Vita da universitario: che differenze fra Italia e Inghilterra!

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LETTERE
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Vita da universitario: che differenza tra Italia e Inghilterra!
02.11.15
Gianni De Fraja
Vi sono importanti differenze nella composizione del corpo studentesco nelle università italiane e in quelle inglesi. Molteplici le possibili
cause e le conseguenze.
Cosa pensi di studiare all’università?
L’inizio dell’autunno vede in Gran Bretagna una strana migrazione interna: automobili in viaggio piene di valigie, scatole di pentole padelle
e teiere, lenzuola e teli da bagno, spesso un orsacchiotto di peluche. Il paese è zigzaggato senza uno schema preciso: c’è chi da un
pittoresco villaggio del Sud-Est accompagna il figlio a un piovoso campus del Nord; chi parte dalle città del Nord e arriva a un’università
del Sud. Il mio contributo è stato di portare la figlia numero due dall’Est del paese a Manchester.
Per le matricole (fresher ) è l’inizio dell’avventura universitaria: tre quarti degli studenti universitari inglesi vivono fuori di casa. In Italia, a
parte un sistematico flusso dal Mezzogiorno a università del Nord e del Centro, la maggioranza degli studenti frequenta l’università
vivendo a casa con i genitori. Nel Regno Unito anche chi, per motivi accademici frequenta un’università vicina a casa, vive in affitto nelle
stanze da studente, e certo non va a casa nel fine settimana, ma resta e partecipa alla vita sociale degli studenti.
La teoria economica ha una spiegazione
Oltre alle conseguenze comportamentali, per cui lo studente inglese si rende indipendente molto presto, il modo diverso in cui sceglie
dove studiare è insieme causa ed effetto di altre importanti differenze tra il sistema universitario italiano e quello inglese. Capire queste
differenze contribuisce al recente dibattito che ha avuto luogo nei siti italiani sulle conseguenze delle scelta di cosa studiare all’università.
È utile fare un passo indietro teorico. Grazie a Michael Spence, gli economisti sanno che parte del valore dell’istruzione è dato dal segnale:
gli studenti che conseguono una laurea “difficile” segnalano ai datori di lavoro di essere bravi (diligenti, laboriosi, intelligenti, organizzati)
e cercano così di convincerli che offrir loro un posto di lavoro è un buon investimento. Dato che conseguire una laurea “difficile” è
impossibile per uno studente non bravo, il segnale è efficace: chi vede il segnale (il diploma di laurea) sa che lo studente è bravo, e offrire
a lui un posto riduce il rischio di trovarsi con un lavoratore incapace. Questo meccanismo, sottolinea Spence, funziona anche nel caso
estremo in cui l’istruzione non contruibuisce per niente alla capacità di svolgere il proprio lavoro; ovviamente il valore dell’istruzione
aumenta ancora se si studia qualcosa di utile oltre che difficile. Perché l’istruzione possa servire come segnale, è solo necessario che
esista correlazione tra abilità nello studio e nel lavoro: cioè che – in media – chi è bravo a tradurre Tacito sia anche bravo a gestire e
motivare efficacemente un gruppo di dipendenti. Questo spiega perché misurare correlazioni non basta per capire la direzione della
causalità: in Italia la correlazione tra reddito e aver studiato al liceo classico è positiva, ma quella tra reddito e aver studiato lettere è
negativa: questo probabilmente perché, in media, gli studenti bravi vanno al classico e poi a ingegneria, medicina o legge, quelli più deboli
si iscrivono a lettere, pedagogia o lingue straniere.
Data la netta differenza tra atenei, in Inghilterra la studentessa capace e ambiziosa può dimostrare di esserlo facendosi ammettere e
completando gli studi in un ateneo “difficile”: una laurea in lingue straniere a Oxford ha senz’altro più valore, sul mercato lavoro, di una in
ingegneria a Derby: gli studenti lo sanno, e scelgono di conseguenza, cercando di farsi ammettere da istituzioni con la soglia di
ammissione più alta possibile; i datori di lavoro lo sanno, e anche loro scelgono di conseguenza, cominciando dalla selezione degli atenei
da visitare per reclutare studenti (il cosiddetto milk round). Negli open day e nei loro siti, a loro volta, le università sottolineano il prestigio
delle destinazioni dei loro laureati. In Italia il segnale indicato dall’ateneo è più attenuato, e il modo in cui lo studente bravo può
differenziarsi è scegliendo una facoltà difficile: ingegneria o matematica, invece che lettere o sociologia. “Ho studiato ingegneria, posso
disegnare ponti e so come funziona un reattore nucleare, son certo di saper gestire il tuo ufficio relazioni esterne meglio di chi ha passato
cinque anni a guardare film e discuterne in gruppo.”
Lezioni per l’Italia?
Il sistema inglese è più efficiente: lo studente può seguire le sue preferenze culturali e capacità intellettuali nella scelta di cosa studiare, e
studiare qualcosa che gli servirà nella professione scelta, senza preoccuparsi di come i potenziali datori di lavoro interpreteranno questa
scelta (anche se rimangono comunque differenze nei salari tra materie studiate). Volendolo far funzionare anche in Italia richiede forse
regole non convenzionali: ad esempio premiare le università che attraggono studenti fuori sede, fare prestiti studenteschi ristretti al
rimborso dell’affitto. E in ogni caso ci vorranno tempo e soprattutto volontà politica.
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03/11/2015 11.14
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BIO DELL'AUTORE
GIANNI DE FRAJA
Gianni De Fraja ha conseguito il PhD a Oxford nel 1990; è attualmente professore di Economia a
tempo parziale presso l’ Universita' di Roma "Tor Vergata" e presso l'University of Nottingham ed è
Research Fellow al Cepr. I suoi interessi vertono in particolare sull'istruzione e l'economia industriale.
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