elezione domicilio – ordinanza tds messina 25.9.2013
Transcript
elezione domicilio – ordinanza tds messina 25.9.2013
N. SIUS 2012/96 – TDS MESSINA ORDINANZA N……………… Tribunale di Sorveglianza di Messina ________________________________________________ IL TRIBUNALE L'anno 2013 giorno 25 del mese di settembre in Messina si è riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei componenti: Dott. Mazzamuto Nicola Presidente " Ioppolo Carmelo Magistrato di Sorv. " Bernava Giuseppa Esperto " Furchì Francesco Esperto per deliberare sulla domanda di affidamento in prova al servizio sociale e, in via subordinata, alla detenzione domiciliare presentata da XXXXXXX XXXXX nato a Sant’Axxxxx il 00.00.0000, residente in CAIO DEI CAI via DEL SOLE 23, in relazione alla condanna di anni 1 mesi 6 di reclusione (residua anni 1 di reclusione) inflitta con sentenza 400/2010 – r.g. n.9831/2003 – r.g.n.r. n.223/2002 emessa in data 26.11.2010 dal Tribunale di Patti, sezione distaccata di Sant’Agata di Militello, definitiva il 12.4.2011 (N. SIEP 52/2011 Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Patti); sentite, all’odierna udienza, le conclusioni rassegnate dal P.G. e dalla difesa; ha emesso la seguente ordinanza Occorre, anzitutto, affrontare la questione pregiudiziale afferente l’ammissibilità delle calendate istanze, tenuto conto di quanto disposto dall’art.677, comma 2 bis c.p.p, secondo cui “il condannato, non detenuto, ha l’obbligo, a pena di inammissibilità, di fare la dichiarazione o l’elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione o altro provvedimento attribuito dalla legge alla magistratura di sorveglianza. Il condannato, non detenuto, ha altresì l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto. Si applicano in quanto compatibili, le disposizioni previste dall’art.161”. Come è noto, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n.18775/2010, hanno escluso che detto adempimento richieda una indicazione da adottare con formule sacramentali, rilevando che però deve esprimere con chiarezza la volontà del condannato in ordine al luogo ove egli intende ricevere la notificazione degli avvisi, non essendo all’uopo sufficienti “indicazioni equipollenti pur desumibili dagli atti processuali quali le mere indicazioni circa il domicilio o la residenza dell’istante,” e escludendo altresì “che possano ritenersi valide precedenti dichiarazioni o elezioni di domicilio che valide, ai sensi dell’art. 164 c.p.p., per ogni stato e grado del giudizio di cognizione, perdono efficacia in relazione al procedimento di esecuzione e di sorveglianza”; La Cassazione, inoltre, ha puntualizzato che l’atto di elezione di domicilio è strettamente personale, come tale quindi non delegabile, né surrogabile da una dichiarazione del difensore e ancora che è insuscettibile di integrazione successiva. Orbene, nel caso di specie risulta che il XXXXXXX- dopo la notifica dell’ordine di esecuzione emesso dalla competente Procura ai sensi dell’art.656 comma 5 c.p.p. – ha depositato, tramite il proprio difensore di fiducia, la richiesta di misura alternativa indicando la propria residenza corredata di indirizzo. Ad ogni evidenza, dunque, applicando l’orientamento delineato dalla Suprema Corte questo Tribunale dovrebbe limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità della istanza cui conseguirebbe la revoca della sospensione dell’ordine di esecuzione e, dunque, l’ingresso in Istituto di pena del XXXXXXXper espiare la pena inflitta. Ciò posto, ritiene questo Tribunale di doversi motivatamente discostare dall’autorevole pronunciamento sopra richiamato attraverso una interpretazione logico-sistematica costituzionalmente orientata che tenga conto, anche sotto il profilo storico, della funzione che svolge nel nostro ordinamento giuridico il sistema delle misura alternative in uno alle peculiarità che contraddistinguono il procedimento di sorveglianza siccome delineate dalle norme di rito e di ordinamento penitenziario. Come è noto, l’art.27, comma III, Cost. stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato ed è, giust’appunto, in siffatto contesto che – storicamente - si collocano le misure alternative introdotte dalla legge n.354/75 e dalla legge n.663/86. Più recentemente, si osserva, la sfera di operatività delle misure alternative “classiche” si è ampliata (talora, per vero, con interventi volti ad irrigidirne l’accesso con esplicito riferimento a determinati reati di particolare allarme sociale) con una stratificazione di leggi che - ispirate dalla ormai raggiunta consapevolezza che l’espiazione della pena all’interno degli Istituti di Pena non è, di per sé, in grado di soddisfare i precetti costituzionali – hanno via via agevolato l’accesso a percorsi alternativi compatibili col rispetto della persona umana e con l’interesse stesso dello Stato al recupero sociale del condannato. Si pensi, per esempio, alla legge 199/2010 che ha, di fatto, stabilito il principio che (anche) per i recidivi (ciò a dire coloro che non potevano accedere alla detenzione domiciliare ex art. 47 bis O.P. fino alla legge 94/2013) la forma normale di esecuzione della pena (non superiore a 12 mesi e più recentemente innalzata a 18 mesi) è quella presso il domicilio e non quella carceraria salvo la sussistenza di specifiche ragioni ostative alla sua applicazione di carattere normativo o la diversa valutazione del Magistrato di Sorveglianza competente su cui incombe, in tal caso, un onere specifico di motivazione. Ancor più recente è la legge 94/2013 che ha ampliato le possibilità di accesso ai benefici penitenziari (in tema di lavoro esterno, detenzione domiciliare, permessi premio, liberazione anticipata, ecc.). Trattasi, palmarmente, di interventi legislativi che, nel momento storico attuale (caratterizzato dal sovraffollamento carcerario e dalla spada di Damocle della procedura pilota avviata dalla CEDU nei confronti dell’Italia in materia di tutela dei diritti dei detenuti), prendono atto delle oggettive difficoltà di ottenere percorsi trattamentali inframurari realmente rieducativi (oltre che umani) e che, conseguentemente, valorizzano lo strumento della “pena alternativa” quale punto cardine di un reale percorso risocializzante. In siffatto contesto, del resto, un contributo estremamente rilevante è significativo è stato fornito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che con la nota sentenza dell’8.1.2013 (c.d. Torregiani) non ha mancato occasione di rammentare “le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che invitano gli Stati ad esortare i procuratori e i giudici a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione allo scopo, tra l’altro, di risolvere il problema della crescita della popolazione carceraria…”. D’altro canto, si osserva, che la pena detentiva di tipo carcerario costituisca ormai l’extrema ratio degli ordinamenti più evoluti e civili (come l’Italia) lo si ricava dalla disciplina positiva consacrata nell’art.656 c.p.p. (recentemente novellata in senso ancora più favorevole al condannato dalla legge n.94/2013) che, ad ogni evidenza, ha elevato a rango di principio la mancanza di utilità di una generalizzata esecuzione penitenziaria nei confronti di un’ampia fascia di condannati a pene variabili tra un minimo di 3 ed un massimo di 6 anni. In altri termini, il legislatore ha preso realisticamente atto della sussistenza di una vasta area di giudicato penale che investe reati di non particolare allarme sociale e/o che concerne persone che trovasi in determinate condizioni soggettive tali da non imporre e/o da non giustificare l’immediata esecuzione dell’ordine di carcerazione potendosi, ragionevolmente, prevedere che i soggetti interessati potranno accedere a misure alternative senza conoscere il costo umano aggiuntivo (anche se, in ipotesi, solo transitorio) dell’ingresso in carcere. Quanto dianzi esposto rappresenta, secondo il Collegio, una chiara direttrice tracciata dal legislatore (oltre che dalla giurisprudenza europea) riassumibile nella carenza assoluta di interesse dello Stato a mettere in (immediata) esecuzione (nei casi previsti dall’art.656 c.p.p.) le sentenze di condanna passate in giudicato. L’esecuzione nella forma più afflittiva del condannato, dunque e specularmente, deve essere limitata a quei reati ed a quei soggetti nei cui confronti (per entità della pena, gravità del fatto e tipologia di reato) si ritiene (secondo il giudizio discrezionale del legislatore operato in un determinato momento storico) che alcuna misura alternativa sia (già ex ante) idonea a tutelare gli interessi collettività. Nel quadro fin qui delineato, pertanto, si colloca la questione afferente gli effetti che possono derivare dalla mancata dichiarazione o elezione di domicilio da parte del condannato che chiede di essere ammesso ad una delle misura alternative previste dal nostro ordinamento giuridico. Il principale e più evidente effetto è che alla declaratoria di inammissibilità del TDS consegue l’immediata revoca, da parte del P.M. competente, del decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione; revoca che (con ulteriore effetto) determina l’ingresso in Istituto di pena del condannato. Ciò, si sottolinea, avviene (o dovrebbe avvenire) per tutte le tipologie di reati e di pene irrogate (nei limiti che rendono possibile la sospensione) e, dunque, anche per condanne brevissime e/o per reati contravvenzionali di impercettibile allarme sociale. Ebbene, è’ possibile ritenere che risponda alla ratio nella normativa vigente che tale conseguenza si produca solo per effetto di una ritenuta mancata dichiarazione o elezione di domicilio? E’ possibile ritenere che la finalità della disposizione di cui all’art.677 comma 2 bis c.p.p. debba essere “individuata in quella di rendere più spedito il procedimento davanti alla magistratura di sorveglianza, disponendo di un domicilio certo presso il quale procedere alle notifiche, e di evitare, conseguentemente, la possibilità di improprie sottrazioni del condannato alla corretta esecuzione, nelle forme e modalità di legge, delle sentenze di condanna a pena detentiva”? La risposta secondo questo Tribunale - tenuto conto del complessivo quadro di riferimento sia storico che normativo – non può non considerare il rango degli interessi coinvolti (libertà della persona da un lato e celerità del procedimento di sorveglianza) all’uopo operando sugli stessi un giusto ed equilibrato contemperamento. Posto, infatti, che la “misura alternativa” altro non rappresenta che l’esecuzione conformata al caso concreto e in forma flessibile della sentenza di condanna e che, dunque, la pena detentiva classica (ciò a dire quella di tipo carcerario) non necessariamente rappresenta il migliore strumento di difesa sociale e di percorso trattamentale in chiave rieducativa e di reinserimento sociale, occorre tenere conto della particolare natura del procedimento di sorveglianza ove, certamente, il contatto col condannato e la sua reperibilità (nella fase di valutazione circa la sussistenza dei presupposti per la concessione dei benefici penitenziari) rappresenta un momento centrale dell’accertamento giurisdizionale. A ben vedere, però, il problema del procedimento di sorveglianza non è (tanto) quello di svolgersi celermente bensì (soprattutto) quello di applicare (tra quelle possibili) la migliore sanzione in chiave rieducativa e specialpreventiva; non è (tanto) quello di avere una notifica agevolata da una formale dichiarazione di domicilio o elezione di domicilio in luogo diverso da quello ove il condannato abita, bensì (soprattutto) di conoscere, in fatto, il luogo ove l’interessato realmente vive,ove effettuare l’indagine socio-familiare ed eseguire l’eventuale misura alternativa ed i correlati controlli; non è (tanto) quello di evitare, per effetto della formale dichiarazione o elezione di domicilio, la possibilità di improprie sottrazioni del condannato alla corretta esecuzione giacchè, ad ogni evidenza, siffatta possibilità non attiene solo al momento dell’avvio del procedimento ma costituisce un rischio che incombe sull’intero arco del procedimento di sorveglianza e dell’esecuzione penale extramuraria. In altri termini il domicilio non rappresenta un elemento puramente formale (per certi versi estrinseco) del procedimento di sorveglianza (come, invece, pacificamente è per tutta la fase dibattimentale ove addirittura con il comma 8 bis dell’art.157 c.p.p. sì è fissato il principio che le notifiche all’imputato successive alla prima debbano eseguirsi presso il difensore di fiducia) giacchè, al contrario, costituisce esso stesso (il domicilio) uno dei temi principali di indagine della fase istruttoria, di valutazione della fase decisoria e di concreta esperibilità del beneficio nella fase esecutiva. Argomenti a favore della tesi sopra esposta provengono, del resto, dallo stesso regime di operatività dell’art.161 c.p.p. espressamente richiamato dal comma 2 bis dell’art. 677 c.p.p.. Come è noto, infatti, l’art. 161 comma 4 c.p.p. stabilisce che “se la notificazione nel domicilio determinato a norma del comma 2 diviene impossibile, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Nello stesso modo si procede quando, nei casi previsti dai commi 1 e 3, la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee..”. Orbene, nel procedimento di sorveglianza è frequente il caso del condannato che non si rende (o semplicemente non è più) reperibile presso il domicilio formalmente eletto al momento di presentazione della domanda. Ed è altrettanto pacifico e frequente che il Tribunale di Sorveglianza, dovendo rispettare la regolarità del contradditorio (sempre formale), sia costretto (non potendo dichiarare l’inammissibilità della domanda – cfr. Cass. Pen. Sez. I n. 15137/2010) a rinviare l’udienza di trattazione del procedimento per effettuare una nuova notifica (questa volta) mediante consegna al difensore determinando (in questo caso sì) effetti dilatori sul procedimento di applicazione delle misure alternative. L’ipotesi, tuttavia, ha il suo (iniquo) risvolto contrario. Ciò a dire il caso del condannato che (per le ragioni più varie) non ha formalmente dichiarato o eletto domicilio nei termini espliciti richiesti dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione in principio richiamata e che, ciononostante, si riceve regolarmente la notifica presso l’indirizzo di residenza semplicemente indicato, si sottopone puntualmente alla verifica UEPE e che si presenta in udienza innanzi il Tribunale competente per essere sentito. Ebbene, in questo caso - dovendosi applicare rigidamente il disposto di cui al comma 2 bis dell’art.677 c.p.p. nei termini proposti dalla giurisprudenza già citata - il Tribunale di Sorveglianza dovrebbe dichiarare inammissibile l’istanza pur in presenza di un contatto più che evidente con il condannato e pur in presenza di tutti gli elementi per poter giungere ad una pronuncia nel “merito” che, non sembra ozioso rammentarlo, rappresenta il “cuore” di tutto il sistema delle misure alternative. Gli effetti paradossali di un sistema di tal fatta sarebbero quelli di determinare l’ingresso in carcere (in un altissima percentuale di casi) di persone alla prima esperienza detentiva ovvero che già hanno avviato un autonomo percorso di recupero e di reinserimento inesorabilmente interrotto dall’improvvisa esecuzione della pena. Della iniquità di tali effetti, osserva questo Collegio, sembra prendere atto una recentissima pronuncia della Suprema Corte (Sezione I, 13.5.2013 n.20479). Il caso affrontato dai Giudici di legittimità concerneva un decreto di inammissibilità di una istanza di affidamento in prova e/o detenzione domiciliare fondato sul fatto che l’istante non aveva indicato il domicilio nel quale avrebbero potute essere eseguite le misure alternative richieste. Ebbene la Cassazione, annullando il decreto impugnato, in motivazione ha così statuito: “La giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. 1 n. 1676 del 6/3/2000, Omari, Rv. 215819) ha invero più volte affermato il principio secondo il quale la concessione di una misura alternativa presuppone la reperibilità del soggetto per la realizzazione dei fini della risocializzazione, si che l'opposta situazione di fatto della irreperibilità è incompatibile con la struttura dell'istituto in esame. Tuttavia la mancata indicazione del domicilio nella richiesta non è configurata dalla legge come condizione ostativa allo svolgimento della procedura camerale, non potendosi escludere a priori che l'interessato compaia ed indichi il domicilio presso il quale eseguire la misura alternativa richiesta. Pertanto solo in caso di mancata comparizione del condannato all'udienza camerale potrà rilevarsi l'incompatibilità della misura alternativa con l'accertato stato di irreperibilità del richiedente”. Come è evidente la sentenza or ora citata pone al centro del procedimento di sorveglianza la situazione di reperibilità del condannato e non già l’esistenza di un mero domicilio dichiarato od eletto osservando forme più o meno sacramentali. Iniquità, si aggiunge, ancor più evidente ove si consideri che la disciplina prevista dall’art.161 c.p.p. - secondo cui l’organo procedente nel primo atto compiuto con l’intervento della persona indagata o dell’imputato non detenuto lo invita a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’art. 157 comma 1 ovvero a eleggere domicilio - è posta a garanzia del soggetto indagato o imputato in quanto dall’eventuale mancata comunicazione del mutamento del domicilio dichiarato o eletto o anche nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio non deriva conseguenza alcuna sulla libertà del soggetto e sull’esito del giudizio risolvendosi il tutto nella esecuzione delle notifiche successive, a seconda dei casi, presso il difensore o nel luogo in cui l’atto è stato notificato. Nel procedimento di sorveglianza, invece, dalla mancata dichiarazione o elezione di domicilio nei termini tracciati dalle Sezioni Unite della Cassazione dovrebbe discendere un effetto gravemente sanzionatorio quale la immediata perdita della libertà personale da parte del soggetto condannato. D’altro canto si rileva se a norma dell’art.161 c.p.p. - in mancanza di elezione o dichiarazione di domicilio o di omessa comunicazione di ogni mutamento successivo - si prevede che le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l’atto è stato notificato, è oltremodo consequenziale ritenersi che a seguito dell’ordine di esecuzione emesso dal P.M. regolarmente notificato al condannato il luogo ove è possibile effettuare le successive notifiche per il procedimento di sorveglianza sia quello consacrato nell’ordine di esecuzione salva successiva diversa volontà espressa dal soggetto interessato. Analogamente non è dato comprendersi per quale ragione il difensore sia di ufficio che di fiducia non sia legittimato ad indicare il domicilio-residenza del proprio assistito condannato per il quale chiede l’applicazione di misura alternativa ove si consideri che tale possibilità è ritenuta possibile dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite nei casi di irreperibilità accertata o di latitanza del condannato risultante dagli atti. In altri termini il trattamento riservato al condannato che nella istanza, presentata anche tramite il proprio difensore, si rende reperibile indicando espressamente un luogo di residenza è deteriore (dovendosi ritenere l’istanza inammissibile) rispetto al condannato sicuramente irreperibile o latitante per il quale, invece, è consentito al difensore di presentare l’istanza e di determinare così l’avvio del procedimento di sorveglianza. Pertanto, sulla scorta di quanto sopra esposto, ritiene questo Tribunale percorribile una interpretazione adeguatrice di tipo restrittivo dell’art.677 comma 2 bis c.p.p. che limiti i casi di inammissibilità ivi disciplinati alle sole istanze in cui la parte interessata o il difensore non indichino un luogo di residenza completo di indirizzo. Ciò a dire una situazione, quella or ora indicata, in cui non è neanche astrattamente possibile eseguire una notifica tantomeno è agevolmente e celermente possibile entrare in contatto col condannato il quale, in maniera sintomatica, con la propria condotta non dimostra alcun interesse per il procedimento. In caso contrario l’indicazione della residenza deve intendersi atto equipollente alla dichiarazione di domicilio con tutti gli effetti che ne derivano. Ciò è viepiù avvalorato dalla circostanza che la disciplina di cui all’art.161 c.p.p. attribuisce al soggetto la facoltà di indicare anche luoghi diversi da quello di residenza ove riceversi le notifiche ma ciò non significa che di tale facoltà l’interessato debba sempre avvalersi dovendosi, dunque, ritenere che in caso di indicazione del luogo di residenza il soggetto, implicitamente ma univocamente, intenda compiere una dichiarazione di domicilio. E poiché nella specie il XXXXXXX nel corpo dell’istanza ha indicato, tramite il proprio difensore, espressamente il luogo ove risiede in CAIO DEI CAI via DEL SOLE 23 (per altro coincidente con quello risultante dall’ordine di esecuzione del P.M. e presso cui si è perfezionata la notifica), è di assoluta evidenza che una declaratoria di inammissibilità sarebbe in contrasto con tutta la ratio che sottende il procedimento di sorveglianza per come fin qui illustrata. In definitiva, ritiene questo Tribunale, in base all’interpretazione adeguatrice proposta in questa sede, che debba escludersi in casi del tipo di quello che occupa che possa darsi luogo a declaratoria di inammissibilità. Conseguentemente ……. …….. Messina 25 settembre 2013 il Mag. di Sorv. rel. dr. Carmelo Ioppolo P.Q.M. il Presidente dr. Nicola Mazzamuto