la discriminazione come percorso interno dell`uomo

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la discriminazione come percorso interno dell`uomo
LA DISCRIMINAZIONE COME PERCORSO
INTERNO DELL’UOMO
dott. Antonio Zuliani - psicologo psicoterapeuta
CERPA ITALIA
Presidente dall’Associazione Psicologi Liberi Professionisti
(con il contributo della dott.ssa Alessia Leonardi)
“Esiste un’altra via, se ne avete cuore.
La prima l’ ho descritta in parole note
Poiché l’avete vista, come tutti l’abbiamo,
negli esempi, più o meno, di vite intorno a noi.
Ma l’altra è sconosciuta, perché ci vuol fede:
la fede nata dalla disperazione.
Destinazione, non se ne può dare;
Voi sapete ben poco finchè non giungete;
Viaggerete alla cieca. Ma la via sbocca nel possesso
Di quel che voi cercaste fuori strada”.
T.S.Eliot
Il centro della riflessione che poporrò mette in evidenza come la discriminazione sia
un’esperienza con la quale ognuno arriva a fare i conti all’interno dello sviluppo
dell’identità personale. Questo perché all’interno di questo percorso si arriva ad
incontrare, per la prima volta, l’altro e tale incontro non è sempre ovvio e lineare.
La nascita biologica è solo la base su cui si innesta la nascita psichica che, sia che inizi
prima del concepimento o dopo, rappresenta un vero e proprio ulteriore travaglio
(Racamier, 1989)
Lo sviluppo dell’identità.
Il primo aspetto caratteristico della nascita psichica lo vediamo significativamente
caratterizzato da una particolre forma di onnipotenza definibile come il fantasma
orignario dell’autogenerazione (Racamier, 1993). In altri termini il bambino concepisce
l’idea di essere lui stesso ad essersi generato. Ma non solo: allo stesso tempo generatore
di ogni cosa e persona, compresi i genitori e tutti quelli che lo hanno preceduto.
Mi rendo conto che parlare di fantasma di autogenerazione sia particolarmente difficile,
perché si tratta di qualche cosa di indicibile, di inimmaginabile, ma d’altra parte senza
la pericolosità allucinatoria e psicotica di questo fantasma originario non vi sarebbe
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neppure l’apertura alla vita psichica. Infatti lo stesso senso del reale non può essere
posto alla base dell’Io se non si è passati per questa illusione di onnipotenza e se non vi
si è rinunciato (Racamier, 1989).
Questa posizione onnipotente tende a confondere la diversità dei sessi e a confondersi
con la posizione divina. Poiché il soggetto è il solo e unico generatore, Racamier parla
di autogenerazione e di auto-disgenerazione. Questo fantasma confonde anche le
generazioni, dove il padre può essere il figlio e il figlio diventare il padre oppure la
madre: tutto ciò diventa la fonte del delirio.
Lasciare questa posizione non è facile né confortevole e possiamo pensare a questo
cammino come ad una sorta di traiettoria, che tutti sono chiamati a compiere, tra questa
illusione di onnipotenza e la sua, faticosa ma necessaria, rinuncia finale. Un cammino
che si sintetizza, alla sua conclusione, in una sorta di senso di familiarità col mondo, di
essere parte dei destini del mondo.
Si tratta di un cammino reso complicato da fattori sia interni che esterni alla persona
stessa, e il cui buon esito è in fondo garantito dalla conservazione della capacità di
spostarsi dalla dipendenza all’indipendenza e viceversa, dalle forme dell’una a quelle
dell’altra, quindi da qualche cosa che si pone all’antitesi della rigidità. Il lutto
dell’onnipotenza, conduce progressivamente all’investimento di nuovi oggetti poiché
fonda la fiducia di base in sé, nell’oggetto e nel mondo. “La capacità d’amore
oggettuale, la capacità di gioire del piacere e la capacità di sopportare il sentimento di
lutto, costituiscono tutt’insieme le condizioni di qualunque sanità psichica”(Racamier,
1993). La depressione si manifesta quando il processo di lutto fallisce.
Winnicott mette al centro della propria ricerca sull’identità primaria la coppia madrebambino vista dal versante relazionale: l’essere non è conoscibile se non attraverso
l’apparire nella relazione con l’altro, innanzitutto quella di rispecchiamento: nella
prospettiva dell’essere e del divenire il rispecchiamento materno ha la funzione di
integrare l’essere nei processi maturativi pulsionali e nelle identificazioni proiettive e
introiettive, restituendo al bambino il suo proprio sé, in quanto genera nell’essere una
potenzialità che consente la percezione della propria forma soggettiva.
Il modello winnicottiano di formazione dell’identità e di sviluppo dell’Io può essere
raffigurato da una parabola, che parte dall’essere inerme del bambino e trova il crocevia
strutturale nel rispecchiamento della madre capace di adattarsi ai suoi bisogni.
E’ tale rispecchiamento, questo guardante-guardato, che presiede all’inserimento
dell’essere nel corso degli avvenimenti psichici e quindi all’integrazione dell’Io.
Inizialmente il bambino crede che la risposta della madre sia una sua creazione, nell’
esempio della madre che risponde al suo pianto fornendogli il ‘ciuccio’, il bambino
pensa di aver lui stesso onnipotentemente e magicamente ‘creato’ la risposta (ovvero sia
la madre che il ciuccio), senza distinzione tra Sé e la realtà esterna.
Il passaggio successivo, nella linea parabolica, è la comparsa dell’oggetto transizionale
che prepara la strada al processo soggettivo di diventare soggetto capace di accettare
nella relazione con l’Altro la differenza e la similarità (non che il ciuccio diventi subito
un oggetto concreto, ma come la copertina di Linus essa al contempo è una coperta che
rassicura e qualche cosa di rassicurante che appartiene al bambino).
L’oggetto transizionale indica l’idea di una transizione nella parabola identitaria da uno
stato di essere statico e fuso con la madre ad uno stato di essere dinamico e separato.
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Winnicott ritiene che l’area intermedia è consentita solo attraverso il rispecchiamento
della madre: la madre restituisce al bambino, che la guarda il suo proprio sé, rispecchia
il suo essere non integrato e facilita la maturazione e l’integrazione dell’Io.
I bambini ai quali è mancato il sostegno materno necessario a creare lo spazio
transizionale e a mettere in gioco l’illusione della magia, si ingegnano a diventare
‘simulacri’ di identità, a cui non corrisponde alcun vero sentimento di sé. Il simulacro
inventa una infinità di copie, che non lasciano sussistere però di fatto nè l’originale nè
l’origine: E’ l’apparenza intesa come pura parvenza che si estende fino a ricoprire
interamente l’essere.
Il simulacro non nasconde di fatto una verità latente del soggetto, ma dissimula il vuoto
di soggettività, una sostituzione delle copie d’identità al vero sentimento di sè. Come
scrive Russo “essi sono attori che si mascherano con false identità per occultare il
“niente al centro”, la mancanza del senso di sè. In questi casi il Falso Sè non serve tanto
a difendere il Vero Sè, quanto a costruire dispositivi pseudo-identitari che impediscono
al soggetto di sentire di non esistere”.
Alcuni soggetti usano la figura del doppio-gemello come un Falso Sè, un doppio
narcisistico che si confonde con la persona reale e che costituisce una funzione
protettiva Falso Sè per evitare l’angoscia impensabile della disintegrazione.
Al fine di illustrare tale percorso possiamo immaginare con Winnicott (ma si tratta di
uno schema di comodo) che le tappe dello sviluppo del bambino siano come una serie di
cerchi concentrici che vanno dall’indifferenziazione madre-bambino fino alla
costruzione di un’identità personale.
In questo ambito l’individuo che cresce, per abbandonare il cerchio in cui si trova, avrà
bisogno di trovare un cerchio più ampio pronto a succedere al primo, senza che questo
gli precluda la possibilità di ritornare indietro, qualora le difficoltà da affrontare si
presentassero troppo impervie.
Nel caso pratico possiamo pensare ad un bambino che ad un certo punto della sua
crescita sente il bisogno di allontanarsi dalle braccia della madre, ma nel fare questo
non può sentirsi “proiettare nello spazio”: il distacco deve essere graduale
permettendogli di entrare in un più vasto ambito di controllo; qualche cosa che sia
diverso dalle braccia materne, ma che si situi lì accanto, e in qualche modo sia in grado
di ripeterle simbolicamente.
Si tratta di un percorso che non può procedere a strappi e che deve sempre mantenere
salde le radici delle origini dalle quali si sviluppa.
D’altra parte il riconoscimento delle origini è di fondamentale importanza perché colui
che non conosce o disconosce le proprie origini, disconosce la stessa possibilità di
essere una persona definita, con confini psichici e fisici che gli consentano di entrare in
un’autentica relazione con l’altro: “se non riconoscete le vostre origini, se non
riconoscete la generazione che vi precede e se non avete eletto la vostra, allora non siete
nessuno” (Racamier, 1993).
Questo processo di costruzione del proprio personale sentimento di identità, per dirla
con Federn, è un processo al contempo di identificazione e di diversificazione dall'altro,
dalla figura materna in primo luogo.
Possiamo analizzare il personale sentimento di essere una persona come la miscela di
tre immagini di sé tutte di pari importanza: essere una persona durevole (che sente di
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avere una continuità nel tempo), essere una persona intera (con una sua continuità nello
spazio), essere una persona significativa, portatrice di un senso (con il senso di una
continuità nella causalità).
Si tratta però di sentimenti estremamente sfumati, difficili da percepire allo stato puro;
possiamo dire che ci si accorge della loro importanza solo quando vengono a mancare,
un po’ come l’aria che si respira di cui si sente la mancanza quando il respiro si fa
affannoso. Questo sentimento dell’Io ben rappresenta la sensazione costantemente
presente della personalità di ogni individuo.
In questo processo di identificazione l’Io di ognuno costruisce dei confini, delle
frontiere che esercitano una sorta di filtro sia agli stimoli esterni che a quelli provenienti
dall’interno, da quel misterioso e sconosciuto mondo sotterraneo che si usa chiamare
inconscio. Possiamo dire che l’Io è sfidato ad entrare in relazione con gli stimoli che gli
provengono dall’interno delle psiche, sotto forma di impulsi, bisogni e desideri e al
contempo con il vasto mondo circostante. Tutto questo non è facile né agevole per cui
appare del tutto “sano” che l’Io sviluppi dei meccanismi di difesa dalle possibili
intrusioni che provengono sia dall’interno che dall’esterno.
Il problema non sono le difese, ma la loro qualità: quanto l’Io arriva a perdere della
ricchezza delle relazioni per la necessità di difendersi dalla pericolosità che sente
presente in esse.
Queste frontiere si collocano anche in aree o funzioni del corpo. Pensiamo alla pelle
come zona privilegiata di contatto con gli altri, una zona che spesso si “ammala”, tanto
che alcuni studiosi parlano di Io-pelle. O alla respirazione che svolge dall’inizio alla
fine della vita un ruolo di cambi essenziali tra il dentro e il fuori (Racamier).
Possiamo quindi dire che quello che appartiene ad ogni singolo individuo, che lui può
considerare come acquisito, è passato all’interno delle frontiere del suo Io. Ma queste
frontiere, un po’ come le frontiere degli stati, come abbiamo visto abbisognano di
norme (le difese) che regolino l’afflusso di questi elementi all’interno dell’Io, senza
troppi rischi di indebite infiltrazioni o sconfinamenti.
La rigidità o la relativa elasticità di queste frontiere, l’ampiezza dello spazio tra una
frontiera e l’altra (una sorta di terra di nessuno che è al contempo sotto il dominio di
due diverse persone) sono un po’ gli elementi decisivi che contribuiscono a determinare
alcune delle più significative relazioni che l’individuo arriva ad instaurare con gli altri.
Più egli sente debole il suo Io, più si sentirà minacciato e più sarà indotto a mobilitare
forze sempre più ingenti per la difesa dei confini, più sarà spinto ad irrigidire le regole
di accesso di elementi nuovi all’interno dell’Io.
D’altra parte il tema della rigidità è posto in essere anche dall’atteggiamento dei
genitori verso i figli. Il genitore spesso dà ai figli intenzioni e attribuzioni rigide
nascoste spesso da frasi “innocue” del tipo: “…guarda che gambotte diventerà un
calciatore, guarda le manine diventerà un pianista, ecc… “dove il bambino si trova
all’interno di un percorso segnato e rigido. Ma il genitore più anche assumere un
attegiamento più maturo, dove i movimenti desideranti prevalgono. Ecco allora che frasi
del tipo: “Mi piacerebbe che mio figlio…fosse…” hanno la capacità di stimolare nel
bambino quelle potenzialità che sono tutte sue e che il genitore accetta e rispetta.
Quando queste attribuzioni sono molto rigide e coercitive impediscono alle potenzialità
del bambino di esprimersi, e più sono coercitive più il bambino invece di manifestare,
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come vedromo in seguito, un Vero Sé andrà verso un Falso Sé, una maschera e
diventerà altro rispetto a quello che sarebbe diventato se avesse dato credito alle sue
potenzialità. Nella misura in cui il bambino percepisce aspettative rigide si sente di
dover fare tutto per aderire a quell’aspettativa perché il terrore è di perdere l’amore dei
genitori, e il bambino attiva la compiacenza che è una difesa per tenersi in piedi, questo
è il Falso Sé. Sono tanti gli esempi di bambini “iperdotati” che ipertrofizzano alcune
funzioni, diventano bravissimi in certi settori, ma non perché hanno in sé delle qualità
speciali, ma perché quello è il campo di lavoro in cui sono stati inclusi fin da subito.
Questo è la premessa per una personalità che sarà sostanzialmente rigida perché non
può permettersi di far entrare in campo aspetti che la contraddicono.
In questo senso la discriminazione diviene parte essenziale dell’esperienza psichica in
quanto aspetto di una relazione che non può essere che lo specchio di una parziale
incapacità dell’Io di gestire i confini interpersonali.
Il processo evolutivo fin qui descritto merita un più attento approfondimento per
cogliere tutta una serie di problematiche che possono portare un individuo a sviluppare
atteggiamenti e comportamenti differenziati nei riguardi dei suoi rapporti con persone o
cose del mondo circostante.
Le due linee di sviluppo
All’interno del processo di costruzione dell’identità si possono sviluppare due diverse
linee di sviluppo con esiti significativamente diversi: da un lato uno sviluppo verso
quello che possiamo chiamare il Vero Sè e dall'altro l’instaurarsi della predominanza di
un Falso Sé (Masterson).
Vedremo di seguito le caratteristiche principali presentate dal predominio di uno o
dell’altro di questi due aspetti, ricordando che si tratta di tendenze non irreversibili, ma
certamente significative nell’esperienza quotidiana di ognuno.
Il Vero Sé all'opera.
Nella linea del più adeguato sviluppo dell’identità l’uomo può arrivare a maturare il
proprio Vero Sé che è poi l’elemento fondamentale che gli permette di riconoscersi
come quel “qualcuno” speciale e unico che persiste nel tempo e nello spazio e che
proprio per questo è in grado di aprirsi alla possibilità dell’incontro con l’altro.
La persona si sente unica e unitaria e di esistere indipendentemente da come le altre
varie parti del Sé cambiano e si spostano, a seconda dei momenti e delle situazioni. In
altri termini sente la continuità nel tempo, nello spazio e nella causalità di cui si parlava
sopra.
Il Vero Sé mantiene le immagini del Sé e i vari comportamenti uniti, permettendo
all’individuo di riconoscerli come oneste espressioni di se stesso.
Per usare un’immagine, possiamo dire che noi tutti siamo come un caleidoscopio (idee,
comportamenti, speranze, delusioni, persone, situazioni, ruoli ecc.): i pezzi sono gli
stessi, ma formano modelli e figure sempre diverse e vengono mossi in questo da quel
Sé stabile che tiene il tubo verso la luce, guarda e lo muove, e riconosce come proprie le
immagini che ne scaturiscono, gli piacciano o meno.
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Quando predomina il Falso Sé.
Di converso molte persone nelle relazioni assumono un ruolo passivo e di impotenza,
cercano qualcuno che si prenda cura di loro piuttosto che qualcuno che le ami e le
rispetti come pari. . Le persone scandono nella compiacenza come difesa adottata per
essere visti, per esistere nelle relazioni con gli altri. Ma ciò produce danni molto
pesanti perché porta ad un tradimento degli istinti e delle pulsioni.
Queste attitudini negative arrivano a dominare l’atteggiamento con cui l’individuo vede
la vita, soffocando le attitudini positive e aumentando il senso di vuoto interiore.
Presi in questa morsa che non permetterà loro di esprimere e affermare sé stessi
autenticamente, le loro vite emotive sono caratterizzate da rabbia cronica, frustrazione e
sensazione di essere ostacolati.
In fondo è quello che Narciso dice all’amico, Boccadoro (Hesse, 1030): “Io ti prendo
sul serio quando sei Boccadoro. Ma tu non sei sempre Boccadoro. Io non mi auguro
altro se non che tu divengo Boccadoro in tutto e per tutto. Tu non sei un erudito, tu non
sei un monaco … per fare un erudito e un monaco basta una stoffa meno preziosa della
tua. Tu credi che ti giudichi troppo poco logico, o troppo poco pio. NO, per me sei
troppo poco te stesso” (pag. 40).
Queste persone sono in seria difficoltà nel permettersi l’esistenza di un altro con
quell’autonomia, che loro stessi non riconoscono a se stessi
Nella prospettiva del Sé e del suo sviluppo, la definizione dell’amore sta nella capacità
di riconoscere il Vero Sé dell’altro in modo caldo ed affettuoso, senza esigere legami
soffocanti, e nella capacità di godere l’attrazione sessuale, che alimenta la relazione, in
modo tale che il benessere del partner diventa importante tanto quanto il proprio.
Questo investimento nell’altro espande, arricchisce e completa l’esperienza del Sé.
Quando nell’uomo predomina il Falso Sé ci si trova di fronte ad una sostanziale
esperienza di vuoto alla quale si può effettivamente reagire cercando in tutti i modi di
riempirla in qualche modo: e se poi lo spazio personale è pieno di molte cose (lavoro,
hobbies, ecc.) non c’è tempo per pensare e per accorgersi del vuoto.
Certamente questa fragilità personale oggi è tanto più emergente perché nella nostra
epoca si sta vivendo una perdita dei riferimenti morali e culturali condivisi che va di
pari passo ad un narcisismo con connotazioni sempre più patologiche (Pavan, 2007).
Oggi divenga sempre difficile comprendere quando un desiderio esprima veramente un
bisogno o quanto invece sia indotto per imitazione o emulazione da un contesto sociale
e/o gruppale che propone artificialmente modelli di desiderio.
Nella misura in cui la persona è immersa in un contesto culturale che indica come la
stessa realtà percettiva possa essere proposta a partire dalla possibilità immaginativa
della mente, senza più limiti o quanto meno con l’illusone di non avere limiti, ecco che i
confini fra reale ed irreale diventano sempre più difficili da definire.
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Non può stupire se a fronte di questa sfida impossibile posta dalla libertà si manifestino
reazioni del tutto opposte con l’affermazione di fondamentalismi religiosi ed etnici che
sembrano esprimere identità stabili e ben definite nella loro chiusura. Solo una forte
identità personale e sociale può aprirsi all’incontro dell’altro, e, d’altra parte, la paura
dell’altro è un importante segno della fragilità interna.
Si sono affermate a livello di gruppo delle vere psicopatologie che hanno delle
caratteristiche difensive, quale l’abuso di droghe, la dipendenza dal lavoro, gli sport ad
alto rischio, o condotte distruttive di gruppo come il bullismo a scuola, ove l’agito
appare una modalità per proteggersi da un vuoto disperante e il rifugiarsi nella folla
come un luogo di non identità.
I “tutori” dell’identità.
A fronte di quanto detto esistono delle strategie di lavoro che aiutano la persona a
continuare il suo faticoso cammino nel solco di un’identità matura.
In primo luogo appare del tutto necessario riscoprire il valore e gli spazi della personale
rielaborazione delle esperienze vissute, che è prima di tutto dialogo con sé stessi, per
poi asprirsi agli altri, al confronto, al ripensamento. Tra l’altro questa via apre la
possibilità per una autentica ed efficace prevenzione del disagio psicologico e per la
costruzione di un rapporto interumano veramente tollerante: chi ha la possibilità di
capirsi può modificarsi, chi tocca con mano le proprie difficoltà e impara a non
vergognarsene diviene più facilmente tollerante anche verso gli altri
Non si tratta di una via facile, certamente è una via che non richiede “edificazioni”, né
tanto meno l’organizzazione di strutture, ma prevede la possibilità e la disponibilità di
un luogo e di un tempo per il confronto e l’elaborazione. Un luogo dove l’incontro
costruisce una storia personale e collettiva che dà il senso della responsabilità delle
scelte e delle decisioni personali nei riguadi di se stessi e degli altri.
Non è una via facile perché non tollera mascheramenti proposti da un facile “fare”, ma
chiede le doti fondamentali della pazienza per i tempi individuali e la tolleranza, che è
condivisione, delle difficoltà di ognuno.
Questa appare anche la via maestra per il superamento di quello che oggi sembra essere
il neo-individualismo che si esplicita in un culto dell’istante, del qui ed ora in cui non
c'è autentico spazio per le relazioni con gli altri.
Questa tendenza trova la sua più evidente espressione nel narcisismo che ha come
conseguenza sia la mancanza di pietas verso il passato, sia l’afflosciarsi di ogni tensione
verso il futuro che sia altro dall'oggi o da un ripetersi ossessivo di tanti “oggi”.
In fondo Narciso e don Giovanni Tenorio avevano lo stesso problema: il trascorrere del
tempo. Narciso rimira la sua bellezza nell’acqua e a ben donde essendo bellissimo. Ma
poi il terrore: l’incresrasi della’cqua l’ha messo difonte all’inevitabilità del mutamento
che il tempo avrebbe procurato in lui. E’ l’autocontemplazione che taglia fuori da ogni
possibilità di fare esperienza. Narciso, infatti, al contrario di Edipo, non vive e non ha
storia. Così come don Giovanni che cercava, nel suo conquistare le donne, la possibilità
di incere il dio tempo..
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Le conseguenze intrapsichiche di quanto detto sopra sono un tentativo di svalorizzare
l’Io nelle sue funzioni di mediatore tra il Super-Io, l’Es e il mondo esterno.
Un Io debole, minimale, lungi dall’essere liberato è un Io senza identità. Ed ecco il
paradosso massimo del nuovo individualismo: l’esplodere dell’esigenza di un’identità
omologata a cui aderire, con un Io che diviene rigido per resistere all’angoscia di non
esserci, come già evidenziato nelle pagine precedenti.
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Luoghi e non luoghi nella vita dei giovani, in press
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