Introduzione Arrivai a Roma all`età di ventun`anni

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Introduzione Arrivai a Roma all`età di ventun`anni
Introduzione
Arrivai a Roma all’età di ventun’anni con una valigia
piena di vestiti fuori moda e due certezze: che mi avrebbero
rubato il portafoglio e pizzicato il sedere.
Le guide turistiche che avevo letto mentre vagabondavo
per il pianeta prima di sbarcare in Italia lo giuravano. Con
mio grande stupore, non successe né l’una, né l’altra cosa
e non vi so dire quale delle due ferì di più il mio amor
proprio. Cosa non era imbottito a sufficienza da risultare
irresistibile, il portafoglio o il mio didietro indiano?
Uscii dalla depressione solo quando appresi che la stessa
sorte era toccata a tutte le mie amiche straniere, incluse una
top model brasiliana e due ereditiere canadesi.
Decisi quindi di mettere da parte subito tutte le false
notizie in circolazione sull’Italia e misi in pratica le parole di
don Luigi, il mio insegnante di italiano a Bombay: “Tieni
un diario e annota le cose che ti capitano e soprattutto le
parole nuove, i modi di dire. Ti aiuterà ad integrarti più in
fretta possibile”.
Bisogna specificare che don Luigi era un missionario toscano che ha vissuto all’estero dalla seconda guerra
mondiale in poi, quindi conosceva a perfezione lo swahili, il bantù e il dialetto dei Bhil (una tribù nomade del
Rajasthan), ma le sue informazioni sulla patria erano di
natura prebellica. La sua cineteca consisteva in film tipo
Marcellino pane e vino e la sua discoteca era esclusivamente
dedicata a Caruso e alla Callas. Mi regalò anche una copia
del libro Cuore.
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Don Luigi però era l’unica persona disponibile ad aiutarmi a imparare in tre settimane una lingua che a me sembrava più una ninnananna che un idioma, e trovavo divertente il fatto che sebbene avesse ottant’anni e portasse l’abito talare, ciò non gli impediva di fissarmi le tette.
Seguendo il suo consiglio, appena sbarcata in Italia nel
lontano 1986 comprai un diario che riempii man mano con
mille punti interrogativi e una montagna di esclamativi.
Imparare una nuova lingua è come rinascere, quindi il
testo che condivido con voi è la gestazione di un’identità
tricolore.
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Prima parte
Il diario di un’aspirante italiana
Roma, 10 febbraio 1986
Chi te l’ha fatto fare?
(modo di dire molto diffuso)
Caro diario,
“Perché sei arrivata in Italia? Chi te l’ha fatto fare?”.
Sono due domande che mi rivolgono in continuazione
e a cui non so cosa rispondere! Non vengo da una famiglia
indigente, non sono una perseguitata politica e non ambivo
a studiare canto lirico o arte rinascimentale.
La mia famiglia diasporica si estende dagli Stati Uniti
all’Australia, e scegliendo un paese anglofono mi sarei risparmiata anni e anni di scontri semantico-culturali.
L’orientale birichina in me vorrebbe fare la misteriosa,
giocare la carta del karma e del kriya, l’orientale seria mi
impedisce di fare la figura di una tutta tantra, mantra, yantra. Non voglio passare per la viziata che si può concedere
un gap-year, una pausa di riflessione tra la laurea di primo
livello e il Master.
Mi vergogno di ammettere la verità, cioè che l’unica
borsa di studio che ho trovato è stata quella per l’Italia. Gli
esami per accedere ad uno scholarship per gli altri paesi erano
molto difficili, la concorrenza spietata. Il fior fiore dell’India
– aspiranti medici, ingegneri e avvocati – opta per l’America, l’Australia o al massimo la Gran Bretagna. A fare la
domanda per l’Italia eravamo soltanto in due, io e un cuoco
di Calcutta. Si è trattato di una guerra persa in partenza dal
cuoco perché io ero giovane, carina e sapevo cantare Sul
mare luccica l’astro d’argento, e ad assegnare la borsa era un
ambasciatore anziano e soprattutto napoletano.
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§§§
Caro diario,
ho trovato una soluzione! Non voglio confessare perché
sono arrivata, ma posso raccontare a tutti per quale motivo
sono rimasta! Ovviamente si tratta dello stesso (credo unico) motivo per cui rimangono in Italia tanti di noi. Non
per soldi o per carriera. L’Italia non dispone di pozzi petroliferi o miniere di diamanti, ma ha un giacimento immenso e interminabile del bene più prezioso al mondo: ♥♥♥
l’amour!!!
Basti pensare a quante coppie indimenticabili hanno
avuto i natali su questo suolo fertile di sentimenti! Romeo
e Giulietta, Paolo e Francesca, Renzo e Lucia, Ilary Blasi e
Totti…
La gente va in Tibet a respirare spiritualità, ma viene in
Italia a ossigenarsi di tenerezza. L’Italia non ha lo smog come
tante altre nazioni, ma nubi di feromoni che ti spingono a
fare all’amore con tutto: il cibo, la musica, l’architettura.
Anche quando litigano, sembra che i suoni si accoppino.
Non riesco proprio a dire delle parolacce in questa lingua;
alle mie orecchie suonano come Brahms eseguito su un pianoforte mal accordato.
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Venezia, 24 febbraio 1986
Ultraterrona
Caro diario,
sono passate quasi due settimane dal mio arrivo in
Italia e mi trovo alle prese con l’iscrizione alla Ca’ Foscari a
Venezia.
Il corso semestrale di lingua italiana per stranieri, che
voglio frequentare per imparare la lingua prima di iscrivermi ad una facoltà vera e propria, comincia la settimana
prossima. Per accedere all’università ho bisogno del permesso di soggiorno e per avere il permesso di soggiorno
devo aprire un conto corrente, ma per aprire un conto
corrente occorre il permesso di soggiorno e l’iscrizione
all’università!
Per qualche giorno mi è sembrato quasi divertente, ma
ora mi sono stufata di fare la spola tra un istituto e l’altro a
sentire la stessa musica: prima serve il rilascio dell’altro documento.
Oggi però è successo un miracolo! Stamattina ha ceduto
la dirigente dell’istituto di credito a cui mi sono rivolta, non
tanto per il fatto di vedermi in lacrime e con l’imposta di
bollo d’importo sbagliato per l’ennesima volta, ma perché
ha appena compreso che vengo da Bombay, non da Pompei
come ha creduto finora.
“Amore! Cuore! Potevi dirmelo subito! Tesoro, non sei
terrona! L’India, che incanto, stellina!” ha cinguettato, aiutandomi a compilare una serie di moduli e al contempo ampliare il mio lessico nel campo semantico dei buoni sentimenti. Quindi, ho scoperto che è falso pensare che solo in
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arabo esistono sessanta nomi per l’amore, anche l’italiano
non scherza!
Non so perché, però ho avuto la sensazione che la signora
in questione apostrofi così anche i ragni che trova in cucina
prima di ammazzarli. Ma forse è solo un’impressione dovuta
alla frustrazione burocratica accumulata in questi giorni.
La mia salvezza è stata che la dirigente ha una sorella appena tornata da un viaggio nel subcontinente, che ha dipinto il mio paese natale come il luogo più magico e misterioso
della terra.
“Stella mia, mi ha detto che avete dei poteri sovrannaturali!”.
La signora ovviamente non ha visto il film Sono un fenomeno paranormale con Alberto Sordi (facente parte della
cineteca di don Luigi), e perciò ringrazio Visnù e Shiva o
chiunque stia intercedendo per me.
Ovviamente non la metto al corrente del fatto che anche
nella terra di Gandhi abbiamo le galere che scoppiano e che
l’unica esperienza ultraterrona ultraterrena della mia vita la
sto vivendo proprio qui, ora, nella Serenissima, con questo
valzer dei documenti.
Ho promesso di tornare a leggerle la mano uno di questi
giorni e ora devo scrivere alla mamma per farmi mandare
uno di quei manuali in cui ti insegnano a diventare veggente
in due ore.
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20 marzo 1986
Combinarne di tutti i colori
Caro diario,
in India abbiamo due stagioni, quattro tipi di vestiti
e una ventina di colori, tutti molto decisi. Perciò quando
sono arrivata sapevo la differenza tra la stagione calda e la
stagione delle piogge, tra gonna e pantalone, tra sari e completo salvar-khamiz (tunica e pantaloni). Conoscevo inoltre
tanti abbinamenti di colori sgargianti.
È primavera e sto scoprendo le gioie della mezza stagione, ma all’inizio del mio soggiorno veneziano le parole
ostregheta1, ombra2 e caìgo3 erano le prime parole a penetrare
le mie ossa, il mio stomaco e il mio vocabolario. Ora ho fatto la scoperta del colore nero e ho imparato una differenza
importante tra i lemmi “costume” e “vestito”.
Il mio arrivo nella Serenissima è coinciso con i festeggiamenti del Carnevale, per cui ovunque mi girassi, fasciata
come una cacatua intrappolata in un caleidoscopio, ricevevo molti complimenti per il mio “costume indiano”.
Ne sono rimasta lusingata e ho apostrofato come malelingue tutti quelli che alla mia partenza per il Belpaese mi
avevano messo in guardia sul fatto che sarebbe stato azzardato girare con fluttuanti vesti di seta con l’acqua alta.
Ora che il Carnevale è finito, le calli di Venezia si sono
ripopolate degli abitanti locali, con una predilezione per
le tinte scure. Ma come nella pubblicità del vecchietto in
Cinquecento che imbocca l’autostrada nel senso sbagliato
1. Esclamazione di stupore, equivalente al romanesco “Ammazza!”.
2. Calice di vino.
3. Nebbia fitta.
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per poi commentare sbigottito che tutti stanno andando
contromano, non mi sono resa conto che sono io l’elemento cromatico stonato in questa sinfonia notturna!
Quello che ho notato, invece, è che da qualche giorno
nessuno mi regala più né sorrisi né complimenti. Anzi, con
la fronte corrugata i passanti mi scrutano da lontano, incerti se sono matta o no. Stamattina ho scoperto il perché.
Un distinto signore, con mantello verde scuro e cappello
pieno di piume, mi ha fermata sul ponte di Rialto facendomi notare che il Carnevale è finito e perciò è un tantino
fuori luogo andare in giro ancora mascherata.
Da quel gentile signore ho imparato altre cose utili per
la mia integrazione:
– Che i colori solari si mettono quando c’e il sole, che
i colori scuri sono indicati quando il cielo è rabbuiato. La
natura va imitata, non contrastata.
– Che il colore da me denominato grigio e sinonimo di
monotonia non è tale: esiste il grigio perla, il grigio fumé,
il grigio chiaro, il fumo di Londra, il grigio scuro, l’antracite, l’acciaio, il grigio argentato, il grigio cenere, il grigio
blu e un’infinità di altre sfumature. Quindi quello che la
mia mente vergine di inverni ha frettolosamente etichettato
come una città a lutto in verità è una tavolozza di fantasia.
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