» rispose lui.
«Oddio mio!» disse lei.
Arrivarono due portantini. Spingevano un coso con le ruote che pareva un letto.
Staccarono la flebo al bambino e lo fecero scivolare sul coso con le ruote.
Era da poco passata l'alba quando riportarono fuori il bambino che compiva gli anni. Il
padre e la madre seguirono i portantini nell'ascensore e poi su nella stanza. Ancora una volta
i genitori ripresero il loro posto accanto al letto.
Aspettarono tutto il giorno. Il bambino non si svegliò. Il dottore era tornato e aveva
visitato di nuovo il bambino, poi se n'era andato dicendo le stesse cose. Ogni tanto arrivavano
delle infermiere, altri medici.
Poi un tecnico che prelevò del sangue al bambino.
«Non capisco» disse la madre al tecnico. «L'ha ordinato il dottore» rispose quello.
La madre si avvicinò alla finestra e guardò giù nel parcheggio. C'erano macchine che
entravano e uscivano con i fari accesi. Rimase alla finestra con le mani che stringevano il
davanzale. Disse tra sé e sé: Ormai siamo dentro a qualcosa, qualcosa di estremamente
difficile.
Aveva paura.
Vide una macchina fermarsi e una donna con un lungo cappotto vi salì. Finse di essere
quella donna. Finse di allontanarsi da lì in macchina e andare altrove.
Tornò il dottore. Pareva ancora più abbronzato e in salute che mai. Si avvicinò al letto
e visitò il bambino. Disse: «I segni sono buoni. Tutto normale».
La madre disse: «Però dorme ancora».
«Sì» disse il medico.
Il marito disse: «È stanca. Non ha mangiato niente». Il medico disse: «Dovrebbe
riposarsi. Dovrebbe mangiare qualcosa, Ann».
«Grazie» disse il marito.
Strinse la mano al dottore, che gli diede qualche colpetto sulla spalla e uscì.
Un finale davvero «alla Carver»
Da questo momento in poi, la storia arriva velocemente alla sua conclusione, lo
scrittore ci dice pochissimo di più di quello che già non sappiamo. Per prima cosa ci introduce
il personaggio di nome Nelson, che come abbiamo letto occupa un certo spazio nella sua
immaginazione e descrive una famiglia di neri, ma senza dirlo, lasciandocelo capire da certi
particolari, come le treccine crespe di una ragazza e i vestiti degli adulti. Ritorna la parola
coma, due volte come dicevamo. Le parole ripetute, in una scrittura ridotta al minimo come in
questo racconto, sono importanti, sono degli elementi che segnalano, nel senso che non sono
semplici termini della lingua, sono come dei segnali che lo scrittore ci pone lungo la via per
indicarci in che direzione stiamo andando.
E poi nel racconto torna il bisogno di farsi un bagno e ancora un'ultima definitiva
telefonata. Ma leggiamo tutto fino al finale, sospeso, drammatico e non detto, anzi, di più,
senza il bisogno di dire o aggiungere parole, né per il lettore né per lo scrittore, o almeno così
sembrerebbe...
«Mi sa che uno di noi dovrebbe andare a casa a controllare le cose» disse l'uomo.
«Bisogna dare da mangiare al cane.»
«Telefona a uno dei vicini» disse la moglie. «Qualcuno gli darà da mangiare, se glielo
chiedi.»
Provò a pensare a chi chiederlo. Chiuse gli occhi e provò a pensare a qualcosa,
qualunque cosa. Dopo un po' disse: «Magari vado a casa per un pochino. Magari se non me
ne sto qui seduta a guardarlo si sveglierà. Magari è perché sto qui a guardarlo che non si
sveglia».
«Può darsi» disse il marito.
«Vado a casa, mi faccio un bagno e mi metto qualcosa di pulito» disse la donna.
«Credo che dovresti fare proprio così» disse l'uomo. Lei prese la borsetta. Lui l'aiutò a
indossare il soprabito. Lei si avvicinò alla porta e si voltò. Guardò il bambino e poi guardò il
padre. Il marito annuì e le sorrise.
Superò la postazione delle infermiere e percorse tutto il corridoio. In fondo al corridoio
si voltò e vide una piccola sala d'attesa dove una famiglia era seduta su delle poltroncine di
vimini: un uomo con una camicia cachi e un berretto da baseball tirato indietro, una donna
grassa in vestito da casa e pantofole, Una ragazza in jeans e con tante treccine crespe. Il
tavolino era ingombro di involucri di cellophane, bicchieri di polistirolo, palette per girare il
caffè e bustine di sale e pepe.
«Nelson» disse la donna. «Si tratta di Nelson?» Spalancò gli occhi.
«Me lo dica subito, signora» disse la donna. «Si tratta di Nelson?»
Cercava di alzarsi dalla poltroncina, ma l'uomo le aveva appoggiato una mano sul
braccio.
«Calma, calma» le disse.
«Scusate» disse la madre. «Stavo cercando l'ascensore. Mio figlio è ricoverato in
ospedale. Non riesco a trovare l'ascensore.»
«L'ascensore è da quella parte» disse l'uomo, indicandole la direzione con il dito.
«Mio figlio è stato investito da una macchina» disse la madre. «Ma se la caverà. È
ancora sotto shock per il momento, ma può anche darsi che si tratti di una specie di coma.
Quello che ci preoccupa è proprio questa faccenda del coma. lo esco per un po'. Magari mi
vado a fare un bagno. Ma con lui c'è mio marito. Gli bada lui. Può darsi che mentre sono via
la situazione cambi. Mi chiamo Ann Weiss.»
L'uomo si mosse nervosamente sulla poltrona. Scosse la testa.
Disse: «Il nostro Nelson».
La donna entrò nel vialetto. Il cane arrivò di corsa da dietro la casa. Si mise a correre
in cerchio sul prato. Lei chiuse gli occhi e appoggiò la testa al volante. Ascoltò il ticchettio del
motore.
Scese dalla macchina ed entrò in casa. Accese le luci e mise su l'acqua per un tè. Apri
una lattina e diede da mangiare al cane. Si sedette sul divano con la tazza di tè.
Squillò il telefono.
«Sì?» rispose lei. «Pronto?» disse.
«Signora Weiss» disse una voce maschile.
«Sì» disse lei. «Sono io la signora Weiss. Si tratta di Scotty?»
«Scotty» disse la voce. «Si tratta di Scotty» disse la voce. «Già, riguarda proprio
Scotty.»
Ecco, finisce così. Senza dirci se Scotty sopravviva o muoia, oppure come si sentiranno
padre e madre e cosa risponderanno al pasticcere insistente. Che sia lui a chiamare anche
stavolta non viene detto, ma si intuisce dal fatto che sappiamo che è lui a telefonare in quella
casa per avere i soldi della torta e che decisamente nessuno dall'ospedale per comunicare
notizie del bambino alla madre userebbe quel tono («Scotty» disse la voce. «Si tratta di
Scotty» disse la voce. «Già, riguarda proprio Scotty»). E quindi l'annuncio della morte di
Scotty che per tutti noi lettori è ormai sicura, ci viene dato dalla voce sgarbata e seccata di un
tizio che chiama al telefono, versione moderna e assurda della vecchia immagine con la falce
e il manto nero.
Si chiude il cerchio, un pasticcere all'inizio e un pasticcere alla fine, una torta ordinata
e una torta pronta che nessuno ha ritirato e pagato. La madre è protagonista all'inizio e torna
a esserlo nella conclusione, dopo aver lasciato al padre il punto di vista del racconto nella
parte centrale. E due tentativi di fare un bagno interrotti dalle telefonate. Due tentativi falliti
di sfuggire alla paura.
Una prima risposta sulla struttura dei racconti: un racconto si conclude quando le sue
premesse sono portate alle estreme conseguenze, è inutile dirci se Scotty muore, tanto la
paura dei genitori, l'assurdità dei gesti intorno a loro, l'incapacità di tutti noi di avere a che
fare con questo evento enorme, è già chiaro. Superfluo scrivere di più, se è questo che
vogliamo dire. Questo sembra consigliarci Raymond Carver.
Un finale non piccolo, ma buono
Qualche anno dopo, lo scrittore riprende il suo vecchio racconto, lo rilegge e si accorge
che il finale non lo soddisfa più, ecco come la racconta lui: «Il bagno apparve su una rivista.
Vinse non so più che premio ma la storia mi intrigava. Non mi sembrava conclusa. C'erano
altre cose da dire, e scrivendo Cattedrale (non ho mai scritto un libro così velocemente detto di passaggio, non ci ho messo più di diciotto mesi), mi accaddero delle cose. Il racconto
Cattedrale mi sembrava completamente diverso da tutto quanto avevo scritto prima. Mi
trovavo in un periodo generoso. Diedi un occhio a Il bagno e lo trovai come un dipinto
incompiuto. Così lo riscrissi. Ora è molto meglio».
Molto meglio. Ma cosa vuol dire che è molto meglio? Intanto è diverso. Diversa la
struttura, diversa la lingua, insomma sono cambiate la forma del racconto e le parole usate, e
per prima cosa, dura molto di più. Quindi adesso riprenderemo la lettura di questa storia da
dove finiva la prima volta, perché tra Il bagno e Una cosa piccola, ma buona (il titolo italiano,
nella traduzione di Riccardo Duranti, mentre in inglese suonava A small, good thing e venne
pubblicato nel 1983) ci sono parecchie differenze però una salta agli occhi, il secondo
racconto continua oltre il punto dove il precedente finiva.
Riprendiamo la lettura proprio dal punto dove finisce Il bagno.
(…)
«Scotty» disse l'uomo. «Si tratta di Scotty, già. Il problema riguarda proprio Scotty. Si
è dimenticata di Scotty?» disse la voce. Poi riagganciò.
Lei fece il numero dell' ospedale e domandò del terzo piano. Chiese informazioni suI
figlio all'infermiera che rispose al telefono. Poi di parlare con il marito. Si trattava, disse, di un'
emergenza.
Restò in attesa, avvolgendosi il filo del telefono attorno alle dita. Chiuse gli occhi e fu
assalita da un senso di nausea. Avrebbe dovuto costringersi a mangiare qualcosa. Slug venne
dalla veranda sul retro e si sdraiò ai suoi piedi. Agitò la coda. Lei gli tirò un po' un orecchio
mentre il cane le leccava le dita. Howard arrivò al telefono.
«Qualcuno ha appena chiamato qui» gli disse, tormentando il filo del telefono. «Ha
detto che si trattava di Scotty» gridò.
«Scotty sta bene» le disse Howard. «Cioè, dorme ancora. Non ci sono stati
cambiamenti. L'infermiera è già venuta due volte da quando te ne sei andata. O l'infermiera o
un dottore. È tutto a posto.»
«Ha chiamato un tizio. Ha detto che si trattava di Scotty» ripeté lei.
«Tesoro, cerca di riposare un po', ne hai bisogno. Dev'essere lo stesso a cui ho
risposto io. Non ci pensare. Torna qui appena ti sei riposata un po'. Così magari facciamo
colazione insieme.»
«Colazione» disse lei. «Non voglio fare colazione.»
«Sai che cosa voglio dire» disse lui. «Un succo di frutta, qualcosa. Non so. Non so
niente, Ann. Gesù, neanch'io ho fame. Ann, adesso è un po' difficile parlare. Sono qui in piedi
al bancone delle infermiere. Il dottor Francis ripasserà alle otto. Quando arriverà potrà dirci
qualcosa di più preciso. Me l'ha detto una delle infermiere. Non sapeva altro neanche lei.
Ann? Tesoro, magari per allora ne sapremo di più. Alle otto. Torna prima delle otto. Intanto,
io non mi muovo di qui e Scotty sta bene. Sta sempre uguale» aggiunse.
«Stavo bevendo una tazza di tè» disse lei «quando il telefono ha squillato. Hanno
detto che si trattava di Scotty. C'era come un ronzio in sottofondo. C'era un ronzio quando
hanno chiamato te, Howard?»
«Non me lo ricordo» rispose lui. «Magari è quello che guidava la macchina, magari è
uno psicopatico che ha sentito la storia di Scotty, vai a sapere. Ma ci sono qui io con lui.
Cerca di riposarti come volevi. Fatti un bagno e torna qui verso le sette, così parliamo insieme
con il dottore quando arriva. Andrà tutto a posto, tesoro. Ci sono qua io e ci sono un sacco di
medici e di infermiere. Dicono che le condizioni sono stazionarie.»
«Ho una paura da morire» disse lei.
Fece scorrere l'acqua, si spogliò e s'infilò nella vasca. Si lavò e si asciugò rapidamente,
senza concedersi il tempo di lavarsi i capelli. Si mise della biancheria intima pulita, calzoni di
lana e un maglione. Andò in soggiorno, dove il cane alzò lo sguardo su di lei e batté la coda
con forza sul pavimento. Fuori cominciava appena a fare giorno quando uscì per andare alla
macchina.
Entrò nel parcheggio dell' ospedale e trovò un posto vicino all'ingresso. Si sentiva in
qualche misterioso modo responsabile di quello che era successo al bambino. Lasciò che i
suoi pensieri si rivolgessero alla famiglia di colore. Ricordava il nome, Franklin, e il tavolo
coperto da involucri di hamburger, e la ragazza che la fissava fumando. «Non fare figli» disse
all'immagine della ragazza mentre entrava in ospedale, «Per l'amor di Dio, non farli.»
Tutti hanno un nome adesso, o quasi
Innanzi tutto, adesso quasi ogni personaggio ha un nome, fin dall'inizio del racconto
nella nuova versione, perfino il cane si chiama Slug. E i parenti di Nelson si chiamano Franklin
e in questa versione sono definiti direttamente la famiglia di colore. Il marito si chiama
Howard, il dottore Francis. L'unico che continua a non avere un nome e non ce l'avrà fino alla
fine è il pasticcere, il suo ruolo è forse troppo importante, viste le telefonate che annunciano
il destino di Scotty e la scena finale che vedremo tra poco, per essere un tipo comune con un
nome e un cognome. Ma il resto è tutto abbastanza definito, perfino la paura di soffrire per la
sorte di un figlio diventa esplicita nella battuta «Non fare figli» rivolta alla ragazza nera. In più
Ann stavolta fa il bagno. Le descrizioni sono più lunghe (anche se di poco, è pur sempre
Carver, eh!) e proprio un elemento descrittivo, le spalle curve di Howard, si trova al centro
della scena successiva. Di lui non solo ora sappiamo il nome, ma vediamo anche alcuni tratti
fisici. Il racconto perde forse la sua atmosfera di tensione sospesa, però ci offre dei particolari
sui quali la nostra immaginazione si appoggia per cercare di osservare mentalmente la scena
che l'autore ci mette di fronte.
Il racconto continua.
Salì al terzo piano insieme a due infermiere che dovevano prendere servizio. Era
mercoledì mattina, qualche minuto prima delle sette. Appena le porte dell' ascensore si
aprirono al terzo piano, l'altoparlante chiamò un certo dottor Madison. Ann uscì dietro le
infermiere, che voltarono dall'altra parte e ripresero la conversazione che avevano interrotto
quando era entrata in ascensore. Percorse tutto il corridoio fino alla piccola sala d'attesa dove
c'era la famiglia di colore. Adesso se n'erano andati, ma le poltroncine erano sparse in giro
come se gli occupanti fossero saltati in piedi un attimo prima. Il tavolo era ancora ingombro
degli stessi involucri e bicchieri, e il posacenere era pieno di cicche.
Si fermò alla postazione delle infermiere. Una di loro era dietro al bancone e si
spazzolava i capelli, sbadigliando.
«C'era un ragazzo nero in sala operatoria stanotte» disse Ann. «Si chiamava Franklin.
La famiglia era di là in sala d'attesa. Vorrei qualche informazione sulle sue condizioni.»
Un' altra infermiera, seduta a una scrivania dietro al bancone, alzò lo sguardo da una
tabella che stava consultando. Il telefono squillò e lei rispose, ma tenne gli occhi su Ann.
«Non ce l'ha fatta» disse l'infermiera al bancone. Tenne alzata la spazzola e guardò
fissa Ann. «Lei è un' amica di famiglia?»
«Ho conosciuto la famiglia ieri notte» rispose Ann. «Ho anch'io un figlio ricoverato qui.
Credo sia sotto shock. Non sappiamo con precisione cos'ha. Mi chiedevo solo come stava
Franklin, tutto qui. La ringrazio.» Proseguì lungo il corridoio. Le porte di un ascensore dello
stesso colore della parete si aprirono e un uomo calvo e magrissimo, con pantaloni bianchi e
scarpe di tela bianche, tirò fuori un carrello pesante. La notte precedente Ann non aveva
notato quelle porte. L'uomo spinse il carrello nel corridoio, si fermò accanto alla porta più
vicina all'ascensore e consultò una tabella. Poi si abbassò ed estrasse un vassoio. Bussò piano
alla porta ed entrò nella stanza. Appena passò accanto al carrello, Ann sentì lo sgradevole
odore di cibo caldo. Accelerò il passo, non guardò nessuna delle infermiere e aprì la porta
della stanza del figlio.
Howard era in piedi davanti alla finestra con le mani dietro la schiena. Appena lei
entrò, si voltò.
«Come sta?» chiese Ann. Andò dritta al letto. Lasciò cadere la borsetta sul pavimento
accanto al comodino. Le pareva di essere stata via un secolo. Sfiorò il viso del bambino.
«Howard?»
«Il dottor Francis è stato qui poco fa» disse Howard. Lei lo guardò meglio e le parve
che tenesse le spalle un po' curve.
«Credevo non sarebbe venuto fino alle otto» si affrettò a dire lei.
«Con lui c'era anche un altro dottore. Un neurologo.»
«Un neurologo» ripeté lei.
Howard annuì. In effetti teneva proprio le spalle curve, adesso ne era sicura. «Che
cosa hanno detto, Howard? Per l'amor di Dio, che cosa hanno detto? Che c'è?»
«Hanno detto che lo porteranno di sotto e gli faranno altre analisi, Ann. Pensano di
doverlo operare, tesoro. Tesoro, lo operano senz' altro. Non riescono a capire come mai non
si sveglia. C'è qualcosa di più, oltre allo shock e alla commozione cerebrale, adesso lo sanno.
È qualcosa nel cranio, la frattura, c'è qualcosa, qualcosa che ha a che fare con quello, così
credono. Per questo lo operano. Ho cercato di avvertirti, probabilmente eri già uscita.»
«Oddio!» disse lei. «Oh, Howard, ti prego» disse, afferrandolo per le braccia.
«Guarda!» disse Howard. «Scotty! Ann, guarda!»
La voltò verso il letto. Il bambino aveva aperto gli occhi, poi li aveva richiusi. Ora li
riaprì. Lo sguardo rimase fisso per qualche secondo, poi le pupille si mossero finché non si
posarono su Howard e su Ann, quindi ripresero a vagare.
«Scotty» disse la madre, avvicinandosi al letto.
«Ehi, Scott» disse il padre. «Ehi, figliolo.»
Si chinarono sul letto. Howard gli prese una mano e cominciò a carezzarla e a
stringerla tra le sue. Ann si piegò sul bambino e gli baciò ripetutamente la fronte.
Gli prese il viso tra le mani. «Scotty, tesoro, siamo noi, papà e mamma» disse.
«Scotty?»
Il bambino li guardò, ma senza dar segno di riconoscerli. Poi la bocca si spalancò, gli
occhi si chiusero con forza e lanciò un lungo ululato fino a che non ebbe più aria nei polmoni.
A quel punto il suo volto parve rilassarsi e ammorbidirsi. Le labbra gli si schiusero, e l'ultimo
respiro gli soffiò nella gola ed esalò delicatamente attraverso i denti serrati.
Morte del bambino che compiva gli anni
A questo punto lo scrittore è andato giù davvero duro. Ha utilizzato tutta la sua forza
espressiva per descriverci l'ultimo momento di Scotty. Mentre nella versione precedente la
sorte del bambino che compiva gli anni aleggiava, la paura restava sospesa e l'ultimo atto
non veniva scritto, qui invece la scena viene descritta in pieno, con particolari estremi e
umani, che risultano quasi melodrammatici.
Ma non è crudeltà, spettacolo macabro, ingenuità o violenza gratuita, a questo punto è
davvero necessario per la struttura del nuovo racconto che la morte avvenga e arrivi sulla
scena con tutta la sua forza orrenda. Scopriremo il perché tra un po': è l'unico modo per
superarla. Per elaborare questo lutto, anzi, per raccontare in una forma narrativa convincente
lo sforzo estremo di superare questo lutto, è necessario che il lutto avvenga e sia terribile.
Da questo momento in poi, Ann e Howard devono cercare di riprendersi, di
sopravvivere alla realtà drammatica nella quale sono stati scaraventati, mentre tutti sono
scossi, compresi i dottori che hanno fallito la loro missione, dandosi alibi più o meno scientifici
e stupidi, applicando con inutile zelo al corpo di Scotty anche l'ormai inutile tecnicismo di
un'autopsia.
I dottori la definirono un'occlusione nascosta e dissero che si verificava una volta su un
milione. Magari se la si fosse potuta scoprire prima e l'avessero operato subito, sarebbero
riusciti a salvarlo. Ma era più probabile di no. In ogni caso, che cosa avrebbero dovuto
cercare? Le lastre e le analisi non avevano rivelato niente.
Il dottor Francis era scosso. «Non riesco a dirvi come sto male. Mi dispiace talmente
tanto che non so come dirvelo» disse mentre li faceva accomodare nella saletta dei medici.
C'era un dottore sprofondato in una poltrona con le gambe appoggiate allo schienale di
un'altra sedia che guardava un programma del mattino alla televisione. Indossava uno di quei
completi verdi che si usano in sala parto, ampi calzoni verdi e camiciotto verde, e anche una
cuffia verde che gli copriva i capelli. Guardò Howard e Ann e poi lanciò un'occhiata al dottor
Francis. Si alzò immediatamente, spense il televisore e uscì dalla stanza. Il dottor Francis fece
accomodare Ann sul divano, si sedette accanto a lei e cominciò a parlarle a voce bassa,
consolatoria. A un certo punto si chinò su di lei e l'abbracciò. Lei sentiva il petto che si alzava
e si abbassava con regolarità contro la sua spalla.
Tenne gli occhi aperti e si fece abbracciare. Howard andò in bagno, ma lasciò la porta
aperta. Dopo un violento attacco di pianto, aprì il rubinetto e si sciacquò la faccia. Poi uscì e si
sedette accanto al tavolino su cui era posato un telefono. Lo fissò come per decidere quale
cosa fare per prima. Fece alcune telefonate. Dopo un po', anche il dottor Francis usò
l'apparecchio.
«C'è qualcos'altro che posso fare per il momento?» chiese loro.
Howard scosse la testa. Ann fissò il dottor Francis come se non riuscisse a
comprendere quello che diceva.
Il dottore li accompagnò fino all'ingresso principale dell' ospedale. La gente entrava e
usciva. Erano le undici del mattino. Ann si rese conto di muovere i piedi con lentezza, quasi
con riluttanza. Le pareva che il dottor Francis li stesse mandando via, mentre lei sentiva che
sarebbero dovuti rimanere, che la cosa più giusta da fare era rimanere. Fece vagare lo
sguardo nel parcheggio, poi si voltò ancora una volta verso l'ospedale. Cominciò a scuotere la
testa. «No, no» disse. «Non posso lasciarlo qui, no.» Si sentì pronunciare quelle parole e
pensò quanto fosse ingiusto che le sole parole che le uscivano erano quelle che le persone
dicono alla televisione quando sono colpite da perdite violente o improvvise. Voleva che le
sue parole fossero solo sue. «No» disse, e per qualche ragione le tornò in mente la testa della
signora nera che ciondolava sulla spalla. «No» ripeté.
«Ci sentiamo più tardi» il dottore stava dicendo a Howard. «Ci sono ancora alcune
cose che dobbiamo fare, cose che dobbiamo appurare per essere soddisfatti. Alcune cose che
richiedono una spiegazione.»
«Un' autopsia» disse Howard. Il dottor Francis annuì.
«Capisco» disse Howard. Poi aggiunse: «Oh Gesù. No, non capisco, dottore. Non ci
riesco, non ci riesco. Proprio non ci riesco».
Il dottor Francis mise un braccio sulle spalle di Howard. «Mi dispiace. Dio, quanto mi
dispiace.» Tolse il braccio dalle sue spalle e gli tese la mano. Howard la guardò e poi la
strinse. Il dottor Francis abbracciò di nuovo Ann. Pareva pieno di una bontà che lei non
capiva. Gli appoggiò la testa sulla spalla, ma tenne gli occhi aperti. Continuava a fissare
l'ospedale. Anche quando uscirono in macchina dal parcheggio, si voltò a guardarlo.
A casa, Ann si sedette sul divano con le mani sprofondate nelle tasche del cappotto.
Howard chiuse la porta della stanza del bambino. Mise su il caffè e poi trovò una scatola
vuota. Aveva pensato di raccogliere un po' delle cose del bambino che erano sparse per il
salotto. Invece si sedette accanto a lei sul divano, spinse la scatola da una parte e rimase lì,
chinato in avanti, con le braccia tra le ginocchia. Cominciò a piangere.
Lei gli fece appoggiare la testa sul proprio grembo e gli massaggiò la spalla. «Se n'è
andato» disse. Continuò a massaggiargli la spalla. Tra un singhiozzo e l'altro del marito, sentì
la caffettiera in cucina che fischiava. «Su, su» gli disse con tenerezza. «Howard, se n'è
andato. Se n'è andato e ormai dobbiamo abituarci all'idea. Al fatto che siamo rimasti soli.»
Dopo un po', Howard si alzò e cominciò a vagare per la stanza con la scatola, senza
metterci dentro niente, ma radunando un po' di cose sul pavimento vicino al divano. Lei
continuò a restare seduta con le mani in tasca. Howard mise giù la scatola e portò il caffè in
soggiorno. Più tardi Ann telefonò ai parenti. Quando le persone rispondevano Ann proferiva
poche parole e piangeva per un momento. Poi, più calma, con voce misurata, spiegava quello
che era successo e li informava dei preparativi per il funerale.
Howard portò la scatola in garage, dove vide la bici del figlio. Lasciò cadere la scatola e
si sedette a terra accanto alla bici. L'abbracciò goffamente in modo da stringersela al petto.
La tenne così, con la gomma del pedale che gli spingeva Contro il petto. Fece fare un giro alla
ruota.
Ann riattaccò il telefono dopo aver parlato con sua sorella. Stava consultando la
rubrica per fare un altro numero, quando il telefono suonò. Rispose al primo squillo.
«Pronto?» disse e sentì qualcosa, una specie di ronzio in sottofondo. «Pronto!» ripeté.
«Per l'amor di Dio» disse. «Chi è? Che cosa vuole?»
«Il vostro Scotty, ce l'ho qui pronto per voi» disse la voce maschile. «Ve ne siete
dimenticati?»
«Brutto bastardo!» Ann gridò nella cornetta. «Come può fare una cosa così cattiva,
brutto figlio di puttana?»
«Scotty» ripeté l'uomo. «Vi siete dimenticati di Scotty?» Poi riagganciò. Howard la
sentì gridare e quando rientrò di corsa: la trovò che piangeva Con la testa sulle braccia,
appoggiata al tavolo. Raccolse la cornetta e sentì solo il suonò di libero.
La morte non è la fine
Una cosa è chiara, comunque. La morte di Scotty non è la fine. Non è così che lo
scrittore vuole concludere la seconda versione del suo racconto, lui vuole dirci qualcos'altro, e
per farlo cambia proprio la forma della sua narrazione. Se prima al centro della vicenda c'era
il ritorno a casa del padre e della madre a casa che ricevevano la telefonata del pasticcere,
adesso la conclusione che ci si presenta di fronte muta non solo il senso complessivo del
racconto, ma anche la sua struttura.
Il bagno cominciava con l'incidente di Scotty, continuava con la veglia in ospedale e la
telefonata ricevuta dal padre tornato a casa per il bagno, quindi finiva con la telefonata del
pasticcere alla madre che era tornata a casa per il suo bagno.
Una cosa piccola, ma buona comincia con l'investimento, dilata le scene in ospedale,
poi ha al centro la morte di Scotty e si conclude con un finale lungo e sorprendente, che
comincia con un'altra telefonata che arriva a Howard e Ann a notte fonda. Leggiamolo.
Molto più tardi, poco prima di mezzanotte, dopo che avevano sistemato un sacco di
cose, il telefono suonò di nuovo.
«Rispondi tu» disse lei. «Howard, è ancora quell'uomo, me lo sento.» Erano seduti al
tavolo di cucina davanti a una tazza di caffè. Howard aveva anche un bicchierino di whisky,
accanto alla tazza. Rispose al terzo squillo.
«Pronto» disse, «chi parla? Pronto! Pronto!» La linea cadde. «Ha riagganciato» disse
Howard. «Chiunque fosse.»
«Era lui» disse lei. «Quel bastardo. Vorrei tanto ammazzarlo» disse. «Vorrei sparargli e
vederlo scalciare» disse.
«Mio Dio, Ann!» disse lui.
«Sei riuscito a sentire qualcosa?» gli chiese lei. «In sottofondo? Un rumore, come di
motore, qualcosa che ronza?»
«No, niente. Niente del genere» rispose lui. «Non c'è stato tempo. Mi pare d'aver
sentito della musica, una radio. Sì, c'era una radio accesa, è l'unica cosa che posso dire.
Quant'è vero Dio, non so proprio che cosa sta succedendo.»
Lei scosse la testa. «Se solo potessi, se potessi mettergli le mani addosso.» A quel
punto le venne in mente. Capì chi era. Scotty, la torta, il numero di telefono. Spinse indietro
la sedia e si alzò dal tavolo.
«Portami al centro commerciale» disse. «Howard.»
«Ma che dici?»
«Al centro commerciale. Ho capito chi è che chiama. So chi è. È il pasticcere. Quel
figlio di puttana del pasticcere, Howard. Gli avevo ordinato una torta per il compleanno di
Scotty. È lui che chiama. È lui che ha il nostro numero e continua a chiamarci. Per darci
fastidio per via della torta. Il pasticcere, quel bastardo.»
Andarono in macchina al centro commerciale. Il cielo era sereno e si vedevano le
stelle. Faceva freddo e accesero il riscaldamento. Parcheggiarono davanti alla pasticceria.
Negozi e grandi magazzini erano tutti chiusi, ma c'erano delle macchine ferme all' altra
estremità del parcheggio, davanti al cinema. Le vetrine della pasticceria erano buie, ma
scrutando attraverso i vetri videro un chiarore provenire dal retrobottega e di tanto in tanto
un omone in grembiule che entrava e usciva da un riquadro di luce bianca e intensa.
Attraverso i vetri riuscirono anche a intravedere le sagome degli espositori e alcuni tavolini
con le sedie. Ann provò ad aprire la porta. Bussò ai vetri. Ma se il pasticcere li udì, non lo
diede a vedere. Non si girò verso di loro.
Fecero il giro della pasticceria e parcheggiarono sul retro. Scesero dall'auto. C'era una
finestra illuminata, ma era troppo alta perché potessero guardarci dentro. Un cartello accanto
alla porta del retrobottega diceva: PASTICCERIA LA DISPENSA, ORDINAZIONI SPECIALI. Ann
riusciva a sentire una vaga eco di musica e qualcosa che cigolava - lo sportello di un forno
che si apriva? - provenire dall'interno. Bussò alla porta e aspettò. Poi bussò di nuovo, più
forte. Il volume della radio si abbassò e si sentì un cigolio, il rumore inequivocabile di un
cassetto che veniva aperto e richiuso.
Qualcuno fece scattare la serratura e aprì la porta. Il pasticcere si stagliò nella luce e li
scrutò. «Sono chiuso per i clienti» disse. «Che cosa volete a quest' ora? È mezzanotte. Siete
ubriachi o cosa?»
Ann fece un passo avanti per mettersi nella luce che proveniva dalla porta aperta. Il
pasticcere sbatté le palpebre pesanti appena la riconobbe. «Ah, è lei» disse.
«Sono io» disse lei. «La mamma di Scotty. E questo è il papà di Scotty. Vorremmo
entrare un momento.»
Il pasticcere disse: «Adesso ho da fare. Devo lavorare».
Ma lei oltrepassò la soglia lo stesso. Howard la segui. Il pasticcere indietreggiò. «C'è
un buon odore di forno qui dentro. Senti quest'odore di forno, Howard?»
«Che cosa vuole?» chiese il pasticcere. «Magari vuole la sua torta? Ecco, ha finalmente
deciso che vuole la torta. Aveva ordinato una torta, vero?»
«Per essere un pasticcere, è perspicace» disse Ann. «Howard, questo è il tizio che ci
ha fatto quelle telefonate.» Serrò i pugni. Lo fissò furibonda. Si sentiva qualcosa bruciare in
fondo all'anima, una rabbia che la faceva sentire più grande di quello che era, più grande di
quei due uomini.
«Un momento, un momento» disse il pasticcere. «Vuole ritirare la sua torta di tre
giorni fa? È questo che vuole? Guardi, signora, non ho alcuna voglia di litigare con lei. Eccola
laggiù, la sua torta, eccola là, è diventata vecchia. Gliela do per la metà del prezzo che le
avevo chiesto. Non la vuole? Se la prenda. lo non ci faccio niente, nessuno ci fa più niente,
ormai. Mi è costato tempo e denaro farla. Se la vuole, va bene, se non la vuole, va bene lo
stesso. Ora devo tornare al lavoro.»
Li guardò e si passò la lingua dietro i denti.
«Per fare altre torte» disse Ann. Sapeva che ormai l'aveva sotto controllo, quello che
cresceva in lei. Era calma.
«Signora, io lavoro sedici ore al giorno in questo posto per guadagnarmi da vivere»
disse il pasticcere.
Si pulì le mani sul grembiule. «Lavoro qui dentro giorno e notte per far quadrare il
bilancio.» L'espressione che attraversò il volto di Ann fece indietreggiare il pasticcere e gli
fece dire: «Non mi crei problemi, adesso». Allungò una mano sul bancone, prese un
mattarello nella destra e cominciò a picchiarlo sul palmo dell' altra mano. «Insomma, la torta
la vuole o no? Devo rimettermi a lavorare. I pasticceri lavorano di notte» ripeté. Aveva gli
occhi piccoli, cattivi, pensò Ann, quasi si perdevano nella carne ispida delle guance. Aveva il
collo spesso e grasso.
«Lo so che i pasticceri lavorano di notte» disse Ann. «E fanno anche telefonate, di
notte. Brutto bastardo!» aggiunse.
Il pasticcere continuò a picchiare il mattarello sul palmo della mano. Lanciò uno
sguardo a Howard.
«Attento, attento» gli disse.
«Mio figlio è morto» disse lei in tono freddo, definitivo. «È stato investito da una
macchina lunedì mattina. Siamo stati al suo capezzale finché non è morto. Ma, naturalmente,
non ci si può aspettare che lei lo sapesse, vero? I pasticceri non possono sapere tutto - vero,
signor pasticcere? Però lui è morto. È morto, brutto bastardo!» Con la stessa rapidità con cui
era cresciuta, la rabbia scemò e lasciò spazio a qualcos' altro, un vertiginoso senso di nausea.
Si appoggiò al tavolo in legno coperto di farina, si coprì il volto con le mani e cominciò a
piangere, con le spalle che si alzavano e si abbassavano. «Non è giusto» diceva. «No, non è
giusto.»
Howard le appoggiò una mano sulla schiena e guardò il pasticcere: «Si vergogni» gli
disse. «Si vergogni.»
Il pasticcere posò il mattarello sul bancone. Si slacciò il grembiule e gettò anche quello
sul bancone. Li guardò e poi scosse lentamente la testa. Tirò fuori una sedia da sotto il
tavolinetto dove teneva, tra carte e ricevute, una calcolatrice e un elenco del telefono. «La
prego, si sieda» disse. «Lasci che prenda una sedia anche per lei» disse a Howard. «Ora si
sieda, prego.» li pasticcere andò in negozio e tornò con due piccole sedie di ferro battuto. «Vi
prego, sedetevi.»
Ann si asciugò gli occhi e guardò il pasticcere. «Volevo ucciderla» disse. «La volevo
morto.»
Il pasticcere aveva sgomberato uno spazio per loro sul tavolo. Spostò la calcolatrice da
una parte, insieme ai blocchetti per gli appunti e le ricevute. Spinse l'elenco del telefono e lo
fece cadere sul pavimento con un tonfo. Howard e Ann si sedettero e avvicinarono le sedie al
tavolo. Anche il pasticcere si sedette.
«Permettetemi di dirvi quanto mi dispiace» disse, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Dio
solo sa quanto mi dispiace. Sentite. lo sono solo un pasticcere. Non pretendo di essere altro.
Magari una volta, anni fa, forse, ero una persona diversa. Me ne sono dimenticato, non ne
sono sicuro. Comunque non lo sono più, se mai lo sono stato. Ora sono solo un pasticcere.
Questo non mi scusa per quello che ho fatto, lo so. Ma mi dispiace veramente. Mi dispiace
per vostro figlio e mi dispiace per la parte che ho avuto in tutto questo» disse il pasticcere.
Allargò le mani sul tavolo e le girò per mostrare i palmi. «lo figli non ne ho, così posso solo
immaginare quello che state passando. Tutto quello che posso dirvi ora è che mi dispiace.
Perdonatemi, se potete» disse. «Non sono un uomo cattivo, almeno non credo. Non sono
cattivo, come ha detto al telefono. Dovete cercare di capire, il problema è che non so più
come comportarmi, a quanto pare. Vi prego» disse l'uomo, «permettetemi di chiedervi se ve
la sentite in cuor vostro di perdonarmi.»
Nel retrobottega faceva caldo. Howard si alzò dal tavolo e si tolse il cappotto. Poi aiutò
Ann a togliersi il suo. Il pasticcere li guardò per un attimo, poi annuì e si alzò anche lui. Andò
al forno e spinse alcuni interruttori. Scovò un paio di tazze e le riempì di caffè da una
caffettiera elettrica. Mise un cartone di panna e una ciotola di zucchero sul tavolo.
«Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa» disse il pasticcere. «Spero
vogliate assaggiare alcune delle mie paste calde. Dovete mangiare per andare avanti.
Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo.»
Servì loro delle paste alla cannella appena sfornate, con la glassa ancora morbida. Mise
del burro sul tavolo e dei coltelli per spalmarlo. Poi anche il pasticcere si sedette al tavolo.
Aspettò. Aspettò finché non presero una pasta dal vassoio e cominciarono a mangiare: «Fa
bene mangiare qualcosa» disse, osservandoli. «Ce ne sono altre. Mangiatene. Mangiate tutte
quelle che volete. Qui ci sono tutte le paste del mondo.»
Mangiarono le paste e bevvero il caffè. Ann sentì all'improvviso una gran fame e le
paste erano calde e dolci. Ne mangiò tre, cosa che fece contento il pasticcere. Poi lui si mise
a parlare. Loro lo ascoltavano con attenzione. Anche se erano esausti e angosciati,
ascoltarono quello che il pasticcere aveva da dire. Annuirono quando l'uomo cominciò a
parlare della solitudine e del senso di dubbio e limitatezza che l'aveva assalito con la
mezz'età. Disse che cosa si provava a non avere figli per tutti quegli anni. Giorno dopo giorno
a riempire forni senza posa, e poi ogni volta a svuotarli. Le ordinazioni per le feste e gli
anniversari su cui aveva lavorato. Le dita sempre incrostate di glassa. Le statuine degli sposi
che aveva infilato sulle torte. A centinaia, anzi a migliaia, ormai. Compleanni. Immaginate
tutte quelle candeline accese. Lui faceva un mestiere di cui c'era bisogno. Era un pasticcere.
Era felice di non essere un fioraio. Dar da mangiare alla gente era meglio. C'era sempre un
odore più buono di quello dei fiori.
«Sentite» disse il pasticcere, spezzando una pagnotta di pane nero. «È un pane
pesante, ma nutriente.» Ann e Howard lo odorarono, poi lui glielo fece assaggiare. Sapeva di
melassa e di frumento integrale. Continuarono ad ascoltarlo. Mangiarono tutto quello che
poterono. Mandarono giù quel pane scuro. Sembrava giorno sotto le luci fluorescenti.
Rimasero lì a parlare fino all' alba, quando dalle vetrine cominciò a entrare la luce alta e
pallida del primo sole, e a loro non venne in mente di andarsene.
Ecco, ora è davvero finito. Il racconto è cambiato totalmente. La prima versione
lasciava del tutto aperta la ferita spaventosa della perdita di un figlio. La seconda ci mostra il
tentativo di cominciare a elaborare il lutto di questa perdita e ci dice che qualunque cosa può
andare bene per riprendere a vivere, anche un pasticcere chiacchierone con delle assurde
idee sul proprio lavoro e la propria vita, un povero uomo solo che si è convinto che fare il
fioraio sarebbe peggio e telefona di notte ai clienti che non vengono a ritirare le torte. Uno
che racconta la tristezza di una vita senza figli, quasi a dire che bisogna rischiare la sofferenza
e il dolore della perdita per raggiungere un'esistenza piena. Ecco, perfino uno come lui può
dire la frase essenziale di questa seconda versione, quella che dà il titolo al racconto:
Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo.
Carver lo sapeva che era questo che voleva narrare stavolta. Lo ha espresso
chiaramente in un'intervista del 1987 alla rivista francese «La quinzaine littéraire», sentite
cosa dice, partendo da un altro suo racconto, Cattedrale: «Beh, il personaggio è pieno di
pregiudizi sui ciechi. Cambia, cresce. Non ho mai scritto un racconto così. È il primo che ho
scritto dopo Di cosa parliamo quando parliamo d'amore e avevo lasciato passare sei mesi.
Poi, quando lo scrissi, sentii che era davvero diverso. Sentii un vero impeto scrivendolo, e non
capita per tutti i racconti. Ma sentii d'aver attinto da qualcosa. Il tutto era molto stimolante. Il
personaggio cambia. Si mette nella situazione del cieco. Il racconto afferma qualcosa. È una
storia positiva e mi piace proprio per questo. La gente dice che è una metafora per
qualcos'altro, per l'arte, per il fare… ma, no, io pensavo al contatto fisico della mano del cieco
con la sua. È del tutto immaginario. Non mi è mai successo niente del genere. Beh, è stata
una scoperta straordinaria. Mi accadde lo stesso con Una cosa piccola, ma buona. I genitori
sono dal pasticcere. Non vorrei dire che il racconto eleva l'anima, ma anche se lo facesse,
finisce con una nota positiva. La coppia è in grado di accettare la morte del figlio. Ciò è
positivo. C'è una comunione di destini. Le due storie finiscono con una nota positiva e questo
mi piace moltissimo. Sarei felicissimo se queste due storie durassero nel tempo».
Ecco, lo sguardo spietato sul mondo si è trasformato in una sorta di messaggio
confortante. Noi lettori siamo liberi di scegliere quale dei due racconti gradiamo di più e
magari possiamo anche dire che in tutti e due i racconti si sente la mancanza di qualcosa, ma
la lezione di queste due versioni della storia è chiara. Per comunicare un'idea in narrativa con
efficacia, le parole e la forma di un racconto devono diventare un organismo unico, adatto a
ciò che deve raccontare.
Lo stile asciutto, quasi impersonale, del primo racconto è perfetto per restituire il senso
di una perdita irreparabile, da tragedia greca, così come la stringatezza e la struttura che si
conclude sospesa nell'aria. Ma per narrare la morte di un figlio e il faticoso tornare a vivere di
due individui normali, due Ann e Howard come tutti, c'è bisogno di umanità, di spalle curve,
di pane appena sfornato e di uno scrittore generoso anche a rischio di sembrare retorico.
Esercizio 1
Questo esercizio riguarda la capacità di controllare e variare la struttura di un racconto e le
parole che si usano per scriverlo. Inoltre da qui dovrebbe partire un nuovo racconto.
Si tratta di cominciare a riflettere su un'idea di storia tra le tante che sicuramente
avete in mente (se non ne avete vi consiglio di consultare il capitolo su come si trovano le
idee nella Palestra dello scrittore). Una volta che l'avete ben considerata, pensate in che
modo secondo voi dovrebbe svilupparsi e finire.
Poi ipotizzate due versioni, una con un finale aperto e l'altra con un finale chiuso. Se
non vi viene il finale, pensate almeno a due possibili sviluppi, uno più breve e uno più lungo.
Quindi cominciate a scrivere due incipit di un paio di pagine ciascuno, uno utilizzando
una scrittura con le caratteristiche di quella che Carver usa nel racconto Il bagno, l'altro più
simile a Una cosa piccola, ma buona. Attenzione, non dovete copiare o scrivere come Carver,
dovete essere voi con le vostre idee e il vostro stile a scrivere in modo più o meno descrittivo,
con più o meno particolari, usando nomi e cognomi oppure no, insomma in modo più o meno
generoso, per usare un termine dello scrittore americano.
A questo punto fermatevi e leggete i due incipit. Quale vi piace di più? Quale
corrisponde meglio al vostro stato d'animo attuale? Scelto? Bene, continuate solo quello che
vi sembra più vicino al vostro modo di scrivere e a quello che volete dire come autori. L'altro
però non buttatelo, potrebbe arrivare il momento in cui il vostro vecchio modo di scrivere non
vi soddisferà più e avrete bisogno di una scrittura diversa. È successo pure a Carver.