La bellezza della fede – Corso di aggiornamento

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La bellezza della fede – Corso di aggiornamento
La bellezza della fede – Corso di aggiornamento
«Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo»:
sapienza, spiritualità e bellezza
nell’esperienza di un’iconografa
Roberta Boesso
PUL, 9 gennaio 2008
Ho sempre avuto fin da piccola una grande passione per l’arte, il disegno e la pittura tanto che, dopo la
maturità classica, ho deciso di dedicarmi al restauro dei dipinti. Ho frequentato l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma e per una decina di anni ho lavorato in questo settore. È stata un’esperienza importante che
mi ha consentito, oltre che di vivere l’emozione di intervenire su capolavori del nostro patrimonio artistico,
di conoscere le tecniche pittoriche antiche, che mi sono poi tornate utili nella mia attività di iconografa.
Nel 1990 ho frequentato un primo corso d’iconografia grazie al quale ho approfondito l’arte dell’icona
che da diverso tempo esercitava su di me un certo fascino, oserei dire un richiamo spirituale. Grazie a questa
e successive esperienze capii con chiarezza che il Signore mi chiamava a testimoniarlo attraverso l’arte sacra.
Inizialmente dell’iconografia conobbi quasi esclusivamente la sua espressione russa, e per diverso tempo
lavorai in questo stile. Fu poi uno dei miei maestri, un prete ortodosso russo padre Andrej Davydov, ad aprirmi gli orizzonti comunicandomi la sua personale ricerca artistica che, dalla Scuola di Mosca, risaliva a
ritroso nei secoli fino ad attingere all’immenso patrimonio bizantino. Fu lui che mi parlò della stupenda collezione di icone di S. Caterina del Sinai, delle miniature, dello stile italico prerinascimentale ancora legato
alla maniera greca. Capii allora che nel mio percorso di artista cristiana dovevo attingere a quel patrimonio
artistico della Chiesa del primo millennio, all’origine di tutta l’arte cristiana sia orientale che occidentale.
Da anni dipingo nel rispetto di questa tradizione che offre canoni sempre validi di bellezza ed eleganza
formale, di perfetta simbiosi con l’architettura, di armonia con la liturgia, di sobrietà e profondità spirituale,
di fedeltà alla Sacra Scrittura e alla tradizione della Chiesa.
Vivo l’arte sacra come strumento efficace in grado di rendere i nostri occhi più limpidi e capaci di cogliere l’impronta divina in ogni sua espressione. Tutto è mezzo di un incontro con Dio, persino i materiali
che l’artista usa per realizzare le sue opere.
Spesso il nostro modo di vedere ha perso la capacità di cogliere lo straordinario racchiuso nei piccoli, ma
preziosi avvenimenti del quotidiano. Siamo pronti a sottolineare la fatica, l’amarezza, le frustrazioni del vivere, dimenticando la presenza trasformante di Cristo. L’artista, come tutti gli uomini, è chiamato con il suo
lavoro a collaborare per la realizzazione del regno di Dio, annunciando che il buio non può nascondere la luce che entra nel nostro oggi carica dell’amore e della misericordia divina.
Un’opera d’arte oltre che suscitare in noi sentimenti di ammirazione per il bello che esprime, deve farci
penetrare nel mistero dell’Incarnazione per riscoprire e gustare la gioia di Gesù fatto fratello, compagno di
viaggio.
L’artista è come un profeta che con le sue opere loda il Signore, il suo creatore, testimoniandone al mondo l’infinito amore.
S. Agostino a riguardo ha formulato questa bellissima preghiera di gratitudine: «Sei stato tu a dare
all’artista il corpo, l’anima che governa le membra, la materia con cui fabbrica gli oggetti, l’intelligenza con
cui apprende l’arte e vede dentro di sé come operare, i sensi corporali per mezzo dei quali trasferisce l’opera
dallo spirito nella materia, e riferisce poi allo spirito quanto ha operato così che questi possa riflettere sulla
verità che è in lui stesso e sapere se ha operato bene. Tutte queste cose ti lodano come creatore di tutto» (S.
AGOSTINO, Confessioni, XI,4).
Dell’iconografia mi sono innamorata del suo linguaggio simbolico: il simbolo rispetta in pieno la ricchezza dei significati perché segno visibile, immediatamente percepibile della realtà che indica. È il linguaggio scelto da Gesù che per farsi meglio capire dalla gente parlava in parabole.
Ho potuto constatare in questi 17 anni che dedico alla pittura di icone, come tre siano fondamentalmente
le caratteristiche che fanno di quest’arte uno strumento efficace di evangelizzazione.
L’icona è:
• arte ecumenica. Fino a Giotto, per dieci secoli, l’arte cristiana è stata unica in Oriente e in Occidente, perché una era la Chiesa (il dogma dell’Incarnazione per es. è stato rappresentato nel rispetto
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degli stessi canoni). Avvicinarsi all’icona significa quindi risalire alle radici della nostra stessa tradizione;
• luogo teologico. La venerazione delle icone si fonda nella presenza di chi vi è rappresentato,
presenza che viene conferita dalla Chiesa in forza del rito di benedizione con cui l’icona diventa un
sacramentale partecipe della sostanza divina, luogo in cui Dio è presente e come tale santifica
l’ambiente in cui si trova. Questo particolare carisma affidatole dalla Chiesa e confermato dai Concili dei primi secoli del Cristianesimo, distingue l’icona da qualsiasi altra raffigurazione religiosa.
Come affermava San Teodoro Studita (monaco cristiano vissuto nell’VIII sec. a Costantinopoli),
«Dio è presente nell’icona come il sigillo nella sua impronta». La cera riceve l’impronta del sigillo,
ma non è il sigillo; tuttavia c’è un rapporto di somiglianza. Nell’icona Dio è presente nella somiglianza che egli ha concesso all’iconografo di rappresentare. L’iconografo anche se laico è, come
missionario, chiamato a lavorare per l’edificazione della Chiesa, rappresentando ciò che la Chiesa
crede nel rispetto dei canoni fissati dalla tradizione. L’icona come la Parola ci insegna la verità cristiana, è una teologia in immagini: «Ciò che il Vangelo ci dice con la Parola, l’icona ce lo annuncia
con i colori e ce lo rende presente» (II Concilio di Nicea). Non dobbiamo dimenticare che la conoscenza è effetto dell’ascolto e dello sguardo: in questa compartecipazione dei sensi e dello spirito,
l’icona conduce la Parola attraverso gli occhi nel cuore per parlare allo spirito. È dunque luogo di
una presenza, spazio sacro in cui l’immagine, rivestendo la Parola di bellezza, la compie e la rende
visione. Il luogo di questa presenza non è né la tavola di legno né il colore, ma la somiglianza al
prototipo che deve essere riconosciuta dalla Chiesa;
• esperienza dello spirito. Non è sufficiente la tecnica, la perfezione estetica o la preziosità dei
materiali che si utilizzano: può essere di grande o scarsa maestria, ma ciò che la rende icona è la
percezione autentica di un’autentica esperienza spirituale vissuta dall’iconografo. Se ciò che è semplice ed essenziale è più vicino a Dio, allora l’icona, priva di elementi inutili e fuorvianti, è
un’espressione artistica chiara e comprensibile nei suoi contenuti, adatta a glorificare Dio. Diversamente dall’artista che con libertà creativa segue la sua ispirazione, l’iconografo è chiamato a operare all’interno di una tradizione della Chiesa rispettando quei canoni riconosciuti dalla Chiesa stessa
per non incorrere in errori teologici; non esprime emozioni personali, né firma la sua opera perché
sa di essere solamente uno strumento dello Spirito. L’icona quindi non nasce nel laboratorio
dell’iconografo, ma nella profondità del suo cuore, là dove egli fa esperienza di Dio e la sua finalità
sta nel comunicare questa esperienza spirituale da cui è nata. Consapevole della grande responsabilità che si assume accostandosi a rappresentare il volto di Dio, l’iconografo ha il dovere di migliorare incessantemente la sua tecnica e sa benissimo che non è lui a rivelare la divinità, ma che è la divinità stessa che nell’icona si rivela alla coscienza di chi prega con essa evocandone l’archetipo.
L’icona dunque è comunicazione di un’esperienza profonda di Dio, testimonianza in grado di suscitare esperienze spirituali anche nei fedeli che con essa pregano. È questo il motivo per cui, pur essendo numerose le icone che si ispirano a uno stesso modello, non possono esistere tante icone “vere” identiche: ognuna è sempre originale, unica, perché unica e irripetibile è l’esperienza da cui nasce.
L’icona oggi è di moda e colpisce il fatto che lo sia tanto per i credenti che per i non credenti. Si
può essere attratti dal fascino dell’ortodossia, da un certo gusto per l’esotico, da un rinnovato spirito
ecumenico. Suscita un’attrazione profonda spesso indefinibile sopratutto tra i giovani, forse perché
in questa nostra civiltà dell’immagine, mentre si ricercano sensazioni sempre più forti attraverso lo
sguardo e si ricevono immagini spesso sempre più violente e artefatte, i volti delle icone, così veri,
offrono un incontro con le profondità più autentiche dell’essere e, in modo del tutto inconscio, con
la realtà soprannaturale della fede. Considero le icone frammenti di luce all’interno di un processo
iconoclastico che, frutto di una incredulità diffusa, sta emergendo in maniera sempre più sistematica: messo da parte Dio, l’uomo rifiutando l’idea di un riflesso divino in se stesso e soprattutto non
credendo più in Cristo come figlio di Dio, perde la sua vera identità. Ne consegue che le opere delle
sue mani rischiano di essere immagini vuote che testimoniano un senso di solitudine e di alienazione profonda.
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Inevitabilmente la mia sensibilità di artista cristiana mi porta ogni giorno a osservare con particolare attenzione le immagini del quotidiano che ci circonda e mi rendo sempre più conto
dell’urgenza e dell’enorme responsabilità di ogni cristiano di essere testimone e custode della bellezza e della verità: la città sta diventando sempre più il “libro sacro” dell’uomo moderno, un testo
seducente e piacevole attraverso il quale vengono forniti modelli di comportamento e di pensiero
preconfezionati. Siamo bombardati da modelli che gratificano e venerano l’uomo: il corpo è dappertutto idolatrato. Privilegiando la parte di sé più superficiale e sensuale, si tende a idealizzare tutto
ciò che “appare” per farne una ragione di vita, il senso del proprio esistere.
Ne deriva un impoverimento dello spirito e i punti di riferimento sono tutti esterni all’uomo: il
naturalismo esalta e amplifica le esigenze del corpo, il razionalismo fa della scienza la nuova religione, il materialismo offre come scopo della vita il benessere. Questo disagio spirituale si legge sul
volto dell’uomo contemporaneo che, intimamente solo e spesso chiuso in se stesso, cerca in tutti i
modi di esorcizzare la sua paura della sofferenza e della morte. Si riscontra sempre più frequentemente una sorta di difficoltà, di fronte a immagini pubblicitarie, a distinguere i volti femminili da
quelli maschili a causa di una politica volta a creare ambiguità a discapito dell’identità.
Anche l’arte spesso, in nome di una presunta originalità creativa, offende e bistratta il volto e,
facendone una caricatura, riflette un mondo privo di certezze in cui l’uomo rischia di compromettere la sua integrità personale.
Da qui l’urgenza di riscoprire e recuperare la dimensione di figliolanza con Dio, affinché la vita
riacquisti il suo senso originario: «che cos’è l’uomo perché te ne ricordi… di gloria e di onore lo
hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi…»
(Sal 8).
Ognuno di noi è immagine di Dio nel mondo e, senza sostituirlo, dobbiamo rappresentarlo come
ambasciatori d’amore e di vita, come custodi di bellezza e di armonia per realizzare noi stessi e il
mondo. I talenti che il Signore ci ha dato dobbiamo metterli in opera per l’edificazione del suo regno, per testimoniare la verità e la bellezza di Dio e della sua parola.
“La bellezza salverà il mondo”, ha scritto Dostoevskij, ed è vero, perché l’uomo è stato creato
per la bellezza. L’Oriente ha sempre posseduto la coscienza di un ruolo fondamentale della Bellezza
nel rapporto dell’uomo con la divinità: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo» canta il salmo 45.
Se teologicamente ‘bello’ è sinonimo di buono, utile, sano, santo ed è l’attributo per eccellenza
di Dio, allora i frammenti di bellezza che vediamo in questo mondo sono la Sua bellezza tra gli uomini. Allo stesso modo le opere delle nostre mani: se offerte a Dio, saranno rivestite della Sua bellezza e di conseguenza capaci di testimoniarlo.
Così è per l’arte sacra la cui bellezza è tutta interiore in quanto dimora in Dio: i volti nelle icone
sono misteriosamente belli perché trasfigurati dallo Spirito. Nel vuoto di questo nostro tempo
l’icona si offre come un’ancora di salvezza che, toccando la realtà più viva e più vera dell’uomo,
l’attira a sua insaputa oltre i confini dell’umano per sperimentare l’infinita dolcezza dell’incontro
con il Signore.
L’uomo è sempre stato alla ricerca della visione beatifica di Dio per incontrarlo, conoscerlo e
contemplare il suo volto essendo stato da Lui creato a sua immagine e somiglianza. E Dio incarnandosi rivela in Gesù il suo volto d’amore, offrendoci la possibilità di ascoltare la sua Parola, toccare
il suo corpo, riconoscerlo tra la folla, in noi e negli altri.
L’incarnazione è fondamento di tutta l’iconografia cristiana, in cui la bellezza fisica di Gesù è
simbolo e irraggiamento della bellezza spirituale che si riflette sul volto di ogni uomo.
Essendo lo sguardo lo specchio dell’anima, l’artista cristiano non può adattarsi a forme astratte
nel dipingere un volto, ma lo deve sempre valorizzare perché il Cristianesimo è la religione dei volti. Ogni icona, come affermano i Padri della Chiesa, è sempre icona di Cristo anche quando rappresenta la Madre di Dio o i Santi: è sempre Cristo che si rivela perché è con Cristo e per Cristo che essi sono vissuti ed è in Cristo che continuano a vivere. Sono l’immagine di una umanità purificata e
trasfigurata dalla Grazia.
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CARATTERISTICHE GENERALI DELL’ICONA
Il volto è il luogo della Presenza dello Spirito di Dio (foto 1), espressione della vita interiore;
tutto ciò che non è volto è considerato secondario e detto ‘riempitivo’.
L’attenzione è attratta dallo sguardo, dai grandi occhi che irradiano il fascino misterioso del silenzio divino.
Il volto è raffigurato sempre frontalmente o di tre-quarti perché la frontalità è presenza, comunicazione. Di profilo sono presentati solo quei personaggi che non hanno raggiunto la santità (come
per es. Giuda): il profilo spersonalizza, rivela una assenza.
Pur rappresentando le caratteristiche storiche dei personaggi raffigurati, non possono essere dei
ritratti perché volti trasfigurati dalla grazia, nella pace interiore (foto 2). Le parti sensuali, come la
bocca, sono per questo motivo di dimensioni ridotte, mentre vengono accentuate le parti spirituali
come gli occhi.
Sono volti senza razza poiché Cristo ricapitola in sé l’umanità intera e in lui tutti gli uomini sono uno solo. La fronte alta e convessa è luogo della Sapienza.
Le rughe profonde che spesso solcano i volti dei santi sono simbolo della loro vita ascetica.
Il naso lungo e fine indica nobiltà spirituale e le narici larghe inspirano il “profumo” della Parola.
La bocca, piccola e geometrica sempre chiusa, esprime l’urgenza della custodia della lingua, il
silenzio; è immagine dello stato di impassibilità e di calma di chi ha superato le passioni. Il sorriso
stesso non è presente anche se in certi volti si ha l’impressione che stia quasi per affiorare.
Le orecchie grandi, a volte malformate, indicano l’ascolto della Parola e il mento pronunciato la
volontà di seguire Dio.
Il collo largo è simbolo della potenza del soffio dello Spirito.
Il disegno ondulato dei capelli indica il tempo senza fine. La capigliatura, intessuta di sottili
raggi di luce, pur nella generale sobrietà, è resa sempre con accuratezza, con ciocche ben ordinate e
scandite in ritmi e sequenze armoniche. Unitamente alla forma della barba essa serve a caratterizzare il santo.
All’opposto di quella maschile, la capigliatura femminile non ha rilievo: il capo è sempre velato
o si scorgono solo in parte i capelli.
Le mani, atteggiate in pose semplici ma solenni, simboleggiano energia spirituale, amore e devozione (foto 3).
Le vesti, simbolo efficacissimo degli attributi interiori della persona, hanno un ruolo importante
nella raffigurazione di questi personaggi divenuti colonne della Chiesa. Il panneggio (foto 4) segue
con assoluta sobrietà l’anatomia del corpo: con le sue linee rese senza spessore o peso di tessuto o
corposità della materia, partecipa al dinamismo della persona, sottolineando gesti, movimenti interiori ed esteriori.
Spesso si resta sorpresi per certe forme strane delle architetture che sembrano muoversi verso lo
spettatore; così gli oggetti non hanno posizione stabile in uno spazio che ha anch’esso poca profondità. A volte anche parti del corpo e i volti sembrano rappresentati in modo maldestro, come se il
pittore fosse incapace di riprodurre quei particolari secondo la loro forma naturale. In realtà queste
incongruenze sono espedienti del linguaggio simbolico per esprimere le caratteristiche di trascendenza della realtà rappresentata.
Anche il ricorso alla prospettiva inversa, in cui il punto di fuga non sta all’interno della composizione ma nello spettatore (per cui si ha la sensazione che la realtà rappresentata incomba su chi
guarda), non è segno di incapacità a rappresentare lo spazio così come ci appare, ma espediente per
meglio esprimere la realtà del trascendente in cui è il Signore a fare il primo passo verso l’uomo.
Ecco perché ogni icona è finestra aperta per un’esperienza di fede.
A volte le icone incorporarono liberamente vari punti prospettici (foto 5), sfidando le leggi terrene del tempo, dello spazio e della gravità.
Gli edifici, scenari di fondo di fronte ai quali si muovono i vari personaggi, sono libere e colorate interpretazioni di cui se ne può vedere contemporaneamente l’interno e l’esterno. Un drappo ros–4–
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so rivela che la scena si sta svolgendo in un interno: è il velo che nascondeva il Santo dei santi nel
Vecchio Testamento e che ora è aperto per rivelare il messaggio cristiano al mondo.
Non c’è profondità e neppure proporzione tra i vari elementi della composizione, perché le dimensioni di cose e personaggi dipendono solamente dall’importanza e dal significato che ognuno di
essi ha nel testo.
Nell’incontro profondo che Dio instaura con l’umanità i rapporti materiali spariscono e le leggi
fisiche non hanno più senso. Per es. in questa icona (foto 6) che ho dipinto per un privato ricorre
l’iconografia di «Maria lenisci i miei affanni» dove la singolarità sta appunto nel corpo del Bambino che non è sostenuto dalla madre, ma fluttua quasi nell’aria a sottolineare la sua potestà assoluta.
Anche se irrazionalmente, l’icona dimostra al cuore di chi la guarda che è piccolo e incapace di
muoversi, facendogli sperimentare che è la realtà spirituale di ciò che vede rappresentato ad andargli incontro, assorbendolo in sé con una forza sottile e inspiegabile. Questo chiarisce quel senso di
disagio, di attrazione e repulsione insieme, che a volte può suscitare perché rimanda, inequivocabilmente, all’essenza del Cristianesimo che pone nel cuore dell’uomo domande e proposte di vita,
alle quali dare una risposta.
Anche le montagne e la vegetazione fanno da scenario di sfondo e parte di uno schema cosmico
del viaggio dell’uomo verso il divino, simboleggiato da tre livelli metaforici: il livello delle tenebre,
della terra e dell’uomo e il livello divino, dove Dio viene rappresentato sia simbolicamente come un
cerchio, che da Cristo stesso.
Un simbolo ricorrente è quello della caverna buia, il cosmo delle tenebre in attesa della rivelazione, come per es. si incontra nell’icona della Natività, della Resurrezione e della Crocifissione.
A volte la caverna è simboleggiata dalle finestre o dalle porte nere degli edifici.
Le montagne con i loro profili e le zone di luce sui pendii sono rappresentati come inclinati verso il santo in atto di rispetto. Anche gli alberi e la vegetazione riconoscono questa presenza inclinandosi o innalzandosi verso il regno del divino in una lode gioiosa.
LA TECNICA
Anche l’aspetto tecnico, che va dalla scelta dei materiali all’esecuzione vera e propria, ha la sua
importanza perché da questo dipendono la stabilità, la solidità e la durata nel tempo dell’opera.
I materiali usati sono quasi tutti naturali, provengono cioè dal mondo vegetale, minerale e animale, non solo per il requisito d’inalterabilità, ma anche perché è con la tecnica che il creato loda il
suo creatore.
Il supporto ligneo
Generalmente, a meno che non si tratti di un’opera muraria, il supporto più utilizzato è la tavola
lignea.
L’arte ecclesiale ha espresso fin dalle origini le verità della fede su superfici di pietra. Successivamente, soprattutto per l’esigenza di realizzare immagini anche per il culto domestico, si sono utilizzati supporti lignei che, per la loro caratteristica di solidità, ricordavano le superfici murarie dei
luoghi di culto.
Nessun materiale è ricco di significati simbolici come il legno e l’albero da cui è ricavato: attraverso un albero passa la disobbedienza di Adamo ed Eva; di legno era l’arca di Noè; accanto a una
quercia Abramo riceve le rivelazioni di Dio; Isacco doveva essere sacrificato su una catasta di legna
portata da lui stesso sulle spalle; su un palo di legno fu fissato il serpente di bronzo durante l’esodo;
con il legno di acacia fu costruita l’Arca dell’alleanza; di legno è il massimo simbolo della cristianità, la croce.
Nella preparazione di una tavola destinata a diventare un’icona, la scelta del legno è regolata da
una conoscenza del comportamento di questo nel tempo, essendo un materiale vivo soggetto a modificarsi per dimensione e forma col variare dei parametri termo igrometrici. Il legno deve essere
ben stagionato, preferendo i tagli eseguiti nella zona centrale del tronco (foto 7), meno soggetti a
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deformazioni di imbarcamento. Deve essere esente da tarli e avere venature possibilmente regolari e
con pochi nodi. Le specie legnose da me utilizzate sono il tiglio e il pioppo.
Il taglio di una tavola va eseguito seguendo proporzioni calcolate in armonia con il soggetto da
rappresentare (foto 8), ai fini di un equilibrio formale.
La parte centrale, spesso scavata di qualche millimetro, si chiama culla o arca in relazione
all’Arca dell’alleanza: è, come questa, ricettacolo di una forma di conoscenza sacra, conservando
l’icona come in una specie di scrigno.
La cornice, non avendo la funzione di incorniciare come nei nostri quadri, non è un elemento a
se stante, ma parte integrante dell’icona (foto 9), aprendo l’immagine come una finestra verso lo
spettatore, tanto che, a riprova di questo, spesso ci sono particolari che trasbordano sulla cornice
stessa, come un’aureola, un panneggio, iscrizioni, preghiere o episodi della vita del santo raffigurato
nella culla della tavola.
L’imprimitura è un’operazione indispensabile per evitare che anche un piccolo movimento della
tavola possa fessurare la successiva preparazione in gesso.
Il legno viene impregnato con una prima mano di colla di coniglio; se ne dà quindi una seconda
per far aderire una tela leggera di cotone. Un’ultima mano di colla andrà a formare, con gli strati
sottostanti, un corpo unico.
Quindi si stendono otto mani di gesso di Bologna (mescolato a colla di coniglio che fa da legante). Questa miscela, quando è calda, è simile a un latte denso; quando si secca forma un fondo omogeneo solido e resistente, ugualmente assorbente e liscio in ogni suo punto, pronto per ricevere la
doratura e i vari strati di colore. La preparazione del fondo bianco richiede molta cura, perché è la
sua buona qualità che tiene ben unita la pittura al legno.
Il disegno
Il segreto dell’armonia delle icone risiede in una struttura bilanciata che soggiace al disegno (foto 10). Questo va eseguito con la massima cura, evitando che anche il minimo particolare possa essere lasciato al caso, e cercando di disporre le figure con sobrietà e chiarezza perché ciò che è raffigurato è simbolo di verità, ha una pregnanza ontologica.
Dal bozzetto su carta, ben dettagliato e preciso nelle proporzioni d’insieme, si passa col color
ocra molto diluito a definire l’immagine sul gesso della tavola. È bene dedicare del tempo a questa
fase, senza avere fretta, conservando il disegno in uno stato ancora fluido, nel quale molte possibilità sono ancora aperte, guardando da distanze diverse e da diverse angolature, finché verrà quasi naturale dargli la forma più adatta allo spazio che occupa cogliendo quell’equilibrio formale che ne
determina la bellezza.
La doratura
Questa fase ha una forte valenza simbolica: l’oro è un materiale incorruttibile che, per le sue caratteristiche di inalterabilità e per il suo fulgore, è il più adatto degli elementi ad esprimere la luce, il
divino. È errato pensare che il valore di un’icona dipenda dalla quantità di oro utilizzato; certe icone
povere di oro sono tuttavia molto ricche da un punto di vista spirituale.
In commercio l’oro si trova sotto forma di foglietti sottilissimi, ordinati in libretti di carta velina,
dalle varie misure, che si possono applicare a missione o a bolo. Quest’ultimo è una specie di argilla
che contiene dell’alluminio, da cui riceve una certa elasticità che consentirà successivamente
l’operazione di brunitura con la pietra d’agata, alternando così zone lucide a satinate (foto 11).
Fase pittorica
La tecnica pittorica da me utilizzata è quella dell’antica tradizione bizantina della tempera
all’uovo: il pigmento in polvere viene mescolato con il tuorlo d’uovo, un legante che col passare del
tempo diventa sempre più solido, ma nel contempo elastico, insolubile all’acqua e in grado di conservare a lungo i colori nella loro brillantezza.
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La stesura dei colori avviene attraverso una sovrapposizione cromatica che, partendo dai toni
più scuri e freddi, arriva a quelli più caldi e chiari, attraverso un processo che la tradizione iconografica simbolicamente chiama di progressiva illuminazione (in cui si rinuncia alle allusioni naturalistiche dei chiaroscuri e delle ombre), alludendo a quel processo spirituale che un cammino di fede
ci fa sperimentare nell’incontro con Dio.
Cose e persone, non illuminate da una fonte di luce esterna, sono prodotti stessi della luce: del
resto, nella vita spirituale, è la luce della trasfigurazione a testimoniare l’energia dello Spirito al vertice della santità. L’essere umano diventa esso stesso in qualche modo luce (foto 12), incarnando in
sé il canto liturgico della Chiesa: «La tua luce risplende sul volto dei tuoi santi».
Nelle icone non ci sono mai colori spenti, ma forti e decisi, gioiosi e pieni di vita. Siamo abituati
a concepire le icone come pezzi di antiquariato; addirittura piacciono per quei colori cupi tipici
dell’invecchiamento. Ciò ha determinato l’opinione comune che fondamento dell’icona siano malinconia e tristezza, quando invece è un’esplosione di vita e la patina di antico, che tanto affascina i
falsi intenditori, si è formata perché l’olifa, l’olio protettivo steso come finitura finale sulla pellicola
pittorica, nel corso dei secoli ha assorbito la polvere e il fumo dell’incenso e delle candele con cui le
icone venivano onorate.
Con il loro valore simbolico, i colori fanno percepire direttamente all’inconscio il messaggio
profondo dell’icona:
• il bianco, simbolo della luce e dell’eterno, è il colore della divinità, della gloria. Tra i primi cristiani il battesimo era detto “sacramento dell’illuminazione”: le vesti bianche sono quindi il simbolo
della grazia, dell’innocenza, della purezza, della gioia, della perfezione;
• l’azzurro, rappresentando la trasparenza dell’acqua, dell’aria e del cielo, è il colore
dell’immaterialità. Simbolo della fede, indica il legame con il divino, con l’infinito.
Nell’iconografia domina il blu scuro, simbolo del mistero della vita divina e della dimora di Dio. È
il colore della trascendenza utilizzato per il manto di Cristo e la veste della Madonna;
• il rosso, essendo un colore luminoso, si utilizza spesso anche per lo sfondo al posto dell’oro, come si può vedere in quest’icona di Gesù misericordioso che ho realizzato per una cappella privata
(foto 13), in cui simboleggia l’energia divina, l’amore dello spirito, la potenza vitale. È anche simbolo del sangue, con il duplice significato di principio della vita e nello stesso tempo di martirio e
sacrificio. È il colore che nel cristianesimo ha ricevuto la sua consacrazione con il sangue di Cristo;
• il verde nella Sacra Scrittura esprime la vita della vegetazione e pertanto simboleggia la crescita
e la fertilità, la rigenerazione dello spirito. Per questo motivo nel linguaggio profano è divenuto
simbolo di speranza;
• il bruno, riflettendo la densità della materia, rappresenta tutto ciò che è terrestre. Nelle vesti dei
monaci e degli asceti è segno della loro povertà e rinuncia alle gioie della terra. Nelle sfumature
dell’ocra è impiegato per dipingere la terra alla luce della trasfigurazione;
• il giallo appartiene alla sfera della luce ed è suo riflesso. Nelle icone povere sostituisce l’oro;
• il nero, assenza totale di luce, è simbolo del caos, dell’angoscia, della morte.
LETTURA DI ALCUNE ICONE
Vi propongo ora una carrellata di alcune mie opere per condividere con voi, alla luce di quanto
detto fin’ora, la mia esperienza lavorativa.
Comincio col passare in rassegna le tavole che mi sono state commissionate per la cappella di
una casa di riposo vicino Roma. Il nome di questa residenza “Le palme” mi ha ispirato nella scelta
del tema pittorico da trattare, quello del nostro cammino verso la Gerusalemme celeste.
La palma, il cui motivo è stato da me inserito nella vetrata, è un antico simbolo orientale molto
ricorrente nell’arte cristiana con il significato di vittoria, ascesa, rinascita, immortalità. Il riferimento nel cartiglio del riquadro centrale al salmo 91 («Il giusto fiorirà come palma»), è una chiara allusione alla resurrezione e quindi al fine della nostra vita: Dio.
La cappella l’ho dedicata alla Madonna col titolo di “S. Maria del cammino”, perché è lei che
Cristo ci ha lasciato in eredità prima di morire sulla croce come strada sicura che conduce a Lui; è
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la nostra mamma che con amorevole tenerezza ci giuda verso il paradiso, sostenendoci e incoraggiandoci nelle difficoltà della vita, camminando al nostro fianco come fece col suo Gesù durante la
sua missione terrena.
Al centro della piccola parete absidale, dietro l’altare, domina l’immagine della Madre di Dio
secondo la tipologia della tenerezza (foto 14). Ha un’espressione di dolce mestizia, quasi si facesse
carico delle afflizioni e delle sofferenze del popolo che a lei si rivolge in preghiera: è la madre del
dolore di tutti gli uomini, avendo lei stessa vissuto nella fede il dolore di veder morire in croce il figlio.
L’icona della madre di Dio indica essenzialmente l’incarnazione: è per questo motivo che non è
mai rappresentata sola, ma sempre in compagnia del figlio o in composizioni a lui collegate.
I colori della veste e del mantello sono sempre l’inverso di quelli di Cristo: discendente di Eva
ma divinizzata da Cristo, ha la veste azzurra (simbolo della sua umanità) e il mantello color porpora
(simbolo della divinità di cui è stata rivestita).
Le stelle che sono sul capo e sulle spalle (antichissimo simbolo siriaco della sua verginità prima,
durante e dopo il parto) con la loro disposizione a croce indicano la partecipazione volontaria di
Maria alla passione redentrice di Cristo.
Ai lati della vergine gli arcangeli S. Michele (foto 15) e S. Gabriele (foto 16) che tengono in
mano uno specchio (in cui si riflette la gloria di Dio) con il monogramma di Cristo. I soffici nastri
svolazzanti fra i capelli servono per meglio udire la volontà del Signore e il bastone che tengono in
mano è simbolo dell’autorità e della dignità di messaggeri.
Lo schema iconografico dell’Annunciazione (foto 17) è molto semplice e si rifà al vangelo di
Luca in cui è contenuta l’essenza del Credo dei primi cristiani sull’Incarnazione: Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo ed è nato da una vergine.
L’arcangelo stende la mano per porgere l’annuncio. È il tipico gesto bizantino di benedizione: le
tre dita aperte alludono alla Trinità, le due piegate ricordano le due nature di Cristo, l’umana e la divina.
Maria è colta nel filare la porpora, cioè di tessere misticamente la carne dell’Emanuele, il Re dei
re. È posta davanti al trono perché nell’inno Acatisto viene celebrata come il seggio del re e poggia
su un piedistallo perché da Dio innalzata al di sopra della natura angelica.
Le strutture architettoniche così semplificate sono un simbolo; il drappo rosso è segno che
l’avvenimento avviene in un interno. Il rampicante attorno alla colonna centrale è il virgulto di Jesse
che ritroveremo nell’icona successiva.
Nel Natale del Signore (foto 18) la scena è inquadrata da una montagna piramidale che si eleva
per tutto lo spazio visivo: è la montagna messianica, la montagna del Signore che viene al mondo,
oltrepassando e trascendendo ogni collina, cioè l’altezza degli uomini e degli angeli. Secondo la
profezia di Isaia la montagna è Cristo. Le due sommità in cima alludono alle due nature di Cristo,
l’umana e la divina.
Al centro della montagna si apre un antro nero, l’inferno, che si apre come le fauci di un mostro
tentando di ingoiare il bambino, venuto al mondo invece come luce proprio per liberare l’umanità
dalle tenebre della morte e del peccato, con la sua morte e resurrezione. Questo spiega perché il piccolo Gesù è posto più che in una mangiatoia, in un sepolcro ed è fasciato come un morto, richiamando così il piano salvifico della redenzione.
Dietro a Giuseppe adorante il virgulto di Jesse della profezia di Isaia: «Un virgulto sorge dal
tronco di Jesse sopra di lui poserà lo Spirito del Signore. In quel giorno il virgulto sarà come un segnacolo alle genti e il luogo della sua dimora sarà glorioso. In quel giorno il Signore stenderà di
nuovo la sua mano per riscattare il suo popolo».
L’episodio delle Nozze di Cana (foto 19) ha una forte valenza simbolica nell’alleanza di Cristo
con la sua Chiesa, grazie alla quale l’acqua dell’antica alleanza è trasformata in vino della buona
novella. La somiglianza sia nel volto che nel colore delle vesti tra lo sposo e Cristo, sottolinea il parallelismo con l’Ultima cena, banchetto per eccellenza in cui Cristo, lo sposo, preannuncia le sue
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nozze con la sposa, la Chiesa, sul talamo della croce. Questo mistero è insito nel sacramento del
matrimonio, che diventa così segno visibile dell’amore di Cristo per ognuno di noi.
Non piangere su di me o Madre (foto 20) propone due iconografie relative alla passione di Cristo. Quella sottostante dà il titolo alla tavola: presentando Cristo in piedi nel sepolcro davanti alla
croce. L’espressione sofferente di Maria, delle pie donne e degli apostoli contrasta con la serena raffigurazione del Volto Santo sul sacro lino sorretto in alto dai due angeli, stendardo della resurrezione compiuta attraverso la passione e morte.
Nell’Assunzione (foto 21), all’interno della mandorla (simbolo di gloria) Cristo e Maria indossano le vesti nuziali: Cristo è lo sposo profondamente unito alla sua Chiesa, la sposa, che la tradizione identifica con la Madonna. Alla luce di questa lettura chiari i versetti scritti sui due cartigli
sorretti dagli angeli e tratti dal libro biblico del Cantico dei cantici: «La sua sinistra è sotto il mio
capo e la sua destra mi abbraccia».
Sul soffitto della cappella, all’interno di una mandorla circolare, la colomba dello Spirito Santo
che effonde i suoi sette doni (i 7 raggi rossi): è allusione a una pentecoste sempre viva nel cuore di
chi cerca Dio. La Pentecoste, giorno della nascita della Chiesa, è il momento in cui il vero significato della morte e risurrezione di Gesù si fa manifesto e una nuova umanità ritorna alla comunione
con Dio: lo spirito, alla presenza di Maria, trasforma la comunità cristiana nel corpo di Cristo, dalla
dispersione si torna all’unità e da quel giorno la Chiesa prende coscienza della nuova Pasqua secondo quanto aveva predetto Cristo: «Il consolatore, lo spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
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Questa invece è l’icona Nel ventre tuo si raccese l’amore (foto 22) che è stata esposta
nell’ambito di una mostra dedicata alla Divina Commedia nella Basilica romana di S. Maria in
Montesanto e che si è conclusa proprio tre giorni fa. Si ispira al XXXIII canto del Paradiso: il settimo versetto, riportato come motivo decorativo sull’orlo inferiore del manto della Madonna, sintetizza con acuto spirito teologico tutta la grandezza dell’Incarnazione che Dante, rapito dalla visione
dei misteri della divinità, cerca di comprendere per penetrarne l’essenza.
Maria, la “vergine Madre, figlia del tuo figlio” (Parad. XXXIII 1), è tabernacolo vivente del
Verbo incarnato in cui si riaccese l’amore, il patto di alleanza tra Dio e l’umanità, che ha il suo
compimento nel piano salvifico redentivo. Come simbolo della Chiesa del Nuovo Testamento è la
sposa di Cristo: la veste nuziale che indossa è simbolo della nuova missione di madre universale che
con amore compassionevole desidera condurre tutti i suoi figli nell’eterna beatitudine del cielo.
Maria è la porta del paradiso: la divina realtà celeste appare come visione in lei, tra le sue braccia alzate in segno di lode e di accoglienza. Il mistero divino si svela così nella visione dantesca dei
tre cerchi concentrici: nel giardino del Paradiso, come in un fuoco d’amore palpitante (simboleggiato dal cerchio esterno di colore rosso dei serafini), appare la Trinità accanto all’albero della vita.
L’icona vuole essere un invito a innalzare alla vergine Madre il nostro inno di lode; come san
Bernardo, preghiamola con gli attributi di fiaccola di carità, di misericordia, di pietà, di magnificenza ( anch’essi posti a decorare il bordo del manto intorno al volto) affinché interceda per ognuno di
noi presso Dio, nella speranza dell’eterna beatitudine in cielo.
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In questa icona del Santo Volto (foto 23), la carnagione scura spogliata degli splendori della
carne riflette la luce della resurrezione. Il volto è al centro del nimbo, inscritto a sua volta nel quadrato della tavola: il cerchio simboleggia il cielo, il quadrato la terra. Cristo così è il Signore, la
consistenza di tutte le cose e il prototipo dell’umanità trasfigurata. Nel nimbo cruciforme, simbolo
del sacrificio pasquale di Cristo, ho inserito la scritta greca che richiama la rivelazione divina a Mosè sul Sinai «Io sono Colui che è», esaltando così ancor di più la divino-umanità di Gesù. Il suo volto è immerso in un bagno di luce, la luce dell’amore di Dio. L’aureola è per me in questa icona an-
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che simbolo dell’ostia: per questo ho inserito il monogramma di Cristo tra tralci di vite e grappoli
d’uva.
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Ora passiamo alla lettura delle tre icone che ho realizzato per decorare il catino absidale della
cappella in Turchia nella chiesa di S. Maria in Trabzon dove lavorava come missionario don Andrea
Santoro. Il tema affrontato è quello del grande mistero eucaristico che si compie in ogni angolo del
mondo sull’altare a ogni celebrazione liturgica.
Al centro la tavola della Crocifissione (foto 24): sul monte Golgota è issata la croce di Cristo
con ai lati Maria e Giovanni, il discepolo che Gesù amava. Anche qui le due cime sulla sommità
simboleggiano le due nature di Cristo; al centro l’antro nero con il teschio di Adamo, l’uomo vecchio rigenerato a nuova vita dal sangue di Cristo, il nuovo Adamo. Ai lati in basso a sin, ho raffigurato la sepoltura di Gesù (il color ocra della montagna, colore materico legato alla terra, sottolinea
che Gesù come ogni uomo viene sepolto), mentre a destra la resurrezione: le donne arrivano al sepolcro ma lo trovano vuoto (il color verde è segno della realtà ricreata dalla potenza della Risurrezione).
L’episodio evangelico della Moltiplicazione dei pani e dei pesci (foto 25) è da considerarsi una
chiave di volta che ci permette di passare dalla grotta di Betlemme a Gerusalemme.
La composizione è dominata da una grande montagna sulla quale Cristo, al centro, sta benedicendo i cinque pani e i due pesci presentati a lui dal discepolo Filippo a sinistra e Andrea a destra,
entrambi con le mani velate dal mantello in segno di rispetto e devozione. La montagna è Cristo,
roccia sulla quale porre le fondamenta della nostra vita cristiana (le due piccole sommità che sporgono al di sopra dell’aureola alludono ancora una volta alla natura umana e divina di Gesù).
L’uomo che fa di Cristo la pietra angolare della propria vita non teme nulla, perché egli è fonte
di serenità, pace, vita, sicurezza (come traspare dalla ieratica solennità del Cristo) e Dio rinnova nel
figlio la sua fedeltà all’uomo.
Ai piedi di Gesù la cesta vuota è simbolo di ogni fame dell’uomo: di amore, di pace, di giustizia,di cibo per il nutrimento del corpo.
I cinque personaggi, dal più giovane al più anziano, seduti attorno alla cesta, simboleggiano
l’umanità affamata.
È però Cristo, simbolicamente raffigurato al di sopra della cesta, colui nel quale e per mezzo del
quale ogni fame si placa: è il Dio della pace, della giustizia, dell’amore, è quel Padre buono che non
solo non ci fa mancare il pane quotidiano, ma anche e soprattutto quel nutrimento spirituale inesauribile (a cui alludono le ceste di pane avanzato) perché Verbo incarnato che si fa cibo per noi
nell’Eucaristia.
Il pane è anche richiamo alla sacralità stessa della vita (ne è allusione il segno della croce impresso che ancora oggi alcune massaie tracciano sulla forma impastata prima della lievitazione); è
“il frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, cioè della grazia di Dio che fa germogliare il seme e
del contributo dell’uomo che è cooperatore con Dio nel progetto salvifico.
La presenza di Gesù genera e dona vita. Così gli effetti del miracolo sono visibili nel dinamismo
che anima l’episodio della distribuzione dei pani e dei pesci da parte dei discepoli ai gruppi di uomini, donne, bambini seduti in gruppi attorno alla montagna. L’incontro autentico con Gesù non
può che suscitare nel cuore umano una sincera lode di gratitudine, espressa dalla donna a destra in
lontananza che, con slancio, si alza in segno di lode, offrendo il proprio pane a Dio, cioè offrendo la
propria vita, pane spezzato per i fratelli.
Nell’Ultima cena Cristo (foto 26), rispecchiando una tipologia molto antica e diffusa nell’arte
bizantina, è seduto all’estremità sinistra della mensa occupando il posto d’onore. Sulla tavola semicircolare i simboli eucaristici del pesce, del pane e del vino.
Nel gesto benedicente di Gesù si esprimono le parole centrali del comandamento dell’amore:
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».
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R. BOESSO – Sapienza, spiritualità e bellezza nell’esperienza di un’iconografa
Gesù annuncia il tradimento da parte di Giuda (unico personaggio dipinto di profilo) che regge
con la sinistra la borsa dei danari, mentre allunga la destra verso il piatto, gesto che, nel vangelo di
Luca, lo indica come il futuro traditore.
Giovanni, discepolo prediletto, poggia il capo sul petto di Gesù, mentre sui volti degli altri discepoli si legge lo sgomento ed il turbamento provocato dall’annuncio del tradimento.
Il drappo rosso che collega le due strutture architettoniche simboleggia che l’avvenimento è avvenuto in un interno.
Inferiormente ho raffigurato la Lavanda dei piedi con gli apostoli disposti in due file: a sinistra
Cristo, cinti i fianchi con un telo di lino, asciuga il piede a Pietro, seduto davanti a lui mentre indica
il suo capo a rafforzare le parole «Signore non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!».
L’acqua contenuta nel catino richiama l’acqua battesimale che purifica portando ad una nuova
nascita, in una morte e resurrezione simbolica, in preparazione al banchetto eucaristico.
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Questa invece è l’icona de Il Buon pastore (foto 27) che fa parte di un ciclo pittorico sulla vita
di Gesù che sto realizzando per una parrocchia di Rieti. Al centro Gesù reca sulle spalle una pecorella. L’elemento naturalistico dei due alberi che sembrano inchinarsi al suo passaggio in segno di
lode e onore, formano come un arco trionfante che conferisce maggiore solennità alla figura del
Cristo fiancheggiato da un piccolo gregge che, tranquillo, pascola. Da Cristo scaturisce un piccolo
corso d’acqua: egli è la fonte d’acqua viva che rigenera ogni realtà, donando vita e nuova energia
simboleggiata dalle zone luminose che contornano gli animali e le piccole piante. Gesù è raffigurato
altre due volte nell’atto di salvare due pecorelle smarrite, una imprigionata tra i rami di un rovo,
l’altra caduta in una caverna buia: entrambe alludono a quanti, allontanandosi dal Signore per confidare solo sulle proprie forze, rischiano di trovarsi prigionieri delle tenebre e del peccato. Solo in
Cristo è la salvezza: lui è vera luce per il nostro cammino, guida sicura sui pascoli della nostra vita.
I versi dei salmi che ho scelto per i cartigli confermano la gioia dell’incontro con il Signore: «Mi
indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza», «Ti amo Signore mio liberatore» e
ancora «Non temerei alcun male perché tu sei con me». Della prima lettera di Pietro sono invece i
versetti del cartiglio grande, sorretto dai due angeli, che mi sono sembrati adatti per evidenziare lo
spirito di gioia che deve distinguere il cristiano: «Esultate di gioia indicibile mentre conseguite la
meta del vostro cammino».
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Questo invece è un crocifisso (foto 28) che mi è stato commissionato per essere collocato sopra
l’altare della parrocchia romana di S. Maria Maddalena de’ Pazzi. L’ho concepito come un crocifisso sponsale (da qui il titolo Ti farò mia sposa per sempre) per esprimere la bellezza e la grandezza
del mistero nuziale in riferimento a Cristo e alla Chiesa.
Dio, fin dalla creazione, ha scelto l’immagine nuziale per esprimere l’amore che nutre per il suo
popolo in cammino. Tutto l’Antico Testamento è un cantico alle meraviglie di salvezza compiute da
Dio per il popolo d’Israele, la sua sposa. Dopo averla liberata dalla schiavitù dell’Egitto, la guida
nel difficile cammino nel deserto per donargli «una terra dove scorre latte e miele»; le invia i profeti, amici dello Sposo, per confermare la sua alleanza nonostante le infedeltà della sposa.
Nel Nuovo Testamento Gesù, lo sposo incarnato, dona la sua stessa vita alla sposa, sigillando
col suo sangue prezioso questo patto d’amore.
La croce di Cristo è il talamo nuziale su cui ogni coppia di sposi deve stipulare le proprie nozze,
come Gesù con la Chiesa. Quest’ultima infatti nasce ai piedi della croce, dal costato dello Sposo,
«carne della sua carne,ossa delle sue ossa», generata dal suo amore che è fedele ed eterno e in virtù
del quale viene guarita e risanata ogni infedeltà.
Gesù in croce è dolcemente ‘addormentato’: come Dio trae da Adamo nel sonno Eva, la donna,
così dal costato del nuovo Adamo nasce la Chiesa, la nuova Eva, che la tradizione indica in Maria
(per questo raffigurata accanto a Gesù, dal lato del costato da cui zampillano acqua e sangue). Lo
Spirito Santo scendendo nuovamente su di lei la riveste, insieme a Giovanni raffigurato alla destra
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R. BOESSO – Sapienza, spiritualità e bellezza nell’esperienza di un’iconografa
di Cristo, della nuova missione di madre universale. Maria, che simbolicamente ha sul capo il velo
da sposa, è colei che dobbiamo seguire per giungere a Gesù.
Ai piedi della croce, accanto al Golgota, è raffigurato il popolo di Dio, l’umanità assetata del
suo amore, che si lascia bagnare dal suo sangue redentivo per essere al suo cospetto santa e immacolata, riscattata così dalla colpa del progenitore Adamo, a cui allude il teschio nell’antro scuro.
La dimensione sponsale del dono di sé (simboleggiata dalla coppia centrale degli sposi che si
tengono per mano), diviene l’essenziale dimensione della vocazione cristiana alla vita, necessario
completamento della vocazione battesimale, qualunque sia la scelta di vita che il Signore ci chiama
a compiere. Si spiega così la presenza accanto agli sposi di un vescovo, di un diacono, di un religioso e una religiosa, di laici e fanciulli, tutti chiamati, in forza del battesimo, a essere testimoni profetici della Parola, sacerdoti che consacrano a Dio se stessi e la propria vita, animati da una carità responsabile e generosa. Ogni cristiano così è tassello del meraviglioso mosaico che è la Chiesa,
chiamata a essere immagine viva della presenza di Cristo nel mondo.
Con la resurrezione di Gesù inizia il tempo delle nozze, in cui la Sposa attraverso tempi di prova
e dolore, si prepara a celebrare in cielo le nozze eterne con il suo Sposo. Questo spiega la raffigurazione, nell’espansione superiore del braccio verticale della croce, della visione apocalittica della
nuova Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio (simboleggiato dalla mano nella mandorla celeste), «pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). La Gerusalemme celeste, sposa
dell’Agnello, è raffigurata con le sue mura solide e splendenti (riflesso della gloria divina), con le
dodici porte, gli angeli e i nomi delle dodici tribù d’Israele, chiaro riferimento anche ai dodici apostoli. Al centro il trono con il Libro della Vita aperto sulla scritta «Chi ha sete venga» (Ap 21,6) e ai
piedi l’Agnello, sono simboli di Cristo, nuovo tempio spirituale, in virtù della sua passione, morte e
resurrezione. Cristo è la roccia sulla quale viene convocata, eletta, purificata ed edificata la sua sposa, la Chiesa, tramite la fecondità dell’acqua battesimale e del sangue eucaristico sacrificale, rappresentati dalle acque intorno al trono e dal costato aperto dell’Agnello. La Chiesa vive così tutta la
bellezza e grandezza di questo mistero alla luce della promessa di Cristo risorto: «Ecco io sono con
voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Non abbiamo perciò nulla da temere se ogni giorno, ‘rivestìti’ di Maria e sotto la guida materna
della Chiesa, facciamo come san Pietro (dipinto al lato sinistro della croce) la nostra professione di
fede «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» e contempliamo come san Paolo (dipinto al lato destro) questo grande mistero d’amore.
***
Al termine di questa mia testimonianza vi propongo l’immagine dell’icona della Madonna del
Divino Amore (foto 29), commissionatami dal card. Ruini come dono della diocesi di Roma a Giovanni Paolo II in occasione del suo XXV di Pontificato, collocata nel nuovo santuario romano del
Divino Amore.
Ringrazio il Signore per ogni frammento di bellezza che ci circonda perché parla della sua presenza in mezzo a noi, del suo amore. Auguro che ognuno di voi si senta un po’ come iconografo
della propria vita, secondo la propria chiamata, il proprio lavoro, la specificità del propria vocazione
per essere testimoni credibili di Dio, fonte di ogni bellezza, e fare della vostra vita un’icona vivente
di gioia e di lode.
Secondo la tradizione gli iconografi mettevano sotto la protezione di un santo la loro bottega. Io
ho scelto di affidare il mio lavoro alla protezione di Maria regina della pace, madre del divino amore, di Cristo madre e sposa. Desidero quindi concludere rivolgendo a Lei questa mia breve preghiera:
Maria, regina delle nostre famiglie, inondaci del tuo divino amore
perché ognuno di noi diventi culla per Gesù e sua epifania. Amen.
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Roberta Boesso tel. 339/1979119
[email protected]
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