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RASSEGNA STAMPA mercoledì 7 maggio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 06/05/14 Carcere, detenuti in concerto a Sollicciano Nei prossimi giorni i reclusi dell’istituto penitenziario fiorentino di esibiranno di fronte al pubblico nell’ambito dell’iniziativa promossa dall’Arci di Firenze FIRENZE – Torna il nuovo spettacolo dell'Orkestra Ristretta di Sollicciano, la band di detenute e detenuti diretta da Massimo Altomare nata nell'ambito delle attività socioculturali realizzate da Arci Firenze in convenzione con il Comune di Firenze e con il sostegno della Regione Toscana. Il debutto è in programma per le sezioni del carcere il 21 maggio. Giovedì 22 maggio invece i due spettacoli, in programma dentro al carcere, saranno rivolti al pubblico 'esterno': alle ore 10 (riservato alle scuole) e alle ore 19. Quest’anno è il decimo anno che si esibisce l’orchestra dei detenuti. Formata nel 2004 all’interno del carcere di Sollicciano, l'Orkestra Ristretta è composta da un gruppo di una dozzina di detenuti, provenienti da varie parti del mondo, che hanno mostrato un particolare talento o propensione per la musica o il canto. Esperienza originale nel panorama delle attività socio-culturali all'interno dei penitenziari italiani, l'Orkestra mette insieme un gruppo di uomini e donne: lavorano su un progetto musicale, che ogni anno produce nuovo materiale e che si propone, come obiettivo finale, la realizzazione di un’esperienza di meticciato musicale, attraverso il dialogo tra culture musicali diverse. Da altraeconomia.it del 06/05/14 Tassa sulle transazioni finanziarie: un compromesso poco audace Un primo vago accordo è stato annunciato, all’Ecofin a Bruxelles, dai Ministri delle Finanze dei Paesi dell’UE aderenti alla procedura di cooperazione rafforzata per l’introduzione della Tassa europea sulle Transazioni Finanziarie (TTF). Un accordo politico privo però di sostanza per quel che riguarda l’ampiezza della base imponibile della tassa e la destinazione di spesa delle risorse che verranno raccolte da questa imposta L’annuncio di oggi è ben lontano da ciò che ci si aspettava, ovvero un’ambiziosa TTF europea, con una base imponibile ampia e di difficile elusione, una misura fiscale che contrasti efficacemente le dinamiche speculative sui mercati finanziari continentali e che contribuisca a far pagare alla finanza il suo giusto contributo alla collettività. Con l’annuncio di oggi si ritarda l’intero processo fissando all’inizio del 2016 l’implementazione della tassa, e si resta anche estremamente vaghi sulla tassazione dei derivati il cui uso spregiudicato da parte degli operatori del settore è fra le cause scatenanti della crisi finanziaria. Inoltre i derivati da soli rappresentano almeno i due terzi del gettito stimabile della TTF. Mentre è comprensibile l’intenzione di introdurre la TTF in due o più fasi successive, a partire dalla tassazione – nella prima fase - delle azioni e di 2 alcuni strumenti derivati, destano tuttavia preoccupazione la mancata indicazione delle classi di strumenti finanziari oggetto delle fasi successive e la mancanza di una tempistica certa dei futuri step di implementazione della misura. In reazione alla notizia di oggi, Leonardo Becchetti, portavoce della Campagna ZeroZeroCinque, dichiara: “L’Europa perde un’occasione se non rende immediatamente più concreto e meno vago questo accordo. La finanza può è deve fare molto di più per risolvere i problemi dell’economia reale soprattutto dopo aver provocato una drammatica crisi globale che ha gravemente peggiorato i bilanci pubblici e ridotto le risorse per tutto ciò che migliora la vita dei cittadini. Un’audace tassa sulle transazioni che modifica la convenienza relativa tra speculazione e destinazione di risorse all’economia reale è una misura efficace nel percorso non privo di ostacoli di un’inderogabile riforma della finanza per un riequilibrio di poteri tra la stessa e il resto del sistema economico. Riforma sostenuta dalla maggioranza dei cittadini europei. Quei cittadini europei che chiedono ad alta voce di ribaltare l’implicito giudizio di valore per il quale un euro risparmiato in una transazione ad alta frequenza valga più di un euro investito in scuole, sanità, lotta contro la fame e per lo sviluppo globale. La TTF rappresenta in questo scenario una vera e propria misura della nostra civiltà”. Omettendo qualsiasi riferimento a come i proventi della TTF verrebbero utilizzati, i Governi non stanno certo dando rassicurazioni alle fasce di popolazione più povere in Europa e nel mondo. La TTF è sempre stata associata ad un granello di sabbia negli ingranaggi forsennati di un settore finanziario fuori controllo e proposta come una tassa che potesse aiutare coloro che sono stati più duramente colpiti dalla crisi e dai cambiamenti climatici, i leader dei Governi non possono ora deludere queste aspettative. L’Italia, che ha sottoscritto la dichiarazione resa oggi all’Ecofin, ma che è rimasta incomprensibilmente silente durante il dibattito pubblico, ha ora una grande responsabilità, in quanto è proprio durante il prossimo semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea che va assicurato il massimo sforzo per non vanificare totalmente il lavoro svolto in quest’anno di negoziato e osare decisamente di più per ottenere il risultato di una TTF europea efficace, con ampia base imponibile e le cui risorse siano destinate alla lotta alla povertà in Italia e nel mondo e alla mitigazione delle esternalità negative dei cambiamenti climatici. La Campagna ZeroZeroCinque riunisce oltre cinquanta organizzazioni e reti della società civile italiana e lavora in stretta collaborazione con analoghe campagne europee e internazionali. Ne fanno parte: ACLI, ActionAid Italia, Adiconsum, Adiconsum Basilicata, Altromercato, Amref, ARCI, ARCS, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ATTAC Italia, Associazione di Comunità, Azione Cattolica, Banca Popolare Etica, CGIL, CINI Coordinamento Italiano Network Internazionali, CISA - Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare, CISL, CISP, Cittadinanzattiva, Consorzio Sociale Goel, COOPI, CVX Italia, Daquialà, Dokita, Economia Alternativa, Equociquà, Fa’ La Cosa Giusta, Fairwatch Italia, FIBA CISL, Flare, FOCSIV, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, GCAP Coalizione Italiana Contro la Povertà, La Rondine, Legambiente, Lega Missionaria Studenti, LeG - Libertà e Giustizia, Lunaria, Mani Tese, Mag4 Piemonte, Mag Verona, Medici con l’Africa- CUAMM, Microdanisma, OISG – Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, Oxfam Italia, RE:Common, Reorient, RTM – Reggio Terzo Mondo, Scaip, Save the Children, Sbilanciamoci!, Social Watch Italia, UIL, Un ponte per, Volontari Terzo Mondo – Magis, WWF Italia. http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4651 3 Da Redattore Sociale del 06/05/14 “No Cie, No Cara": manifestazione di fronte alla prefettura di Milano Sono 24 le associazioni e le ong che hanno aderito all'appello del Naga contro la riapertura del Cie di via Corelli e la creazione di un Cara. Sì invece allo Sprar, "un modello di accoglienza diffuso sul territorio" MILANO – "No Cie, No Cara". Il Naga, associazione di medici volontari milanesi, convoca tutte le realtà contrarie alla riapertura del Centro d'identificazione e di espulsione di via Corelli e alla realizzazione del Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Appuntamento alle 18.30 in corso Monforte, di fronte alla Prefettura, ente titolare delle due strutture. "Siamo contro questo tipo di centri che rappresentano un buco nero dei diritti – commenta Luca Cusani, presidente del Naga -. Il Cie è un luogo prettamente detentivo, dove si sa quando si entra ma non quando si esce". Critiche anche verso il Cara, struttura che in teoria è nata come luogo dove entro 35 giorni i richiedenti dovrebbero essere identificati e ottenere una risposta rispetto alla loro domanda d'asilo. "Capita invece che restino un anno in attesa", aggiunge Cusani. "Il Cara, lungi dall'essere un luogo di accoglienza per richiedenti asilo, è un parcheggio controllato dove i migranti sostano". Il modello da sostenere per il Naga è il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), "un modello diffuso sul territorio". Strumentale la giustificazione dell'esecutivo secondo cui non ci sono abbastanza soldi: "I fondi per il Cara, però, si reperiscono. Una volta realizzato un centro, non andranno certo a implementare i modelli alternativi", sostiene il presidente del Naga. È un "ampio consenso" per Cusani quello ottenuto dal presidio No Cie, con 24 sostenitori. All'evento hanno aderito ong importanti come Emergency, oltre ad associazioni come Arci, Antigone, European network against racism e la Campagna LasciateCie entrare. Ad oggi sono otto i centri d'identificazione ed espulsione chiusi e cinque quelli ancora funzionanti ma ridimensionati (Torino, Roma, Bari, Trapani Milo e Caltanissetta). Secondo i dati forniti dalla polizia di Stato nel 2013, sono 2.749 i migranti espulsi dall'Italia nel 2013, meno della metà dei quanti non siano passati dai centri d'espulsione. E soprattutto meno dell'1% del totale dei migranti irregolari che si stimano in Italia. (lb) Da Redattore Sociale del 06/05/14 ‘Tutti diversi con uguali diritti’, Pistoia contro l’omofobia Dal 12 al 17 maggio il Comune toscano organizza una serie di iniziative per riflettere sulle discriminazioni per orientamento sessuale. Madrina delle’evento Vladimir Luxuria FIRENZE - Il Comune di Pistoia rinnova il suo impegno contro l’omofobia, a favore di una cultura inclusiva e rispettosa delle diversità, e promuove con la Provincia, l’Arcigay di Pistoia “La Fenice”, la biblioteca San Giorgio, la Uisp e l’Arci Pistoia un ricco programma di eventi dal titolo Tutti diversi con uguali diritti che si terrà in città dal 12 al 17 maggio. Una cinque giorni di dibattiti, incontri, presentazioni di libri, proiezioni cinematografiche e spettacoli teatrali organizzati anche grazie alla collaborazione della Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids), del Vuccirìa Teatro e dell’Arcigay Siena, al fine di condurre una riflessione approfondita sulle discriminazioni per orientamento sessuale e celebrare la 4 Giornata mondiale contro l’omofobia, una ricorrenza promossa dall’Unione europea che dal 2005 si celebra il 17 maggio. In tale giornata nel 1990 l’Assemblea dell’organizzazione mondiale della sanità cancellava l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali, considerandola una variante naturale del comportamento umano. Per la settimana contro l’omofobia una bandiera rainbow sarà collocata sulla facciata del Palazzo comunale, mentre gli esercizi commerciali, attraverso le associazioni di categoria, saranno invitate a partecipare all’evento esponendo sulle vetrine una cartolina adesiva con la scritta “L’omofobia non entra”. Madrina dell’evento sarà Vladimir Luxuria. 5 ESTERI del 07/05/14, pag. 12 Egitto, al-Sissi: «I Fratelli musulmani sono finiti» Virginia Lori L’ex capo delle forze armate e principale candidato alle presidenziali egiziane, Abdel Fattah al-Sissi, ha dichiarato «finito» il movimento dei Fratelli Musulmani del deposto capo di Stato Mohamed Morsi, promettendo che non «esisterà più» in caso di sua elezione. Nella sua prima intervista televisiva dall’annuncio della candidatura, alla domanda se il movimento fosse «finito», al-Sissi ha risposto: «Non l’ho distrutto io, lo avete fatto voi egiziani». Quindi, al giornalista che chiedeva se questo significasse che sotto la sua presidenza i Fratelli musulmani non sarebbero esistiti, l’ex generale ha risposto: «Sì». Nel corso dell’intervista al-Sissi ha anche dichiarato che, in caso di elezione, l’esercito «non avrà alcun ruolo nel governo dell’Egitto», sottolineando di non essere un candidato delle forze armate. Il principale avversario di al-Sissi alle elezioni del 26 e 27 maggio è il leader di sinistra Hamdeen Sabbahi. Nel frattempo, proseguono i processi contro gli appartenenti al partito di Morsi. La procura di Sharqya, nel nord del Paese, ha rinviato a giudizio 13 studentesse militanti del movimento islamista, accusate di aver preso d’assalto l’ufficio del preside della sede locale dell’Università al Azhar. Gli atenei egiziani sono diventati nel corso degli ultimi mesi uno dei principali teatri dello scontro politico tra le autorità e i sostenitori dei Fratelli musulmani, movimento dichiarato fuori legge nel dicembre scorso. La scorsa settimana, una raffica di condanne a morte era stata pronunciata dai giudici di un tribunale a sud del Cairo per quasi 700 Fratelli musulmani nell’ambito del processo che vede imputati oltre 1200 pro-Morsi accusati per le violenze dello scorso 14 agosto. In vista delle prossime elezioni parlamentari, presidenziali e locali, il tribunale del Cairo per le questioni urgenti ha vietato ai membri del Partito nazionale democratico dell’ex presidente Hosni Mubarak di candidarsi. La sentenza è vincolante finché una Corte di più alto grado non si pronuncerà in materia. Il partito di Mubarak fu sciolto alcuni mesi dopo la deposizione dell’ex leader durante la rivolta popolare del 2011. È molto probabile che la decisione del tribunale venga ribaltata da una corte superiore, poiché il verdetto viola il principio di uguaglianza dei diritti politici garantito dalla Costituzione. Sebbene il partito di Mubarak sia stato sciolto, i suoi membri possono ancora presentarsi alle elezioni. Alcuni di loro hanno già partecipato alle parlamentari del 2011, dopo aver formato nuovi schieramenti, essersi alleati con gruppi già esistenti o presentati come indipendenti. Mentre la data delle presidenziali è nota, quella per le elezioni parlamentari e le locali non è stata ancora decisa. del 07/05/14, pag. 6 La prima volta dei born free Rita Plantera Sudafrica al voto. Alle urne la generazione dei nati dopo l’apartheid, pieni di rabbia per le diseguaglianze. E ora senza Mandela 6 Vent’anni fa, il 27 aprile 1994, un serpentone in festa di donne e uomini di ogni etnia e ceto sociale, in cammino per la prima volta verso le urne, avrebbe eletto liberamente Nelson Mandela primo Presidente nero della Repubblica Sudafricana, dopo tre secoli di dominazione bianca e 46 anni di apartheid. Il movimento di liberazione impegnato nella lotta politica e armata contro quel regime, l’African National Congress (Anc), avrebbe così inaugurato due decenni ininterrotti al governo del Paese. Oggi i sudafricani di ogni lingua, razza ed etnia, testimoni e protagonisti di quel periodo della vergogna che fu l’apartheid e i cosiddetti born free, la prima generazione di nati fuori dalla dominazione bianca, vanno a votare con la rabbia in corpo per essere ancora schiavi di diseguaglianze economiche e sociali e con l’amarezza di non sentirsi ancora cittadini di uno stato ma estranei in «pacifica» condotta. Sono le prime elezioni senza Nelson Mandela, morto il 5 dicembre scorso all’età di 95 anni. Le urne resteranno aperte dalle 7 di questa mattina fino alle 9 di stasera per il rinnovo dell’establishment nazionale e comunale. 22,264 i seggi elettorali, 2,000 in più rispetto alle comunali del 2011, con la maggior parte dei nuovi ubicati nelle zone rurali. 29 i partiti in lizza nelle 9 provincie: 26 in Western Cape, 22 nel Gauteng, 20 in Limpopo, 18 in Eastern Cape e in KwaZulu — Natal, 17 nel Free State, 16 in Mpumalanga, Northern Cape e North West Secondo un sondaggio Ipsos pubblicato domenica scorsa dal sudafricano Sunday Times, il partito attualmente al governo, l’Anc, è dato come favorito con il 63.9% dei voti, di poco in calo rispetto al 65.9% di 5 anni fa. A registrare una diminuzione consistente, dal 65 al 58%, è invece l’indice di gradimento di Jacob Zuma, l’attuale Presidente del Sud Africa. A pesare sullo scenario politico generale, sono soprattutto fattori come lo scandalo del Nkandlagate, il massacro di Marikana del 2012, le proteste esplose nelle township e nelle zone rurali contro l’inefficienza della classe dirigente nell’assicurare servizi di base, scioperi e agitazioni sindacali, la formazione di nuovi partiti politici. Tra questi i due più significativi sono l’Economic Freedom Fighters (Eff) di Julius Malema, ex leader dell’Anc Youth League, e l’Agang di Mamphela Ramphele, la compagna del fondatore del Black Consciousness Movement Steve Biko, massacrato in cella dalla polizia del regime nel 1977. Formazioni politiche che hanno strappato voti e spostato elettorato, seppure in minima parte, dall’Anc. Contro Zuma in particolare pesa una relazione del Pubblico Ministero Thuli Madonsela che lo accusa di aver «beneficiato indebitamente» di «eccessive» ristrutturazioni alla lussuosa residenza privata di Nkandla, suo paese natale, nel KwaZulu-Natal. Accuse di appropriazione indebita di denaro pubblico (circa 23 milioni di dollari) per cui il maggior partito d’opposizione, il Democratic Alliance (Da) ha presentato in parlamento nei mesi scorsi una mozione di impeachment contro il presidente. A mettere alla gogna Zuma sono stati alti funzionari del suo stesso partito, l’Anc, e larghe fasce di giovani esasperati che da mesi — nelle township come nelle periferie — lamentano la mancanza di servizi pubblici adeguati e posti di lavoro. La questione occupazionale continua a essere preponderante rispetto ad altre in Sud Africa, dove il tasso di disoccupazione è salito al 25,2 per cento della forza lavoro, vale a dire a 5,07 milioni di cittadini, nel primo trimestre del 2014 dal 24,1 per cento nei tre mesi precedenti. Ciò nonostante, è talmente radicata e influente l’eredità identitaria dell’Anc quale movimento di liberazione che il malcontento generale contro il partito, più che dirottare voti verso il Democratic Alliance (Da), visto come la roccaforte dei bianchi, o l’Eff di Malema, neoformazione di estrema sinistra, sta indirizzando molti elettori verso l’astensionismo. Se l’Anc riuscirà a mantenere la maggioranza di quasi due terzi in questa tornata elettorale, in gran parte sarà dovuto all’elettorato della provincia del KwaZulu-Natal di etnia zulu, gruppo 7 etnico che con il 28 per cento su una popolazione di circa 53 milioni di abitanti rappresenta quello più esteso del Sud Africa. Secondo un gruppo di esperti del MunicipalIq, solo il 6% delle proteste legate alla fornitura di servizi negli ultimi 10 anni si sono verificati in KwaZulu –Natal nonostante sia la seconda provincia a più alta densità di popolazione del Sudafrica. Tra il 2001 e il 2011, il numero di case di mattoni è qui più che raddoppiato arrivando a 480.000, mentre nell’Eastern Cape è salito solo di un terzo. «Se si guardano gli impegni di sviluppo nelle province, è evidente ad occhio nudo che il KwaZulu –Natal è stata notevolmente favorita», sostiene da Città del Capo l’analista Nic Borain. Però, le agitazioni sociali contro l’Anc e contro Zuma – accusati di accumulare ricchezza a spese dei cittadini — sono aumentate negli ultimi dieci anni nel resto delle altre provincie, con 470 gravi incidenti registrati nel 2012 rispetto ai soli 13 nel 2004, stando ai dati di uno studio dell’Università di Johannesburg (UJ). Malcontento sociale a cui si aggiunge quello dei lavoratori del settore minerario sfociato nel 2012 nel più violento incidente del post-apartheid, con l’uccisione a Marikana dei minatori in sciopero della Lonmin per mano delle forze di polizia. A segnare questa tornata elettorale sarà proprio lo sciopero, all’ottava settimana, dei minatori dell’Association of Mineworkers and Construction Union contro i primi tre produttori mondiali di platino — Amplats, Lonmin e Impala Platinum a cui chiedono aumenti salariali di base. del 07/05/14, pag. 13 Kiev, l’Osce: una tregua per votare Mosca contraria alle presidenziali del 25 maggio, il presidente della Duma: «In atto un genocidio» ● Mogherini: «Vanno attuati gli accordi di Ginevra» U. D. G. Guerra sul voto. Una provocazione per Mosca. Un passaggio cruciale per Kiev e l’Occidente. Un «cessate il fuoco» per garantire le elezioni del prossimo 25 maggio: a chiederlo è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) alle parti coinvolte nel conflitto ucraino, ma soprattutto ai loro sponsor politici, Mosca e Washington. L’appello è stato lanciato dalla riunione ministeriale del Consiglio d’Europa, a Vienna, dove si sono moltiplicati gli sforzi per avviare il processo per una Ginevra 2, successiva a quelle che il 17 aprile diede vita a un’intesa poi violata dalle parti. Mosca, però, ha avvertito con il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, che votare «mentre le forze Armate vengono utilizzate contro la popolazione è piuttosto bizzarro». La Russia, ha aggiunto Lavrov, è comunque pronta «a riaffermare la volontà di lavorare per l’organizzazione del dialogo» e gli «attori esterni, siano essi l’Unione europea o gli Stati Uniti, facciano il massimo per l'avvio del negoziato». Per il capo della diplomazia russa è «improbabile che però si arrivi a qualcosa» se come per Ginevra 1 sarà «assente dal tavolo» l’opposizione all’attuale governo ucraino. Si rischierebbe di «girare a vuoto», ha sottolineato Lavrov, che nella capitale austriaca ha incontrato il presidente dell’Osce, Didier Burkhalter, il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier,e la titolare della Farnesina, Federica Mogherini, per la Quale è necessario che tutte le parti fermino gli scontri sul terreno e che inizi finalmente il percorso tracciato a Ginevra. Kiev si oppone alla richiesta russa. Non c’è alcuna necessità di includere i filorussi nei colloqui internazionali perché«in qualità di 8 governo ucraino rappresentiamo tutte le regioni dell’Ucraina», ha detto il ministro degli Esteri di Kiev, Andriy Deshchytsia. Il presidente francese, Francois Hollande ha evocato il «caos e il rischio di guerra civile» se in Ucraina non si svolgeranno le elezioni presidenziali. L’inquilino dell’Eliseo ha sottolineato la necessità di fare «pressioni sul presidente Putin» affinché la scadenza elettorale sia rispettata. Londra sostiene che Mosca «cerca di destabilizzare» l’organizzazione delle elezioni presidenziali ucraine del 25 maggio. Per il capo della diplomazia britannica William Hague, Mosca «sembra avere l’intenzione di impedire e perturbare queste elezioni». Gli Stati Uniti da parte loro hanno condannato la decisione dei separatisti russi nell’est dell'Ucraina di organizzare un referendum per l’annessione a Mosca. «Questo è il copione della Crimea che si ripete un’altra volta», rimarca il portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, parlando della tornata elettorale (definita da Washington «truccata») che si dovrebbe svolgersi l'11 maggio prossimo e che nelle intenzioni degli organizzatori dovrebbe dare vita alla Repubblica popolare di Donetsk. A Roma i ministri dell’Energia del G7 si sono detti «estremamente preoccupati dalle implicazioni sulla sicurezza energetica legate agli sviluppi della situazione in Ucraina, come conseguenza della violazione da parte della Russia della integrità e della sovranità territoriale Ucraina». È quanto si legge nel comunicato finale del vertice. I Paesi delG7«si impegnano a avviare un sistematico miglioramento della sicurezza energetica a livello nazionale, regionale e globale» e «restano uniti nella determinazione di fornire vari tipi di assistenza di cui l’Ucraina abbia bisogno per rafforzare la sua sicurezza energetica». DIPLOMAZIA E ARMI Le manovre diplomatiche s’intrecciano con quelle militari. Il numero delle vittime degli scontri dell’altro ieri continua a salire ed è di almeno 34 il bilancio dei morti negli scontri fra l’esercito di Kiev e i ribelli filorussi a Sloviansk, mentre nel Paese cresce la paura di una possibile guerra civile e di un’invasione delle truppe russe mascherata da operazione di peacekeeping. Nella battaglia per il controllo di Sloviansk hanno perso la vita 30 ribelli e 4 soldati dell’esercito di Kiev, oltre a decine di feriti di entrambe le parti. «Stimiamo che i terroristi abbiano perso oltre30uomini»,ha scritto sulla sua pagina Facebook il ministro dell'Interno Arsen Avakov. L’altro ieri i combattenti pro-Mosca hanno abbattuto un elicottero nei pressi della città, il terzo da quando è iniziato l’assedio la scorsa settimana. Tra le vittime filorusse negli scontri nella roccaforte dei secessionisti nell’Ucraina orientale, c'erano molti residenti della Crimea, russi e ceceni. Un reporter dell' Afp ha riferito che la battaglia non ha ancora raggiunto il centro cittadino, dove tuttavia cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità. I miliziani filorussi hanno messo camion di traverso lungo la strada e hanno dato fuoco ai copertoni per rallentare l'avanzata dei soldati. E a gettare benzina sul fuoco arrivano le parole di Serghei Naryshki, speaker della Duma, la Camera bassa del Parlamento russo: «Siamo di fronte a un genocidio di russi e ucraini». del 07/05/14, pag. 33 Tra i contadini della città rasa al suolo dal generale Mladic “Siamo tornati per coltivare il grano” A Srebrenica rinasce la terra del genocidio VANNA VANNUCCINI SREBRENICA 9 HAKIJA si piega quasi a carezzare la terra con la mano. E’ un vecchio inverosimilmente magro, la faccia è quella di un contadino, ma molto più consumata, sembra il guscio dietro il quale si è ritirata la tartaruga. Lui è stato il primo a tornare a Osmace. La casa non c’era più, distrutta dalle cannonate come quasi tutte le case dei villaggi intorno a Srebrenica. In piedi era rimasta solo una capanna di legno e lì ha vissuto per un anno e mezzo, cercando nel frattempo di ricostruire la casa. La terra, ci fa vedere, è argillosa, e in quindici anni in cui nessuno ha abitato qui si è creato uno strato spesso più di trenta centimetri, duro come il cemento. Osmace è un villaggio della Bosnia orientale sulle alture di Srebrenica, a quasi mille metri, su un altopiano stretto tra i canali profondi di un’ansa della Drina, il fiume cruciale della storia balcanica, dove per secoli si sono scontrati ottomani e asburgici, cattolici e ortodossi, serbi e musulmani. A pochi chilometri da qui c’è Brezani, un villaggio serbo. Si erano sempre aiutate, le famiglie dei due villaggi: prestandosi le macchine agricole, inseminando i capi di bestiame di un villaggio con quelli dell’altro. Ma nel 1992 i maschi di Brezani scomparvero per qualche giorno dal villaggio — l’esercito serbo li aveva portati in Serbia per addestrarli. Poi entrò in Bosnia Arkan con i suoi miliziani. La fine è nota: a Srebrenica, sotto il comando del generale Ratko Mladic ci fu nel luglio del 1995 il più efferato genocidio della storia europea dopo la seconda guerra mondiale. Srebrenica era una città termale famosa in tutta la Jugoslavia e aveva allora 40.000 abitanti, oggi ne ha 5000. Le strade sono vuote, le case nuove, e in mezzo alla via principale c’è una grande chiesa ortodossa che il pope ha immediatamente costruito su un terreno che apparteneva a una famiglia musulmana che non è riuscita più a riaverlo. «Arare la terra e seminarla non è stato facile» dice Hakija. Il terreno si è riempito di sterpi, di felci che sono più resistenti della gramigna, e appena semini arrivano i cinghiali, e anche i lupi che attaccano il gregge. Però ce l’hanno fatta. Il primo raccolto, l’anno scorso. è stato buono. Ora da un giorno all’altro si dovrebbe seminare, ma oggi c’è un nevischio gelido, anche se siamo già in maggio, e bisogna aspettare che il tempo migliori. Nei due villaggi, in cui nessuno aveva abitato dal 1993 al 2002, quando Hakija è tornato, vivono oggi centinaio di persone. “Prima” Osmace aveva 942 abitanti e Brezani 373. Hakija è lo zio di Muhamed Avdic, che ci ha portato qui e che insieme a un gruppo di giovani in cui ci sono musulmani e serbi è uno dei protagonisti di un progetto di ripresa di convivenza interetnica che “semina il ritorno”: coltivando e vendendo il grano saraceno, che è il più resistente alla felce e quello che cresce meglio su queste alture. Nel 2010 una organizzazione internazionale scaricò qui alcuni Tir di semi di grano, di cui all’inizio non sapevano bene che fare, racconta. Ma Muhamed e Velibor Rankic riuscirono a trovare un po’ di soldi (1500 euro mandati dalla Fondazione Langer e altre ong associate nel progetto Adopt Srebrenica). Una ditta di Sarajevo acquista il prodotto. Riceveranno questa settimana a Treviso il premio internazionale “Carlo Scarpa per il giardino” ideato dalla Fondazione Benetton che insieme a Adopt Srebrenica segue passo passo “Seminare il ritorno”. Omer, 39 anni, è tornato con la moglie, la madre e tre bambini. E’ uno dei sopravvissuti a quella terribile marcia che attraverso i boschi, sotto le cannonate e gli agguati degli uomini di Mladic riuscirono, in sette giorni di cammino, senza cibo e senz’acqua, a raggiungere Tuzla in territorio libero dai serbi. Lui era tra i più giovani e fu messo nelle prime file dei 5000 uomini che tentarono la fuga. Ogni anno, in commemorazione di quella marcia, organizzazioni umanitarie ripetono il cammino. Lui non è mai riuscito ad andarci, dice, troppo insopportabili sono i ricordi. Più volte, mentre racconta, la moglie gli sussurra piano: fai attenzione che ci sono i bambini. E’ la prima volta che racconta la sua storia. Nella marcia morirono il padre, i due fratelli, e la moglie del fratello maggiore che era incinta di sei mesi. «Cinque» fa con le dita della mano la madre, una signora dolce, ancora con un 10 viso giovane, che siede rannicchiata sul divano. «Ne ho perduti cinque». La figlia di nove anni, ascolta con gli occhi sgranati, immobile. Ci si saluta sotto il nevischio che continua a cadere. Omer ci accompagna fuori e scruta il cielo. «Domani sarà bello» sorride. 11 INTERNI del 07/05/14, pag. 3 F35, passa la moratoria. Ma non c’è pace nel Pd Daniela Preziosi Difesa. Alla camera il primo ok per rinegoziare il contratto degli aerei e arrivare al dimezzamento dei costi. Ma la strada verso l’aula è lunga. E minata. Oggi in commissione il voto che ferma (per ora) l’acquisto dei caccia. Fra mille pressioni e diversivi È guerra di nervi sul «forte ridimensionamento» dell’acquisto degli F35 del programma Joint Strike Fighter da parte dell’Italia. Ieri, nella vigilia del voto della commissione difesa di Montecitorio sulla relazione del capogruppo Pd Gian Piero Scanu è partito un fuoco preventivo — la metafora bellica è inevitabile — sull’assemblea dei deputati che, in serata, doveva ratificare il testo. La riunione, in effetti, si conclude a tarda senza senza colpi di scena. Passa la moratoria dell’acquisto per rinegoziare il contratto e così arrivare al «dimezzamento del budget». Il testo viene approvato dai dem senza un voto formale. Il che però potrebbe essere un espediente per lasciare le ’mani libere’ a qualche deputato, una volta che il testo arriverà in aula. Ma in mattinata notizie di agenzia anticipano che si tratta nei fatti di un «accordo governoPd» sui tagli alla difesa, fra cui il ridimensionamento della Forza Nec (Network enabled capabilities) nel progetto ’Soldato futuro’, il programma di digitalizzazione dell’esercito. Il core business dell’intesa sarebbe il «dimezzamento» del budget degli F35. Il governo in realtà fin qui ha tenuto un notevole equilibrismo sul tema. La ministra Pinotti ha alternato conferme di tagli a smentite. Il presidente Renzi ha prima rassicurato l’alleato Obama, poi fatto filtrare indiscrezioni sul suo ok al taglio dei caccia, salvo eliminarne uno, dicasi uno, nel Def. Ma l’apposita indiscrezione sulle intenzioni dell’esecutivo, in piena campagna elettorale, basta a scatenare le «forti riserve» dell’Ncd e di Scelta Civica. Il governo, qualsiasi mossa intenda fare, procede su un campo minato. Da una parte l’impopolarità della spesa (faraonica, 14,3 miliardi in 15 anni, ma la cifra viene spesso messa in discussione) ben oltre l’area dei pacifisti, che comunque il 25 aprile hanno riempito l’Arena di Verona per gli «stati generali del disarmo» (con Strada, Landini, Camusso, don Ciotti, padre Zanotelli). Un passo falso di Renzi sarebbe una manna per la campagna elettorale di Grillo. Dall’altra parte c’è la sensibilità non disinteressata degli alleati del governo, insieme a un gruppetto di fan degli F35 del Pd. Per non parlare dell’alleato americano, che negli scorsi giorni ha di nuovo battuto un colpo. L’ambasciatore a Roma John Phillips ha dato l’affare per concluso: «Noi abbiamo accordi con l’esercito italiano e si è detto che si andrà avanti. Forse si dovrà rallentare l’acquisizione, ma non credo ci sia alcun interesse nel ridurne il numero». Fra l’altro la riduzione dei caccia potrebbe non significare una proporzionale riduzione dei costi. Le pressioni sul Pd, che in commissione difesa ha la maggioranza per far approvare la relazione, sono fortissime e provengono «da alcuni vertici del partito e delle istituzioni». Il ripensamento della «moratoria» nei fatti dell’acquisto è sempre dietro l’angolo. Ieri lo ha rivelato anche Francesco Vignarca, della Rete Disarmo: «Secondo quanto abbiamo appreso sono stati proposti dal capogruppo Speranza all’assemblea dei deputati Pd alcuni 12 emendamenti al testo base che eliminerebbero la moratoria in attesa della decisione finale. Una cancellazione che renderebbe inefficace qualsiasi presa di posizione generica sui caccia, dando invece continuità agli acquisti e alle spese relativi agli F35», anticipa. E c’è di meglio, per Vignarca: «Ancor più grave è l’idea di non subordinare l’elaborazione del Libro Bianco che dovrebbe rimodulare un nuovo modello di difesa dell’Italia ad un voto parlamentare». Per la legge 244 del 2012 il controllo sull’acquisizione dei sistemi d’arma spetta al parlamento. Anche se il Consiglio supremo di difesa, presieduto dal capo dello stato, non ne è convinto. Il braccio di ferro continua. Butta acqua la ministra, che rimanda più avanti la patata bollente: il governo ha avviato il lavoro sul Libro Bianco, ha ribadito ieri, lì ci saranno risparmi. E quindi anche «la rimodulazione del programma F-35», dopo che si è già deciso di risparmiare «153 milioni sui lotti non contrattualizzati». del 07/05/14, pag. 9 Tensioni nel gruppo, poi la richiesta di moratoria Il ministro Pinotti: ok contributi, decisioni nel Libro Bianco F35, duello Pd-governo i deputati all’attacco “Va dimezzata la spesa” TOMMASO CIRIACO ROMA . Un duro braccio di ferro sugli F-35. Uno scontro interno al Pd, ma soprattutto un duello tra il gruppo dem della Camera e il ministero della Difesa. Alla fine, dopo lungo combattere, l’ala “pacifista” segna un punto a proprio favore. E mette agli atti un documento molto critico stilato al termine dell’indagine conoscitiva sui contestati aerei militari - che prevede «una moratoria» sul programma degli F-35. Con un «obiettivo finale: dimezzare il budget finanziario originariamente previsto». L’effetto è potenzialmente deflagrante. Se davvero un voto parlamentare dovesse assumere questo impegno, infatti, l’esecutivo dovrebbe sospendere ogni contratto fino a ridurre della metà l’acquisto degli aerei. Si tratta per un’intera giornata. A sera è convocata l’assemblea del gruppo del Pd di Montecitorio. E all’ordine del giorno c’è un testo molto duro elaborato dal deputato Gian Piero Scanu - che si scaglia senza tanti complimenti contro il contestato programma. Il documento è un dettagliato elenco di critiche agli F-35. «Ci sono molti dubbi», sintetizzano i dem. Nel Pd scatta l’allarme. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti incontra Scanu, partecipano al summit anche il capogruppo Roberto Speranza e Lorenzo Guerini, vicesegretario dem. Al deputato chiedono di smussare alcuni passaggi - a partire dal dimezzamento del budget - e pure le conclusioni del testo, che prevedono un «parere vincolante del Parlamento » sulle risorse da destinare al programma militare. Il gruppo parlamentare del Pd, dal canto suo, è attestato su una posizione molto dura. E Guerini non si mostra ostile. Scanu, allora, può tenere il punto. Il documento, se si escludono un paio di correzioni di poco conto, resta intatto. A sera si riunisce il gruppo. Speranza, che cerca fino all’ultimo una mediazione, anche in considerazione degli impegni internazionali e della posizione del Quirinale - propone di non votare il documento. «Abbiamo deciso - spiega - di assumere all’unanimità il testo come il punto di vista del Pd 13 nella discussione che si svolgerà nelle prossime settimane assieme alle altre forze della maggioranza». Nulla è deciso, insomma. Di certo, però, il documento rappresenta un colpo ben assestato al programma degli F-35. Pinotti, però, fa sapere che non esiste contrapposizione con il gruppo del Pd. E mette nero su bianco: «Il governo ha avviato un lavoro finalizzato alla definizione delle esigenze di sicurezza per i nostri cittadini individuando il ruolo della Difesa attraverso lo strumento del Libro Bianco». Poi aggiunge: «Ci sarà anche la rimodulazione del programma F-35, dopo che si è già deciso di risparmiare 153 milioni sui lotti non contrattualizzati. Sarà importante ogni contributo del Parlamento». Il gruppo del Pd, però, esulta. Per Giuditta Pini «hanno perso tutti quelli che hanno cercato di sovrastare il Parlamento». Scanu, poi, è raggiante: «La Difesa o il Colle contrariati? Non credo. E comunque tutti i livelli istituzionali praticano il rispetto delle altrui competenze. Noi esercitiamo la nostra». A partire da oggi, visto che in commissione Difesa è previsto il voto su una relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva. Ma il progetto dell’ala “pacifista” è utilizzare il documento targato dem come base per una risoluzione da far votare in Parlamento. Tutti osservano la partita interna al Pd. Giulio Marcon, deputato “pacifista” di Sel, giudica il testo Scanu un «passo avanti significativo». «La Pinotti ne esce male - sottolinea - Sel, in ogni caso, è per la cancellazione del programma, anche se mi rendo conto che quella del Pd è una mediazione con il Colle e le Forze armate». La strada per dimezzare il contestato programma, in ogni caso, resta ancora molto lunga. del 07/05/14, pag. 3 Senato Riforme, il sì è uno spot: votiamo, poi cambiamo Andrea Fabozzi E tutto a un tratto il governo si accorge di non avere una maggioranza in commissione affari costituzionali al senato. Scopre che il suo disegno di legge di revisione della Costituzione non piace ai senatori, che del resto erano intervenuti contro in otto, per ognuno che aveva parlato a favore. Il leghista Calderoli regala un pomeriggio di passione, anticipando la maggioranza con un suo ordine del giorno. Propone cose popolari tra i colleghi, come la riduzione anche dei deputati. Panico: l’espediente di far passare il disegno di legge del governo come testo base, smentendolo poi — anzi prima — in un altro atto parlamentare, non può più essere utilizzato. Rischierebbe di passare il testo Calderoli. La ministra Boschi, che sarebbe anche ministra ai rapporti con il parlamento, non aveva capito. Correva, con Renzi. Adesso si accorge di non avere dietro i voti. Non quelli di Berlusconi, che del resto lo va gridando da settimane. Si sfila anche il popolare Mario Mauro, ex ministro ed ex berlusconiano, in riavvicinamento alla destra. Nel Pd c’è il dissenso riassorbito di Gotor ma anche quello confermato di Mineo. Il governo è sotto. La ministra minaccia dimissioni. Del governo. Tira in ballo Napolitano: Renzi salirebbe al Quirinale. Lei c’è stata il giorno prima. Stiamo parlando di una riforma costituzionale. Di un disegno di legge che è piovuto in parlamento da palazzo Chigi. Di un presidente del Consiglio che ha condizionato la sua carriera a quel testo. Adesso c’è la minaccia di 14 dimissioni. E meno male che «le riforme si fanno con tutti», come diceva Renzi. Non lo dice più. Berlusconi dice che il testo del governo è «invotabile». Ma il testo del governo deve passare e deve passare adesso. La scadenza non ha alcun senso logico, se non quello di consentire al presidente del Consiglio di cantare vittoria negli ultimi giorni di campagna elettorale. Per farlo serve però una soluzione assai bizantina. Il voto sul testo del governo viene fatto precedere dal sì a un ordine del giorno in cui si dice, in poche righe, che il testo del governo andrà cambiato. E allora perché non cambiarlo subito? Perché il governo deve sventolare la sua bandiera. La mediazione impegna la ministra e la presidente Finocchiaro tutto il pomeriggio. L’ordine del giorno Calderoli è una minaccia. È stato presentato per primo e per primo dev’essere votato. Da palazzo Chigi, ormai l’ufficio dei relatori della riforma costituzionale, si contatta l’ex ministro Mauro. I conti sono facili. Senza Forza Italia i sì sicuri per il governo sono 13 (8 del Pd, contando anche il voto della presidente, 3 del Ncd, uno delle Autonomie e uno di Scelta civica). Contrari 12 (5 Fi, 4 M5S, uno Sel, uno del gruppo misto, uno del senatore civatiano del Pd Mineo). Decidono i due voti leghisti, e quello dei due senatori Mauro. Oltre a Mario c’è Giovanni Mauro del Gal. Quando la commissione riprende, alle 20.30, gli ordine del giorno sono tre. C’è quello di Forza Italia sul presidenzialismo, quello Calderoli riformulato e abbreviato. E quello della relatrice Finocchiaro, benedetto dal governo. Ammette i limiti del testo Renzi-Boschi e annuncia correzioni, da fare più avanti. Sulla modalità di scelta dei senatori una strizzatina d’occhio a quanti insistono per l’elezione diretta, la maggioranza. C’è un riferimento al «corpo elettorale». Ma prima di tutto si vota il testo Calderoli. E succede quello che era sempre stato prevedibile: i senatori votano come avevano annunciato. Nulla di più e nulla di meno. Mineo al’ultimo momento non partecipa al voto. Ma bastano i sì dei due Mauro per far spostare l’equilibrio. Passa l’ordine del giorno del senatore leghista. Che prevede un bel po’ di cose indigeste all’esecutivo, prima fra tutte l’elezione diretta dei senatori. Poi amplia le competenze della nuova camera alta. Un bel pasticcio per le impuntature di Boschi e le forzature di Finocchiaro. Il cui ordine del giorno diventa improcedibile, dal momento che dice alcune cose opposte a quello Calderoli. La commissione si sospende. Finocchiaro e Boschi cercano una soluzione. Che non può essere altra dal ritiro della loro precedente mediazione. Per Renzi è una clamorosa scivolata. Il passaggio forzato in commissione appare in tutta la sua strumentalità. Si vota il disegno di legge governativo come testo base. Ma poi per correggerlo bisognerà partire dalla linea di Calderoli. Che è opposta. del 07/05/14, pag. 2 Il governo viene prima battuto poi passa il testo di maggioranza Renzi: la palude non ci blocca Via libera al documento dell’esecutivo anche con i voti di Forza Italia Ma c’è il sì pure all’odg Calderoli col voto del popolare Mauro SILVIO BUZZANCA ROMA . Mezza battuta d’arresto del governo sulla riforma del Senato. È passato infatti in commissione a Palazzo Madama, con 17 voti favorevoli, 4 sono di Forza Italia, contro 10 15 no, il testo base voluto da Matteo Renzi. Ma è accompagnato da un ordine del giorno, presentato da Roberto Calderoli, che prevede in maniera esplicita l’elezione diretta dei futuri senatori eletti dai cittadini. Proprio quello che il premier non voleva. Hanno votato con Calderoli 15 senatori su 29: cinque forzisti, quattro grillini, quelli di Sel e Gal. E soprattutto il centrista Mauro Mauro. Corradino Mineo, democratico, invece non ha partecipato al voto. I favorevoli invece 13. Renzi comunque parla di vittoria sul testo base e subito twitta: «Non era facile, la palude non ci blocca». Tuttavia non è stato messo in votazione l’odg presentato dalla relatrice Anna Finocchiaro che non prevedeva l’elezione diretta dei senatori. Si parlava, su insistenza del Ncd, solo di un possibile ruolo degli elettori nella scelta dei senatori. Nel testo Finocchiaro c’era invece l’indicazione che il Senato dovrà essere una Camere delle Autonomie, un ruolo maggiore dei consiglieri regionali rispetto ai sindaci e un legame fra popolazione regionale e numero dei senatori eletti. e il ritorno a 5 dei senatori nominati dal capo dello Stato. Bocciato invece l’odg forzista sul presidenzialismo. Il risultato è arrivato dopo una giornata convulsa. La prima riunione della commissione, infatti, si è risolta in un nulla di fatto. E al quel punto si è sparsa la voce che la Boschi avesse minacciato le dimissioni di fronte alle divisioni nella maggioranza e nel Pd. Alla fine, in serata era stata la stessa ministra ad annunciare l’intesa nella maggioranza. Ma poco dopo la commissione l’ha in parte smentita. del 07/05/14, pag. 10 Caos al Senato sulla riforma Poi il sì in commissione, Forza Italia ago della bilancia «Non la daremo vinta ai Calderoli….». Suonano fatali le parole del ministro Maria Elena Boschi pronunciate pochi minuti prima del voto in commissione al Senato che ha visto il governo e la maggioranza andare sotto sull’elezione diretta dei senatori. Un ordine del giorno del leghista Roberto Calderoli, infatti, è passato a tarda sera con i voti dei grillini, di Forza Italia, di Sel e con l’appoggio determinante dell’ex ministro Mario Mauro (Popolari) che fino all’ultimo è stato inutilmente blandito dal fronte filo governativo. La commissione ha comunque adottato (anche con i voti di Forza Italia) l’articolato del governo come testo base della riforma del Senato e del Titolo V: «Raggiunto l’obiettivo fondamentale del governo anche se qualche ex ministro è in cerca di visibilità», dice comunque il ministro. Mentre il premier Matteo Renzi affida il suo entusiasmo a Twitter: «Riforme, la palude non ci blocca». Ma, come aveva pronosticato l’azzurro Donato Bruno, «la maggioranza ha fatto male i suoi calcoli». L’ordine del giorno del presidente Anna Finocchiaro (Pd), che invece prevedeva una formula vaga sul criterio di selezione dei senatori, è stato poi ritirato e anche un documento presentato da FI sul presidenzialismo è stato respinto. «Quel che conta è l’approvazione del testo base», ha commentato Maurizio Sacconi (Ncd) ma ora l’odg Calderoli condiziona non poco il prosieguo della riforma del Senato e del Titolo V. Il voto di ieri stabilisce un punto politico non secondario: senza Forza Italia, ago della bilancia, questa maggioranza non è autonoma sulle riforme tanto che il testo base alla fine è stato approvato (17 a 10) anche con i voti di 4 senatori di Forza Italia che sono stati determinanti perché Corradino Mineo del Pd non ha partecipato alla votazione: «Le riforme sono salve grazie a noi», ha detto trionfante il capo gruppo azzurro Paolo Romani. Dice bene, però, anche Miguel Gotor (Pd) quando descrive la commissione Affari costituzionali come un luogo dove ormai vanno in scena solo sfide manzoniane. Al Senato 16 si è visto tutto e di più grazie a una «frenesia elettorale» (la definizione è Mauro) che ha contagiato tutti i gruppi. I colonnelli di Forza Italia fin dalla mattina dicono che loro il testo base del governo non lo voteranno mai. E così, quando si conclude con un nulla di fatto la seduta della mattina, il Pd inizia a usare il pallottoliere che dà a favore dei governativi un solo, virtuale, voto di scarto. Sulla carta, ci sono 9 dem (compresa la presidente Finocchiaro), 3 Ncd, Maran di Scelta civica, Palermo degli autonomisti e Mauro dei Popolari per l’Italia. Totale 15 favorevoli, contro i 14 degli antigovernativi (FI, M5S, Sel, Lega). Ma subito insorge un problema con il 15° voto utile che l’ex ministro della Difesa inizia a far pesare arrivando a dire a metà pomeriggio che «la Costituzione viene prima di tutto». Mauro, dunque, già alla prima seduta si tira fuori e di fatto innesca la possibilità del ribaltone. La seduta del mattino se ne va via senza alcun voto perché un primo ordine del giorno molto ampio presentato da Calderoli (Lega) — che prevede oltre all’elezione diretta di un’aliquota di senatori regionali anche la riduzione del numero dei deputati — rastrella consensi trasversali. Nel pomeriggio la temperatura sale. Anche Silvio Berlusconi conferma la sua contrarietà: «Quel testo non lo possiamo mica votare….». A quel punto Anna Finocchiaro incontra il ministro Boschi per concordare un nuovo ordine del giorno ma il caso politico monta. Al Senato Mario Mauro parla con i cronisti e rivela che il ministro, se venisse smentito, sarebbe deciso anche a presentare le dimissioni nelle mani del presidente del Consiglio. «Falso!», replica Maria Elena Boschi: «Non ho mai detto di volermi dimettere». Anzi, poi interviene anche una fonte di Palazzo Chigi che fa battere alle agenzie un messaggio di incoraggiamento: «La maggioranza sostiene con forza il testo del governo». Al Senato si precipitano anche il «super» sottosegretario Graziano Delrio che schiera in commissione i sottosegretari Scalfarotto e Pizzetti. Quando arriva il momento del voto, con la Boschi, sono 4 i rappresentanti del governo che presidiano Palazzo Madama. Alle 20.30, poi, si va alla conta. E quando Mario Mauro si presenta in commissione a braccetto con Roberto Calderoli tutti capiscono che aria tira per il governo e per la maggioranza. del 07/05/14, pag. 1/2 IL RETROSCENA L’ultimatum di Matteo “Non concedo più nulla” FRANCESCO BEI E GIOVANNA CASADIO A UN passo dalla crisi di governo. Preda dei ricatti della sua stessa maggioranza, inchiodato dal dissenso di due senatori, Matteo Renzi dice «basta». A Palazzo Chigi, con al fianco il ministro Boschi, traccia una linea da non oltrepassare. O SI vota il nostro testo sulle riforme o salta tutto». Una drammatizzazione necessaria di fronte al riaffacciarsi di quella «palude» che ha rischiato di azzerare di nuovo il lavoro fatto finora. L’ultimo colpo di scena alle dieci di sera, quando in commissione passa grazie al voto del popolare Mario Mauro, all’uscita del dem Corradino Mineo e al sì dei grillini - l’ordine del giorno del leghista Roberto Calderoli. Una trappola, con dentro l’elezione diretta dei nuovi senatori. La maggioranza sembra essersi dissolta, è battuta anche se soltanto su un preambolo politico. «Ma è accaduto solo per l’insipienza di quel Mauro che non ha digerito ancora la poltrona sfumata. Pensavano di farcela con un’imboscata, 17 rosolandoci ma noi siamo andati dritto», sbotta il premier. Che poi si rifà con il via libera al suo testo base strappando il sì anche di Forza Italia. «Berlusconi ha cambiato idea», dice dopo una telefonata proprio con il leader forzista. Ma per tutto il pomeriggio la tensione è salita alle stelle. «Sono giochetti che ormai stanno facendo da due giorni — è la sfuriata del leader pd con i suoi — pensano di avere a che fare con dei ragazzini inesperti. Adesso basta. L’accozzaglia ha portato a casa un ordine del giorno che vale zero». Renzi è convinto di aver già ceduto molto, venendo incontro alle richieste sostanziali dei contestatori. «Siamo sempre stati pronti a discutere. Volevano più consiglieri regionali e meno sindaci? Benissimo. Volevano spostare il voto finale dal 25 maggio al 10 giugno? Bene anche questo. Però il giochetto del “più uno” mi ha stancato. Mi sono stufato. Ora le concessioni sono finite». L’arma per mettere a tacere i dissidenti è quella evocata esplicitamente da Roberto Giachetti, che il premier sembra ancora una volta mandare avanti come staffetta. «Avete visto cosa dice? ha ragione ». «Matteo, fidati di me, andiamo a votare #machitelofafare », twittava il vicepresidente della Camera di fronte all’impasse della prima commissione. Il risultato portato a casa alla fine è l’ok al testo base del governo: la maggioranza (tranne Mineo che non partecipa al voto) più Forza Italia. Ma la guerra dei nervi era iniziata sin dal mattino. Calderoli infatti, che avrebbe dovuto presentare insieme ad Anna Finocchiaro un ordine del giorno riassuntivo di tutte le modifiche concordate, scarta subito di lato. Ne presenta uno proprio che riscrive tutta la riforma, arrivando a prevedere anche la diminuzione a 400 dei deputati. Da lì inizia il caos, anche Mauro e Mineo dicono subito che non voteranno il testo del governo. Su 29 membri della commissione solo 13 appoggiano la riforma come l’ha disegnata Boschi. A Palazzo Chigi sono ore frenetiche, le riunioni si moltiplicano. La Finocchiaro si chiude in una stanza con il ministro delle Riforme. Nel frattempo l’ex ministro della Difesa sta cercando di convincere Mineo a non lasciarlo da solo. Ma l’ex ministro deve affrontare un “processo” nel suo gruppo (11 senatori, di cui 2 dell’Udc). La maggior parte infatti condivide l’opinione di Andrea Olivero e non ne vuole sapere di mandare tutto a carte quarantotto. E minaccia Mauro di sostituirlo in commissione affari costituzionali. A pochi minuti dall’inizio della seduta serale sembrava fatta. Nonostante il clima incandescente, il governo aveva accettato di mediare ulteriormente su un documento da votare subito, prima del testo base, per fissare i punti di possibile modifica. Tra questi il più importante era quello relativo alla modalità di scelta dei futuri senatori, che Renzi vorrebbe indiretta e di secondo grado. Invece caldeggiato dalla minoranza dem, da Ncd e Forza Italia, si era arrivati a un compromesso, e cioè che sarebbe stato «consentito agli elettori al momento del voto per i consigli regionali, di indirizzare le scelte tra i rispettivi componenti dei membri del Senato delle autonomie». Di fatto si tornava a quell’ipotesi di listini separati di consiglieri regionali. I dissidenti del Pd erano soddisfatti. Il partito sembrava pacificato. Francesco Verducci, portavoce dei giovani turchi, era ottimista: «Il Pd ci deve stare per forza tutto. È una partita importante come quella dell’Irpef». Bene anche per quel drappello di senatori dem critici guidati da lettiano Francesco Russo. L’ok al preambolo politico di Calderoli è invece una doccia fredda. La Boschi è gelata. Finocchiaro interrompe la seduta: è costretta a ritirare l’ordine del giorno della maggioranza. Si passa a votare il testo del governo. Renzi non pensa che nel gruppo ci sia ancora chi punta a farlo fuori. E tuttavia, ragionando con i suoi, pensa anche alle contromosse: «Se nel Pd qualcuno pensasse di remare contro le riforme per colpire me e affondare il governo, sappia che la reazione sarà...molto forte». Quanto a Berlusconi, il presidente del consiglio non riesce più a comprenderne la strategia. Ieri alla fine l’ha convinto. «Ma un giorno ci attacca, un altro vuole entrare in maggioranza. Mi sembra piuttosto ondivago, insegue i sondaggi». 18 del 07/05/14, pag. 24 IL DOVERE DELL’ONORE STEFANO RODOTA’ NON possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile. In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo. È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”». In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche — 19 disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico? Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese. In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato articolo 54. Ma una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile? del 07/05/14, pag. 4 Il centrosinistra svolta. A destra Serena Giannico PESCARA Regionali. D’Alfonso sfida il forzista Chiodi, governatore uscente, mettendo in lista candidati pescati dallo schieramento avversario. Corre da solo il consigliere del Prc Maurizio Acerbo: questo Pd non rappresenta il cambiamento Dalla loggia dei templari, con un misterioso elenco su cui indaga la magistratura e nel quale figura il nome di Luciano D’Alfonso, ai veleni delle megadiscariche di Bussi sul Tirino (Pe) agli scandali dei mesi scorsi: c’è di tutto nella campagna elettorale per il rinnovo del governo regionale dell’Abruzzo. Sono quattro i candidati presidenti, 14 le liste per 406 aspiranti consiglieri e 29 posti da assegnare. C’è il presidente uscente, Gianni Chiodi, di Forza Italia, con la sua coalizione di centrodestra, che corre prima di tutto contro le statistiche. Che da queste parti dicono: nessun governatore è mai stato riconfermato. Per lui la lotta è anche contro l’aria che tira nel Bel Paese in cui Matteo Renzi e Beppe Grillo, almeno secondo i sondaggi, hanno il massimo dei consensi, mentre Silvio Berlusconi, dietro, s’affanna e s’angustia. 20 Poi c’è l’inchiesta «Rimborsopoli» che lo coinvolge e che lo ha travolto insieme a parte della giunta e dei consiglieri di maggioranza. Sono 25 gli inquisiti (compresi alcuni rappresentanti del centrosinistra), tra cui il coordinatore regionale di Fi, Nazario Pagano, e le accuse, da parte della Procura di Pescara, sono per indebiti rimborsi istituzionali: per viaggi, consumazioni, alberghi a 5 stelle vissuti anche in dolce compagnia. Un diffuso malcostume, insomma. Chiodi sta cercando di riguadagnare terreno, facendo leva, ad esempio, sull’abbassamento delle tasse e il fatto di aver risanato i conti della sanità, sulla scia della montiana austerity. Ma a quale prezzo? Ospedali chiusi, smembrati, disfatti, assistenza peggiorata, disgregata, servizi di tutti i generi tagliati. A farne le spese soprattutto le zone interne. Il suo diretto sfidante è Luciano D’Alfonso, dato per favorito e che guida ufficialmente il centrosinistra, anche se, nelle liste, ha infilato una sessantina di esponenti del centrodestra. «Campagna acquisti», così è stata definita ed è stata aspramente criticata, ma lui ha tirato dritto. «Perché — sussurrano da più parti — vuole essere autonomo rispetto a una coalizione che gli sta stretta». Con Idv, Sel e Comunisti italiani insoddisfatti anche della sua candidatura, ritenuta inopportuna, considerata la sua storia giudiziaria. «Processi in corso, da iniziare o in appello — è la critica -, e legami con poteri imprenditoriali fortissimi che gli hanno causato ’intoppi’ con la magistratura». Il più caustico nei suoi confronti è stato ed è il consigliere regionale uscente Maurizio Acerbo, del Prc, che, causa guai giudiziari di D’Alfonso, ha rinunciato all’alleanza col centrosinistra. Alle elezioni si presenta da solo (Rifondazione-Sinistra europea), contro lo sbarramento del 4 per cento. «D’Alfonso è un personaggio che nulla ha a che fare con la rottamazione renziana — attacca Acerbo -. Mai avuto l’intenzione di sostenere questo centrosinistro (la o finale non è un errore ortografico): le relazioni di D’Alfonso con le imprese sono più preoccupanti di quelle di Pagano e Chiodi con le amanti. C’è un malessere diffuso rispetto a un Pd che in questa regione ha collezionato, negli ultimi anni, più inchieste della camorra in Campania. E’ vero che le responsabilità penali sono personali e vanno accertate in sede giudiziaria, ma è invece collettiva la responsabilità politica del centrosinistra abruzzese per la sua indifferenza verso la questione morale, con cui non riesce a fare i conti. Il cambiamento in Abruzzo — prosegue Acerbo — non può certo essere rappresentato da D’Alfonso e dal caravanserraglio che ha aggregato, pieno di transfughi del centrodestra e di ras clientelari che hanno lasciato in eredità centinaia di milioni di debiti nelle società dell’acqua». Acerbo, dal canto proprio, conta di capitalizzare pure la forza della lista Tsipras alle europee e i voti dei movimenti ambientalisti e di quelli che in genere disertano le urne, e per questo avrebbe candidato Davide Rosci, agli arresti domiciliari per i disordini di Roma dell’ottobre 2011 ma con la fedina penale immacolata. Infine i 5 Stelle, che riescono a riempire le piazze ai comizi e che hanno fatto scendere in campo Sara Marcozzi. Anche per lei qualche mugugno. «Nessuna esperienza in politica e si sente — dichiarano le malelingue -. Fa parte della Chieti bene, ha votato Chiodi alle scorse elezioni e ha fatto praticantato nello studio di Giovanni Legnini, attuale sottosegretario all’Economia. Che ha di… grillino?». del 07/05/14, pag. 1 Attacco al salario Sandro Medici Ci siamo. Le prime conseguenze del commissariamento di Roma cominciano a scaricare i loro acidi effetti. 21 Il taglio agli stipendi dei dipendenti comunali romani è una di quelle decisioni che potrebbe terremotare i già precari equilibri dell’amministrazione Marino, che, di suo, certo non gode di buona salute. Le manifestazioni, i cortei spontanei, l’occupazione di piazza del Campidoglio, i blocchi stradali e perfino il dirottamento di un autobus che ieri si sono visti in città stanno lì a segnalare non solo l’entità delle politiche restrittive che il Comune è obbligato a praticare, ma anche l’individuazione del bersaglio che tali politiche hanno scelto di colpire. Prendersela con impiegati, maestre, assistenti sociali, vigili urbani, tecnici, custodi, ecc. significa colpire quegli strati di occupati che vivono con redditi bassi, economie familiari già stremate e al limite della sopravvivenza. E certo non saranno le indicazioni della Corte dei conti a giustificare questa decisione, né possono rappresentare una copertura politica per un’amministrazione che nei fatti non sa come andare avanti, strangolata dal debito e sotto stretta sorveglianza governativa. Il salario accessorio che il sindaco vuole eliminare dalle buste paga dei dipendenti comunali altro non è se non quello stretto margine integrativo di stipendi bloccati da quasi un decennio. L’unica possibilità lasciata alla contrattazione sindacale, l’unica possibilità di adeguare (ma solo in parte) retribuzioni basse e bassissime. Ed è per questa ragione che la reazione dei lavoratori comunali ieri è stata così intensa: difficile ricordare episodi analoghi nella storia recente della città. Una reazione che di sicuro si svilupperà ulteriormente, con scioperi e chissà cos’altro. Assisteremo al primo conflitto sociale derivante dalle politiche assassine del patto di stabilità. Si passerà poi a nuovi e ulteriori riduzioni delle disponibilità di stato sociale, servizi ridimensionati o del tutto eliminati. Toccherà poi all’alienazione del patrimonio pubblico, alla vendita ai privati di quote societarie delle aziende comunali, alla privatizzazione di segmenti di welfare. E tutto ciò in parallelo ai morsi che la crisi economica continuerà a distribuire sulle fasce sociali più esposte. Laddove crescerà la domanda di sostegno, servizi, tutele di vario genere, corrisponderà una riduzione dell’offerta comunale. Marino ha scelto l’obbedienza. Non si discosterà dalle imposizioni finanziarie che gli hanno ritagliato addosso, come contropartita per il trasferimento finanziario di cui ha goduto. E si ritroverà nel pieno del conflitto sociale, di cui la giornata di ieri è solo la prima avvisaglia. Intanto, Roma continuerà a deperire e sfiorire, senza programmi né prospettive, sempre più impoverita e depressa. 22 SOCIETA’ del 07/05/14, pag. 14 Droghe: Renzi tra Obama e Giovanardi Stefano Anastasia Sono passati ormai sedici mesi da quando l’Italia è stata messa in mora dalla Corte europea per i diritti umani per la violazione sistematica del divieto di pene o trattamenti crudeli e degradanti e la popolazione detenuta è diminuita di 6.222 unità. Avevamo una eccedenza di circa 25mila detenuti sui posti-letto regolamentari disponibili nel nostro sistema penitenziario ed è stata ridotta di 10mila unità. Restano, dunque, 15mila detenuti che non hanno un ricovero «a norma». Nonostante l’ultimatum della Corte europea, nonostante il solenne messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano, nonostante l’adozione di ben due decreti-legge in materia, nonostante l’impegno profuso dal Ministero della giustizia e dall’Amministrazione penitenziaria, a tre settimane dalla scadenza di quel termine non siamo ancora a metà dell’opera. Come mai? Certamente perché non si è voluta ascoltare la saggia indicazione di Napolitano (adottare un provvedimento straordinario di clemenza mentre si ponevano in opera le riforme strutturali del sistema penale e penitenziario). Certamente perché le sirene populiste sono incantate dalle virtù taumaturgiche della galera assai più che dal rigoroso rispetto dei diritti umani. Certamente perché l’intendenza segue con fatica burocratica le migliori intenzioni dei suoi condottieri. Certamente per tutte queste ragioni, e per altre ancora. Non ultima, però, per l’interdetto italiano a una seria discussione delle politiche sulle droghe e del loro ruolo nei processi di criminalizzazione e di incarcerazione di massa. Anche di fronte alla storica sentenza con cui la Corte costituzionale ha cancellato d’un colpo la legge Fini-Giovanardi la reazione è stata molto al di sotto delle aspettative. Serviva un decreto-legge per sanare le incongruenze oggettive determinate dal ripristino della legge previgente e qualcuno invece ha tentato il colpo di mano, provando a ripristinare per decreto la legge abrogata dalla Consulta. Assediata dal Nuovo CentroDestra di Alfano e Giovanardi, la Camera non ha potuto migliorare significativamente il decreto ed ecco che un intellettuale soi-disant liberale come Giovanni Belardelli chiede dalle pagine del Corriere nazionale di dar credito alle teorie dell’ex zar antidroga e di classificare tra le droghe più pericolose la fantomatica “super-cannabis” ad alto contenuto di principio attivo. Ora lasciamo perdere la questione dell’esistenza della «super cannabis» e delle sue proprietà, ma il liberale Belardelli non sa che l’unico effetto della sua eventuale riclassificazione consisterebbe nell’aggravamento di pene per la sua detenzione? Miracolati dalla Corte costituzionale, vogliamo tornare esattamente al punto di partenza? I postumi carcerari del trentennio neo-liberista non si sentono soltanto da noi. Anche altrove si stanno facendo i conti con quel passaggio dal “sociale” al “penale” che ha modificato le forme del controllo sociale nei decenni passati. Solo da noi, però, la coazione a ripetere assume questa pervicacia. Negli Stati Uniti l’Amministrazione Obama è partita da definire forme di non punibilità della detenzione di sostanze stupefacenti per arrivare ad annunciare un uso generalizzato del condono presidenziale per i reati di droga. Come se, in Italia, riconoscessimo che il sovraffollamento penitenziario non si risolve senza una modifica sostanziale della legge sulla droga, tornassimo alla compiuta depenalizzazione del consumo di droghe e si approvasse un’amnistia ad hoc per i condannati per detenzione di sostanze stupefacenti. Mica roba da fricchettoni, solo una politica coerente e 23 conseguente alla constatazione dei danni umani e sociali della criminalizzazione del consumo di droghe. del 07/05/14, pag. 5 Il trip di Giovanardi ricomincia dal senato Eleonora Martini Stupefacente. L’esponente del Ncd relatore del testo sulle droghe. Un solo obiettivo: riportare, nel ddl di conversione del decreto Lorenzin, la marijuana alla stregua delle droghe pensanti La notizia «stupefacente», come l’ha definita Fuoriluogo, è che a dirigere i lavori congiunti delle commissioni Giustizia e Sanità del Senato sul provvedimento di conversione in legge del decreto Lorenzin sulle droghe sarà niente meno che Carlo Giovanardi. Non sarà solo, lo affiancherà l’ex responsabile della Salute del Pd, Amedeo Bianco, ma la notizia è risuonata «tragica e comica allo stesso tempo», per usare le parole del presidente di Antigone Patrizio Gonnella, perché «è come mettere Dracula all’Avis». In effetti in molti, dentro e fuori il Parlamento, si chiedono quale sia il reale motivo che ha spinto i presidenti delle due commissioni, Emilia De Biasi del Pd e il berlusconiano Francesco Nitto Palma, a nominare proprio il padrino della legge annullata per incostituzionalità dalla Consulta come relatore del testo approdato ieri a Palazzo Madama dopo essere stato licenziato dalla Camera il 30 aprile scorso col voto di fiducia imposto dal governo. Forse a parziale giustificazione si può prendere l’ipotesi suggerita dal senatore Luigi Manconi che ieri sul Foglio, in un articolo intitolato «Il cerchio si chiude», parlava di un «caso Giovanardi» come un esempio di «dipendenza secondaria» derivante dalla «condizione di burnout» che «affligge coloro che, senza svolgere direttamente un lavoro a contatto — per esempio — con i tossicomani, possono risultare condizionati ossessivamente dalla questione droga, dal discorso intorno ad essa, dall’introiezione nella sfera mentale e psicologica dei suoi effetti». Ma non è solo, Carlo Giovanardi. Lavora in tandem con la ministra Lorenzin che della sentenza della Consulta avrebbe fatto subito carta straccia rimontando la legge FiniGiovanardi sul treno del decreto legge, proprio con lo stesso escamotage bocciato per incostituzionalità. E infatti ieri Giovanardi ha spiegato che il decreto legge è «in scadenza, quindi i tempi devono essere rapidi. Ritengo — ha aggiunto però — che si possa approvare così come è, unitamente a un ordine del giorno che chieda al Ministero della Salute di correggere il punto critico riguardo la cannabis naturale arricchita». Eccolo, il suo pallino: «La Camera — afferma il senatore del Ncd – ha resuscitato, di fatto, la legge Giovanardi, confermandone i principi cardine, in primis la concezione del tossicodipendente come malato da curare. Resta solo il problema della marijuana: quella che si usava 20 anni fa poteva esser messa in una tabella a parte, ma quella che si usa oggi, sia naturale che sintetica, è arricchita e presenta un Thc altissimo. Per questo – conclude Giovanardi – non andrebbe inserita in una tabella separata rispetto a droghe più pesanti e pericolose. Spero che il Senato intervenga». E a riprova che è uomo di lotta e di governo, Giovanardi schiera anche le sue truppe. Ieri, infatti, mentre da più parti si levavano reazioni di sdegno contro l’incarico conferitogli che rappresenta «un ossimoro», come lo definisce FederSerd, o «un insulto in primis alla ragione, poi alla Corte Costituzionale e, in ultimo, alla dignità stessa del Senato», come ha scritto il direttore di Fuoriluogo, Leonardo Fiorentini, in una lettera al presidente dei 24 senatori Pietro Grasso per chiedere un suo intervento immediato e per annunciare un digiuno di protesta a staffetta organizzato da Forum Droghe, alcune comunità “proibizioniste” con in testa San Patrignano si mettevano già sul piede di guerra. La contestazione contro l’attuale testo di conversione parte oggi alle 14 da Piazza Farnese; poi una delegazione tenterà di portare in Senato le pressanti richieste del “movimento”. Le stesse di Giovanardi. L’esito però non è scontato. Perché se la nomina – mediazione tra il Pd e il Ncd – potrebbe essere “strategica”, per costringere il relatore a mediare a sua volta tra le opposte posizioni rappresentate in Senato, per il Pd, «indietro non si torna», secondo quanto afferma il senatore Giuseppe Lumia, membro della commissione Giustizia. «Si parte dalla sentenza della Consulta — dice — il testo non deve essere peggiorato, e vanno respinti tutti i tentativi di trovare escamotage per far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta». Purtroppo però, anche se i senatori di Sel bollano la nomina come «pura follia», che «rasenta la provocazione aperta», sarà difficile sentire pronunciare a Palazzo Madama le parole scritte ieri da George Soros sul Financial Times in un articolato fondo intitolato «L’inutile guerra alle droghe che spreca denaro e distrugge vite»: «La proibizione degli stupefacenti ha creato un mercato nero immenso, valutato sui 300 miliardi di dollari». E, scrive Soros, «in tutto il mondo, il 40% dei carcerati è dentro per reati legati alla droga, e la cifra è solo destinata ad aumentare». In poche parole: «La war on drugs è stata un fallimento da mille miliardi di dollari. I governi di tutto il mondo devono valutare i costi e i benefici delle loro politiche attuali, e riorientare le risorse verso programmi che funzionano. I costi del non fare nulla sono troppo grandi da sopportare». 25 BENI COMUNI/AMBIENTE del 07/05/14, pag. 5 L’Angelo Mai torna libero, ma non l’osteria Roberto Ciccarelli L’Angelo Mai è stato restituito alla città di Roma. Lo ha disposto il tribunale del riesame che ha accolto il ricorso contro il sequestro giudiziario effettuato il 19 marzo scorso nell’ambito dell’inchiesta condotta dal Pm Luca Tescaroli sull’ipotetica «associazione a delinquere» che vede coinvolte 41 persone aderenti al comitato popolare di lotta per la casa. I giudici hanno concesso l’uso della struttura destinata agli spettacoli e alle attività culturali, ma hanno confermato il sequestro dell’«Osteria di Pina», dal nome di Pina Vitale, portavoce del comitato che ha lavorato dal 2013 come cuoca nel locale. Lo stesso tribunale si è riservato di esprimersi sull’appello di Tescaroli che ha rinnovato la richiesta di 14 misure cautelari già respinta dal Gip. Le ragioni di queste misure sono venute meno quando gli occupanti delle ex scuole in via delle Acacie e in via Tuscolana sono stati deportati nei residence distanti anche decine di chilometri dal centro di Roma. L’associazione Probasis onlus torna dunque in possesso della struttura regolarmente assegnata dal comune nell’ottobre 2009. Il sindaco di Roma Ignazio Marino e il suo vice Luigi Nieri ne avevano già chiesto il dissequestro, ma senza successo. Marino aveva riconosciuto nell’attività dell’Angelo Mai «un rilevante interesse per l’amministrazione comunale», mentre Nieri si era impegnato a sanare le «irregolarità amministrative» legate alla vendita di bevande e cibo e alla messa in sicurezza della struttura. Questa richiesta è stata più volte rivolta all’amministrazione dall’inizio di questa esperienza. In mancanza di un riscontro, l’Angelo Mai si è fatto carico delle spese per le porte antiincendio e per la bonifica dell’amianto che abbondava in uno spazio che sorge nel cuore del parco archeologico delle terme di Caracalla. Per ottenere la riapertura di una trattativa gli artisti hanno rioccupato simbolicamente l’Angelo Mai nel gennaio 2013. Con questa azione hanno cercato di portare all’attenzione uno dei principali problemi dei centri di cultura indipendenti oggi in Italia: non sono luoghi di intrattenimento come le discoteche, o associazioni culturali no-profit del terzo settore, ma un «terzo paesaggio» dove si produce cultura, teatro e musica. La richiesta è quella di riconoscere un’autonoma capacità di generare reddito. Il dissequestro era stato richiesto in un appello da decine di artisti come gli Afterhours, Franco Battiato, Vinicio Capossela, Carmen Consoli, Massive Attack, Elio Germano o Fabrizio Gifuni, oltre che da migliaia di persone che il 6 e il 25 aprile hanno partecipato a due concerti-happening nel vicino parco di San Sebastiano. Nessuno di loro ha creduto verosimile l’accusa secondo la quale gli occupanti del comitato popolare di lotta per la casa sarebbero stati costretti a lavorare gratuitamente all’Angelo Mai con la minaccia di essere allontanati dalle occupazioni a Centocelle e sulla Tuscolana. Per loro si tratta invece di un atto di solidarietà politica e mutualismo tra soggetti chi vive e lavora insieme da anni. 26 INFORMAZIONE del 07/05/14, pag. 12 Le Monde si ribella ai tagli I caporedattori lasciano Si dimettono in sette su undici contro un piano deciso senza la redazione ● Editoria in crisi in Francia come in Italia «Mancano editori capaci di innovare» Marco Mongiello I giornalisti del quotidiano francese Le Monde si ribellano. Ieri sette caporedattori su undici del più importante giornale d’oltralpe hanno presentato le dimissioni in segno di protesta con la direzione e contro un piano di tagli deciso senza il coinvolgimento dei lavoratori. «Da diversi mesi abbiamo inviato numerosi messaggi di ammonimento per segnalare dei gravi problemi. La mancanza di fiducia e di comunicazione con la direzione della redazione ci impedisce di svolgere il nostro ruolo di giornalisti», hanno scritto i dimissionari. Si tratta solo dell’ultimo eclatante capitolo di una crisi dell’editoria che morde in Francia come in Italia. All’inizio dell’anno erano stati i redattori del quotidiano Libération a ribellarsi contro il piano di tagli di 50 persone voluto dall’editore, che voleva anche trasformare il giornale icona della sinistra francese in una «piattaforma televisiva, uno studio radiofonico, una newsroom digitale, un ristorante, un bar e un incubatore di startup» -ma soprattutto ambiva a sfruttare commercialmente lla sede del quotidiano con un ampio terrazzo lasciando nel vago le sorti della redazione. I giornalisti hanno protestato al grido di «Siamo un giornale » pubblicato sulla prima pagina, e il 13 febbraio il direttore e copresidente di Libération, Nicolas Demorand, ha dovuto lasciare la poltrona. Anche nel caso di Le Monde nel mirino delle proteste c’è la direttrice, Natalie Nougayrède, e l’amministratore delegato, Louis Dreyfus. E anche stavolta ad essere contestato è un piano che prevede tagli e mobilità interna di 57 persone, cucinato senza interpellare chi il giornale lo scrive tutti i giorni. È stata soprattutto l'assenza di comunicazione tra direzione e capiredattori a far scattare l’ammutinamento. A marzo dell'anno scorso la nomina della direttrice, l'ex corrispondente da Mosca Natalie Nougayrède, era stata ratificata a grande maggioranza dall’assemblea dei redattori, con il 79,98% dei voti. In pochi mesi però il capitale di fiducia è stato dilapidato completamente. Secondo un rapporto dell'istituto francese Technologia, specializzato nell’analisi dei rischi professionali, a Le Monde «si naviga a vista», «la direzione non dà risposte chiare» e «c’è la sensazione di un’organizzazione improvvisata». Il problema è che anche il blasonato Le Monde soffre del calo dei ricavi pubblicitari e delle vendite. Il giornale in Francia è un’istituzione. Fondato nel 1944 da Hubert Beyve-Méry, e da allora pubblicato quotidianamente ogni primo pomeriggio, èda sempre il punto di riferimento della borghesia progressista. Ma non è solo una questione di soldi. «C’è un problema di metodo e organizzazione che richiede un vero cambiamento ai vertici -ha spiegato ieri il comitato di redazione -. Occorre creare una direzione funzionale e collettiva per fare in modo che chi lavora sia ascoltato». Come in Francia anche in Italia i giornali sono alle prese da anni con una crisi dell’editoria che non sembra finire mai. Solo l’hanno scorso il fatturato pubblicitario dei quotidiani italiani è sceso del 19,4%, dopo una flessione del 17,5% del 2012. I ricavi editoriali invece sono scesi dell’11,1%, mentre le vendite sono diminuite del 6,5%. Si tratta solo dell’ultimo capitolo di una crisi che va avanti da anni. Dal 2006 al 2013 i ricavi pubblicitari dei 27 quotidiani sono diminuiti del60%e le vendite del 36%. Certo i ricavi dei servizi online sono in aumento, ma questi rappresentano ancora solo il 4% del totale. E anche in Italia, come in Francia, non si tratta solo di posti di lavoro a rischio. Ad aprile il presidente della Federazione degli editori (Fieg), Giulio Anselmi, ha ammonito che la dimensione della crisi dell’editoria è tale da gettare «ombre preoccupanti sul futuro di un settore la cui importanza non si esaurisce in una dimensione meramente economica, ma evoca valori di rilievo costituzionale». Secondo il giornalista francese Jean Stern, autore del libro I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi, il problema in Francia sono gli editori: «Mancano di visione e di volontà di investire in modo sostenibile - ha spiegato -. Ci sono numerosi esempi in Gran Bretagna o altrove di testate che sono riuscite a cavarsela grazie a investimenti massicci nel digitale». 28 CULTURA E SCUOLA del 07/05/14, pag. 23 Milano, accordi tra Pereira e Salisburgo sulle opere contestate Oggi vertice Pisapia-Franceschini per decidere il suo futuro Scala, le lettere segrete così il sovrintendente trattava con se stesso ROBERTO RHO MILANO CARA Helga...». «Lieber Alexander... «. Eccolo, il carteggio tra il sovrintendente designato della Scala Alexander Pereira ed Helga Rabl-Stadler, presidente del Festival di Salisburgo di cui lo stesso Pereira è ancora, a tutti gli effetti, direttore artistico. Ecco le lettere con cui il Pereira-Scala si impegna ad acquistare dal Pereira-Salisburgo — dunque in palese, per quanto potenziale, conflitto d’interessi — quattro spettacoli per un valore di 690mila euro. Sono le lettere che hanno fatto esplodere un caso internazionale che scuote come un terremoto il piccolo mondo del teatro d’opera. E che proprio in queste ore conoscerà probabilmente il suo epilogo: il sindaco di Milano e presidente della Fondazione Scala, Giuliano Pisapia, vola a Roma per incontrare il ministro della Cultura Dario Franceschini, al quale nei giorni scorsi ha trasmesso tutta la documentazione raccolta. Le cinque lettere d’impegno, inviate da Pereira a Salisburgo nella stessa giornata, il 20 settembre 2013, sono interessanti fin dall’intestazione. Sulla carta con il logo della Scala, Alexander Pereira si qualifica come “Il Sovrintendente da settembre 2014”. È la verità: prima di allora, il sovrintendente in carica è Stephane Lissner, e solo lui ha il potere di firma sui contratti. Pereira, però, si impegna per conto della Scala ad acquistare da Salisburgo la produzione del Falstaff (130mila euro, spettacolo da rappresentare a Milano nella stagione 2016-17), il Lucio Silla (60mila euro, febbraio/marzo 2015), il Don Carlo (250mila euro, 2017) e la coproduzione dei Maestri cantori di Norimberga (250mila euro, 2016-17). Cinque giorni più tardi, la presidente del Festival austriaco gli risponde con una lettera dall’incipit un po’ imbarazzato, nel quale annuncia di voler firmare insieme a un altro membro della direzione «dato che sei coinvolto in questo accordo in qualità di futuro sovrintendente della Scala e come attuale direttore artistico del Festival di Salisburgo». Nella sostanza, la Rabl-Steiner — con la quale pure Pisapia ha fissato un colloquio in questi giorni — conferma formalmente a Pereira di «aver ricevuto la lettera d’intenti, con valore legale, che prevede il passaggio al Teatro alla Scala» delle quattro produzioni. «Con valore legale». È un’altra patente anomalia: quelle che per Milano sono solo lettere d’intenti (è Lissner che ha potere di firma dei contratti), per Salisburgo sono impegni legali. È il cuore della questione. Pereira è andato oltre i limiti prescritti dal suo contratto con la Scala, allo stato una semplice consulenza? Se sì, come pare probabile anche solo scorrendo il carteggio, perché lo ha fatto? Perché era indispensabile lavorare con anticipo alla programmazione delle prossime stagioni, in particolare quella dell’Expo (in realtà tre dei quattro spettacoli andranno in scena al Piermarini negli anni successivi), come dice Pereira? Ancora: gli acquisti da se stesso sono stati davvero per la Scala «un’occasione esclusiva», come spiega Pereira ai consiglieri nella sua memoria difensiva? Perché nel mese di marzo scorso, presentando il programma 2015, come ammette nella sua memoria, Pereira non ha spiegato al Cda nel dettaglio per quali titoli fosse in trattativa, e soprattutto con chi? «Ho parlato della grande occasione che la Scala ha attraverso la collaborazione tra queste due istituzioni di fama mondiale», dice il sovrintendente 29 designato. «Se la Scala avesse dovuto produrre le stesse opere, avrebbe speso più di 4 milioni ». Infine, la domanda regina, che nasce dalle dichiarazioni pubbliche della stessa Helga Rabl-Stadler («Il nostro bilancio è in pareggio grazie alla vendita di alcune produzioni alla Scala, per un valore complessivo di 1,6 milioni», aveva detto; ma per Pereira è stata «un’errata dichiarazione»): è vero che il Pereira-Scala ha acquistato dal PereiraSalisburgo quegli spettacoli (e probabilmente si è informalmente impegnato per altri tre: il Finale di partita di Kurtag, Der Rosenkavalier e il Trovatore) per ripianare i conti traballanti di Salisburgo? Pereira respinge con sdegno: «Il Festival ha chiuso il 2013 con un risultato positivo di 400mila euro, l’insinuazione è ingiusta e assurda». Eppure, il valore dell’operazione è di 690mila euro, che sono più dei 400mila di utile di Salisburgo. «Per Falstaff e Lucio Silla — risponde Pereira — il Festival aveva già ricevuto offerte pari alla cifra concordata con la Scala». A tutte queste domande dovranno, ormai nel giro di pochi giorni (il prossimo Cda è lunedì 12 maggio), dare una risposta Pisapia e il ministro Franceschini. A queste e alle ulteriori questioni sollevate da Pereira, il quale sostiene che il suo contratto di «”consulente della città di Milano” ha creato gran parte delle tensioni attuali: il mandato prevede che io pianifichi le prossime stagioni e soprattutto l’Expo 2015», ma «come potrò fare tutto questo se non ho potere decisionale? ». Questione legittima, che avrebbe richiesto di essere affrontata prima, non dopo, la firma del contratto di consulenza. Cosa decideranno Pisapia e Franceschini? Difficile dirlo: le cose sono in movimento. Ieri il direttore musicale designato (da Pereira) Riccardo Chailly ha definito la vicenda «un enorme fraintendimento » e ha sottolineato che «a Milano serve un sovrintendente con l’esperienza, la capacità e la conoscenza di Pereira». Pisapia deve ancora riscontrare con Salisburgo la reale dimensione degli impegni assunti da Pereira. E dal Cda della Scala — diviso — trapela l’inquietudine per il sicuro danno all’immagine del teatro. Possibile che — considerato l’evidente scavalcamento dei propri poteri operato da Pereira — sindaco e ministro concordino la necessità di una sanzione, o quantomeno di una rete di protezione, che in futuro eviti il ripetersi di incidenti: per esempio, la creazione di un organismo intermedio tra Cda e futuro sovrintendente, che segua passo dopo passo le mosse di quest’ultimo. Difficile, ma non impossibile, che ne decidano l’immediato licenziamento. Possibile che rinviino eventuali decisioni traumatiche alla scadenza del consiglio di amministrazione, passando al nuovo il testimone di una decisione così impegnativa per il futuro della Scala. del 07/05/14, pag. 20 La protesta degli insegnanti fa saltare i quiz in 260 classi I casi da Milano a Nuoro. Il ministero: adesione bassa Un’altra prova Invalsi archiviata, anche se in mezzo alle proteste. Circa 260 classi bloccate, con gli insegnanti in sciopero e gli alunni rimasti a casa. Hanno debuttato così, ieri, i test dell’anno scolastico 2013/2014: la prova di Italiano per la «valutazione oggettiva delle competenze», prevista ieri nelle classi seconde e quinte della Primaria, si è svolta con qualche intoppo a causa dello sciopero nazionale proclamato dalla sigla Cobas. Il fronte dei contrari si è fatto sentire anche con un sit-in davanti agli uffici del ministero dell’Istruzione, guidato dai Cobas insieme con insegnanti, genitori e bambini. 30 I dati ufficiali diffusi dall’Invalsi parlano di circa 260 classi «assenti» su 29 mila (lo 0,8% del totale): in queste il test non si è svolto perché i docenti hanno aderito allo sciopero. Un risultato comunque «molto positivo» per l’Invalsi: «L’adesione all’agitazione nazionale è stata bassa, alta invece la partecipazione delle scuole Primarie ai test - è il commento di Roberto Ricci, responsabile dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione -. Le cifre sono quelle dello scorso anno, non ci sembra che la protesta sia cresciuta». I Cobas la vedono in altro modo: «Stando alle segnalazioni decine di scuole hanno protestato contro i quiz: alcuni istituti non hanno proprio aperto, in altri sono rimasti a casa gli insegnanti, addirittura ci sono stati casi di assenze strategiche da parte delle famiglie, che non hanno mandato a scuola i bambini. Stimiamo che il 20% delle classi sia stato toccato dallo sciopero per l’assenza dei docenti, degli alunni o del personale Ata». Se i numeri non sono ancora chiari, di certo c’è che gli episodi di protesta hanno riguardato un po’ tutta l’Italia. A Milano è saltata la prova per cinque classi seconde, perché gli insegnanti hanno aderito allo sciopero con il benestare dei genitori contrari ai test. A Genova altre famiglie si sono unite al «boicottaggio» delle prove non mandando a scuola i figli. A Bologna diversi istituti sono rimasti chiusi, così come in Sardegna: nel Nuorese e nel Cagliaritano ci sono stati scioperi totali, con istituti sbarrati a causa dell’assenza di tutti i docenti. Ma a sentire gli Uffici scolastici regionali la maggior parte dei test si è svolta senza problemi, con assenze contenute. Ma che cos’è questo test che tanto fa discutere? Per il ministero si tratta di uno «strumento per fornire informazioni oggettive sul livello di apprendimento di tutti gli studenti»: «Serve a capire i punti di forza e di debolezza delle varie scuole, che grazie a questo quiz si confrontano le une con le altre - spiega Roberto Ricci -. Ma non c’è alcuna conseguenza concreta, nessuno toglie finanziamenti agli istituti se non ottengono buoni risultati nei test». Per i detrattori, invece, è una prova che non valuta davvero le competenze degli studenti perché non tratta argomenti del programma e si basa su abilità - logica, rapidità nella risposta - che mettono in difficoltà gli alunni, soprattutto delle elementari. Ieri i bambini della seconda hanno affrontato una prova di 45 minuti con un test di lettura (40 parole da abbinare alle immagini), domande di ortografia e grammatica e un testo narrativo su un creatore di aquiloni. «Era lungo e alcuni termini che conteneva erano difficili», sono i commenti dei docenti. I ragazzini di quinta hanno passato 75 minuti sul test, con due brani da leggere e la sezione dedicata alla grammatica. «Di un esercizio non hanno nemmeno capito la consegna: si chiedeva di riconoscere il “falso alterato”, cioè la parola che sembra un diminutivo ma in realtà è un termine di senso compiuto». Oggi tocca a Matematica, il 13 maggio sarà la volta delle seconde superiori e il 19 giugno delle terze medie. Alessandra Dal Monte 31 ECONOMIA E LAVORO del 07/05/14, pag. 2 Porcellum versione Camusso Antonio Sciotto Lo scontro al Congresso Cgil. Sbarramento del 3% per entrare al Direttivo, tempi ridotti per il dibattito, numero di delegati non adeguato per la minoranza. Landini guida la nuova opposizione: "Regole così mai viste neanche nella peggiore assemblea di condominio" E così anche la Cgil può dire di avere il suo “porcellum”. Se la relazione di apertura di Susanna Camusso ha aspramente contestato la riforma costituzionale e la legge elettorale del premier Renzi, dall’altro lato al suo interno il sindacato applica una norma che cancella di fatto la rappresentanza proporzionale e rende necessaria una soglia di sbarramento per entrare nel Direttivo. La norma funziona così: per poter concorrere all’elezione nel parlamentino Cgil, devi raccogliere firme pari al 3% della platea dei delegati al Congresso. Questa regola ha creato ieri un problema all’unica minoranza per il momento ufficialmente presente nel sindacato, quella del documento 2 di Giorgio Cremaschi: avendo preso quest’ultima il 2,4% dei delegati al Congresso, pari a 23 (su complessivi 953), le mancano ben 6 firme – da chiedere in giro, necessariamente agli avversari – perché l’area sia rappresentata. E’ vero che a un certo punto, dopo il bastone, è arrivata la carota: la segretaria confederale Elena Lattuada ha offerto la sua firma, facendo capire quindi che la stessa Camusso non vuole escludere fattualmente la piccola minoranza cremaschiana, ma il principio rimane. “E’ la prima volta che si sceglie di non applicare il proporzionale puro in Cgil: un deciso cambio di rotta che impedisce a tutte le voci, specialmente a quelle in dissenso, di essere presenti”, lamenta Cremaschi. L’evento forse dall’esterno potrà sembrare minimo, ma in effetti è un segnale che si inserisce in un quadro di forti scontri tra la maggioranza camussiana e la scissione che si è creata nel suo stesso documento, quella guidata da Maurizio Landini. Con Landini si sono uniti altri esponenti di minoranza Cgil: Gianni Rinaldini, Domenico Moccia, Nicola Nicolosi, e il trait d’union della nuova opposizione a Susanna Camusso sono gli emendamenti firmati da questi sindacalisti. Sulle pensioni, la contrattazione, il reddito minimo. Sul calcolo dei voti agli emendamenti si è scatenata la guerra: secondo la minoranza, hanno preso il 46% dei consensi, e quindi – in base al principio dell’”equilibrato rapporto” concordato con la maggioranza — avrebbero dovuto avere un’adeguata rappresentanza (almeno il 30–35% dei delegati al Congresso). Ma agli emendanti è stato riconosciuto solo il 15%, e da lì a cascata quindi discenderà una sottovalutazione della loro presenza al Direttivo. Landini e Rinaldini hanno più volte definito il metodo di calcolo applicato dai camussiano come “truffaldino”. In questo contesto già tesissimo, oltre al “porcellum” ieri si è aggiunto il restringimento dei tempi per presentare le liste. In pratica, anziché dare come termine ultimo per la presentazione delle liste per il Direttivo la conclusione del dibattito (quindi almeno la serata di oggi, o la mattinata di domani), si è scelto di porre la dead line alle 9,30 di oggi. La minoranza lo ha preso come un affronto. 32 “Non ho mai visto regole simili neanche nelle peggiori assemblee di condominio – ha protestato Landini – Si chiude il dibattito senza neanche averlo aperto, appena conclusa la relazione del segretario generale”. Un attacco frontale a Camusso. “Se si fa una operazione di questa natura, si conferma il carattere non democratico e l’idea un po’ autoritaria di come si gestisce una organizzazione come la Cgil”. Proteste dello stesso tono sono venute da Marigia Maulucci, Sergio Bellavita, Cremaschi, Nicolosi, e Rinaldini: “Perché prenderci in giro e spendere tanti soldi se il congresso è finito ancora prima di iniziare? — si chiede l’ex segretario della Fiom — Prendo atto che questo è un congresso che non c’è: perché presentare liste prima che ognuno possa esprimersi conferma che il congresso non esiste”. A questo punto le liste saranno dunque almeno due (quella di Camusso e quella riferibile a Landini), e diventeranno tre se Cremaschi sarà riuscito a mettere insieme le 6 firme necessarie per ottenere lo sdoganamento. Fino a ieri sera si ragionava sulla possibilità che i componenti del direttivo possano essere 151, ma non esiste un numero definito: poiché le liste sono bloccate, se alcuni camussiani temessero di rimanere fuori, si potrebbe decidere da parte della maggioranza di ampliare quella cifra (il Direttivo uscente è composto da 179 membri). Ma a quel punto, ovviamente, aumenterebbero proporzionalmente anche gli eletti della nuova minoranza. del 07/05/14, pag. 2 “Renzi distorce la democrazia” Antonio Sciotto Il Congresso Cgil. Susanna Camusso attacca frontalmente Renzi. E lo sfida su quattro temi: pensioni, fisco, ammortizzatori, lavoro povero. Oggi tornerà il ministro Poletti, e Cremaschi annuncia già i fischi Da Rimini, aprendo il XVII Congresso della Cgil, Susanna Camusso lancia l’allarme «democrazia»: nel mirino Matteo Renzi, che con «una logica dell’autosufficienza della politica sta determinando una torsione democratica verso la governabilità a scapito della partecipazione». Gli esempi? «L’insofferenza verso la concertazione — spiega la segretaria — e la mancanza di equilibrio dei poteri nella nuova legge elettorale e nella riforma costituzionale». Ad ascoltarla il premier non è venuto, ma gli risponde a distanza via Tg5: «I sindacati devono capire che la musica è cambiata». Come segretario del Pd ha mandato in rappresentanza Davide Faraone e Filippo Taddei; sul fronte dei ministri, ha inviato Andrea Orlando, mentre oggi ritornerà il titolare del Lavoro Giuliano Poletti. Più prevedibile il parterre della sinistra Pd, da Stefano Fassina a Sergio Cofferati, fino a Cesare Damiano. E non manca Sel con Nichi Vendola. Ma una cosa si deve dire: parentela o no con pezzi del Pd, visite o no ai congressi, il decreto Poletti — peggiorato all’inverosimile — è destinato a passare con la fiducia entro il 19, perché altrimenti scadrà. D’altronde, il ministro del Lavoro ieri lo ha ribadito, tanto per essere chiari: «Il governo ascolta, ma poi si prende la responsabilità di decidere». Contro Poletti, Giorgio Cremaschi ha già annunciato i fischi. Mentre Camusso ieri è tornata a bocciare il decreto: «Aumenta la precarietà, mentre noi vorremmo discutere di stabilità. Si faccia davvero un contratto unico a tutele crescenti, si semplifichino tutte le altre forme, lasciandone in piedi 3: contratto a termine causale, somministrazione, apprendistato. E un lavoro autonomo autentico, di cui vanno definiti i diritti universali, a partire dalla maternità». 33 Il tema del lavoro di qualità è una delle quattro sfide che la Cgil lancia al governo Renzi: «Quattro come i lati del quadrato rosso Cgil», spiega Camusso. «Vanno unificate cassa ordinaria e straordinaria, per estenderle a tutti i settori e dimensioni di impresa. Va superata la cassa in deroga, ma utilizzando l’intervento pubblico per i contributi figurativi e un’indennità di disoccupazione che copra anche gli atipici». L’altro lato del quadrato è quello delle pensioni: Susanna Camusso propone «a Cisl e Uil di aprire una vertenza per assicurare una pensione ai giovani, rivalutare quelle attuali e introdurre un’uscita flessibile». Nessun dettaglio ulteriore, ma forse è utile ricordare che la Cgil in passato si era espressa a favore dell’ipotesi emersa durante l’ultimo governo Prodi, quando si parlava di garantire ai lavoratori almeno il 60% della retribuzione media percepita (gli attuali coefficienti assicurano molto meno, pensioni praticamente da fame, per precari e non solo). Terza sfida: il fisco. La Cgil torna a proporre la patrimoniale, ovvero una tassazione dei ricchi; chiede che la restituzione avviata con gli 80 euro sia estesa a pensionati e incapienti; sostiene la necessità di una stretta contro gli evasori degna del miglior Visco: ripristino del reato di falso in bilancio, unificare le banche dati, portare la soglia di tracciabilità del contante a 300 euro. Infine, il quarto lato del quadrato rosso parla di contrasto al lavoro povero. Maggiore tutela di chi lavora in appalto, cancellando l’articolo 8. Completare la legislazione contro il caporalato. Riordinare il mondo delle cooperative: un attacco frontale inedito nella storia della Cgil. «Ci indigniamo — dice Camusso — quando si usano appalti alla qualunque, si disdettano gli accordi come una qualsiasi multinazionale, se la presenza del ’socio’ lavoratore è solo un pretesto per non applicare i contratti. Si pubblichino i regolamenti, si applichino i contratti». Sul fronte interno, la segretaria risponde alle critiche di metodo e di merito avanzatele dalla Fiom sul Testo unico. Ma come premessa, dice comunque di considerare «conclusa la fase della consultazione», e che «ora quel testo si deve attuare ed estendere, per farne una base per la legge sulla rappresentanza». Innanzitutto il metodo: per «il poco coinvolgimento nella definizione dell’accordo», Camusso propone un «coordinamento delle politiche contrattuali». Quanto al merito, la segretaria conferma «la delega alle Rsu di poter contrattare in azienda», ma lascia spazio al «voto dei lavoratori e alla contitolarità con le categorie nella fase di traduzione nei contratti nazionali». Stesso rimando per quanto riguarda le sanzioni, che comunque «non dovranno spingere i delegati a non esporsi, perché saranno le organizzazioni a pagare il prezzo per loro». E se su questo fronte si offre dunque un possibile terreno di accordo anche con la Fiom, dall’altro lato la segretaria manda un messaggio chiaro a Landini: «Se i lavoratori hanno approvato un accordo, è sbagliato, contrario alla nostra natura, che si scioperi contro quel voto». Sembra quasi un monito rispetto alle iniziative che la Fiom ha già annunciato nelle imprese, dopo l’esito favorevole del referendum sul Testo unico effettuato autonomamente nelle fabbriche metalmeccaniche. E non manca una stoccata finale a Landini, relativa al rapporto con Renzi: «Continuare a ripetere che il sindacato non è mai riuscito ad avere 80 euro vuol dire farsi del male». Alla battuta sono scattati gli applausi dalla maggioranza «camussiana», che probabilmente anticipano un’accoglienza ostile per quando interverrà il leader delle tute blu. 34 del 07/05/14, pag. 7 Ma Palazzo Chigi vuole mettere una pietra sulla “concertazione” Maria Teresa Meli «Camusso? Parla così perché è rimasta spiazzata dalle nostre posizioni. E dall'uscita di Maurizio Landini che ha apprezzato la storia degli ottanta euro. Ma lei, come tutti i sindacalisti, attacca il governo soprattutto perché teme di perdere il suo ruolo: è questa la verità». È un Matteo Renzi insofferente nei confronti del solito tormentone della Cgil, quello che il pomeriggio, dopo aver ascoltato l'ennesima invettiva della leader della più grande organizzazione confederale nei suoi confronti, conversa con i fedelissimi. Aggiungendo ai ragionamenti sul perché e per come Camusso l'abbia preso di petto questa coda velenosa: «Ho visto che non ha fatto nessuna critica forte a Grillo». La partita con la Cgil, in realtà, il presidente del Consiglio ritiene di averla chiusa con le primarie dell'otto dicembre. In quell'occasione il sindacato guidato da Camusso si schierò, con tanto di candidati, al fianco di Gianni Cuperlo. E andò a finire come andò a finire: il competitor di Matteo Renzi raggranellò solo il 18 per cento. Sarebbero bastati quei numeri ad archiviare la pratica e a sfatare la leggenda della presa che avrebbe ancora la Cgil sul Pd, ma così non è stato. Perciò il premier deve tornare sull'argomento, anche davanti alle telecamere. A quelle del Tg5 , per esempio, come è accaduto ieri: «Non è possibile che ci siano sempre polemiche, noi stiamo cercando di cambiare l'Italia, i sindacati vogliono darci una mano? Lo facciano. Ma devono capire che la musica è cambiata, devono capire che non è che possono decidere tutto loro o bloccare tutto loro». E ancora: «Se vogliono affrontare le questioni insieme a noi, ci siamo. Però nel momento in cui i politici riducono i posti, i dirigenti riducono gli stipendi, anche i sindacati devono fare la loro parte, cominciando dalla riduzione del monte ore dei permessi sindacali nel pubblico impiego e dall'obbligo di mettere online le spese. Io non rispondo agli insulti e alle offese. Parlo di cose concerete. Vogliono darci una mano? Lo facciano, ma non pensino che noi stiamo ad aspettare loro. L'Italia ha già aspettato abbastanza». Insomma, per farla breve, secondo Renzi, Camusso, ma anche Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, devono mettere una pietra sopra la concertazione: non è più la stagione delle «trattative infinite che non portano da nessuna parte». L'inquilino di palazzo Chigi non vuole perdere tempo e su questo è stato più che chiaro. Com'è esplicita la sua posizione nei confronti delle organizzazioni confederali. Il presidente del Consiglio non le ha finora incontrate in pompa magna, come avevano fatto i suoi predecessori di centrosinistra, e per di più ha anche bellamente snobbato il congresso della Cgil. Al suo posto, a nome del governo, c'era Andrea Orlando, il quale, peraltro, sarebbe andato a Rimini comunque. Però pure il ministro della Giustizia, che rappresenta l'ala sinistra del partito, non ha di certo lasciato spazi di complicità all'offensiva di Camusso. Anzi. Del resto, non lo ha fatto persino Massimo D'Alema. E anche Cesare Damiano, che pure non sposa la linea Renzi, e che commenta con favore la relazione di Camusso al congresso, si guarda bene dallo sparare a zero contro il governo. Lo stesso dicasi per Stefano Fassina, nonostante le sue critiche alla decisione del presidente del Consiglio di non prendere parte a quelle assise. L'unico che diffonde un comunicato per aderire entusiasticamente alla linea della segretaria della Cgil è il leader del Prc Paolo Ferrero. 35 Dunque, sembrano lontani i tempi in cui il Pd si dilaniava sui rapporti con la Cgil. È ovvio che le posizioni, dentro il partito, sono diverse, ma il richiamo del sindacato sembra proprio non avere più il valore di un tempo. D'altra parte Renzi su questo fronte non è disposto a fare retromarcia: «Certe critiche derivano dal fatto che sto togliendo potere anche alle organizzazioni confederali, oltre che alla burocrazie, ai "mandarini" di tutti i tipi e a certe sacche di potere politico. Sono critiche pregiudiziali e pretestuose che vengono da parte di chi ha paura del cambiamento. Già, perché la verità è che stiamo costringendo anche i sindacati a cambiare e le resistenze sono forti lì come altrove». Il presidente del Consiglio, quindi, va avanti, in nome di un'unica - e ferma - convinzione: «Alla fine sconfiggeremo tutti i conservatorismi e manderemo in porto la nostra rivoluzione soft». Ce la farà? I suo sostenitori ne sono convinti, anche se in quel di Rimini è partita la controffensiva con tanto di artiglieria pesante. del 07/05/14, pag. 7 Circa 40 mila italiani hanno moltiplicato rapidamente il loro guadagno scalando le classifiche nazionali Uno studio del francese Piketty dimostra come il lavoro dei liberi professionisti ora renda di più Medici e notai tra i nuovi ricchi passo indietro degli imprenditori FEDERICO FUBINI CI FU il giorno in cui, da Bordighera a Santa Maria di Leuca, sparirono gli yacht. L’Italia sull’orlo del precipizio, per l’ennesima volta si era messa nelle mani di un «tecnico» per salvarsi e Mario Monti in gran fretta tassò anche le imbarcazioni da diporto. Molti s’indignarono quando queste si dissolsero dai moli del Paese per riapparire poco dopo a Capodistria o Ajaccio. Meno frequente allora fu un’altra domanda: com’era stato guadagnato, e da quante persone, il denaro con cui erano state comprate quelle barche? La risposta: è stato accumulato da poco più di 40 mila persone, sempre meno propense a rischiare il loro capitale in un’impresa capace di creare lavoro e sempre più dedite a generare grandi profitti con qualcosa che, nelle statistiche, va sotto il nome di «lavoro autonomo»: studi medici, notai, avvocati o commercialisti di punta. In genere qualunque attività, magari utile e difficile, si possa svolgere dietro una targa di ottone con l’ausilio di una segretaria o poco più. I dati dicono che il ceto vincente degli ultimi trent’anni è il loro: lo 0,1% più ricco della popolazione, la sezione di italiani che negli ultimi ha visto aumentare più rapidamente i propri introiti e la propria fetta nel reddito nazionale. Per loro è raddoppiata dall’1,5% al 3% fra il 1984 e il 2007, per poi restare attorno a quei livelli da allora. Oggi che un nuovo premier applica ai funzionari dello Stato la regola Olivetti («nessuno guadagni oltre 12 volte più di chi percepisce meno »), queste misurazioni tornano attuali. E per l’Italia mostrano alcune differenze rispetto agli altri Paesi occidentali. Aiuta a capirci di più il successo degli studi sulle diseguaglianze dell’economista francese Thomas Piketty. Con Tony Atkinson, Piketty ha raccolto una banca dati elettronica sugli alti redditi in una trentina di Paesi. Per l’Italia si è basato sulle ricerche di Facundo Alvaredo e Elena Pisano, che hanno lavorato su milioni di dichiarazioni fiscali dal ’74 al 2009. E certo l’evasione può aver falsato un po’ il quadro, ma il risultato è sorprendente. 36 Non è tanto che lo 0,1% più ricco corra molto più veloce persino dell’1% più ricco o del 10% che sta meglio, benché chiaramente sia così. La fetta di reddito nazionale che va al decimo più benestante della popolazione è rimasta quasi stabile dal ’74 al 2009, salendo appena dal 30% al 34%. Quella che va all’1% invece è cresciuta di circa un terzo. Ma quella che va allo 0,1% più ricco, i circa 42 mila italiani che compongono l’uno per mille dei più ricchi, è appunto esplosa fino a raddoppiare. Il reddito annuo di un esponente medio di questa comunità quarant’anni fa valeva 203 mila euro (tradotto in valori correnti del 2010), mentre nel 2007 si era moltiplicato di una volta e mezza fino a 557 mila euro l’anno. Ma questo appunto non distingue molto l’Italia dagli altri Paesi industriali. Anche in Francia la quota di reddito nazionale controllata dall’uno per mille più facoltoso è salita, dall’1,65% di trent’anni fa al 3%. In Germania è sopra al 4%. E negli Stati Uniti il cosiddetto «top 0,1%» dei ricchissimi arriva oggi a controllare un’incredibile 11,33% del reddito. No, per quanti crescenti siano questi squilibri ciò che distingue l’Italia è qualcos’altro: lo scarso dinamismo con cui vengono guadagnati i soldi dei più ricchi. La banca dati di Piketty e Atkinson rivela il crollo dei «redditi imprenditoriali» come quota dei ricavi dei 42 mila italiani seduti in cima alla piramide. Questi «redditi imprenditoriali »- frutto dell’investire, creare lavoro, vendere prodotti - rappresentavano il 20% degli introiti dei più ricchi nel 1986 ma sono solo il 4,5% oggi. Le quote da rendite da capitale o da immobili sono rimaste invece più o meno stabili, salendo solo in linea con l’aumento dei redditi dei ricchi. Ciò che esplode, dal 20% al 40% in quarant’anni, è invece il peso del lavoro autonomo nell’accumulazione di fortune: ciò che si svolge in un bell’appartamento del centro dietro una targa d’ottone, cioè a volte semplicemente una rendita professionale. Niente del genere avviene in Francia o ancora meno negli Stati Uniti, dove i capitalisti diventano ricchi (anche) perché creano ancora imprese. In ogni Paese i poveri sono uguali, ma i ricchi lo sono in modo diverso e rispecchiano i problemi della società. Prima di Piketty, in Italia Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi hanno lavorato sui bilanci delle famiglie e hanno scoperto un’anomalia: dai tempi dell’unità del 1861, solo negli ultimi vent’anni è emerso un aumento delle diseguaglianze unito a una frenata della crescita. Chi fa i soldi, lo fa in modo più inutile di prima. del 07/05/14, pag. 5 Decreto lavoro, blindatura in vista Oggi il voto in aula in Senato ● Bagarre delle opposizioni ● Alcuni senatori Pd: «Strada sbagliata» Bianca Di Giovanni Seconda fiducia in vista per il decreto Poletti. Il provvedimento sul lavoro è arrivato ieri in aula al Senato, dove non sono mancate plateali manifestazioni di protesta da parte delle opposizioni e critiche anche da alcuni esponenti della maggioranza. I 5 Stelle sono intervenuti diverse volte in aula, ripetendo come una cantilena «siamo liberi, non schiavi». Nel momento in cui l’aula ha respinto le tre pregiudiziali di costituzionalità presentate dalle opposizioni, si è assistito a una pioggia di volantini lanciati in aula da due esponenti del sindacato autonomo Usb (Unione sindacale di base) presenti in tribuna. Insomma, battesimo di fuoco per il decreto lavoro a Palazzo Madama. L’aula ha detto no anche alla richiesta di sospensiva proposta dal senatore del M5S Sergio Puglia. Questo passaggio è stato anche l’occasione per un vivace scambio di battute tra Puglia e il presidente di turno Maurizio Gasparri, con il senatore a 5 Stelle che ha proposto all’Assemblea di richiedere il 37 parere del Cnel sul provvedimento e Gasparri che gli ha ricordato ironicamente: «Lo stanno chiudendo». Pronta anche la replica di Puglia: «Bene e intanto facciamolo lavorare». Oggi si comincerà a votare sui circa 700 emendamenti, dei quali due terzi presentati dai grillini. La blindatura del governo tuttavia non si esclude: anzi in molti la danno per più che probabile. Il fatto è che le opposizioni promettono battaglia e i tempi sono molto stretti: il decreto va convertito entro il 19 maggio e dovrà tornare alla Camera in terza lettura. Per aumentare la valanga dimodifiche i 5 Stelle hanno utilizzato un’arma che si rivelerà spuntata: hanno fatto firmare lo stesso testo a diversi senatori. Su testi uguali però si prevede un solo voto: dunque la valanga non ci sarà, almeno nelle dimensioni sperate. Resta aperto però il rischio di colpi di mano, soprattutto considerando la maggioranza risicata di Palazzo Madama. La blindatura servirebbe anche a tenere a bada i mal di pancia che il testo provoca nella stessa maggioranza. Gli 8 emendamenti presentati dal governo in Senato non sono piaciuti a tutti, anche se la maggioranza si è mostrata compattissima in commissione. A risultare indigesto per alcuni è l’eliminazione dell’obbligo di stabilizzazione dei lavoratori a termine che dovessero superare la soglia del 20% dei contratti sul totale dei dipendenti. Obbligo sostituito da una multa pari a un quinto dello stipendio per il primo lavoratore extra- soglia e del 50%per quelli successivi. Una modifica che per alcuni equivale alla precarizzazione del lavoro. Naturalmente Giuliano Poletti non la pensa così, giudicando l’estensione dei contratti a 36 mesi (dai 12 previsti dalla riforma Fornero) una maggiore stabilizzazione dei lavoratori. Critiche anche sull’apprendistato, in cui è stato inserita la possibilità della formazione privata (non delle Regioni, quindi) all’interno dell’azienda. «Il testo licenziato dalla commissione è, nella sostanza, quello approvato dalla Camera e questo, visti gli equilibri tra le forze di maggioranza e i nodi ancora da sciogliere che abbiamo ereditato, non era un risultato scontato - rassicura la senatrice Pd Rita Ghedini - La mediazione operata dal governo ha retto alla prova del lungo esame in commissione al Senato. Nel complesso l’apprendistato è stato regolato meglio e la sanzione per chi supera il 20% dei contratti a tempo determinato è abbastanza alta da scoraggiare gli abusi. Noi ci auguriamo di approvare il decreto al più presto, per passare a discutere della delega, che contiene una visione più ampia e importante». CRITICHE Di segno opposto un comunicato di altri senatori Pd: Lucrezia Ricchiuti, Donatella Albano, Felice Casson, Corradino Mineo, Sergio Lo Giudice e Walter Tocci. Nel decreto lavoro «si ripete così, ancora una volta, lo stesso errore che hanno compiuto per anni i governi di centro-destra - scrivono i «dissidenti » - nell’idea che abolire le tutele giuridiche previste a difesa dei lavoratori accresca la competitività delle imprese sul mercato. In questo modo si snatura la proposta originaria del Jobs act. Con la disoccupazione che supera il 12% e quella giovanile che è addirittura doppia, non si può aver paura della flessibilità, ma, se non bastasse l'esperienza degli ultimi anni nel nostro Paese, ci sono Spagna e Grecia a dimostrarci che l’apertura generalizzata al lavoro precario e senza vincoli conduce a percentuali insopportabili di disoccupazione che non accennano a diminuire. Noi vogliamo stare in Europa e non farci confinare in un Europa di serie B». del 07/05/14, pag. 8 L’Ecofin trova l’accordo Tobin tax entro fine anno 38 L’intesa è stata raggiunta per ora tra dieci Paesi che si sono impegnati ad applicarla nei prossimi mesi ● L’opposizione delle lobby finanziarie Bianca Di Giovanni Sulla Tobin Tax c’è l’accordo politico a livello europeo: si va avanti. Lo annuncia con non poco ottimismo il ministro Pier Carlo Padoan al termine dell’Ecofin di ieri. «L’impegno è di avere i primi risultati concreti per la fine di quest’anno - dichiara il ministro - con la tassazione riguardante le azioni e alcuni derivati ». L’intesa riguarda oggi 10 Paesi: all’ultimo momento si è sfilata infatti la Slovenia dal drappello degli 11 che mesi fa avevano dato avvio al percorso della cosiddetta «cooperazione rafforzata» che prevede l’adesione di un terzo dei partner. I 10 hanno siglato ieri uno statement comune all’indirizzo dei 17 non aderenti. QUESTIONI APERTE Ma i numeri in questo caso contano poco: molto di più pesano le decisioni politiche che sembrano sempre più complicate. La non adesione della Slovenia all’accordo preliminare sulla tassa per le transazioni finanziarie «è un messaggio preoccupante» commenta un diplomatico europeo. Tra i Paesi aderenti non compaiono piazze finanziarie importanti, come la Gran Bretagna, l’Olanda o la Svezia, che sono radicalmente contrarie al progetto europeo. Va detto però che in questi Paesi e anche in altri (Italia compresa)già esistono prelievi sulle rendite finanziarie. Il punto è armonizzare l’intervento. Quali derivati includere nella tassa è la principale questione aperta, ma le posizioni restano distanti, al punto che molti sono pessimisti sull’effettiva entrata in vigore della misura. Molti osservatori ritengono che l’accordo di oggi sia più che altro una trovata elettorale in vista del voto europeo del 22-25 maggio, per dare agli elettori l’immagine di un’Europa che agisce contro la finanza indicata come responsabile della crisi economica. Sul fronte opposto coloro che giudicano questa tassa come nociva all’economia. Oltre a molti degli Stati non firmatari, è anche l’opinione dell’associazione che riunisce le confindustrie europee, Business europe, presieduta da Emma Marcegaglia. «L’accordo odierno di dieci stati Ue sulla tassa sulle transazioni finanziarie è un passo indietro nel percorso dell’Europa verso la crescita e la creazione di posti di lavoro» si legge in una nota appena pubblicata dall’associazione. La Slovenia, in una profonda crisi politica, ha preferito non impegnarsi. Dal testo diffuso ieri però mancano parecchi elementi della proposta originaria della Commissione europea, e che sembrava quasi scontati sarebbero stati ripresi nella «cooperazione rafforzata». Il passo avanti della dichiarazione è l’impegno a far entrare in vigore al Ftt (financial transaction tax) entro il primo gennaio 2016. I Dieci, poi, annunciano che la tassa si applicherà alle transazioni dele azioni societarie e, almeno all’inizio, solo ad «alcuni derivati»,ma non è specificato quali. Questo è un punto molto importante, perché dall’imposizione sui derivati, con un’aliquota dello 0,01%, la Commissione europea si aspettava un gettito complessivo di 21 miliardi di euro all’anno, mentre l’imposizione sulle azioni e obbligazioni, con’aliquota dello 0,1%, si limiterebbe a 13 miliardi di euro. Anche su insistenza dell’Italia, comunque, le obbligazioni (e in particolare i titoli di Stato ) verrebbero escluse, e il gettito della tassa sulle sole azioni si limiterebbe a 4,6 miliardi di euro. Un altro punto che è stato stabilito dai Dieci è che la tassa sarà applicata in modo«progressivo »: ovvero, dopo un primo periodo in cui sarà limitata alle azioni e ad «alcuni derivati», si deciderà se passare a un secondo stadio che ampli il campo di applicazione (per esempio includendo altri tipi di derivati) in base a una valutazione dell’impatto economico del primo stadio. Ultimo elemento della dichiarazione è la decisione di permettere fin dalla prima fase, agli Stati membri che già stanno attuando una tassa nazionale sulle transazioni finanziarie, di mantenere le proprie normativa anche se hanno un campo d’applicazione diverso. 39