iii. i leganti, gli intonaci, gli stucchi

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iii. i leganti, gli intonaci, gli stucchi
Aurora Cagnana
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III. I LEGANTI, GLI INTONACI,
GLI STUCCHI
1. Selenite, calcari e dolomie: le materie prime
Il primo legante impiegato dall’uomo è stato l’argilla, e il suo uso è
durato a lungo, soprattutto nell’edilizia rurale, anche in epoche recenti. Tuttavia per ottenere costruzioni solide ed elevate in altezza
(soprattutto con pietre piccole o non squadrate) l’uso di leganti più
tenaci era di fondamentale importanza, onde consentire di aggregare
fra loro gli elementi delle murature e aumentarne la resistenza alla
compressione; materiali più durevoli vennero perciò prodotti con trasformazioni di tipo chimico dovute, principalmente, alla cottura di
rocce particolari.
I leganti preindustriali sono costituiti da gesso e calci; il loro uso
non era limitato alle strutture portanti (malte e calcestruzzi), ma si
estendeva ai rivestimenti (intonaci), alle decorazioni in rilievo (stuc chi), alle pavimentazioni.
I leganti vengono definiti anche materiali ‘litoidi’, dato che derivano da quelli litici, ad essi assomigliano e come tali si comportano. Si
ottengono per trasformazione di alcune rocce sedimentarie di origine
chimica, sia solfatiche, sia carbonatiche (cfr. I.1.).
La selenite o pietra da gesso ha una composizione solfatica, è monomineralica, essendo costituita prevalentemente da cristalli di gesso, o
solfato biidrato di calcio (Ca SO4 2H2O), il quale si trova in natura in
formazioni stratificate, dovute a depositi originati per evaporazione di
bacini d’acqua chiusi.
Per la produzione di calci si usavano invece rocce sedimentarie car-
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bonatiche, ovvero calcari. Molto adatti erano quelli puri, cioè con alto
contenuto di carbonato di calcio, costituito per lo più dalla calcite
(CaCO3), che in alcune formazioni può anche trovarsi in quantità pari
al 95%.
In alcune circostanze vennero utilizzati anche i marmi, originati
dal metamorfismo dei calcari (cfr. I.1.), e nei quali il carbonato di calcio può rappresentare il 98-99% della roccia; tuttavia essi sono poco
adatti alla produzione di calce, perché macrocristallini. Anche i calcari meno puri, contenenti cioè piccole quantità di quarzo, ossidi di ferro,
o minerali argillosi, venivano utilizzati, in passato, per la produzione
di leganti.
Un altro litotipo calcareo molto usato era la dolomia, anch’essa
roccia sedimentaria di origine chimica, costituita da carbonato di calcio e magnesio (CaMg (CO3)2). Non molto diversi sono i calcari dolomitici, rocce ‘intermedie’ fra i calcari e le dolomie, nei quali, a differenza della dolomia, il rapporto calcio-magnesio non è sempre pari a
1:1, ma la quantità di calcio è maggiore; in pratica si tratta di litotipi
formati da calciti, dove il magnesio sostituisce una parte del calcio.
2. I sistemi di estrazione
Rispetto alle cave di pietra da taglio, che dovevano fornire blocchi
grandi, regolari e senza difetti, quelle per la pietra da calce, erano
basate su procedimenti assai meno complessi. Le cave erano sempre
organizzate a gradoni, con un fronte e un piazzale, ma per l’estrazione non si operavano i faticosissimi e regolari solchi delle ‘tagliate a
mano’, ma si cercava di sfruttare ogni difetto, ogni crepatura o fratturazione naturale. I massi potevano essere distaccati dalla roccia
madre con picconi e leve o con cunei infissi a martello nelle fessure.
Dopo il distacco le pietre venivano fatte rotolare sul piazzale, per essere ridotte in frammenti minori.
Appena estratte avevano perciò forme irregolari; le dimensioni
potevano essere diverse, tuttavia non troppo piccole, né troppo grandi, in modo da agevolare le operazioni di trasporto: la lunghezza idea le non superava i 20-30 centimetri.
Dalla fine del XVII secolo nelle cave per pietra da calce è stato
introdotto massicciamente l’uso di esplosivi, proprio perché non vi
erano precauzioni di rovinare il materiale e tutto il prodotto estratto
poteva essere utilizzato.
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3. Il ciclo di lavorazione del gesso
Il gesso veniva ottenuto in seguito alla cottura della selenite, a
temperature relativamente basse. Già a 130° C, infatti, questa roccia
subisce una trasformazione chimica, dovuta alla parziale disidratazione, che dà luogo al solfato di calcio semiidrato:
2(Ca SO 4 2H2O) + 130° = (Ca SO4)2 H2O + 3 H 2O
Si tratta del cosiddetto gesso a presa rapida, utile solo per interventi veloci. A questo stadio la trasformazione è reversibile, in quanto
il semiidrato, se impastato, può riprendere acqua e quindi tornare
rapidamente biidrato, ovvero a una forma abbastanza resistente.
Con una cottura a 160°-180° C si ottiene il gesso da stuccatori, che
impiega pochi minuti per fare presa.
Se invece la selenite viene cotta a temperature di 400°C o superiori ha luogo una completa disidratazione (gesso cotto) e si ottiene il solfato di calcio anidro.
2 (Ca SO 4 2H2O) + 400°C = (Ca SO4)2 + 4H2O
Questo materiale, impastato con acqua ed esposto all’aria, ricristallizza più lentamente, diventando prima semiidrato e poi biidrato.
La scagliola deriva invece dalla miscela di gesso da stuccatori e
selenite macinata finissima, unita a colla animale. Ha una presa normale ed è perciò adatta a essere utilizzata per la produzione scultorea,
ad esempio nei modelli per la statuaria in pietra, oppure negli altari e
paliotti, realizzati a imitazione del marmo.
Se la cottura avviene a temperature comprese fra i 600° e i 900°, si
ottiene il cosiddetto gesso morto, o cotto a morte. È un materiale assai
stabile e poco idratabile.
Poiché è il più facile da produrre, potendo subire trasformazioni
reversibili già a basse temperature, il gesso è la più antica sostanza
legante prodotta artificialmente. Quello a presa lenta, infatti, è molto
plastico, adatto a essere modellato, e solidificandosi non cambia volu-
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me, perciò non ha bisogno di inerti. L’unico inconveniente che presenta è quello di essere molto igroscopico, vale a dire che allo stato microcristallino è assai poroso e perciò assorbe acqua la quale tende, col
tempo, a polverizzarlo. Per questo il suo uso era maggiormente adatto nelle regioni con climi caldi, oppure negli interni.
Come legante fu utilizzato dagli Egizi, dal terzo millennio a.C., (si
trova ad esempio nelle piramidi di Gizah e nelle tombe di Saqqara) e
in età minoica. In seguito venne utilizzato assai più per gli intonaci e
per gli stucchi (cfr. III.7.) che per l’allettamento delle pietre nei muri.
4. La calce: cottura, spegnimento, impasto, presa
Le malte sono miscele costituite da legante di calce, sabbia aggiunta come aggregato (un tempo chiamato inerte) e da acqua. Al contatto
con la CO2 dell’aria il legante indurisce, diminuendo di volume e
diventando consistente, pertanto è un materiale particolarmente
adatto come impasto per l’allettamento delle pietre nei muri.
Nella classificazione tecnologica, la distinzione fondamentale va
fatta fra malte aeree, nelle quali il legante fa presa con l’aria, e malte
idrauliche, che possono far presa anche in assenza di aria, come
sott’acqua (cfr. III.5.).
Un’altra distinzione viene fatta, in base alla composizione chimica
dei leganti, fra calci grasse e calci magre: le prime si ottengono dalla
cottura di calcari, le seconde dalla cottura di dolomie o di calcari dolomitici, e perciò vengono dette anche calci magnesiache.
Occorre non confondere il concetto di calce grassa o magra con
quello di malta grassa o magra: le malte grasse contengono infatti
maggiori quantità di legante, mentre quelle magre ne hanno percentuali minori. Si possono così avere, ad esempio, malte grasse di calce
magra, o viceversa.
La preparazione delle calci aeree grasse si ottiene in seguito alla
cottura a 900°C di pietre calcaree. A tale temperatura il carbonato di
calcio si trasforma tutto in ossido di calcio (CaO) o calce viva, con
emissione di anidride carbonica, che si disperde nell’atmosfera.
CaCO3 + 900° = CaO (calce viva) + CO2
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La calce viva è un composto molto caustico, poiché il calcio (come il
magnesio) fa parte degli elementi alcalino-terrosi, i quali, ossidati,
sono basi molto aggressive, in quanto tendono a idratarsi velocemente, cioè a catturare idrogenioni e quindi a disidratare i tessuti organici. Per tali motivi la calce viva era molto usata in passato come disinfettante.
Prima di essere impiegata nelle murature deve essere spenta con
acqua. Il sistema tradizionale di spegnimento consisteva nella preparazione del grassello. Le zolle di calce viva venivano messe a bagno
con quantità d’acqua poco superiore a quella necessaria per idratarsi chimicamente. Questa operazione dà luogo, con abbondante emissione di calore, alla calce spenta (Ca (OH)2), cioè all’idrossido di cal cio. Durante lo spegnimento la calce viva veniva molto impastata,
oppure lasciata macerare a lungo, affinché la reazione fosse completa. È questo grassello che veniva impastato nei cantieri, insieme a
sabbia e acqua, per ottenere miscele pronte a essere poste in opera
nei muri.
Oggi sappiamo che l’idrossido di calcio ha una struttura cristallina, essendo costituito da individui di forma tabulare che esistono
anche in natura, con il nome di portlandite. È interessante osservare
come questo composto, a differenza della calcite di partenza e dell’ossido di calcio, con una aggiunta limitata di acqua diventi plastico, analogamente all’argilla (cfr. II.1.). È molto probabile che tale plasticità
sia dovuta alla forma cristallina della portlandite, che, analogamente
ai minerali argillosi, ha un abito lamellare. Anche l’idrossido di calcio
è un prodotto caustico, come la calce viva.
Una volta impastato e allettato nelle murature, l’idrossido viene a
contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera e provoca una carbo natazione, con altra emissione di calore, che causa la ricristallizzazione della calcite, di conseguenza ritorna alla durezza del calcare originario.
CaO + H 2O = CaOH 2 (idrossido di calcio o portlandite)
CaOH2 + CO2 = Ca CO 3 (calcite) + H 2O
La calce viva poteva essere prodotta nei cantieri, oppure acquistata da fornaci poste in prossimità delle cave, fuori dagli abitati, in aree
boscose, dove era più facile l’approvvigionamento di legna.
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Il grassello invece, essendo pastoso e bagnato, non poteva essere
commerciato facilmente, pertanto veniva prodotto direttamente nei
cantieri. Quello che non era usato subito veniva conservato in fosse,
coperto con acqua, (talvolta anche con pelli) per proteggerlo dal contatto con l’aria e per impedirne la reazione con l’anidride carbonica
che avrebbe causato la carbonatazione prima del tempo.
Nel secolo scorso, con l’industrializzazione e con la nascita della
scienza dei materiali è stato introdotto un altro sistema di spegnimento, di tipo stechiometrico, cioè basato sulla combinazione di molecole di ossido di calcio e molecole di acqua, in quantità calcolate in
base al peso. Ciò dà luogo a un idrossido di calcio che non si presenta
in forma plastica, perché non ha acqua in sovrabbondanza, ma in
forma di polvere ed è perciò più facilmente commerciabile. Se viene
mantenuto sigillato, in modo da non carbonatarsi al contatto con l’anidride carbonica e con l’umidità dell’atmosfera, può essere anche conservato. Se invece i sacchi sono di carta e traspirano, la parte esterna
della calce spenta viene progressivamente a contatto con l’anidride
carbonica dell’aria e, in presenza di umidità, avviene la reazione di
carbonatazione, che porta alla formazione della calcite. Poiché l’idrossido di calcio in polvere non può essere distinto, a vista, dal carbonato di calcio, se è commerciato nei sacchetti va usato fresco, prima che
avvenga la carbonatazione a contatto con l’aria.
La preparazione delle calci aeree magre ha luogo in seguito alla
cottura di rocce magnesiache (calcari dolomitici o dolomie); la presenza del magnesio (sopra al 10%) dà meno plasticità e una presa più
lenta al legante. Con temperatura pari a circa 900°C si ottengono ossido di calcio e ossido di magnesio (CaO e MgO), entrambe caustici,
anche se il magnesio è meno aggressivo perché più lento è il suo processo di idratazione rispetto a quello del calcio.
Ca Mg (CO 3)2 + 900° = CaO + MgO (calce viva) + CO2
Lo spegnimento della calce viva magra con acqua produce un grassello costituito da idrossido di calcio (Ca(OH)2) e idrossido di magnesio (Mg(OH)2). Come la portlandite anche l’idrossido di magnesio esiste in natura e viene definito brucite; essa ha un abito cristallino fibroso, non soggetto a comportamenti plastici.
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CaO MgO +2 H 2O = Ca(OH) 2 (portlandite) Mg(OH)2(brucite)
Ca(OH)2 + CO2 = CaCO 3 (calcite)
Mg(OH)2 + CO2= MgCO 3 (magnesite)
Lo spegnimento dell’ossido di calcio e dell’ossido di magnesio avviene con emissione di molto calore, è cioè una reazione esotermica. La
formazione degli idrossidi e della plasticità causa anche un notevole
aumento di volume, che poi con la carbonatazione viene perso.
A contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera l’drossido di calcio si trasforma in calcite, mentre l’idrossido di magnesio o resta tale
o, più difficilmente, si trasforma in magnesite. Mentre l’idrossido di
calcio non lega finché non ha compiuto la carbonatazione, l’idrossido
di magnesio, invece, è un composto già molto resistente. Ciò spiega
perché le calci magnesiache fanno presa anche con poca anidride carbonica.
L’aggregato, che viene impastato col grassello prima della posa in
opera, è il componente della malta che non reagisce e non cambia
stato né volume, impedisce perciò al legante di spaccarsi durante la
carbonatazione. Quest’ultima, infatti, causa nel legante un ritiro di
volume, e poiché ciò avviene in tempi differenti per le parti esterne e
per quelle interne, può provocare la spaccatura del materiale. È per
tale motivo che si rende necessaria l’aggiunta dell’aggregato, ovvero di
altro materiale litico fine, che non ha ritiro. Esso ha inoltre una funzione di dimagrante, in quanto riduce la plasticità della calce, che è
molto alta. Generalmente la miscela migliore consiste nel combinare
1 parte di calce e 3-4 parti di inerte. Queste proporzioni variano però
a seconda dello spessore della malta: quanto più è maggiore tanto più
aumenta il ritiro ed è necessario l’aggregato. Le percentuali in rapporto allo spessore sono indicate nella tabella seguente:
SPESSORE MALTA
> cm 2,0
cm 1-2
mm 1-2
% AGGREGATO
75-80%
65-70%
50%
L’aggregato più usato è la sabbia, ma era frequente anche l’uso di
rocce macinate. Se si dovevano ottenere composti di colore bianco, si
frantumavano minerali selezionati, come ad esempio la calcite. Talora
certi elementi dell’aggregato reagiscono chimicamente con il grassel-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
lo, aumentando la resistenza della malta: perciò si preferisce oggi il
temine ‘aggregato’ a quello di inerte.
Le caratteristiche più importanti sono la granulometria (che deve
raggiungere dimensioni tanto più grandi quanto più abbondante è l’inerte) e la resistenza dei litotipi costituenti.
In genere non venivano usate sabbie a granulometria omogenea,
(ovvero ‘classate’), sia perché in natura sono rare (e si potevano ottenere solo con una doppia setacciatura) sia perché sono meno buone, in
quanto lasciano più spazi vuoti, non avendo materiale fine in grado di
riempirli.
Le sabbie fluviali generalmente sono poco classate e presentano
granelli con dimensioni varie, che vanno dall’ordine del micron ai clasti ben visibili a occhio. Esse potevano perciò fornire un aggregato in
grado di riempire anche i vuoti minuti della malta, lasciando al legante solo il compito di saldare fra loro i granuli. Le sabbie con frazioni
grossolane, cioè con granulometria molto estesa, richiedono minor
quantità di legante e permettono perciò di ottenere una malta più
magra in grandi spessori. Le elevate dimensioni granulometriche non
riducono la resistenza alla compressione, soprattutto se i granelli sono
costituiti da rocce dure e tenaci. Questo principio è alla base del cal cestruzzo, una miscela di ciottoli o schegge di pietra, sabbia e calce. Se
il materiale fine delle sabbie è in grado di riempire tutti i vuoti lasciati da quello grossolano e la durezza dei clasti maggiori è alta, il calcestruzzo ha una resistenza pari a quella di un’arenaria con cemento
calcareo. Fra la calce e l’inerte sono possibili legami fisici e chimici; i
primi sono costituiti dall’eventuale penetrazione del legante nei pori
dell’aggregato, mentre i secondi si stabiliscono in superficie fra i cristalli di calcite e i minerali che formano gli inerti. Come nelle rocce,
questi legami hanno una resistenza più bassa di quelli interni ai cristalli stessi. In pratica si crea artificialmente un materiale che ha le
stesse caratteristiche delle arenarie, formatesi in seguito alla litificazione, attraverso cemento calcareo, di sabbia marina (cfr. I.1.). Nella
scelta delle sabbie è dunque importante che i costituenti abbiano una
durezza uguale o maggiore rispetto a quella del carbonato di calcio.
Per il prelievo della sabbia generalmente sono migliori le spiagge
lacustri o gli alvei dei fiumi non torrentizi, dove cioè l’argilla viene
separata durante la sedimentazione. La presenza di poca argilla
cruda nelle malte è infatti dannosa, mentre per ragioni non ancora
note, si è osservato che, al contrario, la presenza di poca calce in grande quantità di argilla cruda ha dato buoni risultati. L’uso della sabbia
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marina era sconsigliato anche nella trattatistica antica: per poter
essere impiegata quest’ultima doveva essere lavata accuratamente, in
modo da togliere il sale, la presenza del quale alterava la presa.
Un altro tipo di inerte era il pietrisco, o pietra macinata. La produzione di questo materiale, laddove non era disponibile sabbia, era
un lavoro non particolarmente specializzato, ma che richiedeva molta
fatica fisica.
Fra l’inerte costituito da pietrisco macinato ve ne è un tipo ottenuto da pietre scelte e selezionale intenzionalmente: la calcite o il
marmo. Questi materiali, dopo essere stati macinati e setacciati venivano utilizzati soprattutto negli intonaci esterni (cfr III.6.), il loro
impiego era dovuto non solo alla necessità di ottenere il colore bianco,
ma anche al fatto che, per motivi non ancora chiariti, rendono più resistente il rivestimento.
La calcinazione delle rocce calcaree richiede, come si è visto, temperature maggiori rispetto alla cottura del gesso e quindi maggiori
quantità di combustibile e impianti di cottura più complessi; pertanto, alcuni studiosi sostengono che la sua scoperta sia da ritenersi più
tarda rispetto ai leganti a base di gesso, anche se la sua origine non è
ancora del tutto certa. Secondo N. Davey in Egitto vi sarebbero poche
prove di un impiego della calce prima del periodo tolemaico. L’uso
delle calci nelle costruzioni era certamente noto ai Minoici, ai Micenei
e ai Greci dell’epoca arcaica, anche se l’uso principale che ne veniva
fatto era per i rivestimenti (cfr. III.6.) e, in misura assai minore, per
le malte.
È solo con l’età romana che questo materiale venne utilizzato sistematicamente per le murature; la sua introduzione nell’architettura si
data attorno alla fine del III sec. a.C. e a partire da questo momento
il suo impiego si generalizza sempre più. Alcuni archeologi hanno proposto una spiegazione assai convincente di questo fenomeno, osservando che l’enorme afflusso di ricchezze e di manovalanza servile,
seguito alla conquista militare del Mediterraneo, aveva determinato
forti investimenti nell’industria edilizia, nella quale veniva impiegata
abbondante mano d’opera schiavistica, poco specializzata; ciò avrebbe
reso necessario adottare sistemi costruttivi più standardizzati e veloci rispetto alla costruzione di muri in pietra squadrata e avrebbe reso
conveniente un uso generalizzato dei muri pietra a spacco e malta.
La prima descrizione del funzionamento di un forno da calce si
deve a Catone (De Agr. XLIV, 38) e risale al 160 a.C. circa. Lo scritto-
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re latino descrive un impianto dotato di una o due bocche e di un foro
di sfiato posto nella parte alta della cupola, che doveva essere caricata con pietre bianche, accendendo il fuoco in basso e facendo fuoriuscire il fumo dall’apertura superiore. Della preparazione di malta parlano estesamente, in seguito, anche Vitruvio (De Arch. II,5) e Plinio
(Nat. Hist.XXXVI). L’impiego sistematico della calce permise il perfezionamento delle malte idrauliche (cfr. III.5.) e l’utilizzo su ampia
scala del calcestruzzo (detto caementum, da caementa = scaglie lapidee) per costruire volte di dimensioni eccezionali.
Una organizzazione produttiva assai articolata è attestata, per l’epoca tardoimperiale, dal Codice Teodosiano, dove si apprende che per
la cottura della calce esisteva una speciale corporazione di calcarien ses, sorvegliati da un praepositus calcis. Quando, nel 365, l’imperatore Valentiniano dispose la fornitura alla città di Roma di 3000 carrettate annue di calce, destinate alla manutenzione degli edifici pubblici,
il trasporto venne affidato a un’apposita corporazione di vecturarii,
anch’essi sottoposti alla sorveglianza del praepositus calcis.
L’industria della calce non tramontò nei secoli dell’Altomedioevo,
quando la sua produzione è ancora attestata sia da prove archeologiche sia da fonti scritte. Interessante è a tale proposito la scoperta, a
Roma, negli scavi della Crypta Balbi, di una fornace databile fra la
fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Costruita a ridosso di murature di
età augustea, era costituita da una grande struttura cilindrica scavata nel terreno; le pareti erano di laterizi reimpiegati, legati da argilla.
La pianta presentava la strozzatura di collegamento fra la camera di
cottura e il praefurnium, caratteristica anche delle fornaci da ceramica (cfr. II.5). Nei pressi si è rinvenuto un deposito di materiale chiaramente destinato alla cottura, costituito da elementi architettonici di
recupero (soprattutto travertini e, in misura minore, marmi bianchi,
oltre a rari frammenti di marmi colorati). Assai interessante era inoltre la presenza di una risega interna, sporgente di 40 centimetri, che
seguiva l’intero perimetro della camera di cottura, (tranne che in corrispondenza del prefurnio), interpretabile come un piano d’appoggio
destinato a sostenere la ‘volta’ che veniva realizzata con i blocchi da
calcinare. Tale risega corrisponderebbe al fórtax descritto da Catone,
caratteristico dei forni da calce di età romana, poi scomparso in epoca
medievale; l’esempio della Crypta Balbi testimonierebbe perciò la
sopravvivenza di questo elemento in un periodo assai avanzato.
Nei forni di età successiva, fino a quelli descritti nell’Encyclopédie
di Diderot e D’Alembert, la ‘volta’ formata dai blocchi da calcinare,
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veniva costruita direttamente sul fondo, come indicano
numerose prove
archeologiche e iconografiche.
Alcuni impianti postmedievali di questo tipo,
ancora ben conservati nella
periferia occidentale di
Genova, sono stati oggetto
di studi recenti; il confronto fra analisi dei manufatti
e lettura delle fonti archivistiche ha permesso di conoscere molti dettagli sulla
produzione e sul mercato
della calce fra XVII e XIX
secolo. Ogni unità produttiva era composta da una
fornace e dall’attigua casa
del calcinarolo, che lavorava alle dipendenze del fab bricante, il quale era proprietario degli impianti,
dei boschi che fornivano il
49- La fornace da calce altomedievale
combustibile, dei mezzi di
rinvenuta a Roma, negli scavi della
trasporto (muli e imbarcaCrypta Balbi (da SAGUì 1986)
zioni) e persino di piccoli
scali costieri. Ogni cottura
richiedeva da quindici a
venti giorni; il fornaciaio
poteva controllare continuamente l’andamento delle ‘cotte’ dalla propria casa, collegata alla fornace tramite un apposito vano.
L’operazione di carico, tramite la costruzione del ‘volto’, era assai delicata, poiché da essa dipendeva il buon esito della cottura; perciò
richiedeva la presenza di uno specialista (maestro), aiutato da alcuni
fornacini. Per sapere se la ‘cotta’ era ultimata si prelevava una piccola porzione di materiale inserendo nel ‘volto’ lunghe aste uncinate
(panferri). Non appena raffreddata, la calce viva veniva immagazzinata in botti di legno, fatte scendere a valle tramite muli e quindi con-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
dotte presso i cantieri, oppure trasportata su piccole imbarcazioni fino
al Ponte Spinola, nel porto di Genova, dove era venduta al minuto. La
Magistratura dei Censori, dotata di specifiche competenze in materia
edilizia, regolamentava tutte le fasi della produzione e dello smercio.
La fornace, ad esempio, poteva essere caricata, ma non si poteva
avviare la cottura prima del controllo e della verifica della qualità del
combustibile e del tiraggio. La cottura stessa non poteva poi essere
ultimata senza un’ulteriore ispezione: nel caso in cui si fosse riscontrata la presenza di materiale ancora crudo, la vendita di tutta l’infornata sarebbe stata vietata. Solo per la calce riuscita “di perfezione”,
veniva autorizzato lo smercio, ma il prezzo, le unità di misura adotta te, il luogo della vendita erano sottoposti a ulteriori normative.
Tutte le fornaci descritte sino ad ora sono di tipo intermittente,
ovvero basate sulle tre distinte fasi di carico, cottura, scarico. Più rare
erano quelle a fuoco continuo, certamente esistenti già in età bassomedievale e descritte anche nell’Encyclopédie di Diderot-D’Alembert;
in questi impianti la cottura veniva eseguita tramite la sovrapposizione di strati alterni di calcare e di combustibile.
Se lo studio storico e archeologico degli impianti per la cottura
della calce e delle successive fasi del ciclo produttivo delle malte sono
abbastanza sviluppati e ci forniscono, perlomeno, una vasta casistica,
ancora molto problematica è invece la conoscenza del comportamento
chimico delle sostanze leganti; campo d’indagine che richiederebbe un
vasto programma di ricerche archeometriche mirate e puntuali. La
scarsa conoscenza della chimica delle malte è anche dovuta al fatto
che, dopo l’introduzione del cemento Portland (cfr. III. 5), l’uso dei
leganti tradizionali è stato abbandonato e con esso anche l’analisi
scientifica dei loro comportamenti; si pensi che solo da poco si conoscono le dinamiche della reazione di carbonatazione dell’idrossido.
Un caso particolarmente significativo di questo vuoto di conoscenze è rappresentato dal problema delle calci magnesiache, in passato
molto usate, ma sulle quali si sono acquisite solo di recente le prime
conoscenze scientifiche. Nei manuali sui materiali da costruzione contemporanei esse vengono spesso definite poco plastiche, a presa lenta
e, in definitiva, scadenti.
Le ricerche condotte da diversi anni sui leganti del centro storico
di Genova (e in particolare sulle infrastrutture portuali) hanno invece
permesso di constatare come in questa città l’uso di calci magre sia
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50- Fasi di carico (costruzione
del ‘volto’), cottura e scarico in
una fornace da calce del XVIII
secolo del genovesato (da
VECCHIATTINI 1998)
stato sistematico, dal XII secolo in poi, e non solo per le murature, ma
anche per i rivestimenti esterni e per le opere idrauliche. Il loro ottimo stato di conservazione, che contrasta con i giudizi negativi dei
manuali, ha fatto supporre che la scelta dei calcari dolomitici non sia
stata casuale, ma dettata da una precisa volontà. Si consideri, ad
esempio, che l’area tradizionale per la produzione delle calci, (descritta più sopra), è posta in corrispondenza dell’unico affioramento di calcari magnesiaci esistente nei dintorni di Genova. Si può persino ipotizzare che a introdurre l’uso della calce magnesiaca siano stati i
Magistri Antelami, (corporazione di costruttori lombardi attiva a
Genova fino alla caduta dell’Antico Regime) esplicitamente citati nel
più antico atto notarile relativo alla produzione di calce, redatto nel
XII secolo. Che i maestri lombardi prediligessero la dolomia è d’altra
parte emerso da un recente studio condotto sulle cave medievali della
zona dei laghi di Varese, dove, fra le varie formazioni calcaree presenti
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
51- Operazione di spegnimento della calce viva con acqua e formazione del
grassello (da una miniatura del XV secolo conservata a Vienna, Österreichische Nationalbibliothek)
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nella zona, veniva sistematicamente scelta la dolomia ladinica, anche
in presenza di calcari puri.
Tutti questi indizi sembrano dunque indicare che l’utilizzo di
rocce magnesiache per la produzione delle calci non fosse casuale, ma
intenzionale.
Evidentemente l’avversione per il magnesio è iniziata fra la fine
dell’Ottocento secolo scorso e gli inizi del Novecento, contemporaneamente al diffondersi del cemento Portland, in sostituzione delle malte
tradizionali.
5. Far presa sott’acqua: le malte idrauliche
Esistono alcuni particolari tipi di materiali leganti che possono
indurire e fare presa in ambienti molto umidi, oppure sott’acqua, cioè
in assenza di aria; di conseguenza essi permettono la costruzione delle
opere marittime e idrauliche in generale.
In passato erano in uso diversi sistemi per costruire nell’acqua:
-tramite additivi idraulicizzanti che venivano aggiunti all’inerte e
quindi impastati con le normali calci aeree. Durante la carbonatazione essi reagivano con la calce, creando composti più resistenti all’umidità di quanto non sia il carbonato di calcio;
-cuocendo calcare marnoso, ovvero rocce contenenti argilla in percentuale variabile fra il 10 e il 25%;
-usando calce aerea, meglio se magnesiaca, senza additivi e
costruendo all’asciutto, entro palancolate e attendendo la presa,
prima di immettere l’acqua.
L’uso di additivi doveva essere il più frequente fra i leganti idraulici del passato. I Greci utilizzavano, ad esempio, la pietra pomice dell’isola di Santorino, macinata e mescolata all’inerte, oppure la terra
vulcanica, di colore scuro, dell’isola di Thera, o ancora frammenti di
laterizi pestati. Questi ultimi due sistemi vennero particolarmente
sviluppati in età romana, quando si impiegò abbondantemente la
terra di origine vulcanica dei colli Albani e del golfo di Napoli, che
venne detta pozzolana dalla città di Puteoli-Pozzuoli.
Anche l’aggiunta di frammenti di laterizi o di altri prodotti ceramici,
che conferiscono alla malta il tipico colore rossastro e che le valgono la definizione di ‘cocciopesto’, data dagli archeologi, fu molto in uso, sia per i pavimenti, sia per gli intonaci, soprattutto nelle cisterne e negli acquedotti.
138
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Tutte queste sostanze usate come additivi sono ricche di silice e
allumina attive, le quali permettono la formazione di silicati e alluminati di calcio, composti più resistenti all’acqua di quanto non sia il
carbonato di calcio. La pozzolana è infatti una terra di origine vulcanica e perciò è in larga misura costituita da silico-alluminati, così
come la pomice, anch’essa di origine vulcanica. Il cocciopesto è costituito da frammenti di ceramica, derivata, come si visto, dalla trasformazione in seguito a cottura di minerali argillosi, che sono
appunto silicati idrati di alluminio (cfr. II.1.). Durante la cottura, poiché perdono l’acqua di cristallizzazione, la silice e l’allumina si trovano allo stato libero, non cristallino, e pertanto possono facilmente
combinarsi col calcio.
Se si osserva al microscopio a luce polarizzata una sezione sottile
di cocciopesto, si nota che attorno ai frammenti di mattone macinato,
l’aderenza della calce è maggiore che non attorno ai granuli di sabbia.
Alcune particolari analisi chimiche effettuate al microscopio elettronico in corrispondenza dei granelli di ceramica, hanno dimostrato, in
questa zona, l’avvenuta reazione chimica dell’allumina e della silice
con il calcio, il quale non forma, in questo caso, carbonato di calcio con
l’anidride carbonica. Resta comunque problematico comprendere
come mai il cocciopesto (che solo in parte è costituito da silicati e alluminati di calcio e in parte da carbonati di calcio) sia talora più resistente, soprattutto in acqua, persino del cemento Portland, costituito
interamente di silicati e alluminati di calcio.
Un altro tipo di calci rese idrauliche con l’aggiunta di additivi
erano quelle a base di argilloscisto macinato e cotto, oppure di scorie
di fabbro, sempre mescolate all’inerte. Queste sostanze, pur molto
diverse fra loro, hanno in comune il fatto di essere anch’esse ad alto
contenuto di silice e allumina attive: l’argilloscisto deriva infatti dal
metamorfismo di argille, mentre le scorie di fabbro sono costituite da
vetro e, dunque, da silice attiva. A differenza della pozzolana, del cocciopesto, delle scorie di fabbro, che possono essere aggiunti direttamente all’inerte, l’argilloscisto oltre che macinato deve anche essere
cotto. Questo è dovuto al fatto che la silice e l’allumina si trovano nella
roccia combinate chimicamente, all’interno dei reticoli cristallini dei
minerali argillosi; solo attraverso la cottura questi ultimi perdono gli
ossidrili e si trovano allo stato libero, non cristallino, pertanto si possono legare al calcio in modo da formare silicati e alluminati.
Interessanti dati sulle malte idrauliche medievali e moderne sono
stati raccolti grazie alle accurate ricerche archeologiche condotte sui
Aurora Cagnana
139
moli del porto di Genova, purtroppo demoliti in occasione delle manifestazioni colombiane del 1992. Indagini sul costruito, effettuate
parallelamente all’esame delle fonti archivistiche e alle analisi di
laboratorio dei leganti, hanno dimostrato che a Genova l’impiego della
pozzolana, come additivo per ottenere malte idrauliche, non è attestato prima del XVII secolo. Anche nella documentazione scritta, la
prima citazione di questo materiale si trova in un documento del 1612,
proveniente dall’Archivio dei Padri del Comune. Prima di tale epoca le
malte per la costruzione dei moli e delle banchine erano ottenute,
nella maggioranza dei casi, con aggiunta di caolino, argilla primaria
bianchissima (cfr. II.2.). Si pensi che nelle fasce di battigia dei ponti
del XIV-XV, dove cioè il degrado del muro era particolarmente avanzato, a causa dell’azione chimica, fisica e meccanica del mare e dei
molluschi litofagi, i giunti di malta idraulica a base di caolino hanno
resistito meglio della stessa pietra calcarea.
Il caolino veniva importato a Genova, insieme all’allume, dai giacimenti laziali della Tolfa, dei quali i genovesi avevano il monopolio
nei secoli XV-XVI. Malte di questo tipo sono state rinvenute in molte
opere idrauliche, fra le quali l’acquedotto pubblico, e sembra che il suo
impiego, protrattosi fino agli anni ‘30 del Novecento, abbia potuto
competere con la stessa introduzione del cemento Portland. Questa
lunga tradizione spiega perciò la sopravvivenza del ricordo di tale
materiale presso alcuni costruttori genovesi che avevano appreso il
mestiere secondo i metodi tradizionali. Tali malte idrauliche venivano
da loro definite “alla porcellana”, forse perché quest’ultima, come si è
visto, è prodotta appunto con il caolino (cfr. II.6). Come l’argilloscisto,
questo materiale doveva essere aggiunto all’inerte dopo la cottura, in
modo da favorire la disgregazione dei cristalli dei minerali argillosi e
quindi la combinazione di silice e allumina con il calcio.
Se l’impiego di un’argilla bianca al posto di additivi che conferiscono un colore rosato è comprensibile, per motivi estetici oltre che funzionali, negli intonaci delle facciate, (per le quali l’uso della malta alla
porcellana è ben documentato) più problematico è comprenderne il
significato nelle strutture marittime, destinate a non essere viste.
Non vi sono ancora spiegazioni accettabili sulle ragioni di una tale
scelta, così come non è dato conoscere quali origini abbia questa particolare formula, alternativa a quella delle malte alla pozzolana, tipiche della tradizione romana. È stata avanzata l’ipotesi di una sua origine orientale, ma troppo scarno è il panorama degli studi e delle analisi per poter formulare spiegazioni sicure.
140
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Una simile trasformazione chimica del calcio si poteva ottenere
anche cuocendo calcare marnoso, cioè contenente argilla, al posto del
calcare puro o del calcare magnesiaco; in questo caso la formazione di
silicati e alluminati di calcio, che conferiscono l’idraulicità, è propria
della calce stessa, e non dovuta all’aggiunta degli additivi. Calci di
questo genere erano chiamate ‘selvatiche’ in Liguria (perché prodotte
nelle campagne); ‘forti’ in Lombardia e vennero dette ‘idrauliche’ a
partire dall’Ottocento.
Infine, il terzo sistema per ottenere opere idrauliche è assai meno
noto, ma altrettanto antico di quelli fino ad ora descritti; esso consiste
nella costruzione dei muri all’asciutto, con l’impiego di palancolate,
usando malte senza alcun addittivo. Questo metodo viene descritto nel
Codice 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, datato fra la fine
dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e si è fatta l’ipotesi che esso rappresenti la sopravvivenza di una tecnica precedente, già usata in età
romana. Pochi sono i riscontri archeologici attualmente noti del suo
utilizzo; è stato adottato, ad esempio, nella costruzione del primo molo
del porto di Genova, quello di San Marco, realizzato all’inizio del XII
secolo. L’esame archeologico e archeometrico ha infatti dimostrato che
tale poderosa struttura è stata costruita all’asciutto, con robustissimi
muri esterni, in conci perfettamente squadrati, legati da calce priva di
additivi, la quale ha resistito in ottimo stato, sebbene immersa per
novecento anni nell’acqua marina. Le analisi di laboratorio della
malta hanno rivelato la presenza di idrossido di magnesio, o brucite,
e ciò prova che è stata usata calce magra. Tuttavia non si conoscono
ancora i procedimenti empirici né i meccanismi chimici che hanno
reso questo materiale tanto resistente all’azione dell’acqua.
È però interessante ricordare che un metodo per la preparazione di
malta idraulica senza addittivi venne descritto, alla metà del XVIII
secolo, dal noto ingegnere francese Loriot, appassionato studioso delle
calci di età romana; egli propose un sistema per la costruzione di opere
idrauliche con calce aerea, che consisteva nell’aggiungere a un grassello “spento da parecchio tempo e conservato in tutta la sua freschez za” un terzo di calce viva in polvere. Secondo il Loriot, raggiungendo il
“giusto accordo” dal quale “deriva la perfezione”, si poteva ottenere un
composto con l’”eminente qualità di restare impermeabile all’acqua”.
Con la rivoluzione industriale venne introdotto, fra la fine del
XVIII secolo e l’inizio del XIX, il primo cemento, che venne detto
Aurora Cagnana
141
Portland, per distinguerlo dal caementum romano. Il nome deriva
dalla penisola meridionale della Gran Bretagna dove veniva estratta
la roccia utilizzata. Si prepara cuocendo miscele di calcare e argilla a
temperature molto alte (1450°C) le quali permettono la completa
combinazione della calce con la silice e con l’allumina allo stato fuso.
Il materiale di cottura, detto clinker, viene poi raffreddato e quindi
macinato con l’aggiunta di piccole quantità di gesso, necessario a rallentare la presa.
6. Gli intonaci
La preparazione degli intonaci, per il rivestimento e la rifinitura
delle superfici murarie, era basata sulle stesse regole viste per le
malte: miscela di calce aerea con sabbia, acqua, ed eventuali additivi,
e successiva presa a contatto con l’aria.
Per evitare il problema del ritiro di volume dell’idrossido, dopo la
carbonatazione, non si potevano realizzare intonaci di grande spessore; pertanto, quando si volevano ottenere rivestimenti particolarmente robusti, si applicavano più strati sovrapposti, di spessore via via più
sottile, con inerte in proporzioni sempre minori e di granulometria più
fine.
Per garantire l’aderenza dei vari strati occorreva applicarli quando quello sottostante non era più plastico, ma non era ancora asciutto; di conseguenza, quando avveniva la carbonatazione, si verificava
una cristallizzazione comune dei diversi strati che così aderivano fra
loro in maniera perfetta. Ciò richiedeva una procedura veloce, dato
che lo strato superiore doveva essere steso prima che quello sottostante fosse asciutto, cioè cristallizzato.
Lo strato più profondo, posto a contatto col muro, viene detto rin zaffatura o arriccio e presenta uno spessore di alcuni centimetri.
Quello superiore, più sottile, è l’intonaco vero e proprio, o arenino, con
spessore da 1 a 2 centimetri e con inerte costituito da sabbia più fine.
Per ottenere poi una superficie liscia e resistente si applica, sempre a fresco, un terzo strato: l’intonachino, dello spessore di 1-2 millimetri, costituito da un dimagrante a granulometria finissima.
Generalmente è formato da una malta molto grassa, in quanto contiene solo il 50% di scheletro. Per motivi estetici veniva utilizzato,
generalmente, un aggregato bianco, costituito da marmo o da calcite
macinati; per tale ragione questo strato prende anche il nome di mar -
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
52- Operazione di impasto della calce spenta (o grassello) con sabbia e
acqua (da ADAM 1989)
morino. Fra questi due materiali la calcite macinata era migliore, perché, a differenza del marmo, è costituita da cristalli tabulari.
L’uso di rifinire le superfici murarie con diversi strati di intonaco a
base di calce e sabbia è attestato con certezza in alcune città dell’antica Grecia: a Delo si sono riscontrate pareti rivestite da due, tre,
quattro e talora cinque strati di intonaco; spesso nel rinzaffo si trovava anche del cocciopesto. A Priene vi sono attestazioni dell’uso di tre
strati di intonaco, l’ultimo dei quali presentava un inerte costituito da
polvere di marmo.
Dei rivestimenti parietali parla diffusamente anche Vitruvio (De
Arch. VII, 3), che raccomanda l’uso di ben sette strati, indicazione che
però non pare aver trovato riscontri archeologici, dato che, generalmente, i rivestimenti di epoca romana sono costituiti da 3 a 5 strati e
solo eccezionalmente se ne sono riscontrati sei. Alcuni cantieri incompiuti, come quello celebre della casa del Criptoportico di Pompei,
Aurora Cagnana
143
hanno permesso di capire che l’applicazione del rivestimento era fatta
a fasce orizzontali, partendo dall’alto e proseguendo verso il basso,
all’evidente scopo di evitare di macchiare le zone sottostanti. Il lavoro
progrediva a ‘giornate’ successive, nelle quali su una determinata
fascia di superficie venivano stesi arriccio, arenini, intonachino, e persino l’affresco (cfr. IV. 4.).
L’uso di intonaci non sembra essersi interrotto nel corso
dell’Altomedioevo: i Magistri Comacini, ad esempio, fissano un prezzo
particolare per realizzare un muro albato, (cioè intonacato); tuttavia
il riscontro con i dati archeologici sembra indicare che, in molti casi, il
rivestimento si limitava semplicemente a un rinzaffo delle pareti,
senza ulteriori rifiniture.
L’utilizzo di più strati di intonaco riprende nei secoli seguenti,
soprattutto per le superfici interne. Dal XV-XVI secolo in poi, con il
decadere del gusto per le murature in pietre squadrate a vista,
aumenta massicciamente l’impiego di intonaci, anche per gli esterni.
Oltre a quelli affrescati si sperimentano numerosi altri tipi di rivestimento: con decorazioni in rilievo, a imitazione di bugnati, graffiti.
L’esame sistematico degli atti notarili che riguardano i cantieri
edili genovesi fra il XVI e il XVII secolo, ad esempio, ha permesso di
53- Esempio di ‘infrascatura’; a sinistra la parte originale, a destra la
parte restaurata dove le righe sono ottenute con pezttine di legno
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
54- Microfotografia dove
sono evidenti i successivi strati di preparazione: intonaco e intonachino al marmo (o marmorino) (Genova, Palazzo Ducale)
evidenziare una straordinaria ricchezza lessicale per indicare i vari
tipi di rivestimenti parietali allora in uso: (imboccare, indarbare,
indarbusare, infrascare). Fra queste operazioni, l’infrascatura era un
tipo particolare di intonachino, rifinito da rigature leggermente in
rilievo, quasi parallele fra loro. Non si conosce in dettaglio il sistema
col quale questo intonaco veniva realizzato, ancora negli anni ‘30 di
questo secolo, ma da testimonianze orali si è potuto apprendere che
per praticare le righe si usavano rami (‘frasche’, da cui il nome) di alloro o di lentischio, piante con foglie piuttosto untuose e quindi tali da
scivolare bene sull’intonaco ancora bagnato.
Attraverso le analisi di laboratorio di alcuni campioni genovesi del
XVI e XVII secolo si è talvolta riscontrata, al posto dell’intonachino, la
presenza di una superficie liscia e ben levigata, costituita da una fine
stuccatura di grassello puro, che viene definita ‘pasta’.
Oltre che per i rivestimenti parietali l’intonaco venne utilizzato
anche per speciali rifiniture, che fingevano la presenza di marmi
lucidi, bianchi o colorati, lavorati a rilievo, o di conci a bugnato realizzati in pietre particolari. Questi rivestimenti, che costituiscono
talora delle superfici piane e talora degli elementi modanati o delle
finte architetture, sono costituiti da un marmorino esterno levigato
e, nelle superfici piane, anche lucidato a caldo. Tale uso è ben attestato dal XVI secolo in poi, in Italia settentrionale. Alla conoscenza
delle tecniche di realizzazione hanno contribuito anche le testimonianze orali di alcune famiglie di artigiani liguri, eredi di un mestiere che trova le sue lontane origini nella tradizione dei maestri lombardi. Ciò ha permesso di conoscere che la realizzazione degli strati
di base non è diversa rispetto agli altri intonaci, poiché prevede la
Aurora Cagnana
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serie di arriccio, arenino, intonachino, ciascuno steso su quello sottostante quando è ancora fresco, ma non più malleabile. La coloritura e lucidatura delle superfici piane si praticano sull’ultimo strato
(l’intonachino a fresco), e prevedono una decorazione dipinta a finto
marmo, con pigmenti sciolti in acqua, una passata di sapone di
Marsiglia sciolto anch’esso in acqua, e infine una lucidatura fatta
con una piastrina di metallo (scaldata a 65-70°C), posta a contatto
con la superficie dell’intonachino e continuamente mossa. La temperatura del metallo viene misurata empiricamente col dorso della
mano e raggiunge il calore adatto quando, a breve contatto con la
pelle, permette di avvertire il caldo senza scottarsi. Questa operazione rende la superficie sottostante lucida e riflettente, al punto che
è difficile distinguerla dal marmo.
Un sistema simile è documentato anche per la produzione dei
“marmorini lucidi” di Venezia, realizzati, analogamente a quelli di tradizione lombarda, passando sull’intonachino saponato dei ferri d’acciaio caldi, definiti “ferri da stiro”.
Se il procedimento tecnico è ora sufficientemente noto, la spiegazione chimico-fisica di questo meccanismo non è invece altrettanto
chiara; è probabile che il calore della piastra acceleri la carbonatazione dell’intonachino e impedisca ai cristalli di crescere oltre un certo
limite; in questo senso il metallo caldo bloccherebbe la crescita dei
romboedri della calcite, ottenendo tante facce complanari poste sulla
superficie esterna, che diventa perciò riflettente.
7. Gli stucchi
Col termine ‘stucco’ si indica un particolare tipo di decorazione
parietale in rilievo, realizzata in materiale plastico bianco, eventualmente colorato con pigmenti, che indurisce all’aria. È importante
ricordare che tale definizione non si riferisce a un materiale preciso,
dato che gli stucchi possono essere realizzati con leganti derivati da
rocce solfatiche oppure carbonatiche; solo con adeguate analisi di laboratorio è pertanto possibile stabilire l’esatta natura geologica e chimica di ogni manufatto.
Le tecniche di lavorazione del materiale possono essere di due tipi:
modellamento a mano oppure formatura entro stampi; in entrambe i
casi i particolari vengono aggiunti successivamente, adoperando spatole di varie dimensioni.
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
La realizzazione di rilievi in stucco è attestata già nell’antico
Egitto, oltre che nell’architettura minoica e micenea.
Impiegati presso i Greci di età classica, furono particolarmente diffusi dal IV sec. a.C. per la decorazione di case o di monumenti funerari. Nell’architettura domestica di Delo sono attestate decorazioni
parietali in stucco a imitazione delle murature in conci, mentre motivi particolarmente raffinati caratterizzavano invece la produzione
degli stucchi alessandrini. Pare che i Greci utilizzassero prevalentemente rocce calcaree e, in misura minore, solfatiche. Secondo alcuni
studiosi la tecnica dello stucco si sarebbe estesa, tramite la Grecia
ellenistica, all’Asia Minore e quindi al Medio Oriente, dove prese avvio
una tradizione artigianale particolarmente ricca presso i Parti e, successivamente, presso i Sassanidi.
Decorazioni in stucco sono documentate anche nell’architettura
funeraria etrusca, come attesta il celebre esempio della “Tomba dei
Rilievi” di Cerveteri. Analisi dettagliate hanno dimostrato che i numerosi oggetti quotidiani raffigurati sulle pareti sono stati realizzati in
un impasto di calce e sabbia; formati singolarmente, con apposite
matrici, i singoli motivi sono stati poi saldati alla parete, sopra uno
strato di intonaco dalla superficie ruvida, sul quale erano stati preventivamente incisi i contorni.
A partire dal I secolo a.C. la diffusione di stucchi si moltiplica: nelle
città campane, a Roma, nel Lazio, si fanno numerose le testimonianze di decorazioni in rilievo sulle pareti e sulle volte; cornici o motivi
annessi a pitture murali si diffondono inoltre nelle provincie romane
occidentali, come la Gallia, la Bretagna e anche il Norico e la
Pannonia.
Un’accurata indagine condotta negli anni Settanta sugli stucchi di
queste regioni ha permesso di comprendere molti aspetti della loro realizzazione. Gli elementi modanati o le cornici erano non di rado modellati in più strati: quelli inferiori costituiti da calce e sabbia e quello
superficiale da malta grassa e marmo macinato. Le cornici in rilievo
potevano essere realizzate soltanto nello strato esterno, oppure, se avevano molto aggetto, venivano abbozzate anche nei sottostanti livelli di
malta. Per ottenere i singoli motivi decorativi si utilizzavano piccole
matrici a forma allungata, che portavano, in negativo, uno o più soggetti
giustapposti e che venivano premute sulla pasta ancora umida. L’esame
comparativo di cornici rinvenute in aree anche molto lontane fra loro ha
dimostrato l’identità di molti motivi e di conseguenza ha indicato la
grande circolazione delle matrici. L’esistenza di artigiani itineranti,
Aurora Cagnana
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55- Tectores romani intenti a realizzare una decorazione in stucco in un
ambiente interno; il disegno ricostruisce tre diversi tipi di operazioni: realizzazione di una modanatura liscia; di una cornice decorata a stampo;
modellazione di soggetti a mano libera (da ADAM 1989)
addetti alla preparazione di intonaci e stucchi (tectores), è stata d’altra
parte dimostrata anche da specifiche ricerche di epigrafia; evidentemente questi artigiani portavano con loro anche gli stampi.
Per realizzare decorazioni meno stereotipate, più aggettanti o per
vere e proprie scene figurate si ricorreva invece al modellamento a
mano con spatole.
L’analisi chimica di oltre settanta campioni di stucchi prelevati in
varie città delle provincie romane occidentali ha dimostrato che uno
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
solo era costituito in prevalenza da solfato di calcio, mentre tutti gli
altri erano stati realizzati con rocce carbonatiche; ciò ha portato a supporre che nelle provincie occidentali dell’Impero gli stucchi venissero
realizzati con calce e sabbia, a differenza delle regioni orientali dove
l’uso di gesso doveva essere prevalente.
Tutt’altro che rare dovevano essere le decorazioni in stucco durante l’Altomedioevo, soprattutto per gli interni dei principali edifici religiosi; l’uso di questo materiale costituiva forse un surrogato della pietra e del marmo, la cui fornitura era divenuta sempre più costosa,
dato l’abbandono progressivo delle cave (cfr. I.3.). La esecuzione di
decorazioni ornamentali, ma anche di veri e propri elementi architettonici (fregi, archetti, pilastrini, capitelli, ecc.) e persino di manufatti
non connessi al supporto della parete (plutei, transenne, altari) è
ampiamente attestata anche nei secoli XI e XII. Le tecniche di lavo-
56- Rivestimento in stucco di una superficie muraria in mattoni (da
DONATI 1990, rielaborata)
Aurora Cagnana
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razione sono ancora lo stampo entro matrice, oppure il modellamento
a mano, con spatola e stecca, spesso colando l’impasto su un’armatura di canne o su un nucleo in argilla. Generalmente i motivi richiamano il repertorio orientale: bizantino, sassanide o islamico. Questo
dato è di particolare importanza se lo si confronta con i risultati delle
analisi condotte su diversi campioni di stucchi prelevati da vari monumenti altomedievali d’Europa, che hanno dimostrato, nella quasi totalità dei casi, l’impiego di gesso pressoché puro. L’esame della materia
prima sembrerebbe pertanto confortare l’ipotesi di una tradizione
artigianale diversa da quella tardoromanana e legata invece alla cultura greco-bizantina o addirittura araba o sassanide.
Un ricchissimo contesto rinvenuto di recente a Gerace (RC), costituito da oltre 180 frammenti appartenenti a pilastrini, formelle,
archetti, fregi, pulvini, datati ad epoca normanna, è stato probabilmente realizzato da artigiani arabi, forse provenienti dalla Sicilia,
come attesterebbe l’analisi dei motivi decorativi.
L’ipotesi della presenza di maestranze orientali, forse bizantine, è
stata avanzata anche per le transenne in stucco rinvenute recentemente negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso di Camogli (GE) e
datate fra X e XI secolo. In questo caso, mirate analisi archeometriche
hanno rivelato la presenza di un legante misto, a base di calce aerea
e di gesso e di un inerte la cui composizione petrografica, estranea al
territorio ligure, potrebbe essere di provenienza egea. Se così fosse ci
troveremmo in presenza di maestranze itineranti che avrebbero portato con sé, oltre alle conoscenze tecniche, anche il materiale necessa rio alla realizzazione dei manufatti.
Nei secoli successivi, la riaffermazione dei materiali lapidei, e
quindi delle decorazioni scultoree, sembra aver causato (tranne che
nell’area tedesca) una diminuzione nell’uso degli stucchi.
Una rinnovata importanza di questo materiale per la decorazione
architettonica si registra invece a partire dal XVI secolo, sia per gli
esterni, sia, soprattutto, per gli ambienti interni. Forse la causa è da
ricercare nel generalizzato tentativo di imitare l’architettura classica;
ornamentazioni fastose in stucco, talora alternate alla pittura, come
nell’arte romana antica, vengono realizzate da celebri artisti rinascimentali; da questi ultimi traggono origine scuole di stuccatori che
esportano la loro tradizione artigianale in tutta Italia, in Francia, in
Germania e persino nell’Europa orientale.
Questa ricca produzione, che perdura anche per tutto il XVII e il
XVIII secolo, sembra essersi basata soprattutto sulla cottura di rocce
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
calcaree: il Vasari, descrivendo la composizione dello stucco romano
raccomanda l’impiego di calce fatta “o di scaglie di marmo o di traver tino” impastata con “marmo pesto (...) mettendo due terzi calce et un
terzo marmo pesto”. Dello stuccatore Giovanni da Udine, allievo di
Raffaello, lo stesso autore scrive che “fatto pestare scaglie del più bian co marmo che si trovasse, ridottolo in polvere sottile e stacciatolo, lo
mescolò con calcina di travertino bianco, trovò che così veniva fatto
senza dubbio niuno il vero stucco antico”.
Le analisi di laboratorio effettuate su diversi campioni genovesi
hanno dimostrato che essi sono stati realizzati prevalentemente con
calci magnesiache, mentre il gesso prima del XIX secolo è stato usato
pochissimo, e misto a calce. Nelle cornici modanate e nelle finte architetture la modellazione non si limitava all’ultimo strato, ma doveva
essere fatta anche in quelli sottostanti, fino all’arriccio, onde mantenere un intonachino grasso e molto sottile. Pertanto la realizzazione
prevedeva necessariamente la preparazione preliminare di cartoni e
la foggiatura di ogni sporgenza delle modanature in tutti gli strati
inferiori. I dettagli più fini venivano poi elaborati solo nel marmorino.
Quando i motivi decorativi presentavano spessori notevoli, come nei
mascheroni o nei putti, al posto del marmorino si usava uno stucco a
base di calce e gesso, con poco inerte finissimo, che non presentava
ritiri dannosi e che poteva resistere anche negli esterni, come attesta
lo stato di conservazione di molte di queste decorazioni plastiche.
8. Pavimentazioni in ‘signino’ e ‘seminate’
Fin dall’antichità le malte sono state utilizzate ampiamente per le
pavimentazioni, non solo per l’allettamento delle tessere di mosaico o
delle lastre per intarsi marmorei, ma anche come finitura definitiva.
Con ogni probabilità furono ereditati dall’architettura ellenistica i
pavimenti di età romana realizzati in malta resa idraulica da abbondante cocciopesto, dal caratteristico colore rosso, che presero il nome
di opus signinum, derivato dalla città laziale di Signia, l’attuale
Segni. Essi potevano ricevere anche una semplicissima decorazione in
scaglie di marmo o in tessere colorate, disposte in maniera molto spaziata, a formare motivi geometrici o cornici a meandri.
Assai diffusi in tutta l’antichità classica, soprattutto per i vani di
servizio, i pavimenti in cocciopesto vennero utilizzati, in età altomedievale, anche nelle chiese e negli edifici pubblici.
Aurora Cagnana
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La tradizione dei pavimenti in signino conobbe una curiosa continuità a Venezia, dove, dalla fine del XV secolo, essi presero il nome di
terrazzi, forse perché realizzati in preferenza nelle logge esterne delle
ville. La loro posa in opera, arte in cui i veneti rimasero a lungo degli
specialisti, è ricordata dalle fonti trattatistiche rinascimentali e dai
commentatori veneziani di Vitruvio; essa prevedeva la preparazione
di un impasto ben battuto di calce, cocciopesto, ghiaia, talora arricchito con scaglie di marmi. A partire dal XVI secolo e soprattutto nel
corso del XVII e del XVIII secolo la tecnica dei terrazzi alla veneziana,
detti anche seminati, si diffuse fuori dell’area veneta, in tutta l’Italia
settentrionale e anche in Francia, come provano numerose fonti scritte e diverse testimonianze materiali.
9. Principali cause di degrado
Sugli intonaci l’acqua piovana battente esercita un’azione meccanica: può infatti asportare particelle superficiali e provocare solcature
o fenomeni di ruscellamento. In corrispondenza di ganci di ferro, può
causare la formazione di macchie e, se i ferri si gonfiano per la ruggine, può provocare vere e proprie rotture.
L’erosione superficiale dell’intonaco è invece dovuta alla bicarbonatazione del legante. Questo tipo di degrado chimico avviene quando l’acqua piovana, contenente anidride carbonica, non scorre, ma ristagna.
Molto dannosa è anche l’azione dell’acqua che, per cause varie, circola all’interno dei muri. Essa fuoriesce in superficie per capillarità e,
se negli stucchi o negli intonaci esterni si trovano piccolissime cavillature (provocate dal ritiro del materiale), l’acqua li attraversa e ne
aumenta le dimensioni causandone, col tempo, il distacco. L’acqua che
risale per capillarità dalle fondazioni del muro crea distacchi ad altezze precise, dove cioè fuoriesce ed evapora; la sua risalita raramente
supera i 4 metri di altezza.
Talvolta si osserva sulle superfici intonacate la presenza di frattu razioni, non dovute a crepature originali, provocate cioè dal ritiro del
materiale durante la presa, ma avvenute in un secondo tempo, e spesso dovute ai sali solubili, trasportati dalle acque circolanti nei muri e
depositati sotto l’intonaco, provocandone lentamente il rigonfiamento
e poi il distacco. Se i sali vengono depositati in superficie si verificano
soltanto efflorescenze bianche.
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Analogamente a quanto descritto per i materiali litici (cfr. I.7.) il
ristagno di acque contenenti anidride solforosa (dovuta alle piogge
acide) provoca la solfatazione dei leganti costituiti da calce aerea; tale
degrado è riconoscibile per la presenza della tipica “crosta nera”, a
base di solfato che, se ricristallizza anche all’interno dell’intonaco,
aumenta di volume e finisce per disgregare il materiale. Dove la pioggia batte o ruscella non si forma la crosta nera, e l’intonaco mantiene
il suo colore, o, al massimo, subisce l’abrasione meccanica della pioggia.
La presenza di una corrosione a meandri; infine, è indice dell’azione di colonie biologiche (alghe o batteri), che attaccano le superfici dei
carbonati.
10. Nota bibliografica
I caratteri dell’estrazione delle pietre da gesso e da calce e le reazioni chimiche che avvengono durante la cottura sono trattati nei
manuali sui materiali da costruzione più volte citati: DAVEY 1965, pp.
100-118; ADAM 1989, pp. 76-84; MENICALI 1992, pp. 126-176. In particolare sul gesso si veda il recente volume di TURCO 1990. L’utilizzo
della malta nell’architettura greca antica è esaminato nel manuale di
MARTIN 1965, pp. 422-439. Per lo studio di malte e intonaci di epoca
romana è fondamentale l’opera di FRIZOT 1975, ricca di analisi
archeometriche e di dati quantitativi, oltre che corredata di un’accurata disamina delle fonti letterarie e dei dati archeologici. Assai utile
è inoltre il saggio di B ARBET, ALLAG 1972, incentrato sulla pittura, ma
con approfondite analisi anche dei supporti delle decorazioni pittoriche. Sugli aspetti storici e sociali legati all’introduzione massiccia dei
muri in calce in epoca romana repubblicana si veda COARELLI 1977.
Uno studio esaustivo della fornace descritta da Catone, basato su concreti confronti etnografici raccolti in varie regioni mediterranee si
trova in ADAM, VARENE 1982. Sulla corporazione romana dei calca rienses alcune notizie si trovano in WALTZING 1968, p. 116 e segg. Per
la fornace della Crypta Balbi cfr. SAGUÍ 1986. Un interessante saggio
sulla produzione della calce nei cantieri medievali, basato sul confronto tra fonti archeologiche, iconografiche e letterarie si trova in
BARAGLI 1998. Sugli intonaci e sulle calci di epoca medievale e postmedievale una serie di utili contributi, sia di carattere metodologico,
Aurora Cagnana
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sia incentrati su singole ricerche si trova in SAPIN 1991. Lo studio
archeologico ed archivistico della produzione e del commercio delle
calci a Genova è trattato nel saggio di VECCHIATTINI 1998. Per i problemi chimici di calci e intonaci, sulla base delle analisi condotte principalmente su campioni genovesi, è indispensabile la lettura di
MANNONI, 1984; MANNONI, RICCI, SFRECOLA, 1988; MANNONI 1990, raccolti nel volume MANNONI 1994/a. Una rassegna dei vari tipi di inerti
utilizzati nelle malte e negli intonaci dell’edilizia storica ligure, basata su analisi minero-petrografiche, si trova in R ICCI 1989 e RICCI 1998.
Sulle calci idrauliche greche e romane cfr. i citati lavori di MARTIN
1965 e F RIZOT 1975. Sulle calci idrauliche rinvenute nelle strutture
portuali di Genova cfr. MANNONI 1988; BOATO, MANNONI 1993;
CUCCHIARA ET ALII 1993 (saggi raccolti in MANNONI 1994/a) e inoltre
MANNONI 1996. Sul cosiddetto ‘metodo Loriot’ interessanti considerazioni si trovano in FIENI 1997. Un’ampia casistica di ricerche sugli
intonaci (composizione, degrado, esperienze di restauro) è stata presentata al convegno svoltosi a Bressanone gli Atti del quale sono stati
curati da BISCONTIN 1985. Sul lessico degli intonaci genovesi del XVI
e XVII secolo cfr. BOATO, DECRI 1990. Sugli intonaci lucidati a caldo cfr.
MANNONI 1993/a per la situazione genovese e FOGLIATA, S ARTOR 1995
(p. 149 e segg.) per i dati su Venezia.
Sugli stucchi greci cfr. MARTIN 1965; su quelli romani è fondamen tale la lettura di FRIZOT 1977, incentrato sulle provincie occidentali
dell’Impero romano, ma che contiene una ricca disamina dei procedimenti esecutivi, basata anche su accurate analisi di laboratorio. Utili
anche i lavori di LING 1972 e MIELSCH 1975, sebbene più incentrati
sull’evoluzione stilistica dei motivi. Interessanti contributi di storia
sociale sulla figura artigianale di intonacatori e stuccatori di epoca
romana si trovano in BLANC 1983. I dati sulla tomba dei rilievi di
Cerveteri, più sopra riportati, sono tratti da BLANK, PROIETTI 1986. Le
analisi chimiche di stucchi altomedievali sono state pubblicate in
SALVI 1962 e riportate in FRIZOT 1977, pp. 48-49. Per gli stucchi di
Gerace (Reggio Calabria) cfr. DI GANGI 1995 e DI GANGI, LEBOLE DI
GANGI, SABBIONE 1991; per gli stucchi di San Fruttuoso di Camogli
(Genova) cfr. FRONDONI 1998/99 e, per le analisi sui materiali, CAPELLI,
MANNONI, RICCI 1998/99. Un interessante convegno sugli stucchi altomedievali, molto incentrato anche sugli aspetti tecnologici, si è tenuto recentemente a Hildesheim (EXNER 1996). Sugli stucchi rinascimentali, barocchi, neoclassici, una sintesi di carattere storico-artistico si trova in BEARD, 1983; mentre per gli aspetti riguardanti le tecni-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
che di lavorazione è assai utile il lavoro di F OGLIATA, SARTOR 1995,
incentrato sulle tradizioni veneziane.
Per i pavimenti in signino di epoca romana cfr. MORRICONE 1971;
per i ‘terrazzi alla veneziana’ cfr. CROVATO 1989; un interessante studio sulle famiglie di terrazzieri friulani che operavano a Venezia dal
XVI al XX secolo si trova in COLLEDANI, PERFETTI 1994; dove si analizzano puntualmente i vari procedimenti utilizzati per la stesura dei
‘terrazzi’ e l’organizzazione del lavoro all’interno delle maestranze.
Per la diffusione dei terrazzi in Italia settentrionale cfr. inoltre MOR,
MUSSO, PITTALUGA 1993; BOATO 1998.