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RASSEGNA STAMPA
lunedì 30 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Adn Kronos del 28/06/14
Gay: Onda Pride a Palermo, negozi aperti piu'
a lungo e strade off limits ad auto
Palermo, 28 giu. - (Adnkronos) - L'Onda pride è pronta ad 'invadere' Palermo. Nella
Giornata internazionale delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer e
intersessuali il capoluogo siciliano si colora di fucsia per ribadire la necessità di norme di
uguaglianza e pari diritti per tutti. Alla parata, il momento più atteso del Pride,
parteciperanno 10 carri (cordinamento Palermo pride, exit drinks, stay queer stay rebel,
Arci Palermo, P.A.M., Amnesty Sicilia, Space Cream, Udu Palermo, Sexy Planet, La
Santa). Una conferma, per gli organizzatori, del fatto che quello di Palermo è uno dei pride
più grandi e partecipati d'Italia. Il concentramento è previsto a piazza Marina a partire dalle
16. Da qui il colorato serpentone partirà per raggiungere, dopo aver percorso 2,5
chilometri attraversando corso Vittorio Emanuele, via Roma, piazza Sturzo, via Turati, via
Ruggero Settimo, via Maqueda, la centralissima piazza Verdi, dove è allestito il ''Pride in
piazza''. Poco prima di mezzanotte si sposterà al Village allestito al Castello a mare alla
Cala. E per l'occasione il Comune di Palermo ha vietato dalle 15 la vendita da asporto di
bibite in contenitori di vetro o metallo e ha disposto la chiusura al traffico nelle vie
interessate dal passaggio del corteo. Confcommercio Palermo invita i propri associati a
chiudere i negozi più tardi nelle zone che vedranno il passaggio della parata. "Il
suggerimento a tenere i negozi aperti, e quindi le vetrine tutte illuminate - spiegano da
Confcommercio -, vuole essere un gesto di sintonia con i diritti civili rivendicati dai
manifestanti".
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ESTERI
del 30/06/14, pag. 12
Gli islamisti tornano a colpire nella zona delle ragazze rapite “Chiese in
fiamme, corpi martoriati. I fuggiaschi inseguiti e uccisi”
Spari sui fedeli a messa
Boko Haram fa strage di cristiani “I morti
sono decine”
PAOLO G. BRERA
AL TELEFONO
arrivano scampoli di racconti drammatici: «Hanno ucciso decine di persone, hanno
attaccato i fedeli e bruciato le chiese e le loro case». Stato federale di Borno, Nordest
insanguinato della Nigeria: due mesi e mezzo fa i terroristi di Boko Haram hanno attaccato
il paese di Chibok rapendo duecento studentesse e trascinandole nella foresta; settimana
scorsa hanno devastato i villaggi della zona, ieri se la sono presa con le chiese e i fedeli di
altri quattro villaggi a un quarto d’ora di bicicletta, bruciando quattro luoghi di culto cristiani
e massacrando «almeno trenta persone» sparando all’impazzata durante la messa.
Bombe a mano e fucilate, donne e bambini ammazzati senza avere il tempo di avere
paura, altri uccisi tra le sterpaglie della savana mentre tentavano di fuggire.
Povera Chibok, travolta da terribile (e non più insolito) destino: un migliaio di case nel
cuore di un’enclave cristiana all’interno di uno stato in maggioranza islamico, in cui gli
islamisti di Boko Haram sognano di creare un califfato basato sulla Sharia. È qui il
crocevia della disfatta, il simbolo di una Nigeria precipitata nel sangue di una guerra santa
tra gli islamisti tagliagole e il governo corrotto e distratto. Il bollettino di guerra è orribile, e
di tanto in tanto l’orrore sconfina nella capitale Abuja: quest’anno è già stata oltrepassata
la ragguardevole soglia dei 2.000 uccisi da Boko Haram, ma negli ultimi giorni è difficile
persino tenere i conti. Lo scorso fine settimana i rapimenti e le stragi nei villaggi della zona
di Damboa, a una trentina di chilometri da Chibok, con l’attacco a un campo militare e 50
soldati uccisi sul posto da una gragnuola di colpi. Sparavano con armi pesanti, ben più
pesanti degli Ak47 in dotazione all’esercito: avevano blindati con antiaeree, mitragliatrici e
lanciagranate, raccontano i sopravvissuti. Poi le bombe nella scuola di Igiene e Tecnologia
di Kano, la carneficina in due villaggi dello stato di Kaduna, nel centronord del paese; i 21
ammazzati da una bomba nel supermercato della capitale Abuja, i 13 uccisi da
un’esplosione a Bauchi in un hotel a luci rosse nel quartiere cristiano... Non un giorno di
tregua, non un solo giorno senza una mattanza. Quando non è Boko Haram a colpire, è il
dramma di una faida senza fine tra i fulani, pastori nomadi musulmani, e i contadini
cristiani.
Ma lassù nel Nordest, lungo la carrareccia che unisce Damboa alla “superstrada” A13
passando per Chibok, il sangue scorre insieme alle promesse vacue. Dopo il 14 aprile,
quando gli islamisti si andarono a prendere duecento studentesse liceali trascinandole
nella foresta di Sambisa e minacciando di rivenderle per pochi spiccioli, il mondo inorridì e
i nigeriani puntarono il dito contro il governo: aveva ignorato gli allarmi preventivi e atteso
giorni per reagire, sminuendo fino all’indifendibile. Ma sotto la pressione di quel mondo
indignato, i governi occidentali — compreso il nostro — offrirono aiuti e intelligence per
ritrovare le ragazze: dopo quasi tre mesi e qualche altro rapimento, delle ragazze non si
sa nulla e gli islamisti di Boko Haram continuano a imperversare e a massacrare i cristiani
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dei villaggi intorno a Chibok. I ribelli islamisti che si battono per il califfato vogliono
scambiare la tregua con la liberazione dei loro prigionieri. Il presidente Goodluck Jonathan
non ha speso una parola, per Chibok. Si è addolorato per i morti di Bauchi e Kaduna, stati
governati dal suo stesso partito Pdp, ma non del Borno: se la veda il governatore Kashim
Shettima, che è del partito rivale Anpp. La povera gente, intanto, trema e muore.
del 30/06/14, pag. 12
L’APPELLO
“Lasciateci celebrare il Ramadan” I bambini
di Gaza contro l’assedio
GAZA .
Una catena umana di bambini, con le lanterne in mano dietro a un cartello che è un grido
di dolore: “Celebreremo il Ramadan nonostante l’assedio”. «Noi bambini palestinesi non
abbiamo più nulla, nemmeno le cose più semplici per vivere. L’occupazione israeliana ci
rende la vita dura e difficilissima», dice la dodicenne Maya Hmaid. Ma dopo la scomparsa
dei tre ragazzi ebrei, il santo mese del Ramadan è iniziato ieri sotto una tensione altissima
per la Striscia, dove Hamas è al potere.
L’Iron Dome, la difensa antimissili israeliana, continua a catturare i razzi sparati da Gaza:
più di 60 dall’inizio di giugno, secondo l’esercito di Tel Aviv, 28 dei quali sono riusciti a
cadere in territorio israeliano. Dopo gli ultimi lanci, ieri «un combattente palestinese» è
stato ucciso dai droni israeliani in un raid nei pressi di Khan Yunis, nel Sud della Striscia
di Gaza. Sabato sera quattro razzi palestinesi avevano distrutto due fabbriche a Sderot
ferendo alcune persone, e gli israeliani avevano replicato inviando raid aerei «su obiettivi
militari» e ferendo tre persone, tra cui un bambino. Il dramma è quotidiano, e Israele «è
pronto ad estendere le operazioni a seconda delle necessità», ammonisce il premier
Benjamin Netanyahu chiedendo all’Anp di Abu Mazen di «annullare» il governo tecnico di
unità nazionale con Hamas, presieduto da Rami Hamdallah.
Ma non è l’unico fronte a preoccupare il governo israeliano: per arginare l’ondata dell’Islam
radicale Netanyahu avverte che «sarà necessario costruire gradualmente una barriera di
sicurezza anche ad Est, da Eilat fino alla barriera che abbiamo già costruito sulle alture del
Golan». Un altro Muro.
Del 30/06/2014, pag. 10
Se Mosca scende in campo a fianco di
Baghdad
Giunta la prima tranche di caccia-bombardieri Sukhoi-25 dalla Russia
Appoggio senza riserve al premier Nouri al Maliki e nuovo asse con
l’Iran
Barack l’indecisionista. Vladimir l’interventista. Sul fronte di guerra siro- iracheno si gioca il
nuovo braccio di ferro tra il presidente Usa e il suo omologo russo. Mentre gli Stati Uniti di
Barack Obama continuano a essere sostenitori riluttanti del governo sciita iracheno, la
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Russia di Vladimir Putin appoggia senza riserve il premier Nouri al Maliki. Il capo del
Cremlino aveva affermato nei giorni scorsi il «pieno sostegno della Russia agli sforzi del
governo iracheno per la liberazione il prima possibile del territorio della repubblica dai
terroristi». Alle parole seguono i fatti. Baghdad ha annunciato ieri di aver ricevuto la prima
tranche di caccia-bombardieri Sukhoi-25 dalla Russia, arma chiave per contenere
l’avanzata su Baghdad degli jihadisti sunniti dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante
(Isil). L’arrivo dei Sukhoi-25, aereo progettato specificatamente per operazioni di attacco al
suolo in grado di dare copertura decisiva alle truppe a terra, giunge proprio mentre i soldati
di Baghdad stanno cercando di riprendere il controllo di Tikrit, città natale di Saddam
Hussein, e nodo nevralgico. L’acquisto dei jet russi, oltre una decina a 500 milioni di dollari
(368 milioni di euro), era stato annunciato solo giovedì da Maliki e i primi sono già arrivati.
Mentre il premier, accusato da Washington di essere la causa dell’attuale crisi innescata
dalle sue politiche settarie contro la minoranza sunnita (al potere sotto Saddam) è frustrato
se non irritato perché gli americani non hanno rispettato gli accordi da miliardi di dollari per
la consegna di caccia-bombardieri F-16 e di elicotteri d’attacco Apache. Lo stesso Maliki
che peraltro, peccando di hybris, costrinse alla fine del 2011 gli Usa a ritirare tutti i loro
soldati perché si rifiutò di concedere loro l’immunità funzionale (la stessa in ballo ora in
Afghanistan) affidandosi completamente alle sue truppe, rivelatesi inaffidabili come ha
dimostrato il «blitzkrieg » in salsa mediorientale di Isil. Il contraltare all’indecisionismo
obamiano è la determinazione di Putin.
BOCCIATO Il presidente russo ha scelto con chi stare in Medio Oriente: con Bashar alAssad in Siria, e ora con il traballante governo dello sciita Maliki, sfilando di mano al
competitor statunitense l’esclusiva dell’iniziativa e rinforzando i suoi legami anzitutto con
l’Iran di Khamenei e con il regime in Siria. Nel frattempo, Obama è bocciato dagli
americani per la politica estera. Secondo un sondaggio del 24 giugno di New York Times e
Cbs, il 58% non approva il presidente americano nella sua gestione degli affari esteri, 10
punti percentuali in più rispetto al mese scorso. Si tratta della percentuale più alta da
quando Obama ha assunto l’incarico nel 2009. Il 52% degli interpellati non approva come
Obama sta gestendo l’attuale situazione in Iraq. Un terzo degli elettori democratici dice di
non approvare le scelte di politica estera fatte dal presidente. Il 51 per cento degli
americani condivide l’invio in Iraq di 300 consiglieri così come poco più della metà degli
elettori statunitensi è disposto a collaborare con l’Iran per risolvere la crisi irachena. La
bocciatura non è solo interna. Stanco, invecchiato, ma lucidissimo come nei giorni migliori,
Tareq Aziz, ex fedelissimo braccio destro di Saddam Hussein, affida a un’intervista al
Guardian una sciabolata contro Obama. Nella sua prima intervista faccia a faccia con un
giornalista da quando è stato catturato poco dopo la caduta di Baghdad più di sette anni
fa, Tareq Aziz ha spiegato al quotidiano britannico come a suo avviso gli Stati Uniti
ritirandosi dall’Iraq provocheranno la «morte» del Paese. «Pensavo che Obama avrebbe
corretto alcuni errori di Bush - ha affermato Aziz -Ma Obama è ipocrita. Sta lasciando l’Iraq
in balia dei lupi». «Siamo tutti vittime dell’America e della Gran Bretagna - ha detto Hanno ucciso il nostro Paese in molti modi. Quando si fa un errore bisogna correggere
quell’errore, non lasciar morire l’Iraq». Insomma, Obama fa la voce grossa ma non troppo,
afferma di sostenere Baghdad e di prendere in considerazione un intervento aereo per
bersagliare i jihadisti, ma nel frattempo dichiara «non possiamo fare noi il lavoro per loro»,
riferendosi al governo iracheno. La Casa Bianca ordina alla portaerei US George HW
Bush di dirigersi nel Golfo Persico, ma con calma, c’è tempo, intanto i massacri
continuano. Una situazione che abbiamo già visto in Siria, quando Obama dichiarò che
l’uso di armi chimiche e biologiche avrebbe superato la «linea rossa per un possibile
intervento militare nel Paese». Le armi chimiche sono state usate ripetutamente,
verosimilmente da entrambe le parti, ma gli Stati Uniti non sono mai intervenuti.
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Approfittando dell’immobilismo di Obama, che da anni discute se armare i ribelli «buoni»
dando di fatto il tempo ai terroristi di diventare ancora più forti, l’Isil ha consolidato il suo
potere in Siria. E sfruttando l’incapacità di governare del premier iracheno al Maliki, che ha
favorito gli sciiti in ogni modo a danno dei sunniti, ha preso prima Falujiah, a gennaio, e
ora Mosul, Ramadi, Diyala, Ninive, Salaheddine sono tutte in mano dei jihadisti, che ora
controllano anche i posti di frontiera con la Siria di Qaim e al Waleed, e più a sud il valico
di Turaibil, tra l’Iraq e la Giordania. E in serata, l’annuncio: gli jihadisti sunniti hanno
proclamato un «Califfato islamico», sui territori che si estendono tra Aleppo, nel nord della
Siria, e il governatorato di Diyala, nella zona orientale dell’Iraq. In una registrazione audio
diffusa sul web, l’Isil ha annunciato che a capo del Califfato c’è il califfo e leader del
gruppo Abu Bakr al-Baghdadi.
del 30/06/14, pag. 13
“Il nostro movimento d’ora in poi si chiamerà solo Stato islamico”
Mosca invia aerei. Turchia e Israele: sì al Kurdistan indipendente
Iraq, gli uomini “neri” incoronano alBaghdadi “Il Califfato è nato”
VINCENZO NIGRO
DAL NOSTRO INVIATO
GHAZALYIA .
Se mai entrerà a Bagdad a cavallo dei suoi fuoristrada, sceglierà questa strada, quella che
sfocia in città provenendo da Falluja e dal triangolo sunnita, la direttrice che prima di
disperdersi nei mille rivoli della metropoli attraversa Abu Ghraib. Il sobborgo, tristemente
noto grazie agli orrori dei carcerieri americani, è a soli 15 chilometri da qui. Oltre però il
pattuglione di militari e poliziotti iracheni che ci ha portato in giro a ispezionare il fronte per
ora preferisce non avventurarsi. Lì ci sono i nemici, gli uomini del “califfo”. Perché ieri Abu
Bakr Al Baghdadi, il capo dell’Isis, ha deciso di promuoversi “califfo di tutti i musulmani” e
di creare quindi il califfato.
Nella mossa c’è una grande dose di propaganda, il tentativo di costruire una fascinazione
politica e mediatica che paralizzi gli avversari e infiammi l’animo e i kalashnikov dei suoi
sostenitori. E dietro la propaganda ci sono i fatti: a Tikrit, che il governo sciita sabato
diceva di aver riconquistato, ancora infuria la battaglia. Di riprendere Mosul non se ne
parla: l’esercito e i miliziani sciiti per ora circondano Bagdad, la pattugliano, ma a salire
verso Nord o Ovest per strappare quel terzo di Iraq che ormai è fuori controllo non ci
pensano neppure. Il califfato di fatto esiste. Non è una “invasione” di terroristi stranieri, è
una rivolta dei sunniti agli otto anni di settarismo degli sciiti del premier Al Maliki. E quindi
se il califfato per il momento non avanza, sicuramente resiste.
Facendosi nominare califfo dalla “Shura”, il consiglio del suo movimento, ovvero
imperatore dei fedeli, sovrano dei sunniti discendente di Maometto e di quelli che dopo di
lui hanno governato sia la religione che lo stato islamico, Al Baghdadi sembra rilanciare
una sfida impossibile. La designazione, dice il portavoce dell’Isis in un filmato in rete, «è
stata fatta dalla Shura che ha annunciato la formazione del califfato e la nomina del
califfo». I nomi Iraq e Levante (Sham in arabo) scompaiono dal titolo dei movimento, che
d’ora in poi si chiamerà solo “Stato islamico”.
Il califfato aveva avuto i suoi anni più felici con gli Ommaidi a cavallo del ‘700 e con gli
Abbasidi dal 750 al 1517, per seguire poi i destini dell’Impero ottomano. Il califfo che oggi
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vuole riconquistare Bagdad lancia segnali terribili a tutta la regione. La Turchia ha
ammesso che di fatto il Kurdistan iracheno è l’unico mini-stato solido e alleato nell’Iraq e
che quindi potrebbe diventare indipendente. Ieri lo stesso passo — riconoscere un
Kurdistan indipendente — in qualche modo lo hanno fatto gli israeliani. Impegnato nella
crisi dei tre ragazzi rapiti in Cisgiordania (forse proprio da una cellula di Hamas ispirata
dall’Isis), il governo israeliano in questi giorni era rimasto silenzioso. Il premier Netanyahu
adesso invece invoca la costruzione graduale di “una barriera di sicurezza anche ad Est,
da Eilat fino alle alture del Golan” per arginare l’ondata dell’Islam radicale e dice che per
Gerusalemme uno stato curdo in Iraq sarebbe un sicuro alleato contro i jihadisti del califfo.
L’esercito iracheno-sciita intanto continua la sua controffensiva, inviando carri armati ed
elicotteri a Tikrit. Ma tutto il territorio conquistato sinora dallo Stato Islamico rimane
saldamente sotto il contro di Al Baghdadi e dei suoi alleati locali: le tribù sunnite
tormentate per otto anni da Al Maliki e le cellule di baathisti di Al Douri che vogliono
vendicare la morte di Saddam Hussein.
A Bagdad oggi i capi politici sciiti, curdi e sunniti eletti in Parlamento proveranno a
negoziare per designare un successore del premier sciita Al Maliki e varare in pochi giorni
un nuovo governo. Il vicepremier per il Petrolio Hussein al Shahristani (uno dei papabili
per sostituire di Al Maliki) si è lamentato pubblicamente perché gli americani stanno
facendo poco militarmente. «Quando il vostro alleato Israele ha avuto bisogno di aiuto
avete fatto un ponte aereo per dargli le armi, a noi nulla», ha detto Al Sharistani inveendo
contro il presidente statunitense Obama. Invece i russi di Vladimir Putin nel giro di pochi
giorni hanno iniziato a consegnare all’aeronautica di Bagdad cinque aerei caccia Sukhoi:
un fotografo della Reuters ha visto che i primi aerei, smontati, sono sbarcati da aerei cargo
in un aeroporto militare della città. È da vedere se un esercito allo sbaraglio come quello
iracheno abbia piloti in grado di manovrarli e le capacità d’intelligence, ricognizione e
guida sugli obiettivi necessarie per attaccare.
Da Repubblica – Affari e Finanza del 30/06/14, pag. 12
Villaggio Globale
Il tonfo dell’Indice mondiale della pace
diecimila miliardi il costo del terrore
PEGGIORA NEL 2014 PER IL SETTIMO ANNO DI FILA IL “GLOBAL
PEACE INDEX” CURATO DALL’INSTITUTE FOR ECONOMICS AND
PEACE PER ORIENTARE LE SCELTE DEGLI INVESTITORI
INTERNAZIONALI: POLIZIE ED ESERCITI IMPEGNANO L’11,3% DEL PIL
PLANETARIO
Eugenio Occorsio
O gnuno dei 6 miliardi di abitanti della Terra, dal più povero pastore samburu del deserto
eritreo al più opulento sceicco arabo o finanziere americano, porta sulle spalle un fardello
di 1.350 dollari l’anno. Motivo: il mondo è diventato un posto molto meno pacifico e meno
sicuro rispetto a pochi anni fa. In tutto si raggiunge l’astronomica cifra di 9,8 trilioni di
dollari: è l’impatto economico della necessità di fronteggiare la violenza e le sue
conseguenze. Nel calcolo sono incluse le spese militari ordinarie, il tranquillo e routinario
mantenimento di un esercito in tempo di pace: ma hanno un peso non determinante,
avverte l’Institute for Economics and Peace che ha realizzato il Global Peace Index,
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rispetto a guerre, crimini di strada, esodi di massa, tumulti di piazza, qualsiasi altra fonte di
violenza immotivata e gratuita. L’istituzione di ricerca non profit di New York ogni anno
predispone l’indice basandosi su dati calcolati appositamente dall’Economist Intelligence
Unit. Nel 2014, per il settimo anno di fila, l’indice è in peggioramento. Sarà un caso, ma la
situazione sta precipitando dal 2008, anno di inizio della crisi finanziaria. Da quell’anno il
quadro si è deteriorato in 111 Paesi ed è migliorato solo in 51. Prima di allora, dalla fine
della seconda guerra mondiale l’indice era stato in costante miglioramento. L’impatto
economico del contenimento della violenza, dal terrorismo alla criminalità di strada,
quei quasi 10mila miliardi, nel 2014 è pari all’11,3% del Pil globale, ovvero il reddito
sommato di Italia, Francia e Germania. Rispetto all’anno scorso, c’è un peggioramento di
179 miliardi di dollari, ovvero il 3,8% del totale, somma pari allo 0,4% del Pil planetario.
L’istituto newyorkese redige lo studio, oltre che per motivi di divulgazione della
conoscenza - e di risveglio della coscienza - espressamente per orientare gli investitori a
scegliere a ragion veduta le loro mete. I parametri considerati (con voti da 1 a 5 dove il
voto più è basso e migliore è il livello di pacificazione), combinati con sofisticati algoritmi a
seconda del peso di ciascuno, sono 22. L’indice medio complessivo del mondo è salito a
2,06 da 1,96, ma se il valore viene aggiustato per tenere conto delle differenze di
popolazione nei vari Paesi, il deterioramento è più accentuato: sempre partendo da 1,96
l’indice è arrivato a 2,20. Lo standard più “pesante” fra quelli considerati (gli viene attribuita
un’importanza del 6,7% del totale) è il livello dei “conflitti organizzati” interni, cioè
l’esistenza o meno, e la pericolosità, di organizzazioni criminali nonché l’intensità - anche
dal punto di vista dei costi - del conflitto che lo Stato combatte contro di esse. Di poco
inferiori come peso (il 6,5%) altri tre benchmark: i rapporti con i Paesi confinanti, il numero
di conflitti “interni ed esterni” combattuti, e il numero di morti in conflitti all’estero (anche
per le forze di peacekeeping). Seguono altri standard: il livello di criminalità percepito dai
cittadini, il numero dei poliziotti per 100mila abitanti e quello dei detenuti, e ancora il
numero di omicidi, la facilità di accesso alle armi (il parametro che fa crollare la
“pacificazione” degli Stati Uniti), la probabilità di violente dimostrazioni di piazza, e poi
l’instabilità politica, l’efficienza della giustizia, la corruzione, il funzionamento del governo,
la trasparenza del processo elettorale, le libertà civili e religiose, la posizione delle donne,
la partecipazione politica, l’inclusione sociale, e così via. C’è una voce sulla “dotazione di
armi nucleari” che però non pesa per più del 3%. Un mix di ingredienti dal quale si cerca di
ricavare il livello della convivenza civile e quindi la capacità di attrazione, di accoglienza, in
sostanza di efficienza e affidabilità, di un Paese. Quest’anno come il precedente il
“concorso” è stato vinto (su 166 Paesi pari al 99,8% della popolazione mondiale) dalla
piccola e pacifica Islanda con il punteggio di 1,189, seguita da Danimarca, Austria, Nuova
Zelanda, Svizzera, Finlandia e così via. Guardando la classifica dal senso opposto, cioè
partendo dal fondo, posizione n.166, la Siria ha preso il posto come ultima
dell’Afghanistan, con 3,650 contro 3,416. Risalendo ci sono il South Sudan (in discesa di
16 posti dall’anno scorso), l’Iraq, la Somalia, il Sudan, la Repubblica Centrafricana solcata
dai micidiali guerriglieri Seleka, il Congo in guerra civile da trent’anni, il Pakistan. Un cahier
des doleances imbarazzante sui Paesi meno fortunati del pianeta. Colpisce il crollo della
Russia, per motivi sia interni che esterni, di oltre dieci posizioni fino alla numero 152,
stretta fra Nigeria e Corea del Nord. La “controparte” Ucraina è poco più su, al 141° posto.
E l’Italia? È al 34° posto con uno score medio di 1,675. Il punteggio più basso, cioè
migliore, è alle voci “conflitti interni” e “militarizzazione”. Anche “stabilità politica” fa
segnare un confortante 1,8. La situazione peggiora a voci come “sicurezza sociale” e
soprattutto, un dato che fa riflettere, “percezione della criminalità presso la popolazione”,
insomma paura: ben 4 punti su un massimo di 5. C’è anche una stima della spesa del
nostro Paese per contrastare la violenza: 53,2 miliardi di dollari, pari a 35 miliardi di euro.
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È in media per Paesi comparabili come dimensioni e grado di democrazia. Semmai lascia
perplessi che l’Italia sia classificata peggio di Bulgaria, Croazia, Spagna e Slovacchia, ma
probabilmente falsa un po’ la valutazione l’alta densità di abitanti (che alza i parametri di
calcolo dei crimini e delle forze di polizia), e anche la costosa partecipazione a missioni di
pace. Non a caso, peggio dell’Italia sono piazzate Francia e Gran Bretagna. Tornando alle
aree calde del mondo, l’Egitto, che aveva recuperato qualche posizione l’anno scorso
dopo i traumi della “primavera araba” ricade di ben 31 posti fino al 143°, ma comunque è
piazzato meglio dell’India, del Libano, di Yemen, Zimbabwe, Israele, Colombia, Niger. E
peggiora anche la posizione di Paesi apparentemente inossidabili, dall’Argentina al Qatar,
per i quali l’istituto di New York prevede forti tensioni sociali, gap di democrazia dalle
conseguenze potenzialmente pesanti e anche contrasti con le nazioni circostanti. È
quest’ultima forse la più interessante fra le classifiche pubblicate dall’istituto. Che la
chiama “trend”: indica i luoghi del mondo magari oggi tranquilli ma invece da studiare con
attenzione prima di avventurarvisi. Colpisce che fra questi venga ancora inclusa la BosniaHerzegovina o il Nepal squassato da divisioni etniche, o anche lo Zambia che ha la fama,
peraltro meritata finora, di essere uno dei più pacifici Paesi africani. Sorprende meno che
in questa top tendei rischi in proiezione appaiano Haiti, Burundi (che pure aveva fatto
passi da gigante negli ultimi anni), Liberia e la mai veramente pacificata Georgia. Nello
studio si leggono poche valutazioni esplicite, ma sui “trend” una ce n’è: «Fra i Paesi a
rischio ci sono monarchie, repubbliche, sultanati, ogni tipo di regime. Ma quello che conta
è che il tasso di violenza reale o percepito dagli altri Paesi è inversamente proporzionale a
quello di democrazia».
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INTERNI
del 30/06/14, pag. 4
Palazzo Madama pronto a votare norme su corruzione e responsabilità
dei magistrati, mentre il governo oggi esamina solo le “linee guida” del
pacchetto Orlando. L’esecutivo, diviso sul falso in bilancio, rischia il
“sorpasso”
Giustizia, il Parlamento sfida il governo
LIANA MILELLA
ROMA .
Giustizia alle soglie della polemica. Col rischio di un prossimo scontro al Senato su
materie assai delicate come il falso in bilancio e la responsabilità civile dei giudici. Il
governo, con più di un conflitto al suo interno, conferma che oggi, in consiglio dei ministri,
saranno presentate le linee guida di numerosi provvedimenti, come Repubblica ha reso
noto giovedì. Rinvio invece per un pacchetto di norme già pronte perché il premier Renzi
preferisce una manovra organica, sul modello di quella fatta per la Pubblica
amministrazione. Quindi nessun ddl, anche se il Guardasigilli Orlando ha già da tempo
pronti quelli sull’anti-corruzione e la responsabilità e, per quanto si può capire da una pur
blindatissima via Arenula, proprio lui avrebbe preferito andare avanti. Soprattutto per
evitare nuove polemiche al Senato con il presidente della commissione
Giustizia Nitto Palma, che sta affilando i coltelli sulla responsabilità civile e sul pacchetto
anti-corrotti, pronto a “scavalcare” il governo e a far approvare in aula il ddl Grasso e
quello Buemi sulla responsabilità. A meno che, già oggi, Renzi e Orlando non decidano di
rinviare a tempi brevissimi, già la prossima settimana, le misure su cui si muove il
Parlamento. Basterebbe licenziare i ddl su criminalità economica e responsabilità.
Ma ecco l’impiccio che si dipana tra Palazzo Chigi, ministero della Giustizia e Senato.
Renzi e Orlando si parlano e decidono che il primo step sulla giustizia è affidato alle linee
guida. Temi caldi come la riforma del Csm, la nascita di un’Alta corte disciplinare, ma
soprattutto il nodo delle intercettazioni e della tutela della privacy, richiedono
un’approfondita discussione nel governo. I maligni sostengono che Renzi è preoccupato
per la coincidenza con il voto sulle riforme costituzionali e teme un voltafaccia di
Berlusconi, già sotto schiaffo per via della prossima sentenza su Ruby. Ma nell’esecutivo
ci sarebbe soprattutto una netta frattura sul falso in bilancio. La soluzione Orlando,
punibilità a 5 anni e perseguibilità d’ufficio, è avversata da chi, come Confindustria, e se ne
sarebbe fatta carica il ministro Guidi, agita lo spauracchio delle piccole imprese sotto
inchiesta per l’errore di un commercialista.
Niente testi quindi, tant’è che nulla è stato presentato nel pre-consiglio. Ma a questo
punto, da ieri, ha cominciato a ingigantirsi il fantasma dello scontro al Senato, dove già si è
arrivati ai ferri corti prima delle Europee, quando in commissione Giustizia ha fatto il suo
esordio il ddl Grasso, che l’M5S ha insistito per calendarizzare. In quel testo c’è tutto, dal
falso, all’auto- riciclaggio, alla prescrizione, alla marcia indietro sullo sdoppiamento della
concussione. Era previsto in aula a fine maggio, ma il governo ha chiesto uno slittamento,
proprio perché era “in cottura” il suo testo. Palma ha dovuto dire di sì, ma ora già dice che
i 30 giorni di moratoria cui aveva diritto il governo sono scaduti, e quindi lui «va avanti».
Che fa il governo? Comunque un suo esponente dovrà dare i pareri sugli emendamenti.
Presenterà delle sue modifiche? Lo può fare fino all’ultimo momento, ma il rischio caos è
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evidente. Soprattutto perché lo scenario si ripresenta per la responsabilità civile, che già
da domani pomeriggio è in fase di votazione. Il governo potrebbe presentare lì le sue
proposte, ma a questo punto non si capisce perché non lo possa fare prima, in consiglio
dei ministri, con un progetto organico (via il filtro, rivalsa dello Stato al 50%) su cui Orlando
avrebbe già incassato l’apertura dell’Anm. Lo stesso problema si pone alla Camera con la
prescrizione, dove c’è il ddl Ferranti, su cui la presidente della commissione Giustizia ha
già avviato le audizioni con magistrati e giuristi. Il governo, a questo punto, rischia di
rincorrere il Parlamento, con possibili brutte figure come quella dell’emendamento Pini (sì
alla responsabilità diretta dei giudici) votato da un centinaio di esponenti della
maggioranza.
del 30/06/14, pag. 9
Da oggi via al voto in commissione Affari costituzionali, ma nei partiti
restano molte divisioni sulla riforma Renzi e Berlusconi impegnati per
far rientrare il dissenso. Azzurri spaccati. Slitta la legge in aula
Senato, i dubbi di Forza Italia
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
Oggi la commissione Affari costituzionali del Senato inizia a votare sui circa 600
emendamenti che sono stati presentati al progetto di riforme della ministra Maria Elena
Boschi, “rivisitato” dai relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. Dunque si sarebbe
giunti al momento cruciale della conta. Ma quella di oggi potrebbe essere una falsa
partenza. Perché i problemi politici, i nodi che si sono aggrovigliati intorno al metodo di
elezione dei nuovi senatori e sulla loro immunità, restano tutti sul tappeto.
Quindi si partirà, ma lentamente. In attesa che Matteo Renzi incontri i suoi senatori e Silvio
Berlusconi. In attesa che lo stesso Cavaliere giovedì prossimo nella riunione dei gruppi
“addomestichi” i forzisti che cercano di creare un asse trasversale con i malpancisti del Pd.
E infine c’è ancora il secondo round fra il premier e i grillini sulla legge elettorale.
Quanto basta per fare giudicare poco reale l’approdo della riforma in aula per giovedì 3
luglio. Il termine slitterà di una settimana, forse due, con l’avallo di Palazzo Chigi che non
vuole impiccarsi ad una data. L’importante, dicono al governo, è che si approvi il testo
entro il mese di luglio. Ragionamento che si basa sull’idea che gli incontri dei prossimi
giorni scioglieranno i nodi ancora intrecciati.
Renzi cercherà di convincere i “dissidenti” che non possono affossare le riforme che sono
il presupposto per l’applicazione della flessibilità chiesta all’Europa. Il Cavaliere dovrebbe
riportare all’ordine i falchi contrari a collaborare con Renzi. Questa moral suasion avrebbe
effetti immediati in commissione, dove “cacciati” Mauro e Mineo, la maggioranza conta su
15 senatori su 29. Ma se rientrasse anche il malessere forzista, il rapporto potrebbe
diventare 19 contro 11. Numeri che dovrebbero garantire un iter spedito.
Ma il problema resta comunque sempre quello dell’aula, dove i numeri sono risicati. E i
senatori dovranno pronunciarsi anche su altre proposte. Per esempio, il dimezzamento dei
deputati proposto da democratici e grillini. O il ritorno della competenza del Senato
sulla legge di bilancio. Mario Monti, invece, propone l’abolizione del divieto di mandato per
i deputati. Si propone anche di alzare i quorum per l’elezione del capo dello Stato. Mentre
Forza Italia, in caso di elezione indiretta, propone rigidi criteri proporzionali per la nomina
dei senatori nelle regioni.
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Del 30/06/2014, pag. 4
Riforme, si comincia a votare. Ultimo nodo
l’elezione del Colle
Trenta senatori Pd: «Va modificata la platea dei Grandi elettori per il
Quirinale, altrimenti c’è un rischio plebiscitario»
La replica di Scalfarotto: «Valuteremo, ma gli allarmi sono infondati»
Si apre con oggi un mese bollente sul fronte della riforma del Senato. Trenta giorni in cui si
capirà se la riforma fortemente voluta dal premier Renzi sarà in grado di passare indenne
dalle forche caudine del Senato, dove i dubbi e le proteste, fuori e dentro la maggioranza,
non accennano a placarsi. Nel Pd c’è attesa per l’assemblea del gruppo convocata per
domani. Giovedì sarà la volta di Berlusconi che incontrerà tutti i suoi parlamentari. Oggi
inizianole votazioni in commissione Affari costituzionali, ma c’è un accordo di massima per
posticipare tutti i voti sui nodi più difficili a dopo giovedì. Nel Pd, accanto alla fronda dei 16
guidati da Vannino Chiti che vogliono un Senato eletto direttamente, si sta aprendo
un’altra faglia, dalle dimensioni ancora più consistenti, ad opera di Area riformista, che a
palazzo Madama conta su una trentina di senatori. Secondo Miguel Gotor, uno dei
capofila di questo gruppo di bersanian-lettiani, al di là delle modalità di elezione del nuovo
Senato è nei numeri futuri delle due Camere che s’insidia un problema grosso come una
casa: «Il problema sono i grandi elettori che eleggeranno il Capo dello Stato e gli organi di
garanzia come il Csm e la Corte costituzionale», spiega Gotor a l’Unità.«Con630 deputati
e 100 senatori e una legge come l’Italicum per la Camera, al partito che vince le elezioni
bastano solo 33 senatori per eleggersi da solo il presidente della Repubblica ». Secondo
Gotor, con questo sistema si rischia una «democrazia plebiscitaria di tipo russo con un
presidenzialismo indiretto senza neppure le adeguate garanzie e contrappesi». Il docente
di Storia e senatore Pd fa l’esempio russo della staffetta tra Putin e Medvedev, e spiega:
«Il leader del partito che vince le elezioni può farsi eleggere al Quirinale e poi nominare un
suo alter ego a palazzo Chigi». Per evitare questo rischio, Gotor e gli altri (tra loro anche
Maurizio Migliavacca e Francesco Russo) hanno presentato una serie di modifiche al testo
del governo e anche al pacchetto di emendamenti presentati dai relatori Finocchiaro e
Calderoli. L’obiettivo è riequilibrare la platea dei grandi elettori che elegge il Capo dello
Stato e le strade sono due: la prima è una riduzione contestuale dei deputati a 500; la
seconda, meno impervia, è un allargamento della platea: oltre ai 730 parlamentari (630
deputati e 100 senatori), altri 100 delegati regionali. Inoltre, il fronte bersanian- lettiano
propone che il presidente della Repubblica possa essere eletto a maggioranza assoluta
(50% più uno) solo al settimo scrutinio e non più al quarto. I due relatori Finocchiaro e
Calderoli, consapevoli del problema, hanno già presentato una proposta per aggiungere
60 delegati regionali (3 per regione). Gotor ne propone 5 per regione (100 in tutto) e si
prepara per il voto in Aula (non prima del 10 luglio) a formulare altre proposte per
aggiungere anche «tutti i 73 eurodeputati (una proposta alla camera sarà presentata alla
camera dal Pd Francesco Sanna, ndr) e i sindaci dei Comuni capoluoghi di provincia». In
totale oltre 1000 grandi elettori, più o come nella situazione attuale. «Gli emendamenti che
abbiamo presentato servono a sollevare il problema e ad aprire la discussione», spiega
Gotor. «Non è la battaglia di una minoranza e meno che mai l’intenzione di sabotare la
riforma: il Pd e il governo non possono non essere consapevoli della gravità dei rischi che
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si corrono cambiando la platea degli elettori del Colle». Già stamattina la trentina di
senatori di Area riformista si riunirà per discutere di questo tema. E domani daranno
battaglia nell’assemblea del gruppo. Dal fronte di palazzo Chigi l’idea di mettere mano al
numero dei deputati, almeno per ora,non viene presa in considerazione. Possibile invece
un ulteriore ritocco al numero dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato.
«Finora siamo stati aperti a modifiche e suggerimenti, rispettando l’autonomia del
Parlamento », dice Ivan Scalfarotto, sottosegretario alla e Riforme, che respinge le
allusioni a una democrazia di tipo russo: «Non sta né in cielo né in terra. Ricordo a tutti
che quorum della nostra Costituzione sono stati pensati con una legge proporzionale. E
dunque è dal 1993, con l’introduzione del maggioritario, che il vincitore delle elezioni ha
potenzialmente la possibilità di scegliere “da solo” il presidente della Repubblica. Non mi
pare che siamo in una democrazia alla Putin ». Detto questo, Scalfarotto non esclude
ulteriori ritocchi. Mail governo resta fermo sul numero dei deputati fissato a 630: «L’idea di
ridurli non è presente né nel testo Boschi, né negli emendamenti dei relatori che sono
frutto di un accordo politico».L’emendamento più insidioso per il governo è il 1.011, di
Gotor e Migliavacca, che prevede il taglio dei deputati a 500 e che sta facendo proseliti
anche nelle opposizioni, dal M5s a Forza Italia, lega e Sel. Il premier Renzi, dal canto suo,
si prepara a incontrare in questa settimana tutti i principali partiti: Il Pd, ma anche Forza
Italia e i grillini, con cui è rimasta aperta da mercoledì scorso la discussione sulla legge
elettorale. Continuano a pesare le divisioni dentro Forza Italia. Da un lato il capo dei
senatori Paolo Romani smussa e spiega che «non sono 37 i nostri che hanno sottoscritto
le modifiche di Minzolini». Ma l’ex direttore del Tg1 replica: «Sono proprio 37 e hanno
firmato». Berlusconi però resta fermo al patto con Renzi: «Facciamo passare la riforma in
Senato in prima lettura, poi vediamo se Renzi rispetta gli accordi sull’Italicum...».
del 30/06/14, pag. 1/7
IL CASO
Il Renzi europeo e la formula Erasmus
FILIPPO CECCARELLI
ILBRIVIDO. Il sogno. La creazione. I nostri figli. Gli Stati Uniti d’Europa. Le macerie. La
speranza. Accipicchia, tutto questo in poche righe. E poi lei, a garantire l’immancabile
soffio d’aria fresca: “La generazione Erasmus”.
Renzi d’altra parte l’aveva già richiamata nel suo discorso d’esordio, prima al Senato e poi
alla Camera. Ma a poche ore dall’inizio del semestre europeo s’imprime come un marchio
a fuoco e prova a suonare come una formula magica.
Le peripezie della persuasione sono spesso così contorte da risultare lunari nella loro
sovrabbondanza. Con il che, sia pure di sfuggita, è impossibile far finta che per un intero
ventennio Berlusconi non abbia invocato a pie’ sospinto Erasmo, il filosofo di Rotterdam,
per giustificare come le scelte decisive, le sue, “sono spesso frutto di una lungimirante
follia”. E vabbe’. Nel caso di Renzi si tratta invece della sigla del progetto che dal 1987 a
oggi ha permesso a circa 230 mila giovani italiani di studiare — e non solo! — in Europa:
European Region Action Scheme for the Mobility of Universitary Students, Erasmus
appunto.
Ora, i primi studi sull’approccio della retorica alla pubblicità risalgono ormai alla metà degli
anni 60. Posto che si tratta di trasformare un prodotto in un valore, secondo il modello
degli antichi la via maestra è la metafora, mentre quella indiretta fa riferimento a un’altra
figura, la metonimia, attraverso cui il prodotto è inserito nel contesto che suggerisce quel
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valore. Per farla breve: “Generazione Erasmus” si colloca tra l’uno e l’altro processo
argomentativo — e in tal modo il governo se la intesta.
Il fatto che la medesima espressione sia stata usata dall’ex presidente Letta, e che fra tutti
gli attuali ministri solo la titolare degli Esteri Mogherini abbia effettivamente partecipato da
giovanissima al progetto Erasmus avvalora semmai l’antica saggezza dei classici e
l’eterna potenza della retorica, che nell’uso corrente è da intendersi però anche come
ipocrita ed enfatica ampollosità.
Sia come sia, “il ragazzo è bravo con le parole” ha decretato già nel marzo scorso
Berlusconi. Ha aggiunto ad aprile Fedele Confalonieri, che pure lui se ne intende: “Renzi
ha il marketing incorporato”. Anche questo risulta storicamente acclarato. Finita la scuola,
secondo svariate ricostruzioni biografiche Matteo ha lavorato nell’azienda di famiglia
(“Chil”, poi “Eventi6”) per invogliare l’acquisto di giornali con relativi allegati. A seconda del
tipo di prodotti, fossero dispense della “Divina commedia”, videocassette western o cd di
opera lirica, il futuro premier disponeva presso le edicole figuranti mascherati da Dante
Alighieri, o da cow-boy o da Giuseppe Verdi.
Giusto allora stava crollando la Prima Repubblica, ma già da tempo le antiche culture
politiche — chi più, chi meno — avevano ceduto alle lusinghe del mercato, dei consumi e
della modernizzazione (sondaggi, spot, agenzie pubblicitarie, consulenti e poi manager
della comunicazione). Tanto proviene Renzi da quella temperie, tanto profondamente ha
introiettato quel particolare know-how, che quando tre settimane orsono si trovava in Cina,
Erasmus o non Erasmus, se n’è uscito: “La politica è stato il peggior manager dell’Italia,
dobbiamo cambiare direttore commerciale e del marketing”.
Ecco, l’impressione è che proprio con lui questa sostituzione stia accadendo. Dalla più
remota preistoria emerge non solo il ricordo del periodare di Moro, delle litanie
berlingueriane o dei “ragionamendi” di De Mita, ma anche delle più brusche e colloquiali
formulazioni di Craxi. Di più: pare invecchiatissima anche la poliedrica e a suo tempo
smagliante novità del linguaggio berlusconiano. In altre parole, comunque vada a finire,
Renzi, l’uomo che propone “House of cards” nelle scuole di formazione, ha annichilito, o
superato, o se si vuole portato a compimento un ciclo di gloriosa oratoria politica.
E’ più facile adesso chiamarla “comunicazione”, ma quella del premier assomiglia piuttosto
a una “turbo-comunicazione” che in larga misura si connota, secondo Giovanni Orsina,
come una conseguenza e una risposta alla crisi sempre più drammatica delle istituzioni.
Dal punto di vista tecnico si tratta di pillole, atomi, tweet, ritornelli e tormentoni che
perseguono un “procedimento pavloviano” e “si fissano nell’incoscio”, dixit Carlo Freccero.
In pochi mesi gli osservatori hanno raccolto la più copiosa messe di strategie discorsive a
velocità istantanea e opportuni sussidi audio e a base di slide. #Arrivoarrivo,
#coseconcrete, #iocicredo, #cambiareverso, #SbloccaItalia, #lasvoltabuona. E poi: “Ci
metto la faccia”, “Mi gioco l’osso del collo”, “Batti il cinque”, “il Patto di stupidità”, “i mitici 80
euro”, “L’Italia tornerà a sorridere”. E ancora: “Gufi e rosiconi”, “la palude”, “il rullo
compressore”, “la rivoluzione”, “i Daspo” e innumerevoli altri riferimenti calcistici, pure
alimentati da permanenti consegne e scambi rituali di maglie.
Quanto alla prova dei fatti, è troppo presto per dire. La generazione Erasmus, d’altra parte,
ha sì un bel po’ di tempo davanti a sé, ma proprio in quanto tale dovrebbe essere meno
disposta a lasciarsi incantare dalle chiacchiere.
del 30/06/14, pag. 1/10/11
Berlusconi cambia idea “Diritti civili ai gay”
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L’EX CAVALIERE “CONVINTO” DALLA PASCALE
ALESSANDRA LONGO
DIAVOLO di una Francesca Pascale. A pochi giorni dal Gay pride, e a poche ore
dall’iscrizione sua e di Vittorio Feltri all’Arcigay, ecco che Silvio Berlusconi la segue a ruota
e diventa appassionato paladino dei diversamente tutelati. Apertura mai così netta.
«Quella per i diritti civili degli omosessuali — dice l’ex Cavaliere — è una battaglia che in
un Paese davvero moderno e democratico dovrebbe essere un impegno di tutti».
Impossibile non pensare che l’improvvisa accelerazione non sia collegata ad una
chiacchiera tra le mura di casa, magari con Dudù sulle ginocchia. Comunque vada, sia
merito dell’influenza della Pascale su Silvio, o di una folgorazione personale, Franco
Grillini, presidente di Gaynet, deve ammettere che «qualcosa a destra si muove»: «Magari
Berlusconi si fosse pronunciato così 20 anni fa! In passato invece è stato birichino. Ma se
è vero quel che dice adesso è un segnale forte che isola politicamente Giovanardi e gli
ultra clericali di Alfano ». Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center, rilancia: «Se
Berlusconi vuole abbiamo la tessera già pronta per lui».
Parole così chiare sui diritti dei gay aprono un capitolo nuovo nell’anedottica del già
presidente del consiglio ora ai servizi sociali. Un anno fa c’era stata, invero, un’uscita
possibilista sul riconoscimento delle coppie gay, lasciata però affogare in un mare di
battutacce da caserma. Silvio e i gay: una lunga sequenza di ammiccamenti di basso
profilo. Per esempio, nel novembre 2010, al Salone internazionale del ciclo e motociclo,
quando il Nostro, in pieno scandalo sessuale, se ne uscì così: «Meglio essere
appassionati delle belle ragazze che essere gay». Giù risate in platea. Mentre un gruppo
Facebook attrezzava la risposta: «Meglio gay che Berlusconi».
Non proprio elegante, certo poco liberal come pretende di essere adesso: «Ritengo, da
liberale, che attraverso un confronto ampio e approfondito si possa raggiungere un
traguardo ragionevole di giustizia e di civiltà». Miracolo Pascale, appunto. Pensate che nel
2009, in visita al cantiere di Bazzano, sui luoghi del terremoto aquilano, il suo scherzo con
gli operai fu questo: «Ragazzi, se tutto va bene, ve le porto le veline, le minorenni,
altrimenti ci prendono tutti per gay». Frase accompagnata dal dito che toccava il lobo
dell’orecchio. Tutto si tiene. La sua amicizia con Putin, sponsor della legge contro la
propaganda omosex, nasce dal feeling comune. Nel tentativo di difendere Silvio, alle
prese con una bufera giudiziaria dietro l’altra, ecco cosa disse «Vladi»: «Se Berlusconi
fosse stato gay non lo avrebbero toccato con un dito».
I gay, un’ossessione: «Tutti dall’altra parte». Questo pensava Berlusconi nel 2006 (la
Pascale non aveva ancora il controllo della situazione). L’occasione: un comizio per la
campagna elettorale del candidato sindaco di Monza. Piovvero commenti indignati.
Durissima Titti De Simone, di Rifondazione: «Il Cavaliere ha un doppio pregiudizio: “Siamo
tutti non solo froci ma anche comunisti!”». Intervenne persino Franco Zeffirelli, pur
estimatore di Forza Italia: «Supplicherei Silvio di non dire sempre battute spiritose ad ogni
occasione, a scanso di fraintendimenti». Invito non raccolto perché due anni dopo, eccolo
di nuovo commentare il siluramento di Rocco Buttiglione alla Commissione Europea causa
dichiarazioni omofobe. All’Italia venne assegnata la Commissione Trasporti
anziché quella della Giustizia. Reazione: «Meglio occuparci di infrastrutture e trasporti che
di omosessualità ».
E non prometteva nulla di buono nemmeno il 2014. Solo nel febbraio scorso, il presidente
di Forza Italia, nel presentare l’astro nascente Giovanni Toti, non trovò meglio che
precisare: «Ci vedete sempre assieme ma vi assicuro che non è gay». Negli stessi giorni
la sua vestale, Micaela Biancofiore, si dava da fare per difendere Dudù dalle insinuazioni
che ne facevano un cane gay. Come vedete, argomento primario. Di queste ore
l’inversione di tendenza. I diritti civili degli omosessuali diventano la madre di tutte le
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battaglie. Esultano le Associazioni. Vladimir Luxuria invita al Gay Village di Roma anche
Marina Berlusconi: «Se accetta le canto “Marina, Marina, Marina”, al Gay Village ti voglio
invitar...».
Del 30/06/2014, pag. 5
Ncd, Lupi resta ministro
Gruppo con i centristi
Il tempo scade oggi e Maurizio Lupi fino all’ultimo potrebbe tentare il colpo: lasciare il
ministero delle Infrastrutture, soddisfare il progetto di Renzi di togliere peso nell’esecutivo
al Nuovo centro destra di Alfano così ridimensionato dal voto europeo e avviare, a quel
punto come coordinatore di Ncd, la marcia di riavvicinamento a Forza Italia. Ma troppi
fattori, non ultima la difficoltà di spiegarlo alla base del partito, muove contro questa scelta.
E ieri sera, gli ultimi faccia a faccia con lo stesso Alfano lo hanno convinto a rinunciare allo
scranno europeo e a restare al suo posto. «Lupi resta dov’è - spiega una fonte qualificata
di Ncd - perchè ha capito che se decidesse diversamente sfascerebbe un partito e un
intero progetto politico che punta non certo a seguire la deriva lepenista di Forza Italia e
Lega ma a creare un blocco di peso al centro grazie alla nascita dei gruppi parlamentari
unici con Udc e ex di Scelta civica e Popolari». Un blocco che potrebbe arrivare a un
centinaio di parlamentari e diventare decisivo in alcuni passaggi della legislatura. Il diritto
di opzione tra parlamento europeo e parlamento italiano scade oggi. Una decisione
sofferta, quella di Lupi, che avrebbe molto volentieri lasciato le Infrastrutture per prendere
in mano Ncd, riportarlo sotto l’ombrello di Forza Italia e cominciare da qui la marcia di
avvicinamento verso palazzo Marino, marcia per cui il pupillo di Comunione e Liberazione
avrebbe bisogno dei voti di Forza Italia e Lega. La scelta di Lupi intreccia tre tavoli e tre
partite diverse. E racconta della divisione che sta attraversando il Nuovo centro destra di
Alfano a sua volta in crisi di leadership e sempre più stretto al Viminale dove il premier
Renzi vedrebbe volentieri uno suo fedelissimo. Il primo tavolo e la prima partita riguardano
l’esecutivo. Dopo i risultati delle Europee il premier Renzi giudica «sproporzionati quattro
ministeri di quel peso per due partiti, Ncd e Udc, che hanno preso il 4,4 per cento».
Indiscrezioni dicono che punterebbe a traslocare Alfano dal Viminale alla Farnesina
qualora l’attuale ministro, Federica Mogherini, diventasse Commissario Ue. Non c’è
dubbio che a Renzi farebbe comodo anche avere libera la cabina di comando del
ministero di Porta Pia (Infrastrutture e Lavori Pubblici) che, a suon di cantieri e investimenti
e nodo appalti, sarà la prossima scommessa sul tavolo europeo. Ma per ora non
sembrano arrivare aiuti da parte degli alfaniani. I quali hanno aperto al loro interno una
doppia partita, su due tavoli distinti e con rispettive formazioni. Lupi guida una pattuglia di
nostalgici della vecchia casa madre. Vi si potrebbero annoverare nomi come il
sottosegretario Casero, il capogruppo Nunzia De Girolamo, la portavoce Barbara
Saltamartini. Ciascuno è mosso da motivi diversi. Più in generale, e tutti insieme,
rivendicano le potenzialità del centrodestra una volta riunificate le varie sigle in un unico
condominio che, si spiega, «riconosce a Berlusconi il ruolo dell’allenatore e del coach». Il
sempreverde padre nobile. Ma Ncd resta soprattutto «un progetto politico di centro e poi di
destra diverso da Berlusconi e da Forza Italia che ha preso chiaramente una deriva
lepenista ». È, questo, il terzo tavolo dove si gioca la terza partita. Ascrivibili a questo
tavolo sono Alfano, Quagliariello, il ministro Lorenzin, Fabrizio Cicchitto, Schifani, il
capogruppo al Senato Maurizio Sacconi, tuttora la maggioranza di Ncd. Il loro piano è
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l’unificazione al centro di un gruppo parlamentare unico che metta insieme Ncd e i centristi
con il ruolo di ago della bilancia pur in un sistema bipolare. In questa partita a tre la scelta
di Lupi poteva - non è detto che non possa in un secondo momento - essere l’elemento di
accelerazione. La parte di Ncd che vorrebbe ricucire con Forza Italia - e che resta in
contatto con Maria Rosaria Rossi e Verdini e Toti - ha tentato di solleticare Renzi
mettendo sul tavolo oltre alle Infrastrutture anche l’anima stessa di Ncd. Lupi in Europa e
non più ministro, infatti, potrebbe diventare il nuovo coordinatore del partito al posto di
Quagliariello a cui certo non attraversa il cervello l’ipotesi di un ricongiungimento con la
Forza Italia di Berlusconi. Ecco che si è provato a proporre al premier lo spacchettamento
del ministero della Pubblica Istruzione (guidato da Giannini, Scelta Civica che non esiste
più) in Scuola (che resterebbe, ridimensionato, a Giannini) e Università a cui era stato
destinato l’attuale coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello. Un vecchio gioco di prestigio
a cui Renzi non ha prestato neppure un secondo di attenzione. Sicuro però che prima o
poi, in un modo o nell’altro, va risolta questa cosa di un partito del 4% che occupa quattro
ministeri di peso.
del 30/06/14, pag. 7
Forze armate, si abbassa l’età
Il libro bianco della Pinotti: “Un esercito veloce, giovane, informale”. Ma
anche costoso
Francesco Grignetti
Ecco le forze armate che il governo Renzi vorrebbe. Veloci, giovani, informali. Come piace
a lui e come piace anche a Roberta Pinotti, il ministro della Difesa, che nella sua cauta ma
decisa rottamazione dell’esistente ha ottenuto il pieno appoggio del Quirinale. Sono
finalmente pubbliche sul sito del ministero, infatti, le 90 tesi della Pinotti sulla Difesa che
sarà. Quelle linee guida che ha illustrato alcuni giorni fa al Consiglio supremo di Difesa.
E dunque: il governo ritiene che occorrano forze armate veloci, giovani e informali. Il preLibro Bianco mette in discussione il sistema attuale degli arruolamenti, con pochi militari a
ferma triennale e il resto a vita. Per la Pinotti, così non va: «Genera una elevata età media
del personale, minore flessibilità di impiego ed operatività dei Reparti, e costi complessivi
elevati». Né va meglio con l’architettura gerarchica: «Le presumibili esigenze di
adeguamento della struttura organizzativa e funzionale, anche in un’ottica di convergenza
europea, avranno sicuramente un impatto su altre tematiche relative al personale, quali la
strutturazione ordinativa, la “piramide gerarchica” e le correlate progressioni di carriera».
Brutte notizie in arrivo, dunque, per i generali. I quali fino a due anni fa erano 443 e
dovrebbero ridursi a 310. Sempre tanti, comunque, a fronte dei 984 degli Stati Uniti. Da
noi, c’è in media un generale ogni 380 militari; da loro, uno ogni 1440.
Sono le regole stesse del pubblico impiego, troppo ingessate e burocratiche, a non essere
più all’altezza della sfida a cui sono chiamate le forze armate del futuro: «Occorre
interrogarsi - si legge nella contorta prosa delle linee guida - se la condizione di militare e
le relative assolute peculiarità, anche di impiego e di stato giuridico, non possano essere
meglio garantite e rese di maggiore utilità per il Paese riconoscendo a tale condizione una
differenza tanto marcata dal pubblico impiego da superare il rapporto di genere e specie
che, fino ad ora, ha condizionato entrambi i domini».
Pare prefigurarsi alla Difesa una vera rivoluzione, insomma, che non si limiterà al
riequilibrio della spesa, così come impostata dall’ex ministro Giampaolo Di Paola ai tempi
del governo Monti. Quello voleva risparmiare sugli stipendi per spendere di più
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sull’esercizio (l’addestramento e la manutenzione) e sugli investimenti (i nuovi sistemi
d’arma). Al governo Renzi pare superata perfino la tripartizione della spesa. Quantomeno
andrebbero fuse le spese per funzionamento e per investimento. «Analogamente, un
patrimonio immobiliare privato di una corretta manutenzione genera nel tempo
esclusivamente un deprezzamento netto del suo valore».
L’esercito del futuro, comunque, non costerà poco. Le armi moderne, tipo i
cacciabombardieri, dovranno esserci. Sul punto, la Pinotti ama parlar chiaro: «Nel nostro
Paese, purtroppo, manca una piena e diffusa comprensione di quale sia il costo da pagare
affinché siano garantiti quei diritti cui tutti fanno costante riferimento e che trovano
fondamento proprio nella nostra conquistata libertà».
del 30/06/14, pag. 1/13
“Così noi della Cia vi abbiamo salvato dai
comunisti”
Paolo Mastrolilli
«Senza la Cia, il Partito comunista, nel quale i sovietici avevano enormi interessi, avrebbe
sicuramente vinto le elezioni del 1948». Dopo quel voto, i finanziamenti e gli aiuti dei
servizi segreti americani ai gruppi «democratici» proseguirono ancora per diversi anni, e la
stessa Gladio fu creata dalla «Company», per far capire che «gli Stati Uniti erano seri nel
sostenere l’Italia e darle i mezzi per difendersi».
Non sono voci queste, ma fatti che l’ex capo stazione della Cia a Roma, Jack Devine,
rivela per diretta conoscenza nel suo nuovo libro «Good Hunting».
Devine racconta anche l’incontro con Giovanni Paolo II e spiega come Roma fosse il
centro della lotta contro Mosca.
Devine è stato una colonna dei servizi americani, coinvolto in tutte le operazioni più
importanti del secolo scorso, da Iran-Contra al Cile. Nel 1988 fu nominato capo della sede
di Roma, e per le informazioni sugli anni precedenti si è avvalso delle notizie ricevute da
un altro mito della «Company», l’ambasciatore Montgomery, che ha lavorato a lungo in
Italia.
Il presidente Truman aveva incaricato l’Agenzia di combattere una guerra clandestina
contro l’Urss, e il nostro paese «era il primo campo di battaglia politico». Per contrastare
l’influenza del Pci, Truman aveva «autorizzato la Cia a rovesciare soldi nelle elezioni,
attraverso giornali, periodici, trasmissioni radio, manifesti, volantini e organizzazioni
politiche». Senza questo intervento, secondo Montgomery, «il Partito comunista avrebbe
sicuramente vinto». Devine aggiunge che «col passare del tempo, i partiti democratici
divennero abbastanza forti da reggersi sui propri piedi, e non ebbero più bisogno del
supporto e il finanziamento clandestino dell’Agenzia». Questo significa che gli aiuti erano
proseguiti anche dopo il 1948, e il modello Italia era stato un tale successo da replicarlo in
altri paesi, tipo il Cile.
Jack era a Roma quando era scoppiato il caso Gladio, e nell’ammettere il ruolo avuto dalla
Cia ricorre ancora a Montgomery, che spiega l’operazione come un sostegno materiale
alla resistenza contro l’Urss, ma anche una garanzia della lealtà americana verso Roma:
«Così sapevano che gli Usa erano seri nel sostenere l’Italia, dandole i mezzi per
difendersi. Gladio fu un fattore preponderante per la stabilità in Italia e nell’intera regione».
Poi aveva deviato, ed erano arrivati i sospetti del coinvolgimento in episodi terribili come la
strage di Bologna. Ma a quel punto «l’Agenzia aveva perso interesse in Gladio».
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Quando era arrivato in Italia, il compito principale di Devine erano gli «hard targets, inclusi
i russi e i loro alleati del blocco orientale, che avevano una enorme presenza a Roma.
Migliaia di rifugiati ebrei arrivavano allora dalla Russia, prima di essere mandati verso le
destinazioni finali in Israele o negli Usa. Molti di questi rifugiati erano ingegneri, scienziati,
e altri con un alto background tecnico. Possedevano intelligence di valore, quindi
bisognava interrogarli». L’agente che si occupava di spiare i russi a Roma era Aldrich
Ames, che poi sarebbe diventato il più famoso traditore della «Company». Proprio mentre
era nel nostro Paese, aveva accumulato su un conto svizzero oltre un milione di dollari,
ricevuti da Mosca per vendere i suo colleghi. Il suo interlocutore era l’agente del Kgb
Aleksey Khrenkov, sempre basato in Italia. Una volta in ambasciata si era presentato un
alto funzionario dell’Europa orientale, per offrire segreti agli Usa. Lo chiamarono in codice
«Motorboat», e Devine ordinò a Ames di sottoporlo alla macchina della verità. Durante
l’interrogatorio, «Motorboat» confidò ad Aldrich che un alto esponente della Cia stava
tradendo i propri compagni, passando le loro identità al Kgb che poi li eliminava. Ames
naturalmente informò subito i servizi russi del tradimento di «Motorboat», girando loro tutte
le informazioni che gli aveva dato a Roma.
Anche i servizi italiani spiavano i movimenti di Devine, che un giorno seppe di essere sotto
particolare sorveglianza. All’inizio non aveva capito il perché, ma poi scoprì che proprio
quel giorno gli agenti italiani dovevano incontrare un importante contatto russo, e non
volevano che lui lo sapesse.
Jack, di origini irlandesi, aveva chiesto di incontrare Giovanni Paolo II, per ringrazialo
dell’opera svolta per aprire l’Europa orientale. Quando si erano visti, il papa gli aveva
posto una domanda imbarazzante: «Lei dove lavora?». Per non mentire al pontefice, e
non violare la sua copertura, Devine aveva risposto che era un impiegato del governo
americano: «Penso di aver notato sul suo volto uno scaltro sorriso d’intesa».
L’ex capo stazione ricorda anche gli incontri abituali che aveva con un politico di grande
esperienza e molto saggio, che amava mangiare la pasta con parecchio peperoncino
rosso. Poi le visite con i colleghi italiani alla National Security Agency, vent’anni prima
dello scandalo Snowden, e le passeggiate nei giardini di Villa Taverna con l’allora capo
della polizia, che quando partì lo invitò a cena in un noto ristorante, fatto svuotare apposta
affinché fossero soli: «Una dimostrazione del suo potere, di cui peraltro non avevo mai
dubitato».
«Senza la Cia, il Partito comunista, nel quale i sovietici avevano enormi interessi, avrebbe
sicuramente vinto le elezioni del 1948». Dopo quel voto, i finanziamenti e gli aiuti dei
servizi segreti americani ai gruppi «democratici» proseguirono ancora per diversi anni, e la
stessa Gladio fu creata dalla «Company», per far capire che «gli Stati Uniti erano seri nel
sostenere l’Italia e darle i mezzi per difendersi».
Non sono voci queste, ma fatti che l’ex capo stazione della Cia a Roma, Jack Devine,
rivela per diretta conoscenza nel suo nuovo libro «Good Hunting».
Devine racconta anche l’incontro con Giovanni Paolo II e spiega come Roma fosse il
centro della lotta contro Mosca.
Devine è stato una colonna dei servizi americani, coinvolto in tutte le operazioni più
importanti del secolo scorso, da Iran-Contra al Cile. Nel 1988 fu nominato capo della sede
di Roma, e per le informazioni sugli anni precedenti si è avvalso delle notizie ricevute da
un altro mito della «Company», l’ambasciatore Montgomery, che ha lavorato a lungo in
Italia.
Il presidente Truman aveva incaricato l’Agenzia di combattere una guerra clandestina
contro l’Urss, e il nostro paese «era il primo campo di battaglia politico». Per contrastare
l’influenza del Pci, Truman aveva «autorizzato la Cia a rovesciare soldi nelle elezioni,
attraverso giornali, periodici, trasmissioni radio, manifesti, volantini e organizzazioni
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politiche». Senza questo intervento, secondo Montgomery, «il Partito comunista avrebbe
sicuramente vinto». Devine aggiunge che «col passare del tempo, i partiti democratici
divennero abbastanza forti da reggersi sui propri piedi, e non ebbero più bisogno del
supporto e il finanziamento clandestino dell’Agenzia». Questo significa che gli aiuti erano
proseguiti anche dopo il 1948, e il modello Italia era stato un tale successo da replicarlo in
altri paesi, tipo il Cile.
Jack era a Roma quando era scoppiato il caso Gladio, e nell’ammettere il ruolo avuto dalla
Cia ricorre ancora a Montgomery, che spiega l’operazione come un sostegno materiale
alla resistenza contro l’Urss, ma anche una garanzia della lealtà americana verso Roma:
«Così sapevano che gli Usa erano seri nel sostenere l’Italia, dandole i mezzi per
difendersi. Gladio fu un fattore preponderante per la stabilità in Italia e nell’intera regione».
Poi aveva deviato, ed erano arrivati i sospetti del coinvolgimento in episodi terribili come la
strage di Bologna. Ma a quel punto «l’Agenzia aveva perso interesse in Gladio».
Quando era arrivato in Italia, il compito principale di Devine erano gli «hard targets, inclusi
i russi e i loro alleati del blocco orientale, che avevano una enorme presenza a Roma.
Migliaia di rifugiati ebrei arrivavano allora dalla Russia, prima di essere mandati verso le
destinazioni finali in Israele o negli Usa. Molti di questi rifugiati erano ingegneri, scienziati,
e altri con un alto background tecnico. Possedevano intelligence di valore, quindi
bisognava interrogarli». L’agente che si occupava di spiare i russi a Roma era Aldrich
Ames, che poi sarebbe diventato il più famoso traditore della «Company». Proprio mentre
era nel nostro Paese, aveva accumulato su un conto svizzero oltre un milione di dollari,
ricevuti da Mosca per vendere i suo colleghi. Il suo interlocutore era l’agente del Kgb
Aleksey Khrenkov, sempre basato in Italia. Una volta in ambasciata si era presentato un
alto funzionario dell’Europa orientale, per offrire segreti agli Usa. Lo chiamarono in codice
«Motorboat», e Devine ordinò a Ames di sottoporlo alla macchina della verità. Durante
l’interrogatorio, «Motorboat» confidò ad Aldrich che un alto esponente della Cia stava
tradendo i propri compagni, passando le loro identità al Kgb che poi li eliminava. Ames
naturalmente informò subito i servizi russi del tradimento di «Motorboat», girando loro tutte
le informazioni che gli aveva dato a Roma.
Anche i servizi italiani spiavano i movimenti di Devine, che un giorno seppe di essere sotto
particolare sorveglianza. All’inizio non aveva capito il perché, ma poi scoprì che proprio
quel giorno gli agenti italiani dovevano incontrare un importante contatto russo, e non
volevano che lui lo sapesse.
Jack, di origini irlandesi, aveva chiesto di incontrare Giovanni Paolo II, per ringrazialo
dell’opera svolta per aprire l’Europa orientale. Quando si erano visti, il papa gli aveva
posto una domanda imbarazzante: «Lei dove lavora?». Per non mentire al pontefice, e
non violare la sua copertura, Devine aveva risposto che era un impiegato del governo
americano: «Penso di aver notato sul suo volto uno scaltro sorriso d’intesa».
L’ex capo stazione ricorda anche gli incontri abituali che aveva con un politico di grande
esperienza e molto saggio, che amava mangiare la pasta con parecchio peperoncino
rosso. Poi le visite con i colleghi italiani alla National Security Agency, vent’anni prima
dello scandalo Snowden, e le passeggiate nei giardini di Villa Taverna con l’allora capo
della polizia, che quando partì lo invitò a cena in un noto ristorante, fatto svuotare apposta
affinché fossero soli: «Una dimostrazione del suo potere, di cui peraltro non avevo mai
dubitato».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 30/06/14, pag. 1/18
Il pm Nordio: politici avidi Mose peggio di
Tangentopoli
FABIO TONACCI
UN SINDACO costretto a dimettersi, un deputato ex ministro che chiede alla Camera di
risparmiargli il carcere, 34 arresti confermati, qualche confessione, molte polemiche. «E
l’indagine non è certo finita qui…», dice il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio,
troncando la frase a metà per non scalfire quel segreto istruttorio cui è obbligato. A 26
giorni dalla grande retata, riflette su quanto è accaduto.
E SU cosa ci dobbiamo aspettare ancora
Due giudici, il gip e il gup, e il tribunale del Riesame si sono espressi sul vostro
lavoro. Come ne esce l’inchiesta?
«Decisamente rafforzata. Proprio sabato il Riesame ha confermato il carcere per due
indagati chiave, l’assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso e il suo assistente.
E anche quando le misure sono state mitigate, ciò è avvenuto non per il venir meno degli
indizi, ma perché il tribunale non ha ravvisato esigenze cautelari restrittive. L’impianto
probatorio ha retto».
Che siano stati creati fondi neri dal Consorzio Venezia Nuova è ormai assodato.
Sono meno evidenti, invece, gli indizi che i soldi siano finiti alla politica. Avete
trovato riscontri oggettivi?
«Parte dell’inchiesta è ancora segreta e quindi non posso rispondere. Mi limito a dire che
la corruzione era indirizzata maggiormente a singoli individui, non necessariamente inseriti
nella politica».
E però l’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e il deputato Giancarlo Galan,
lamentano, esplicitamente o meno, il fumus persecutionis. E così?
«Difendersi con tutti gli argomenti disponibili è un diritto sacrosanto. Il gip, però, ha
rigettato l’istanza di
patteggiamento proposta da Orsoni, e accolta dalla procura, perché troppo mite. Ha detto
che siamo stati troppo buoni, non persecutori».
Era proprio necessario chiedere i domiciliari per Orsoni?
«Le richieste della procura sono agli atti, e a esse mi richiamo senza commentare.
Osservo però che l’indagato è stato tenuto agli arresti domiciliari, cioè a casa sua, non ai
piombi o in carcere duro».
Gira voce che alcuni pm abbiano ammesso di “essere stati troppo severi” con lui.
«È assolutamente falso. Nessuno di noi si è mai sognato di dire una cosa del genere».
Nel parere positivo alla revoca dei domiciliari, la procura ha descritto le pressioni
del Partito democratico su Orsoni per costringerlo a chiedere i fondi a Mazzacurati...
Che responsabilità hanno i partiti, dal Pd al Pdl?
«Il nostro parere favorevole alla richiesta di patteggiamento del sindaco nasceva dal fatto
che abbiamo considerato plausibili le sue spiegazioni: aver assecondato le richieste del
partito. Del resto le varie reazioni sui costi della politica e sulla quasi inevitabilità di
finanziamenti clandestini dimostrano che il problema è ancora insoluto».
Molti reati, tra cui il finanziamento illecito di cui è accusato l’ex sindaco, finiranno in
prescrizione.
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«Non è detto. Noi siamo sicuri di poter concludere il nostro segmento di processo entro un
anno, almeno per le posizioni più a rischio».
Galan sostiene che il lavoro della Guardia di Finanza sia stato “omissivo”. Perché
avete preso in considerazione i suoi redditi solo dal 2000 in poi?
«Tutto quello che c’è a carico a Galan lo abbiamo scritto negli atti».
Perché non lo avete voluto ascoltare? I suoi legali ve lo hanno chiesto tre volte…
«A un’audizione inevitabilmente lacunosa e dispersiva, quale sarebbe stata quella di
Galan, abbiamo ritenuto più utile avere una memoria articolata e documentata. Si è poi
visto che essa è stata presentata solo al Parlamento e pare sia di settecento pagine:
quanto tempo ci sarebbe voluto per spiegarle tutte oralmente, in modo organico e
sistematico?».
Ma non c’è stata neanche una valutazione sbagliata, o perlomeno affrettata, da parte
vostra?
«Non credo. Anche se il rischio di incorrere nell’errore giudiziario è sempre dietro
l’angolo».
Minutillo, Baita, Mazzacurati, Buson...sono i vostri testimoni chiave. Che prove
avete della loro attendibilità?
«Anche in questo caso non posso rispondere. Dico però che le loro versioni sono
assolutamente coincidenti. E sono state avallate dagli interrogatori degli indagati».
Come ha reagito la politica alla vostra inchiesta?
«Una volta tanto non ci sono state reazioni scomposte, tutti hanno riconosciuto la serietà
del nostro lavoro. E di questo siamo umilmente fieri».
L’indagine sul Mose può aver influenzato il voto della Camera sulla responsabilità
civile per i giudici?
«Non credo. La responsabilità civile è argomento serio, che va affrontato in termini
razionali e non emotivi, come invece si sta facendo in questi giorni quando sento dire “chi
sbaglia paga”».
E la città di Venezia, come l’ha presa?
«La gente è molto arrabbiata. Si complimenta con noi e ci chiede “la libbra di
carne”…Siamo noi che dobbiamo controllare l’ira popolare».
Lei si è occupato, negli anni Novanta, della Tangentopoli veneta. Quali analogie ha
trovato con questa nuova stagione di mazzette?
«L’avidità insaziabile e l’assoluto disinteresse verso la buona gestione delle risorse
pubbliche dei protagonisti. Oggi però le tangenti sono molto più consistenti, e sono
coinvolti anche soggetti investiti di funzioni di controllo».
Avete segnali che i tanti project financing emessi dalla Regione Veneto siano stati
“inquinati”?
«No comment».
Possibile che ogni grande opera pubblica in Italia finisca sotto inchiesta?
«In questi anni non si è fatto nulla per combattere veramente la corruzione. Ci si è limitati
ad agire sulle leggi penali, ora mitigando le pene, come nel falso in bilancio, ora
aggravandole, come nella corruzione. Senza riflettere che ai corrotti non interessa niente
la sanzione minacciata, quando poi, nel collasso del nostro sistema, i processi si
sgretolano nel tempo. Bisognava ridurre le leggi, semplificare le procedure e ridurre le
pene, rendendole però certe. Vasto programma, direbbe De Gaulle».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 30/06/14, pag. 11
Nel deserto, per mare e senza i genitori La
fuga dei migranti bambini
Giuseppe Guastalla
Ci può essere una tragedia più grande dell’ essere costretti a lasciare la propria terra per
paura o per fame? Sì, doverlo fare da bambini, e da soli. Sono decine di migliaia i
minorenni abbandonati a se stessi che come gli adulti ogni anno affrontando da clandestini
mari e deserti pericolosi sognando una vita migliore. Molti finiscono nelle mani dei
trafficanti spietati e senza scrupoli ad alimentare il mercato della pedofilia, altri vengono
costretti a combattere con le armi e altri ancora muoiono durante il viaggio per gli stenti o
le ferite.
I flussi migratori dei minori non accompagnati seguono esattamente quelli dei maggiorenni
che entrano o tentano di entrare nelle nazioni più progredite fuggendo dalla criminalità
diffusa in alcuni Paesi del Centroamerica o dalle guerre regionali dell’Africa e del
Medioriente, oppure, più semplicemente, cercando condizioni migliori. Ed infatti, sono
sempre più i bambini al di sotto dei 17 anni, ma soprattutto quelli che hanno meno di 13
anni, che tentano di varcare il confine tra Messico e Stati Uniti o che si imbarcano sulle
carrette del mare che attraversano il Mediterraneo.
Nel 2011 furono 4.059, già due anni dopo sono diventati circa 21 mila e per quest’anno le
stime delle autorità di frontiera americane dicono che saranno addirittura oltre 60 mila i
minori clandestini non accompagnati che saranno fermati sul territorio americano
provenienti da Messico, Guatemala, Honduras e Salvador. Ad attrarre questa massa di
giovanissimi in molti casi sbandati è la convinzione che una volta entrati non dovranno
rischiare la vita attraversando il deserto perché, messo piede sul suolo americano,
difficilmente saranno rimandati indietro. Ed infatti i rimpatri sono stati appena un paio di
migliaia l’anno scorso. Questo perché la legge statunitense prevede che, dopo il fermo al
confine, i minori vengano sottoposti a processi che possono anche durare anni. Nel
frattempo, però, possono essere affidati ai parenti, se ne hanno negli Usa, oppure a
famiglie americane che, nel 50 per cento dei casi, finiscono per adottarli legalmente. Ed è
così che sono gli stessi genitori a pagare tra 6 e 7 mila dollari ai trafficanti per far partire i
figli, sia per riunirsi a loro negli Usa sia sperando che da soli trovino in America un futuro
migliore. Ma ora le cose stanno cambiando. Pressato dai repubblicani, che lo accusano di
favorire questo tipo di immigrazione, e dopo che una quarantina di senatori gli ha chiesto
di dichiarare pubblicamente che coloro che passano illegalmente i confini non ottengono
un trattamento speciale, il presidente Barack Obama ha cambiato marcia. «Assolutamente
non mandate i vostri bambini da soli» perché «saranno rimandati indietro» ha detto
giovedì rivolgendosi dalle telecamere della Abc ai genitori centroamericani. «Non
sappiamo quanti di loro non ce la fanno, quanti sono finiti nel traffico sessuale o uccisi
perché sono caduti dal treno», ha aggiunto riferendosi alla «Bestia», un convoglio che
attraversa il Messico sul quale ogni anno salgono migliaia di immigranti illegali stipati
dentro e sui tetti dei vagoni merci. Con una lettera che sarà firmata oggi, Obama chiederà
al Congresso due miliardi di dollari per varare misure specifiche come l’apertura di nuovi
centri di accoglienza al confine con il Messico e un percorso accelerato per le procedure di
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identificazione e rimpatrio dei minorenni clandestini, lo stesso che già viene applicato nei
confronti dei messicani grazie ad accordi bilaterali Messico-Usa.
Due bambini sporchi e vestiti di stracci per qualche spicciolo lustrano le scarpe dei
passanti lungo la strada. Sono siriani, soli, ma a Beirut di loro nessuno si cura. Ce ne sono
tanti come loro, fanno parte dei 4.150 bambini che secondo l’Unicef da soli hanno
attraversato i confini della Siria, 1.700 dei quali sono arrivati in Libano, ma ci sono anche
300 che dall’Iraq si sono rifugiati in Kurdistan. Tutti «semplicemente per avere salva la
vita» messa in pericolo dai combattimenti, spesso «mandati via dai propri genitori per la
paura che potessero essere arruolati», si legge sul sito dell’organizzazione. Anche l’Italia
deve far fronte a questo fenomeno. Nei giorni scorsi Save the Children e altre
organizzazioni, tra cui Caritas e Amnesty International, hanno firmato un appello al
governo e al Parlamento chiedendo che ai minorenni che arrivano senza un adulto venga
riservato un trattamento adeguato, ad esempio mettendoli in comunità di accoglienza o
affidandoli temporaneamente a famiglie italiane. «Nel 2013 su un totale di 42.925 migranti,
8.336 erano minori e di questi 5.232 erano non accompagnati». E già nei primi sei mesi
del 2014 si calcola si sia raggiunta quota 6 mila.
del 30/06/14, pag. 11
Minori stranieri, le tutele ci sono ma chi parte
non lo sa
di Maria Serena Natale
MILANO - Minori stranieri non accompagnati, nucleo indifeso di un esodo globale. In fuga
da guerre, emergenze sociali e ambientali, senza la guida degli adulti che li hanno lasciati
andare, inconsapevoli delle norme che li tutelano, prede di criminali e trafficanti. Secondo
le stime delle organizzazioni umanitarie, su un totale di 59.400 migranti erano non
accompagnati 6 mila dei 9.300 minori approdati in Italia tra il primo gennaio e il 22 giugno
scorso. La conta del 2013 si era fermata a 5.232.
«Dublino II», il regolamento che determina lo Stato dell’Unione Europea competente a
esaminare una domanda d’asilo o il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla
Convenzione di Ginevra, assegna la competenza dell’esame al Paese presso il quale il
ragazzo presenta la domanda: a differenza dei maggiorenni, il minore non deve fermarsi
nello Stato d’ingresso o nel primo dove sia stato foto segnalato, ma spesso lo ignora e per
paura cerca di proseguire il viaggio in clandestinità. Il quadro normativo internazionale
poggia su capisaldi come la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza,
approvata dall’Assemblea generale il 20 novembre 1989 e ratificata da tutti i Paesi del
mondo con l’eccezione di Somalia e Stati Uniti. Tra i principi fondamentali sanciti dalla
Convenzione che devono ispirare qualsiasi legge e decisione in materia, il superiore
interesse del minore, il diritto alla vita e allo sviluppo, la non discriminazione.
Un’architettura che si scontra con inefficienze strutturali dei sistemi d’accoglienza, carenze
di fondi, scarso coordinamento tra Stati, ciascuno con il proprio ordinamento in tema di
assistenza e protezione. In Italia i minori non possono essere espulsi e hanno diritto alla
«residenza legale» fino ai 18 anni. Nei giorni scorsi organizzazioni come Save the
Children, Terre des Hommes, Comunità di Sant’Egidio, hanno invitato il governo a porre
tra le priorità la questione dei piccoli migranti. Un appello tanto più urgente, alla vigilia del
semestre di presidenza della Ue.
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Del 30/06/2014, pag. 13
La guerra della Puglia ai ghetti dei braccianti
Contro la piaga del lavoro nero a Capitanata di Foggia, saranno trasferiti
1500 lavoratori migranti in cinque campi attrezzati
Nascerà il bollino etico Equapulia
Continua ad arrivare gente al Ghetto di Rignano, la «città informale» dei braccianti
africani in Capitanata, pochi chilometri da Foggia. Continuano ad arrivare, la stagione è
già cominciata, i campi sono verdi di pomodori, a giorni diventeranno rossi. E allora
bisognerà affrettarsi: raccolta, lavorazione, distribuzione tutto va fatto senza perder
tempo. Continua ad arrivare gente al Ghetto. Anche se domani era annunciata la sua
fine. Da domani avrebbe dovuto iniziale il trasloco («ma quale sgombero, la Regione
Puglia non sgombera» dicono in assessorato) in cinque campi piccoli e attrezzati
ciascuno per 250 persone. Avrebbe: la gara per le tende si è chiusa 30 giorni fa, dice Vito
Ferrante, dirigente dell'ufficio immigrazione della Regione e coordinatore della task force
«Capo free ghetto off»: «Il 4 luglio saranno consegnate le tende, il 6-7 saranno allestiti
su terreni pubblici i primi due campi, a Casa Sankara e all'Art village, dove da tempo
lavorano associazioni sociali come quella diretta da Tonino D'Angelo. Poi si allestiranno
gli altri all'arena di san Severo e all'ex Villaggio Amendola. Purtroppo il neo sindaco di
Lucera non ha autorizzato il quinto campo nell' azienda Vulgano, vedremo». Ma non si
tratta solo di «traslocare» 1500 persone, costruire tendopoli, fronteggiare un evento
stagionale, e in gioco non c'è solo il Ghetto. Il punto è, lo dice chiaro l'assessore
Guglielmo Minervini, che ha chiamato altri cinque colleghi a lavorare con lui al progetto
«Capo free ghetto off», «rompere il meccanismo economico dello sfruttamento dei
braccianti. Eliminare la piaga del caporalato. Non tollerare più il lavoro nero. Da qui,
infatti nasce il Ghetto e tutti gli altri piccoli ghetti disseminati nelle campagne di Puglia».
Il progetto è ambizioso e articolato. Nonsolo tendopoli e alberghi diffusi (avviati da anni e
con 130 posti letto ma spesso sottoutilizzati), anche ristrutturazione o autorecupero di
casali e beni pubblici per una accoglienza stanziale. Ma soprattutto lotta al lavoro nero.
Come? Si stanno già raccogliendo nel Ghetto le liste dei braccianti, già 500. Le aziende
che pescheranno da queste liste invece di affidarsi ai capineri e ai capibianchi, i caporali
cioè, avranno un aiuto di 300 euro per ogni lavoratore assunto in chiaro per almeno 20
giornate, 500 per un’assunzione di almeno 156 giornate, utilizzando un fondo per
l’emersione del lavoro nero di 800 mila euro. Un'iniziativa che non si limiterà al Ghetto
ma sarà estesa anche agli altri braccianti che vivono nelle stesse condizioni precarie del
Ghetto, ma in masserie o luoghi ancora più nascosti. Le aziende agricole, finora, stanno
rispondendo bene. Non ci sono solo le aziende agricole, però. Sarà per la campagna di
boicottaggio dei pomodori pugliesi, partita dalla Francia e che si potrebbe estendere
anche nel resto d'Europa, oltre che in Italia. Sarà perché c'è la coscienza che una
situazione di sfruttamento così estrema è un vulnus per la regione e la nazione che
l'ospita. Sarà che la vicenda del Ghetto potrebbe essere un esperimento pilota per la
riemersione del lavoro nero. Sta di fatto che ora «nasce il bollino etico Equapulia – dice
ancora Vito Ferrante – a chi sono interessate anche le due più grandi aziende di
trasformazione pugliesi, FuturAgri e Princes, che lavorano il 15% della produzione di
pelati, il resto va nel casertano. Ma anche con la Regione Campania stiamo lavorando
perché le aziende che usano pomodori puliti possano usare il bollino. E modificare così i
meccanismi che portano uno sfruttamento selvaggio. Pensate: un chilo di pomodori alla
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pianta oggi vale 12 centesimi, lo stesso prezzo che si pagava negli anni '80, mentre il
costo del lavoro che allora era di 15.000 lire a cassone, oggi è 3.5 euro, si è dimezzato.
Ma il costo dei pomodori pelati in supermercato non è certo quello di allora. E il bollino
non vale solo per i pomodori, ma per tutti i raccolti, dalle angurie (che stiamo
sperimentando in Salento) alle zucche, dalle olive all'uva agli ortaggi». Alla proposta della
Regione hanno aderito la Coldiretti e altre organizzazioni di agricoltori. Una sfida che
coinvolge anche la grande distribuzione dalla Coop e Auchan. Così che chi emerge
dall'illegalità sia accompagnato nel percorso, chi preferisce il vecchio sistema abbia più
difficoltà a collocare le sue merci. C'è, è vero, la possibilità che le aziende scelgano un
doppio percorso, da una parte il lavoro legale, dall'altra quello ancora a sfruttamento
intensivo delle braccia. Molto lavoro toccherà anche a chi controlla: l'Ufficio provinciale
del lavoro sarà affiancato da una task force che coinvolge Prefettura, Inps, Inail, Finanza,
tribunale e Dia perché i controlli siano finalmente efficaci: l'80% dei pomodori da pelati
italiani vengono coltivati qui, impensabile non si riesca a controllare nelle aziende. Un
progetto complesso, dunque, non senza rischi. Il premio per l'emersione del lavoro legale
è attivo da anni, ma le aziende non lo hanno finora mai utilizzato. Il bollino potrebbe fare
la differenza: «Puntiamo a un'alleanza con i cittadini, con chi fa consumo critico. Con chi
sceglie non solo il prezzo delle merci, anche la qualità e l'eticità» dice Minervini. Quindici
anni fa, ricorda, la rivolta silenziosa dei consumatori uccise il contrabbando delle
sigarette. Fu quando, nell'estate del '98 ci furono scontri sanguinosi tra banditi e polizia
sulla Bari- Brindisi che costarono diversi morti. Nessuno comprò più sigarette illegali,
una rivolta civile mise fine a quella forma di economia criminale. Nel Ghetto si spera, ma
si continua a costruire baracche: i tempi si allungano. Intanto si deve vivere. Chi ha
allestito una mensa o un'attività commerciale teme di perdere il proprio investimento, per
quanto minimo, anche se in regione si pensa di accompagnarli verso situazioni meno
precarie e occasionali. E non mancano gli accenti critici: «Campagne in lotta» è scettica
sulla possibilità incidere nei meccanismi di sfruttamento del lavoro, teme che da un
Ghetto ne nascano cinque e ricorda che lo sfruttamento nasce dalla marginalizzazione e
spesso dalla criminalizzazione. Spesso, del resto, dallo sgombero di una situazione
critica (una per tutte l'ex Pantanella a Roma) si è ottenuto una soluzione emergenziale e
poi lo sbando, oltre alla perdita di quelle preziose forme di solidarietà spontanea tra
migranti che esistono persino in un ghetto. Arcangelo Maira di Migrantes, da anni
impegnato nel Ghetto, è convinto che quel modo di abitare è prodotto dallo sfruttamento,
se i braccianti fossero pagati regolarmente troverebbero da soli case in affitto e il Ghetto
si svuoterebbe pian piano da solo. L'assessore Minervini invece è fiducioso: «Non sono
certo che riusciremo a raggiungere tutti i risultati che ci prefiggiamo – dice l'assessore
Minervini - però sul controllo del lavoro nero e dello caporalato qualcosa sta avvenendo,
la risposta delle aziende è positiva, i controlli seri nei campi e nelle imprese faranno il
resto. E se avessimo con noi anche le associazioni dei consumatori... ».
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SOCIETA’
Del 30/06/2014, pag. 8
Vacanze in Italia le più care del Mediterraneo
La spesa per hotel e ristoranti è superiore del 10% rispetto alla media
Ue, dice un’indagine Coldiretti
Perdiamo turisti, mentre tutta Europa li guadagna. La Spagna conquista
il primo posto
Le vacanze in Italia sono le più care d’Europa. I turisti nazionali e stranieri se n’erano già
accorti da tempo, e adesso emerge anche da uno studio della Coldiretti, secondo cui nel
nostro Paese «la spesa per hotel e ristoranti è superiore del 10% rispetto alla media
europea». Risultato: «L’Italia si classifica come la più elevata tra le mete del
Mediterraneo ». L’analisi della Coldiretti è stata condotta sulla base dei dati Eurostat del
2013, e sostiene come «superato il problema dello spread finanziario, a frenare gli
incassi turistici è il sovrapprezzo che i vacanzieri nazionali e stranieri devono pagare nel
Belpaese». I conti per cibo e alloggio sono nettamente superiori rispetto alle mete
concorrenti del Mediterraneo. E questo nonostante la crisi. La destinazione più
conveniente per hotel e ristoranti è infatti il Montenegro dove si paga il 37% in meno
rispetto alla media comunitaria, seguito dalla Croazia con il 26% in meno, dal Portogallo
dove il risparmio è del 23%, e dalla Turchia dove il conto è inferiore del 22% rispetto alla
media Ue. Il confronto è pesante anche con Paesi tradizionalmente rivali dell’Italia, come
la Grecia, dove l’esborso per ristorazione e alloggio è inferiore del 12%, e la Spagna,
che costa il 9% in meno della media.
MENO SPESE, PIÙ PARTENZE Il gap nazionale trasmette purtroppo i suoi effetti sui
flussi turistici internazionali. L’Europa rimane, nonostante la crisi, una delle destinazioni
preferite del turismo internazionale con un flusso di viaggiatori da tutto il mondo
aumentato del 5% nel 2013, con i migliori risultati registrati dall’Europa centrale e
orientale (+7%) e dai Paesi del Sud e del Mediterraneo (+6%), secondo i dati dell’Unwto
World Tourism Barometer del 2013. E però. La Spagna ha conquistato il primo posto,
con un aumento dei visitatori internazionali del 4%; in Grecia l’aumento è stato del 9, a
Malta del 10 e in Portogallo dell’8. «L’Italia - riprende Coldiretti - si colloca al posto di
onore tra le mete europee preferite, ma secondo i dati dell’Osservatorio nazionale del
Turismo si è verificato nel 2013 un calo del 4,3% degli arrivi, sia tra gli italiani (-8%) che
tra gli stranieri (-0,2%). E non è un caso che per l’estate 2014 meno di un italiano in
vacanza su tre alloggerà in albergo (28%), mentre più gettonate sono le case in affitto
(19%), di proprietà (14%) o di parenti e amici (17%). A seguire i villaggi (7%), i bed and
breakfast (7%) e gli agriturismi (3%), dove aumentano le presenze straniere, anche
«grazie all’ottimo rapporto tra prezzi e qualità». «A salvare l’Italia è il fatto che - continua
Coldiretti - è tra le mete più ricche di attrazioni dal punto di vista culturale, paesaggistico,
ambientale ed enogastronomico. È il Paese più ricco al mondo di siti di interesse
culturale ma è in grado di offrire al turista anche la più grande varietà di opportunità, dal
mare alla montagna, dai laghi al verde» (recente il via libera all’iscrizione dei “Paesaggi
vitivinicoli del Piemonte: Langhe- Roero e Monferrato” nella lista dei patrimoni
dell’Umanità dell’Unesco), mentre l’oltre10%del territorio nazionale è coperto da parchi e
aree protette. Siamo anche l’unico Paese al mondo che può vantare 262 prodotti a
denominazione di origine (Dop/Igp), può contare sul maggior numero di produttori
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biologici nell’Unione e garantisce livelli di sicurezza da record con un numero di prodotti
agroalimentari con residui chimici oltre il limite di appena lo 0,2%, inferiori di nove volte a
quelli della media europea (1,6% di irregolarità) e addirittura di 32 volte a quelli
extracomunitari, sulla base delle elaborazioni Coldiretti sulle analisi dell’Efsa. Di fatto,
quest’anno più di quattro famiglie italiane su dieci (44%) che hanno deciso di andare in
vacanza hanno preventivato complessivamente un budget inferiore ai 500 euro a
persona. Spese contenute, dunque, ma le partenze aumentano invece del 6%, per un
totale di oltre 24 milioni di italiani in viaggio. Secondo l’indagine - dice sempre Coldiretti il 35% delle famiglie spenderà tra i 500 ed i mille euro a persona, il 9% tra i mille ed i
2mila, mentre solo il 4% oltre i 2mila euro. Vacanze low cost, dunque, anche perché più
brevi: per il 43% dureranno meno di una settimana, per il 33 una o due, per il 15 due o
tre, e solo per il9%più di 3 settimane.
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CULTURA E SCUOLA
del 30/06/14, pag. 11
Camerota, qui tutti suonano
Il paese orchestra ha la musica nel dna
di Emiliano Liuzzi e Annalisa Dall’Oca
C’è un Comune, in Italia, dove la musica la gente ce l’ha nel sangue. Orchestrali per un
raro gene non identificato dalla scienza. Dove saper suonare uno strumento, sia la chitarra
o il violino, il pianoforte o il flauto, fa parte del Dna. Come fosse un sesto senso sviluppato
sin dalla nascita che negli anni, all’Italia, ha regalato cantanti diplomati e musicisti
d’orchestra. È Camerota, in provincia di Salerno, poco più di 1.200 anime, una cittadina
incuneata tra le colline del Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano, patrimonio
dell’Unesco, che si affaccia su alcune delle più belle spiagge di tutta la penisola. Un
piccolo paese, un dedalo di viuzze, dove la musica è la pietra che sorregge le case, e
dove il 90% degli abitanti sono musicisti, dilettanti o professionisti poco importa. Un
fazzoletto di terra che ha una storia antica, iniziata all’epoca della colonizzazione greca e
dell’Im - pero Romano d’Occidente, insomma, ma che vanta radici musicali forse ancor più
remote. E quasi non c’è famiglia camerotana che non sappia maneggiare almeno uno
strumento musicale, sia la tromba o il tamburo. Si impara presto, sin da bambini, e poi i
bambini crescono e diventano insegnanti. Te ne accorgi camminando per le stradine,
quando, soprattutto alla sera, la musica esce dalle finestre, riempie l’aria. “Per chi è nato a
Camerota suonare è come respirare –racconta Mario Scarpitta, consigliere comunale e
presidente dell’associazione Tuttinsieme, che promuove la cultura locale attraverso
l’organizzazione di eventi, rigorosamente musicali –qui quasi tutti suonano, e chi non
suona aiuta gli altri che lo fanno”. Un’usanza antica come le mura della città, come il
palazzo marchesale, le chiese e le cappelle che si snodano attorno a un intricato dedalo di
vicoli e vicoletti, che nei secoli non è mai stata abbandonata. “Nell’Alto Medioevo
Camerota era una zona di confine fra il Principato Longobardo di Salerno e una delle
province dell’impero greco-bizantino di Costantinopoli. E già all’epoca, per esempio, in
città passavano cantori e menestrelli – spiega il maestro Oreste D’Alessandro, che della
musica ha fatto la sua vita – sin dall’antichità, quindi, i camerotani suonano, ma si può dire
che grande impulso l’abbia dato la tradizione bandistica meridionale”. Il Sud e le bande
musicali, 40 suonatori che attraversavano, e attraversano ancora oggi, le vie e i paesi
nelle sere di festa. A Camerota, però, il repertorio è un po’ diverso dal solito, è
d’eccezione. La banda cittadina, infatti, suona la musica lirica. L’Aida, la Traviata, il
Trovatore. È questo che i bambini imparano dall’infanzia.
Ed è così, ad esempio, che Pasquale Bardaro, oggi vibrafonista dell’orchestra del Teatro
San Carlo di Napoli ma anche jazzista, ha iniziato la sua carriera. “I bambini di Camerota
iniziano a suonare da piccoli, io per esempio ho cominciato che avevo 4 anni, e cantavo
nel coro della parrocchia guidato da Elmiro Ciociano, un compositore locale. Negli anni 70’
la chiesa era un luogo di ritrovo, e il pomeriggio tutti noi ragazzi ci trovavamo lì per stare
insieme. Si inizia a fare musica ancor prima di conoscere ciò che si suona. È come un
imprinting: i genitori sono percussionisti o violoncellisti, e anche i bambini vogliono
imparare a maneggiare uno strumento. Per questo molti poi, crescendo, scelgono il
conservatorio. Vent’anni fa, ovviamente, la situazione del paese era diversa ed era più
difficile fare carriera, anche per chi decideva di iscriversi alla scuola di musica, quindi
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molti, dopo il diploma, tornavano a casa. Tuttavia oggi, cinquant’anni dopo, quegli stessi
studenti partiti da Camerota in cerca di un futuro hanno contribuito a dare nuovo impulso
alla tradizione musicale cittadina: è grazie a queste persone, oggi mamme e papà, che la
nuova generazione di camerotani, dai 20 ai 30 anni, sta avendo successo in tutta Italia. I
genitori sono i loro primi maestri, incoraggiano i ragazzi a viaggiare, a studiare, a suonare
nelle orchestre. A perfezionarsi. E questo ha rafforzato il rapporto già stretto tra la città e la
musica”. Non è insolito, quindi, aggirarsi per le vie della città, celebre nel Cilento anche per
la manifattura ceramica e per la tradizione enogastronomica, e sentire, dalle finestre,
piccoli concerti di aspiranti musicisti che si esercitano, o sedere in pizzeria e vedere gruppi
di ragazzi che fanno musica con bicchieri e forchette. “In pratica suoniamo in
continuazione – sorride Scarpitta – è così da che ne abbiamo memoria. Chi è più bravo
padroneggia uno strumento, chi è meno pratico, come me, di solito suona il tamburo o le
percussioni. Ma, soprattutto durante le feste, tutti fanno musica in un modo o nell’altro”.
Una New Orleans del Sud Italia, dove ogni vicolo nasconde un musicista, ogni edificio
potrebbe trasformarsi in un palcoscenico improvvisato, e dove i grandi compositori della
storia nazionale, Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti, Giacomo Puccini, sono il pane
quotidiano.
Non a caso, su 1.200 abitanti o poco più, le associazioni musicali sono circa una decina, a
cui si aggiungono bande, orchestre, maestri e scuole di musica. “Molti camerotani, per
esempio, quando non lavorano in albergo o non preparano il caffè al bar, sono in
parrocchia per partecipare alle prove della banda – racconta Salvatore Pellegrino, che a
Camerota c’è nato e cresciuto –e in molte bande sparse per l’Italia ci sono miei
compaesani che suonano, Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito compresi”.
Pellegrino lo sa perché ha fatto il servizio di leva, si trovava a Bologna quando il 2 agosto
del 1980 la bomba esplose provocando una strage da 85 morti e 200 feriti. Anche lui ama
la musica, ce l’ha nell’ani - ma, e pur avendo scelto la via del teatro, difficilmente nei suoi
spettacoli manca il sottofondo musicale. “Io ho una mia compagnia, la Gioventù
Camerotana, e generalmente, quando saliamo sul palcoscenico, siamo accompagnati da
musicisti”, spiega. “Uno degli ultimi spettacoli che abbiamo messo in scena è stato l’Ultimo
scugnizzo, una commedia in tre atti rappresentata da Raffaele Viviani per la prima volta
nel 1932, al Teatro Piccinni di Bari. Non saprei immaginare il teatro senza un contributo
musicale”. A Camerota si fa musica per molte ragioni, “per divertire i turisti, per celebrare
le nostre festività, per passare un pomeriggio in un paesino piccolo, che non offre molte
attività legate allo svago” elenca il consigliere comunale cittadino. “È nel nostro sangue.
Non ci sono regole e tradizioni, non ci sono generi che prediligiamo o canzoni che non
vogliamo suonare, fa tutto parte di noi, del nostro spirito”.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 30/06/14, pag. 26
Terzo settore una riforma a costo zero
Gian Paolo Barbetta*
Il presidente del Consiglio Renzi ha posto all’ordine del giorno del governo la riforma del
«terzo settore». E’ un’iniziativa meritoria e tempestiva sia perché questo settore fornisce
un contributo importante alla produzione di servizi collettivi, al pluralismo istituzionale,
all’occupazione e alla coesione sociale nel nostro Paese, sia perché la normativa che lo
riguarda ha bisogno di una revisione e di un aggiornamento. Nell’avviare il percorso di
cambiamento, il governo ha anche introdotto una rilevante innovazione metodologica,
dando ai cittadini e alle organizzazioni la possibilità di esprimere opinioni sulle priorità e sui
contenuti della riforma.
Vale allora la pena di suggerire una «riforma a costo zero» che il governo potrebbe attuare
immediatamente e che molto gioverebbe al terzo settore: obbligare l’Istat a mettere a
disposizione di tutti – rendendoli scaricabili direttamente dal sito dell’istituto - i «micro-dati»
sulle organizzazioni di terzo settore che sono stati raccolti con il Censimento del 2011.
Finora, infatti, i cittadini, i ricercatori e i policy makers non hanno avuto alcuna possibilità di
conoscere e utilizzare le informazioni elementari prodotte dal censimento. Si tratta di un
vero e proprio spreco perché l’elevato costo di realizzazione dei censimenti (oltre 620
milioni di euro pagati dalle tasse di tutti) non ha prodotto un analogo beneficio per i
cittadini, il legislatore e per il governo stesso, che è stato privato di informazioni cruciali per
lo sviluppo delle proprie azioni riformatrici. Solo una comunità di ricercatori indipendenti in
grado di utilizzare i dati raccolti con le tasse di tutti può produrre le analisi e le
interpretazioni che aiutano a meglio comprendere di che cosa il Paese abbia bisogno.
Ciò è particolarmente rilevante per le politiche che riguardano il terzo settore. Infatti,
utilizzando i dati elementari – come ho avuto modo di fare grazie a una specifica richiesta
dell’Istat – si osservano cose interessanti, e altre ancor potrebbero essere scoperte.
In primo luogo si nota che la massiccia crescita nel numero di istituzioni non profit
registrata tra il 2001 e il 2011 (da 235.232 a 301.191 organizzazioni, con un aumento del
28%) - salutata come segnale di grande vitalità del settore - in realtà non è stata così forte.
Infatti, l’utilizzo dei dati elementari consente di scoprire che oltre 45.000 delle «nuove»
organizzazioni censite nel 2011 - non rilevate nel censimento precedente - in realtà
esistevano già, poiché dichiarano di essere state create prima del 2001. L’affinamento
delle tecniche censuarie, di cui va dato merito all’Istat, ha dunque consentito di fare
emergere una realtà già esistente, ma non rilevata. Inoltre, se consideriamo anche le
istituzioni «nate» e «cessate» nel corso del decennio, scopriamo che la crescita
complessiva delle organizzazioni di terzo settore tra il 2001 e il 2011 è dovuta solo per il
30% al saldo positivo tra le «nate» e le «cessate» e per quasi il 70% dalla «emersione» di
organizzazioni già esistenti. La crescita reale è dunque positiva, ma non eclatante.
Usando i dati elementari scopriamo inoltre che il 47% delle istituzioni non profit attive nel
2011 non esisteva nel 2001, e che oltre il 43% di quelle attive nel 2001 ha cessato di
operare nel corso del decennio. Il settore è dunque caratterizzato dalla creazione di un
numero assai elevato di nuove organizzazioni, ma da una mortalità altrettanto elevata
delle stesse che da vita a un fortissimo ricambio. Le organizzazioni di terzo settore sono
dunque creature fragili che hanno bisogno di politiche che le aiutino a consolidarsi e a
crescere, poiché le loro dimensioni medie risultano assai modeste, tali da non consentire
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la pianificazione strategica, la formazione del capitale umano, la ricerca e l’investimento.
Per questo, il policy maker potrebbe, ad esempio, favorire la fusione tra entità troppo
piccole per sopravvivere su un «mercato» diventato sempre più competitivo anche a
causa della riduzione delle commesse pubbliche, specie nel campo del welfare.
L’analisi dei dati elementari ha un effetto massiccio anche sulla interpretazione della
crescita occupazionale che – analizzando i dati grezzi – pare molto rilevante, perché il
settore passa dai 592.791 addetti del 2001 ai 957.124 del 2011, con un aumento di oltre
364.000 unità (+61,5%). In realtà, le organizzazioni «emerse» occupano – nel 2011 – oltre
110.000 addetti. Tenendole in considerazione, la crescita occupazionale del settore si
riduce pertanto in modo rilevante, scendendo al 43%. Inoltre, sempre grazie ai «dati
elementari», è possibile osservare che questa crescita è in gran parte spiegata
dall’aumento dell’occupazione delle organizzazioni che esistevano già nel 2001, mentre il
contributo occupazionale delle istituzioni nate nel corso del decennio (il «saldo naturale»,
al netto della perdita occupazionale della istituzioni cessate) non supera il 12%. Anche in
questo caso, le conseguenze in termini di politica economica possono essere assai
rilevanti. La proposta - avanzata dal governo - di un fondo per lo start-up di nuove imprese
sociali sembrerebbe infatti privilegiare la costituzione di nuove organizzazioni piuttosto che
il rafforzamento e la crescita di quelle esistenti. Alla luce delle analisi dei dati elementari,
questa scelta potrebbe non essere la migliore.
Senza buoni numeri, disponibili per una vasta platea di ricercatori che li possa analizzare
liberamente, è difficile impostare buone politiche. E senza buoni numeri e adeguate
metodologie di valutazione degli interventi, è poi difficile capire se le politiche hanno
funzionato. In questo campo il nostro Paese è molto indietro. Colmare il divario può non
essere difficile, specie se il costo di produzione delle informazioni è già stato sostenuto;
bisogna avere il coraggio di vincere resistenze burocratiche e regole prive di senso... cioè
di governare.
*Docente dell’Università Cattolica di Milano
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ECONOMIA E LAVORO
del 30/06/14, pag. 5
Tagli, privatizzazioni e immobili
Ora il governo deve accelerare
Enrico Marro
Europa o non Europa, flessibilità o non flessibilità del patto di Stabilità, su tre capitoli il
governo è in ritardo rispetto ai suoi stessi obiettivi: taglio della spesa pubblica (spending
review), privatizzazioni, dismissioni immobiliari. Il primo capitolo è fondamentale per tenere
il deficit sotto il 3% del Prodotto interno lordo, specialmente se quest’ultimo, come
possibile, crescerà meno dello 0,8% previsto dall’esecutivo per il 2014. Il secondo e il
terzo sono importanti per mandare quel segnale atteso dall’Unione Europea sulla capacità
dell’Italia di invertire l’andamento del debito pubblico, in crescita anche quest’anno (135%
del Pil). Ecco perché è su questi tre fronti, che insieme valgono 15-16 miliardi, che il
governo dovrà accelerare, fin dai prossimi giorni. A sei mesi dalla fine dell’anno, infatti,
meno di un terzo del bottino appare assicurato .
SPENDING REVIEW
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, continua a ripetere che il commissario per la
revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, prosegue il suo lavoro. Resta il fatto che
mentre il Def (Documento di economia e finanza) del governo indica per il 2014 l’obiettivo
di tagliare di 4,5 miliardi la spesa pubblica, il governo ha deciso finora tagli per 3 miliardi e
mezzo. Manca quindi all’appello un miliardo. Cottarelli, parlando qualche giorno fa in
audizione alla Camera, lo ha ammesso, aggiungendo che non sono per ora previsti altri
tagli. Il commissario ha quindi spiegato che si sta concentrando sulla riuscita delle
decisioni prese, per esempio sulla riforma della spesa per beni e servizi della Pubblica
amministrazione. Basti pensare che ben 2,1 miliardi dovrebbero venire da questa voce in
sei mesi, 700 milioni a carico delle amministrazioni centrali e il resto da Regioni ed enti
locali. Risultati per nulla scontati.
Allo stesso tempo Cottarelli dovrebbe suggerire al governo i 17 miliardi di tagli per il 2015
e i 32 miliardi per il 2016 indicati nello stesso Def e necessari a garantire il mantenimento
del bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti a basso reddito e a finanziare l’ulteriore
taglio del cuneo fiscale: Irap per le imprese ed eventuale estensione del bonus a incapienti
(redditi fino a 8 mila euro), compresi pensionati e partite Iva. Nessuno ha capito come si
potranno fare tagli così grandi senza intaccare il perimetro dello Stato sociale (pensioni,
sanità, assistenza). Ed è appena il caso di ricordare le resistenze incontrate rispetto ai
tentativi di riorganizzare le forze di polizia e le forze armate .
PRIVATIZZAZIONI
Anche qui gli obiettivi del governo Renzi sono ambiziosi. Basti dire che l’esecutivo Letta,
prudentemente, aveva stimato per il 2014 e per gli anni seguenti introiti da privatizzazioni
pari a circa lo 0,5% del Pil, cioè 7-8 miliardi all’anno. Renzi e Padoan, nel Def, hanno
alzato l’asticella allo 0,7% del Pil per il periodo 2014-2017, cioè circa 11 miliardi l’anno.
Una goccia rispetto a un debito pubblico che viaggia oltre 2.100 miliardi, ma un passo
necessario verso Bruxelles e utile, secondo il governo, ad avere «uno Stato più leggero».
Per il momento però è stata avviata solo la vendita del 40% di Poste e del 49% dell’Enav.
Si stima un incasso di 4-5 miliardi nel primo caso e di un miliardo nel secondo. Ma è
difficile che i soldi arrivino entro la fine dell’anno. Ci sono state le elezioni e il cambio ai
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vertici delle Poste (Caio al posto di Sarmi) e quindi un certo ritardo è comprensibile. Ma le
difficoltà non sono finite.
Sia per le Poste sia per la società di assistenza al volo sono stati individuati gli advisors
ma per le Poste deve ancora essere sciolto il nodo della valutazione, che dipende tra
l’altro dalla nuova convenzione con Cassa depositi e prestiti (ancora da chiudere, che
dovrebbe assicurare un miliardo e mezzo l’anno alla società per 5 anni) e dai contributi
pubblici per il servizio universale (700 milioni all’anno chiesti da Poste) subordinati alle
decisioni che l’Authority per le comunicazioni prenderà a fine luglio. L’Enav, invece, è
ancora in attesa del rinnovo dei vertici, dopo due anni di commissariamento per lo
scandalo appalti. L’assemblea, già rinviata due volte, è aggiornata per ora all’8 luglio.
Tra queste incertezze tornano dunque a galla sia le altre privatizzazioni elencate nel Def
sia quelle nuove ipotizzate di recente, prima fra tutte quella di Ferrovie dello Stato, visto
che al nuovo presidente, Marcello Messori, il Tesoro ha affidato anche il compito di
studiare un’eventuale quotazione in Borsa, mentre il vecchio piano di privatizzazioni già
prevedeva la cessione del 60% di Grandi stazioni in mano alle Fs. Per il resto il menu
contempla quote di Eni ed Enel senza scendere sotto il controllo pubblico, Stm (colosso
dei semiconduttori partecipato al 50% dal Tesoro e al 50% dalla Francia), e quote di
società detenute indirettamente attraverso Cdp, quali Sace (vendita del 60%), Terna,
Fincantieri (l’operazione è partita in queste settimane, ma sta andando meno bene del
previsto), Cdp Reti (49%), Tag (89%, del gasdotto).
DISMISSIONI IMMOBILIARI
Qui l’obiettivo del governo non pare ambizioso. Si tratterebbe infatti di portare in cassa 500
milioni l’anno. Eppure il traguardo sembra lontanissimo. La legge di Stabilità 2014 del
governo Letta prevede un programma straordinario di cessione di immobili pubblici, in
particolare caserme ed altri edifici della Difesa non più utilizzati. Ma il piano non è
decollato, nonostante il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, avesse annunciato la vendita
di 385 caserme. Per sbloccare la situazione sono allo studio norme per superare gli
ostacoli burocratici. E non è ancora decollata Invimit, la società del Tesoro costituita nel
maggio 2013 per la valorizzazione e la cessione di immobili pubblici. La società guidata da
Elisabetta Spitz ha ottenuto a ottobre l’autorizzazione della Banca d’Italia alla gestione
collettiva del risparmio e lo scorso marzo ha istituito un fondo di investimento in due
comparti, dove è previsto l’apporto di immobili delle amministrazioni centrali e locali, la loro
valorizzazione e il collocamento di quote sul mercato secondario.
Per accelerare su privatizzazioni e dismissioni Padoan ha convocato una riunione dei
vertici del ministero nei prossimi giorni. Anche sul fronte della spending Cottarelli potrebbe
annunciare qualche novità. Ci vuole una scossa, visto che il bottino di una quindicina di
miliardi da privatizzazioni e spending previsto per il 2014 è lontano. E se non si corre ai
ripari lo spettro della manovra aggiuntiva, ancora ieri negata dal sottosegretario
all’Economia Pier Paolo Baretta («non ci sarà, la escludiamo»), potrebbe prendere forma.
del 30/06/14, pag. 1/23
L’ANALISI
Ma quella flessibilità è molto rigida
TITO BOERI
È UNA flessibilità... molto rigida quella che ci è stata concessa dal vertice europeo.
Quantificabile in circa 2-3 miliardi in più a disposizione nel 2015 e in un processo di
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riduzione del debito più lento negli anni successivi, a condizione però di attuare riforme
importanti del lavoro, della pubblica amministrazione o dell’istruzione.
PER fortuna le prime due riforme sono nell’agenda del governo Renzi, sebbene ancora
molto lontane dal traguardo. Speriamo che negli accordi presi a Bruxelles ci sia di più di
quanto scritto nei comunicati ufficiali. Perché l’Europa, non solo l’Italia, ha bisogno di
politiche espansive della Germania, di programmi infrastrutturali da finanziare in comune,
a livello europeo, e di un accordo per lasciare svalutare la moneta comune. In ogni caso,
invece di cantar vittoria, il governo italiano farebbe bene ad usare la condizionalità di
Bruxelles per completare entro l’anno almeno una delle riforme in programma, rendendola
pienamente operativa, con il varo dei rilevanti decreti attuativi.
Il testo sottoscritto dai capi di governo della Ue si limita a ribadire che c’è già abbastanza
flessibilità nel Patto di Stabilità e Crescita e conferma che non possiamo spostare al 2016
l’obiettivo del bilancio strutturale in pareggio. Il messaggio è molto chiaro: i vincoli che ci
impone l’Europa sono già flessibili, perché fissano obiettivi di finanza pubblica che tengono
conto della congiuntura, dunque meno restrittivi quando l’economia va male e più
stringenti quando l’economia tira. Quel che conta è il bilancio strutturale al netto delle
misure una tantum. Il problema è che non è facile stabilire quanto del deficit pubblico è
dovuto a fattori ciclici e quanto è strutturale. È una stima che ha margini di errore, in
qualche modo arbitraria. Quella del g overno italiano, che ha previsioni più ottimistiche di
quelle della Commissione sulla crescita nel 2014 e 2015, ci consente uno 0,1 di pil in più
di deficit di quella della Commissione. Possiamo sperare che la Commissione allinei le sue
stime a quelle del governo italiano, che potrà far valere l’assurdità dell’imposizione di
correzioni alla politica fiscale di un paese sulla base di parametri soggetti a un forte grado
di discrezionalità (gli stessi documenti ufficiali della Commissione riconoscono
«l’incertezza che circonda queste stime»). Non sarà facile se il Commissario per gli Affari
Economici sarà Jyrki Katainen anche nella nuova Commissione, dato che l’ex-premier
finlandese ritiene che «non c’è nessuna ragione per andare più a fondo nel processo di
integrazione della politica fiscale a livello europeo». Un altro miliardo e mezzo potrebbe
venire dal non considerare il cofinanziamento italiano dei fondi strutturali nel computo del
bilancio strutturale, ammesso e non concesso di riuscire da qui alla fine del 2014 a
raddoppiare la nostra velocità nell’impegnare queste risorse, la cui destinazione (spesso
discutibile) è comunque negoziata con Bruxelles. In ogni caso non sarà comunque questo
0,2% di pil in più a disposizione, tra revisioni delle stime e cofinanziamenti non
contabilizzati, a cambiare la nostra vita. Possiamo, infine, ambire ad allungare il percorso
di rientro del debito, su cui siamo peraltro già in forte ritardo rispetto agli impegni presi. Ma
questo solo se sapremo fare delle riforme strutturali. Prima le facciamo, meglio è, ma per il
momento non possiamo certo invocare questa clausola.
Speriamo, dunque, che la vera flessibilità sia quella che non è scritta nei comunicati
ufficiali, che la Germania, colpita dall’ondata populista nei paesi del Sud, abbia deciso di
caricare su di sé almeno un po’ del peso dell’aggiustamento sin qui richiesto unicamente
ai paesi periferici, spendendo di più anziché chiedere agli altri di tagliare nel mezzo di una
recessione o stagnazione. Speriamo anche che a Bruxelles si sia deciso di varare grandi
programmi su beni pubblici europei, a partire dall’energia e dalla banda larga, finanziandoli
con l’emissione di titoli garantiti in solido da diversi paesi.
In ogni caso la politica economica del governo Renzi dovrà passare dalla cruna dell’ago e
non può permettersi alcun ridimensionamento del piano di tagli alla spesa pubblica che
originariamente prevedeva 15 miliardi di risparmi nel 2015. Non basteranno certo i 5 oggi
preventivati, soprattutto perché la metà di questi risparmi era già stata impegnata dal
governo Letta. Occorrerà anche sfruttare al meglio ogni euro disponibile migliorando la
composizione di entrate fiscali e spese e giocando su operazioni di rientro del debito più
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graduali, ad esempio allineando i contributi previdenziali dei lavoratori dipendenti a quelli
degli autonomi, un’operazione che fa aumentare il disavanzo, ma non il debito implicito,
perché i minori contributi di oggi equivalgono a meno spesa pensionistica in futuro.
Fondamentale trovare al più presto coperture definitive per il bonus di 80 euro, sin qui
finanziato solo con interventi temporanei. Solo in questo modo lo si renderà sostenibile,
dunque credibile agli occhi di chi deve decidere se spendere questi soldi o metterli da
parte in previsione di nuove tasse. I primi dati sui consumi di cui ha dato notizia questo
giornale sembrano indicare che il bonus sin qui non ha avuto gli effetti desiderati sui
consumi perché i beneficiari hanno preferito mettere questi soldi da parte, temendo per il
loro futuro. Le indagini campionarie ci dicono che gli italiani oggi sono eccessivamente
pessimisti su quali saranno le loro pensioni. Per informarli adeguatamente basterebbe
mandare a tutti i contribuenti italiani un estratto conto previdenziale con previsioni sulle
loro pensioni future. In presenza di molti testimoni, il Ministro Poletti si è impegnato a
mandare a casa di tutti i contribuenti questi rendiconti, il cui formato è già stato da tempo
definito dall’Inps e dal Ministero del Lavoro, entro l’inizio del mese di luglio. Vorremmo
ricordargli che mancano ormai solo 3 giorni alla fine del mese. Speriamo che le buste
siano già partite.
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