Storia e storie - Loescher Editore

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Storia e storie - Loescher Editore
Unità 5
Storia e storie
Esercizi di comprensione di lettura
Stendhal
Honoré de Balzac
Gustave Flaubert
Un giovane precettore
Primo studio di donna
Il pappagallo di Felicita
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Volume 1, Unità 5
STENDHAL
Un giovane precettore
Il brano è tratto dal romanzo Il Rosso e il Nero dello scrittore francese Stendhal (1783-1842),
grande affresco della società francese al tempo della Restaurazione, pubblicato nel 1830. Ispirato a
un fatto reale di cronaca, il romanzo narra la vicenda di Giuliano Sorel, figlio del proprietario di una
segheria di Verrières. Ammiratore di Napoleone, ambizioso e intelligente, Giuliano impiega tutte le
sue energie per dominare, con fredda e determinata volontà, le proprie debolezze e arrivare a conquistarsi un posto nel mondo. Affascinato dalla vita militare (“il Rosso”) il giovane si accorge che,
nel mutato clima della restaurata monarchia borbonica, questa non garantisce più l’ascesa sociale
cui aspira. Decide allora di intraprendere la carriera ecclesiastica (“il Nero”), fonte di prestigio e di
ricchezza. Entra così come precettore nella casa del sindaco di Verrières, la cui moglie, la signora
de Rênal, si innamora di lui. Quando la relazione viene scoperta, il giovane, per evitare scandali,
entra nel seminario di Besançon. Diventa quindi segretario del marchese de la Mole e, frequentandone la casa, si innamora di sua figlia, Mathilde. Amore e arrivismo sociale si uniscono nuovamente nel suo comportamento: superata l’opposizione del marchese e abbandonato l’abito talare, Giuliano si prepara al matrimonio con Mathilde ma, quando ogni ostacolo sembrerebbe rimosso, la
signora de Rênal – per scrupolo religioso e per gelosia – lo denuncia come un arrivista privo di scrupoli. Sfumati i suoi sogni, Giuliano cerca di ucciderla e viene condannato alla ghigliottina: proprio il
carcere diventerà per lui luogo di verità e di recuperata autenticità quando, respinti definitivamente l’amore e l’aiuto di Mathilde, ritroverà tutta la pienezza del sentimento per la signora de Rênal,
che dopo l’esecuzione di Giuliano morirà di dolore.
Le pagine, tratte dal VI capitolo del romanzo, lo presentano nella classica situazione iniziatica, quando ancora giovane e inesperto, sta per entrare come precettore nella casa del sindaco di Verrières.
Qui si imbatte casualmente nella signora de Rênal, che sarà l’amore più sincero della sua vita.
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Con la vivacità e la grazia che le erano naturali quando era lontana dagli uomini, la signora de Rênal usciva dalla porta a vetri del salone, che dava sul giardino, allorché scorse presso la porta d’ingresso la figura d’un contadinello, ancor
quasi un fanciullo, straordinariamente pallido e con tracce recenti di lacrime
sul volto. Indossava una camicia bianchissima e portava sotto il braccio un giubboncello di rattina1, molto decente.
La sua carnagione era così bianca, gli occhi così dolci, che il suo animo un
poco romantico le suggerì il sospetto che si trattasse di una giovinetta travestita, mandata a chiedere qualche grazia al signor sindaco. Ebbe pietà di quella
povera creatura, ferma sulla porta d’ingresso, e che evidentemente non osava
alzare la mano fino al campanello. Si avvicinò, ancora distratta dall’amara preoccupazione che le dava l’arrivo del precettore.
Voltato verso la porta, Giuliano non la vide avanzare e trasalì quando udì una
voce dolce, vicina al suo orecchio:
«Che cercate, ragazzo?»
Giuliano si voltò di scatto e, colpito dallo sguardo così pieno di grazia della
signora, dimenticò un poco la sua timidezza. Subito dopo, stupefatto dalla bellezza di lei, dimenticò tutto, anche quello che veniva a fare. La signora aveva
ripetuto la sua domanda.
«Vengo per fare il precettore, signora», le rispose infine, tutto vergognoso
delle lacrime, che andava asciugandosi come meglio poteva.
Essa restò interdetta; erano vicinissimi l’uno all’altra, e si guardavano. Giu1. rattina: stoffa di lana.
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liano non aveva mai visto una creatura così ben vestita e soprattutto una donna con un incarnato così splendido parlargli con tanta dolcezza. La signora osservava le grosse lacrime che s’erano arrestate sulle guance, prima tanto pallide
ed ora rosee, del giovane contadino. Ed improvvisamente si mise a ridere con
tutta la folle gaiezza d’una giovinetta; rideva di se stessa, incapace di trattenere tutta la sua gioia. Era dunque quello il precettore che s’era figurato come un
prete sudicio e mal vestito, che sarebbe venuto per sgridare e frustare i suoi
ragazzi?
«Ma, signore», gli disse infine, «voi sapete il latino?»
La parola signore stupì Giuliano e lo lasciò per un attimo pensoso.
«Sì, signora», rispose poi timidamente.
La signora de Rênal era così contenta che osò dirgli:
«Ma non li sgriderete troppo quei poveri bambini, vero?»
«Io, sgridarli?» esclamò Giuliano stupito. «E perché?»
«Vero, signore, che sarete buono con loro?» essa aggiunse dopo un breve
silenzio e con voce sempre più commossa. «Me lo promettete?»
Sentirsi di nuovo chiamare signore, e con tutta serietà, da una signora così
ben vestita superava tutte le previsioni di Giuliano: nei castelli in aria della sua
giovinezza s’era detto che nessuna signora per bene si sarebbe degnata di rivolgergli la parola finché non avesse avuto una bella uniforme.
Dal canto suo, la signora de Rênal era completamente sorpresa dal bel colorito, dai grandi occhi neri di Giuliano, dai suoi bei capelli ancor più ricciuti del
solito perché, per rinfrescarsi, egli aveva tuffato poco prima la testa nella fontana pubblica. Con gran gioia, essa ritrovava l’aria timida d’una fanciulla in quel
fatale precettore del quale aveva tanto temuto per i suoi ragazzi la durezza e
l’aspetto arcigno. Il contrasto tra i suoi timori e ciò che vedeva costituì un grande avvenimento per l’animo mite di lei. Finalmente si riebbe dalla sorpresa e si
stupì di trovarsi sulla porta di casa sua con quel giovane in maniche di camicia
e così vicino a lei.
«Entriamo, signore», disse con tono piuttosto imbarazzato.
Mai in vita sua una sensazione di così pura gioia aveva profondamente commosso la signora de Rênal, né una apparizione così gentile era stata seguita da
timori inquietanti. Dunque quei bei bambini, così ben curati da lei, non sarebbero caduti nelle mani d’un prete sudicio e brontolone. Appena entrata nel vestibolo, si voltò verso Giuliano che la seguiva timidamente. La sua aria stupefatta
nel vedere una casa così bella costituiva una grazia di più per la signora. Essa
non poteva credere ai suoi occhi; le sembrava soprattutto che il precettore dovesse portare un abito nero.
«Ma è proprio vero, signore», gli chiese fermandosi ancora nel dubbio mortale d’ingannarsi, tanto la fiducia che il giovane le ispirava a rendeva felice, «è
proprio vero che sapete il latino?»
Queste parole ferirono l’orgoglio di Giuliano e fecero svanire l’incanto nel
quale viveva da un quarto d’ora.
«Sì, signora», rispose cercando d’assumere un tono freddo. «So il latino quanto il signor curato; anzi, talvolta, egli ha la bontà di dire che lo so meglio di lui».
Essa notò che Giuliano, fermo a due passi da lei, aveva in quel momento
un’aria molto cattiva. Gli si avvicinò e gli disse con voce sommessa:
«Per i primi giorni non batterete i miei bambini, vero? anche se non sapranno la lezione».
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Quel tono così dolce e quasi supplichevole da parte di una bella signora fece
dimenticare d’un tratto a Giuliano quel che doveva alla sua reputazione di latinista. Il volto della signora de Rênal era vicino al suo, ed egli sentì il profumo
delle vesti estive d’una donna, cosa del tutto nuova per un povero campagnolo. Giuliano arrossì violentemente e disse sospirando, con un fil di voce:
«Non temete, signora, vi obbedirò in tutto».
Solo in quel momento, bandita ogni preoccupazione per i ragazzi, la signora
de Rênal fu colpita dalla singolare bellezza di Giuliano. I suoi tratti quasi femminili, la sua aria imbarazzata, non sembrarono affatto ridicoli a una donna estremamente timida per se stessa. L’aspetto maschio, che è considerato comunemente necessario alla bellezza di un uomo, le avrebbe fatto paura.
«Quanti anni avete, signore?» gli chiese.
«Diciannove tra poco».
«Il mio figliuolo maggiore ne ha undici», continuò la signora de Rênal del tutto rassicurata; «sarà per voi quasi un compagno, al quale potrete parlare come
a un ometto. Una volta suo padre volle picchiarlo, e lui ne stette male per una
settimana; eppure si trattò soltanto di un piccolo scapaccione».
“Che differenza con me” pensò Giuliano. “Anche ieri mio padre me le ha suonate. I ricchi sono fortunati!”
La signora de Rênal, che stava cercando di cogliere le minime sfumature di
quel che passava per l’animo del precettore, scambiò per timidezza quell’ombra di tristezza e volle incoraggiarlo.
«Come vi chiamate, signore?» gli chiese con un tono e una grazia di cui Giuliano sentì tutto il fascino, senza peraltro potersene render conto.
«Mi chiamo Giuliano Sorel, signora; tremo tutto nell’entrare per la prima volta in casa d’altri, ho bisogno della vostra protezione e, nei primi giorni, dovrete
perdonarmi molte cose. Non sono mai stato in collegio, ero troppo povero; non
ho mai parlato ad altri che a mio cugino, chirurgo nell’esercito e membro della
Legion d’onore, e al signor curato Chélan, che vi potrà dare buone referenze su
di me. I miei fratelli mi hanno sempre percosso; non crediate loro se vi diranno
male di me; e perdonate fin d’ora i miei sbagli, signora, perché non saranno mai
dovuti a cattiva intenzione».
Durante questo lungo discorso, Giuliano, rinfrancatosi alquanto, prese ad
esaminare la signora de Rênal. Tale è l’effetto della grazia perfetta quando è
naturale e, soprattutto, quando la persona che ne è dotata non ne è consapevole. Giuliano, che s’intendeva molto di bellezza femminile, in quel momento
avrebbe giurato ch’essa non aveva più di vent’anni. Gli venne d’un tratto l’idea
audace di baciarle la mano, ma subito ebbe paura della propria idea; e tuttavia,
un momento dopo si disse: “Sarebbe vile da parte mia non compiere un gesto
che potrebbe essermi utile e diminuire il disprezzo che questa bella signora ha
probabilmente per un povero operaio appena tolto dalla segheria”. Forse Giuliano fu un poco incoraggiato dalla definizione di bel ragazzo che da sei mesi
udiva ripetere, la domenica, dalle ragazze del paese.
Mentre si svolgevano queste lotte interiori, la signora gli diceva qualche parola sul modo di iniziare il suo insegnamento coi ragazzi. Lo sforzo che Giuliano,
faceva su se stesso lo rese di nuovo pallidissimo; con viso compunto, disse:
«Non picchierò mai i vostri figli, signora, lo giuro dinanzi a Dio».
E così dicendo osò prendere la mano di lei e portarla alle labbra. Essa si stupì del gesto e, di riflesso, ne fu urtata. Poiché faceva molto caldo, il suo braccio
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era nudo sotto lo scialle, e il movimento di Giuliano nel portare la mano alle labbra, l’aveva interamente scoperto. Dopo qualche istante, essa si rivolse nell’intimo suo dei rimproveri, sembrandole che la sua indignazione fosse giunta troppo in ritardo.
(Stendhal, Il Rosso e il Nero, trad. di G. Marcellini, Roma, Casini, 1956)
Esercizi
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Che tipo di narratore è presente nel brano?
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Quale focalizzazione è stata usata?
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Da quali elementi del testo lo desumi?
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Quali tratti psicologici accomunano Giuliano e la signora de Rênal?
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Quali aspetti della donna colpiscono il giovane e quali tratti di Giuliano colpiscono la signora de Rênal?
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Nel loro colloquio il giovane precettore e la donna si studiano a vicenda. Quali emozioni provano?
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Giuliano e la signora de Rênal incarnano anche due ruoli codificati nella letteratura dell’Ottocento. Quali?
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Analizza lo stile di Stendhal nel brano che hai letto.
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Il brano presenta, oltre che un’accurata rappresentazione psicologica dei personaggi, anche un ambiente
fisico e sociale ricostruito con grande fedeltà. Analizza queste due componenti del testo e scrivi un breve
commento in cui evidenzierai gli aspetti che rendono particolarmente verosimile la rappresentazione di
Stendhal.
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GIUDIZIO
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HONORÉ DE BALZAC
Primo studio di donna
Il racconto dello scrittore francese Honoré de Balzac (1799-1850), scritto nel 1830 e inserito
nelle Scene della vita privata, presenta uno spaccato della società parigina, vista dal narratore
onnisciente con una buona dose di ironia. Nella vicenda, più che i fatti in sé, contano l’ambiente
sociale e gli abbozzi di carattere che Balzac tratteggia con precisione: ne emerge un quadro vivace
del bel mondo parigino degli anni Trenta in cui l’amore è una schermaglia galante e dominano i princìpi dell’apparire e non dell’essere.
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La marchesa di Listomère è una di quelle giovani donne che furono educate
secondo lo spirito della Restaurazione1. Ha dei princìpi, osserva i giorni di magro2,
fa la comunione e frequenta, elegantissima, i balli e i teatri; il suo direttore spirituale3 le permette di alleare il sacro e il profano. Sempre in regola con la Chiesa e con il mondo, ella è un’immagine del tempo presente, che sembra aver preso per epigrafe la parola: “Legalità”. [...] Maritata da sette anni al marchese di
Listomère, uno fra i deputati che attendono di esser nominati Pari di Francia,
forse crede di poter giovare con il suo contegno alle ambizioni della famiglia.
Alcune signore attendono, per giudicarla, il momento quando il signor di Listomère sarà Pari di Francia ed ella avrà trentasei anni, nella quale epoca della vita
il più delle donne si accorge di essersi asservita alle norme sociali.
Il marchese è un uomo piuttosto insignificante; è ben accolto a corte e le sue
qualità sono negative come i suoi difetti: quelle non gli possono dare una fama
di virtù, questi non gli danno la specie di lustro che circonda il vizio. [...] Né bella né brutta, la signora di Listomère ha i denti bianchi, una carnagione splendida e labbra assai rosse; è alta e ben fatta, ha il piede piccolo, gracile, e non lo fa
sporgere; i suoi occhi non sono affatto stanchi e spenti, come pressoché sempre sono gli occhi delle abitanti di Parigi; ed anzi hanno uno splendore dolce,
che si fa magico quando ella si anima; e veramente in lei si intravvede un’anima, al di là delle linee indecise del viso. Quando si appassiona, nel conversare,
vi dispiega una grazia nascosta di solito dalla precauzione di un contegno freddo, e allora ha del fascino. Non vuole aver successo e però vi perviene4: si trova sempre ciò che non si cerca; la qual frase è troppo sovente vera per non diventare un giorno proverbiale. Sarà perciò la morale di questa avventura, che non
mi permetterei di narrare se non se ne parlasse in questi giorni in tutti i salotti
di Parigi.
La marchesa di Listomère ballò, ora è circa un mese, con un giovane modesto e inconsiderato5, pieno di buone qualità e che mostra soltanto i suoi difetti, appassionato e che si burla delle passioni, che ha del talento e lo nasconde, e si atteggia a dotto con gli aristocratici e ad aristocratico coi dotti. Eugenio
di Rastignac è di quei giovani di molto buon senso che si provano ad ogni cosa,
e sembra tastare l’umanità per sapere che cosa l’avvenire gli prepari. Mentre
attende l’età adatta alle ambizioni, si burla di ogni cosa, ed ha grazia e originalità, qualità che raramente si uniscono, perché l’una esclude l’altra. Senza
1. Restaurazione: periodo della storia europea che va dal Con-
cattolici si astengono dal mangiare carne.
gresso di Vienna (1815) alla rivoluzione del luglio 1830 in Francia.
2. i giorni di magro: per precetto della Chiesa, i giorni in cui i
3. direttore spirituale: confessore.
4. vi perviene: lo raggiunge.
5. inconsiderato: imprudente, impulsivo.
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cercare un successo, conversò con la marchesa di Listomère durante una mezz’ora; e mentre la conversazione capricciosamente variava, e cominciata a proposito dell’opera di Guglielmo Tell6 era pervenuta a trattare dei doveri della
donna, egli aveva più di una volta guardato la marchesa in modo da suscitarle un lieve imbarazzo; poi la lasciò e non le parlò più in tutta la sera; ballò,
sedette al tavolo da gioco perdendo un po’ di denaro e andò a dormire. Ho
l’onore di dichiararvi che tutto avvenne in questo modo; e non vi aggiungo e
non tolgo nulla.
L’indomani mattina Rastignac si ridestò tardi, rimase in letto, ove di certo si
abbandonò a una di quelle fantasticherie mattutine [...]: la prima lettera che
scrisse fu terminata in un quarto d’ora; la piegò, la sigillò e la lasciò dinanzi a sé
senza porvi l’indirizzo. La seconda lettera, cominciata alle undici, fu terminata
soltanto a mezzodì, ed era di quattro pagine fitte.
«Quella donna non so levarmela di mente» disse piegando questa seconda
lettera, che depose pur essa dinanzi a sé, sul tavolo, pensando di apporvi l’indirizzo quando avesse terminata la sua involontaria fantasticheria. E incrociò i
due lembi della sua veste da camera a disegni di fogliami, pose i piedi su di uno
sgabello, affondò le mani nelle tasche dei pantaloni di cachemire rosso e si abbandonò in una deliziosa poltrona a sponde, di cui il seggio e lo schienale formavano il comodo angolo di centoventi gradi. [...]
Appunto in quel momento io entrai in camera di Eugenio, che ebbe un soprassalto e mi disse:
«Ah, eccoti mio caro Orazio! Da quanto sei qui?»
«Sono giunto ora».
«Ah!»
Prese le due lettere, vi pose l’indirizzo e chiamò il domestico.
«Portale in città».
Giuseppe se ne andò senza osservazioni: ottimo domestico! [...]
Quando la marchesa di Listomère si alzò, circa alle due dopo mezzodì, la sua
cameriera, Carolina, le consegnò una lettera che la marchesa lesse mentre Carolina la pettinava (imprudenza che molte giovani donne commettono).
«O caro angelo d’amore, tesoro di vita e di felicità!» A queste parole la marchesa volle gettare la lettera sul fuoco; ma le venne in capo un capriccio che
ogni donna virtuosa saprà assai bene intendere, e cioè di vedere come un uomo
che iniziava così il suo discorso vi potesse porre termine. Ella lesse. Quando
ebbe finita la quarta pagina, lasciò cadere le braccia al modo di una persona
stanca.
«Carolina, andate a vedere chi ha portata questa lettera».
«Signora, l’ho ricevuta dal servitore del barone di Rastignac».
Vi fu un lungo silenzio.
«La signora vuole vestirsi?» Carolina chiese.
«No».
“È un grande impertinente costui!” la marchesa pensò.
Prego ogni signora di immaginare a suo piacere i commenti della marchesa.
La signora di Listomère concluse i suoi commenti con la decisione di chiu6. Guglielmo Tell: leggendario eroe svizzero del XIV secolo.
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dere la porta di casa al signor Eugenio e di testimoniargli un orgoglioso disdegno7 se le avvenisse d’incontrarlo fra la gente, poiché la sua insolenza non
era paragonabile a nessuna di quelle che la marchesa aveva finito con lo scusare. Dapprima volle conservare la lettera, ma dopo un vario meditare, la bruciò. [...]
La sera, la signora di Listomère andò dal marchese di Beauséant, ove era probabile che Rastignac si trovasse. Era un sabato; il marchese di Beauséant era
un poco parente del signor di Rastignac e il giovane solitamente non mancava
a quelle serate. Alle due del mattino la signora di Listomère, che era rimasta
soltanto per dimostrare a Eugenio il suo freddo disdegno, lo aveva atteso inutilmente. [...] Quattro giorni dopo Eugenio sgridava il suo servitore.
«Ah, Giuseppe, sarò costretto a congedarti, ragazzo mio!»
«Perché, signore?»
«Fai delle sciocchezze. Dove hai portato le due lettere che ti consegnai venerdì?»
Giuseppe prese un’aria scema. Simile a una statua del porticato di una cattedrale, rimase immobile, intimamente assorto nel lavorio della sua immaginazione. A un tratto sorrise scioccamente e disse:
«Signore, l’una era per la signora marchesa di Listomère, in rue Saint-Dominique, e l’altra per l’avvocato del signore...»
«Sei certo di quel che dici?»
Giuseppe rimase immobile e come interdetto8. Vidi che dovevo intervenire,
poiché per caso mi ritrovavo ancora colà.
«Giuseppe ha ragione» dissi. Eugenio si volse verso di me. «Lessi gli indirizzi, del tutto involontariamente, e...»
«E», disse Eugenio interrompendomi «una delle lettere non era per la signora di Nuçingen?»
«No, per tutti i diavoli! tanto che io credetti, caro, che il tuo cuore avesse fatto una piroetta dalla rue Saint-Lazare alla rue Saint-Dominique».
Eugenio si batté la fronte con la palma della mano e sorrise; Giuseppe intese che l’errore non proveniva da lui.
Ed ora, ecco le considerazioni che ogni giovane dovrebbe far sue e meditare. Primo errore: Eugenio ritenne cosa piacevole far ridere la signora di Listomère del malinteso che l’aveva resa padrona di una lettera d’amore che non era
per lei. Secondo errore: andò dalla signora di Listomère soltanto quattro giorni
dopo l’avventura, lasciando che i pensieri di una donna giovane e virtuosa giungessero alla cristallizzazione.
Vi erano ancora una decina di errori, che dobbiamo passare sotto silenzio per
concedere alle signore di piacere di dimostrarli ex professo9 a coloro che non
li sappiano indovinare. Eugenio arriva alla porta della marchesa: ma quando
vuole entrare, il portiere lo ferma e gli dice che la signora marchesa è uscita.
Mentre risaliva in carrozza, entrò il marchese.
«Venite, Eugenio? mia moglie è in casa».
Oh! scusate il marchese. Per quanto buono, un marito giunge di rado alla
perfezione. Salendo la scala, Rastignac si accorse dei dieci errori di logica mondana che si trovavano in quel punto del bel libro della sua vita. Quando la
7. disdegno: disprezzo.
8. interdetto: sbigottito.
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9. ex professo: volontariamente per esteso.
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signora di Listomère vide suo marito entrare assieme ad Eugenio, non seppe
impedirsi di arrossire. [...] Il signor di Listomère prese la Gazette de France e
andò verso la nicchia di una finestra per farsi così, con l’aiuto del giornalista,
una propria opinione sulle condizioni della Francia. Una donna, e sia anche
contegnosa e savia10, non rimane a lungo in imbarazzo, pur nella più difficile
situazione nella quale possa trovarsi. [...] Perciò quando Eugenio, interpretando in favore della sua vanità gli ordini dati al portiere, salutò la signora di Listomère in modo piuttosto deciso e sicuro di sé, ella seppe velare tutti i propri
pensieri con uno di quei sorrisi femminili più impenetrabili di quanto non lo
sia la parola di un re.
«Siete forse indisposta, signora? Non volevate ricevere?»
«No, signore».
«Stavate per sortire, forse?»
«Neppure».
«Aspettavate qualcuno?»
«Nessuno».
«Se la mia visita è indiscreta, ne è responsabile il signor marchese. Ubbidivo
alla vostra misteriosa consegna, quando egli stesso mi introdusse nel santuario».
«Non mi ero confidata al signor di Listomère. Non è sempre cosa prudente
confidare a un marito un segreto...»
L’accento fermo e dolce con il quale la marchesa pronunciò queste parole e
lo sguardo imponente che ella gli lanciò fece ritenere a Rastignac ch’egli si era
di troppo affrettato a illudersi e ad aggiustarsi la cravatta.
«Signora, vi comprendo» disse, e rise; «e tanto più debbo esser lieto d’aver
incontrato il signor marchese, se ciò mi porge occasione di presentarvi una giustificazione, che sarebbe ben azzardata se voi non foste tanto buona».
La marchesa fissò il giovane barone, alquanto stupita; ma rispose con dignità:
«Signore, il silenzio sarà da parte vostra la migliore scusa. Quanto a me, vi
prometto l’oblio più completo e un perdono che voi non meritate».
«Signora», disse vivamente Eugenio «il perdono è inutile quando non vi sia
stata offesa. La lettera» soggiunse a voce bassa «che avete ricevuta e che dovette sembrarvi tanto sconveniente, non era per voi».
La marchesa non seppe vietarsi di sorridere: teneva ad esser stata offesa.
«Perché mentire?» ella riprese con una specie di gaio sdegno, ma con voce
abbastanza dolce. «Vi ho sgridato e ora posso volentieri ridere con voi di uno
stratagemma che non è senza malizia. Conosco delle poverette sulle quali
avrebbe avuto presa. “Mio Dio! come mi ama!” direbbero». La marchesa rise,
un poco forzatamente, e soggiunse con aria indulgente: «Se vogliamo rimanere amici, non sia più questione fra di noi di malintesi che non possono ingannarmi».
«Sul mio onore, signora, v’ingannate più di quanto crediate» Eugenio replicò vivacemente. [...]
«Sapete, signore», riprese la marchesa rivolgendosi verso Eugenio, «che mi
avete detta un’impertinenza?»
«Se non conoscessi il rigore dei vostri princìpi», egli rispose ingenuamente
10. contegnosa e savia: riservata e giudiziosa.
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«crederei che vogliate persuadermi a idee contro le quali mi guardo, o strapparmi il mio segreto. Forse anche volete burlarvi di me».
La marchesa sorrise, e il sorriso spazientì Eugenio.
«Possiate sempre credere, signora», disse «a un’offesa che non vi ho fatta! e
auguro ardentemente che il caso non vi faccia scoprire chi sia la persona cui era
rivolta quella lettera...»
«Eh, diamine! sarebbe ancora la signora di Nuçingen?» esclamò la signora di
Listomère, assai più curiosa di indovinare un segreto di quanto non volesse vendicarsi degli epigrammi11 del giovane. Eugenio arrossì. Occorre aver più di venticinque anni per non arrossire quando ci sia rimproverata, come cosa sciocca,
la fedeltà, cui gli uomini irridono12 per non mostrare quanto ne siano invidiosi.
Nondimeno disse con sufficiente calma: «Perché no, signora?»
Tali sono gli errori che si compiono a venticinque anni. La confidenza commosse intensamente la signora di Listomère; ma Eugenio non sapeva ancora
analizzare un viso di donna guardandolo di sfuggita e di profilo. Soltanto le labbra della marchesa erano impallidite. La signora di Listomère chiamò per chiedere della legna e costrinse così Rastignac ad alzarsi per uscire.
«Se così stanno le cose», disse allora la marchesa fermando Eugenio e in tono
freddo e contegnoso «vi sarebbe difficile spiegarmi, signore, per quale caso mai
la vostra penna abbia scritto il mio nome. Un indirizzo su di una lettera non è
come il cappello del vicino, che per storditezza13 si può scambiare col proprio
uscendo da un ballo».
Eugenio guardò la marchesa in modo assieme vanitoso e sciocco; sentì che
stava per diventar ridicolo, balbettò una frase qualsiasi e uscì. Alcuni giorni dopo
la marchesa ebbe prove non ricusabili della veracità14 di Eugenio. Da sedici giorni ella non va più tra la gente.
Il marchese dice a chi gli domanda la ragione di quel mutamento di vita: «Mia
moglie ha una gastrite».
Io che la curo e che conosco il suo animo, so che ella ha soltanto una piccola crisi nervosa, di cui approfitta per rimanere in casa.
(Honoré de Balzac, in Due studi di donna e altri racconti,
trad. di A. Pellegrini, Milano, Bompiani, 1944)
11. epigrammi: brevi componimenti poetici, qui usato ironica-
mente per alludere alle lettere.
12. irridono: deridono, scherniscono.
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13. storditezza: distrazione.
14. veracità: sincerità.
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Esercizi
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Riassumi il racconto in quindici righe.
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2
Quali sono i personaggi? Chi li presenta? Vi sono tracce ironiche in queste presentazioni? Se sì, in quali
punti?
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3
Ti sembra coerente il comportamento dei personaggi?
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4
Nello sviluppo dell’azione i personaggi si modificano o no?
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5
La trama della storia ti sembra semplice o complessa?
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6
Che tipo di narratore è presente in questo racconto?
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7
La focalizzazione è unica o multipla?
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Volume 1, Unità 5
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Vi sono interventi del narratore? Sotto quale forma? Con quale funzione?
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9
Vi sono parti dialogate? Che funzione hanno nel racconto?
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10 In quale luogo è ambientato il racconto?
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11 In quale tempo è ambientata la storia? Da quali indizi lo comprendi?
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12 Rintraccia nel testo i riferimenti alla società francese di quegli anni.
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13 Quale ruolo ti sembra che abbia l’amore in questo racconto? Distingui prima il punto di vista della marchesa, poi quello di Rastignac.
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14 Secondo te, il comportamento di Rastignac nella parte finale del racconto è motivato? Come avrebbe reagito un giovane più avvezzo alla vita di società?
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GIUDIZIO
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GUSTAVE FLAUBERT
Il pappagallo di Felicita
Nel brano dello scrittore francese Gustave Flaubert (1821-1880), tratto dal racconto Un cuore
semplice, ben si può cogliere la ricerca della perfezione di scrittura alla quale il grande autore di
Madame Bovary mirava costantemente. La trama è poverissima di avvenimenti: il «cuore semplice» è quello di Felicita, una serva umile e fedele che si accontenta di quanto la vita le offre e trasfigura anche la realtà più modesta, in un valore assoluto. La sua presentazione è, all’inizio, piuttosto
sommaria: di lei si dice solo che «era cuoca e governante, cuciva, lavava, stirava, sapeva mettere le
briglie a un cavallo, allevare il pollame, fare il burro ed essere fedele alla padrona». Via via che il racconto procede, la figura di Felicita si arricchisce di particolari nuovi, sensazioni, episodi, colori che
la rendono viva e indimenticabile. Fedele ai principi naturalistici, Flaubert offre uno spaccato di vita
di provincia ottenuto con lo strumento della descrizione impersonale: lo scrittore non deve frapporre il filtro delle sue emozioni, dei suoi giudizi, delle sue idee, ma presentare la realtà così com’è. I
personaggi devono vivere di vita propria, le cose parlare da sé, i luoghi e gli ambienti essere studiati con precisione scientifica perché l’effetto di realtà sia pieno.
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Si chiamava Lulù. Il corpo era verde, la punta delle ali rosa, la testa azzurra
e il petto color oro.
Ma aveva la fastidiosa mania di mordere il trespolo, si strappava le penne,
faceva sporco tutt’intorno, versava l’acqua della vaschetta. La signora Aubain1,
seccata, lo dette per sempre a Felicita.
Lei incominciò ad ammaestrarlo; presto ripeté: «Bel giovanotto! Servo suo,
signore! Ave Maria!» Era sistemato vicino alla porta, e molti si stupivano che non
rispondesse al nome di Cocorito, dato che tutti i pappagalli si chiamano Cocorito. Lo paragonavano a un tacchino, gli davano della testa di legno, tutte pugnalate per Felicita! Curiosa ostinazione quella di Lulù, appena lo guardavano non
parlava più!
Eppure ricercava la compagnia; infatti la domenica, quando le immancabili
signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e i nuovi assidui: il farmacista
Onfroy, il signor Varin e il capitano Mathieu giocavano a carte, lui sbatteva le ali
contro i vetri, si dimenava con tale furia che era impossibile capirsi. [...]
Felicita, turbata da quei modi, lo mise in cucina. Gli fu tolta la catenella, ed
esso girava per casa.
[...] Il signor Paolo2, un giorno, fece l’imprudenza di soffiargli sul muso il fumo
d’un sigaro; un’altra volta che il signor Lormeau lo molestava con la punta dell’ombrello, Lulù ne afferrò il puntale; infine si smarrì.
Felicita l’aveva posato sull’erba perché si rinfrescasse; si assentò un minuto
e quando tornò, niente pappagallo! Prima lo cercò nei cespugli in riva all’acqua
e sui tetti, senza badare alla padrona che le gridava: «State attenta! siete matta!» Poi esplorò tutti i giardini di Pont-l’Evêque. [...] Alla fine rientrò, sfinita, le
ciabatte a pezzi, la morte nel cuore; e seduta sulla panca vicino alla Signora, raccontava tutti i suoi giri, quando un peso leggero le cadde sulla spalla, Lulù! Che
diavolo aveva fatto? Magari se n’era andato a spasso nei dintorni!
Felicita faticò a riprendersi, o meglio non si riprese più.
1. La signora Aubain: la vedova, padrona di Felicita.
2. Il signor Paolo: il figlio della Aubain.
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In seguito ad un raffreddamento, le venne mal di gola; e, dopo un po’, mal
d’orecchi. Tre anni dopo era sorda; e parlava ad alta voce, anche in chiesa. [...]
Il piccolo cerchio delle sue idee si restrinse ancora, e il concerto delle campane, il muggito dei buoi cessarono d’esistere. Tutti gli esseri agivano in un silenzio spettrale. Un solo rumore ormai le giungeva alle orecchie, la voce del pappagallo.
Quasi volesse distrarla, esso imitava il tic tac del girarrosto, il richiamo acuto del pescivendolo, la sega del falegname dirimpetto e, agli squilli del campanello, imitava la signora Aubain, «Felicita! la porta! la porta!»
Si parlavano, lui ripetendo a sazietà le tre frasi del suo repertorio, e lei rispondendogli con parole sconnesse, ma nelle quali il suo cuore s’apriva. Nel suo isolamento, Lulù era quasi un figlio, un innamorato. Le si arrampicava sulle dita,
le mordicchiava le labbra, si aggrappava al suo scialletto; e quando lei chinava
la fronte scuotendo il capo come fanno le balie, le grandi ali della sua cuffia e
quelle dell’uccello fremevano3 insieme.
Quando le nuvole s’addensavano e il tuono brontolava, lui lanciava dei gridi,
rammentando forse gli acquazzoni delle foreste natie4. L’acqua scrosciante provocava il suo delirio; svolazzava smarrito, saliva fino al soffitto, rovesciava tutto, e infilata la finestra andava a sguazzare in giardino; poi rapido tornava a
posarsi su uno degli alari5, e, saltellando per asciugarsi le penne, mostrava ora
la coda, ora il becco.
Una mattina del terribile inverno del 1837, in cui, per via del freddo, lei l’aveva messo davanti al camino, lo trovò morto nella gabbia, la testa in giù e le unghie
infilate nel reticolato. L’aveva ucciso una congestione, ma era poi vero? Felicita credette ad un avvelenamento con il prezzemolo, e, nonostante l’assenza
d’ogni prova, i suoi sospetti caddero su Fabu.
Pianse talmente che la padrona le disse: «Suvvia! fatelo impagliare!»
Chiese consiglio al farmacista, che era stato sempre gentile col pappagallo.
Egli scrisse a Le Havre. Un tale Fellacher s’incaricò della cosa. Ma siccome
la diligenza a volte smarriva i pacchi, decise di portarlo lei stessa fino a Honfleur.
I meli senza foglie scorrevano ai lati della strada. Il ghiaccio copriva i fossi. Dei cani abbaiavano intorno alle masserie6; e con le mani sotto la mantellina, con i suoi zoccoli neri e il paniere, lei camminava spedita, in mezzo alla
strada.
[...] Giunta in cima a Ecquemauville, scorse le luci di Honfleur che brillavano nella notte come una miriade di stelle; il mare, lontano, si stendeva indistintamente. Allora le mancarono le forze; e la miseria della sua infanzia, la
delusione del primo amore, la perdita del nipote, la morte di Virginia7, come
onde di marea, riaffiorarono tutt’assieme, e, salendole alla gola, la soffocavano.
Volle poi parlare al capitano della nave; e, senza dire cosa spediva, gli fece
delle raccomandazioni.
Fellacher tenne a lungo il pappagallo. Lo prometteva sempre per la settimana seguente; in capo a sei mesi, annunziò l’invio d’una cassa; e la faccenda fu
3. fremevano: si agitavano.
4. natie: native.
5. alari: arnesi di ferro per sostenere la legna nel focolare.
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6. masserie: cascine, case coloniche.
7. Virginia: la figlia della signora Aubain.
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chiusa. C’era da chiedersi se Lulù sarebbe mai tornato. “Me l’avranno rubato!”
pensava Felicita.
Finalmente arrivò, splendido, ritto su un ramo d’albero, avvitato su uno zoccolo di mogano, una zampa all’aria, il capo inclinato, una noce nel becco, che
l’impagliatore, per amore della grandiosità, aveva dorata.
Lo chiuse in camera sua.
Quel luogo, in cui ammetteva poche persone, aveva insieme l’aspetto d’una
cappella e di un bazar8, tanto era zeppo di oggetti religiosi e delle cose più disparate.
Un grande armadio impediva d’aprire bene la porta. Di fronte alla finestra a
strapiombo sul giardino, una finestrella ovale guardava sul cortile; una tavola,
accanto alla branda, reggeva una brocca, due pettini, e un pezzo di sapone azzurro in un piatto sbrecciato. Si notavano contro le pareti rosari, medagliette, diverse madonnine, una acquasantiera in noce di cocco; sul cassettone, coperto da
una tovaglia come un altare, la scatola di conchiglie che le aveva regalato Vittorio; poi un innaffiatoio e una palla, dei quaderni di calligrafia, il libro di geografia illustrata, un paio di stivaletti, e al chiodo dello specchio, appeso per i
nastri, il cappellino di peluche! Felicita spingeva a tal punto questo culto che
conservava una delle redingote del Signore. Tutto il vecchiume di cui la signora Aubain voleva disfarsi, lei lo raccoglieva per la sua stanza. E così aveva dei
fiori artificiali sul cassettone, e il ritratto del conte di Artois9 nel vano dell’abbaino10.
Mediante una mensolina, Lulù fu sistemato su una parte del camino che sporgeva nella stanza. Ogni mattina, svegliandosi, l’intravedeva nel chiarore dell’alba, e ricordava allora i giorni passati, le azioni più insignificanti fin nei minimi
particolari, senza dolore, colma di tranquillità.
Non comunicando con nessuno, viveva in un torpore da sonnambula. Le processioni del Corpus Domini11 la rianimavano. Andava dalle vicine a chiedere i
candelieri e le stuoie per ornare l’altare che veniva preparato nella strada.
In chiesa contemplava sempre lo Spirito Santo, e notò che aveva qualcosa
del pappagallo. La somiglianza le parve ancora più evidente su una stampa d’Epinal12, che rappresentava il battesimo di Nostro Signore. Con le sue ali di porpora e il corpo di smeraldo, era proprio il ritratto di Lulù.
Comprò la stampa e l’appese al posto del conte di Artois, in modo tale che,
d’un sol colpo d’occhio, li poteva vedere insieme. Essi si associarono nella sua
mente, il pappagallo si trovò santificato da quel rapporto con lo Spirito Santo,
che ai suoi occhi diventava più vivo e intelligibile. Il Padre, per esprimersi, non
poteva aver scelto una colomba, perché sono animali senza voce, ma piuttosto
uno degli antenati di Lulù. E Felicita pregava guardando quell’immagine, ma di
tanto in tanto si girava un po’ verso l’uccello.
Desiderò entrare tra le figlie di Maria13. La signora Aubain la dissuase.
Sopraggiunse un avvenimento importante: il matrimonio di Paolo.
Dopo essere stato giovane di studio da un notaio, nel commercio, nelle dogane, alle imposte, e dopo essersi dato da fare per entrare nell’amministrazione
forestale, a trentasei anni, di colpo, per ispirazione celeste, aveva scoperto la
8. bazar: mercato dei paesi africani e orientali.
9. Artois: contea del Nord della Francia.
10. abbaino: vano sporgente del tetto.
11. Corpus Domini: festività cristiana dell’Eucaristia che si cele-
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bra sessanta giorni dopo Pasqua.
12. stampa d’Epinal: celebri illustrazioni popolari prodotte in
quella città della Francia.
13. figlie di Maria: congregazione religiosa femminile.
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propria strada: l’ufficio del registro14! E vi mostrava così alte capacità che un
ispettore gli aveva offerto la figlia, promettendogli la sua protezione.
Paolo, diventato una persona seria, la condusse dalla madre.
La ragazza criticò le usanze di Pont-l’Evêque, fece l’altezzosa e offese Felicita. La signora Aubain, quando ripartì, ne fu sollevata.
La settimana dopo si seppe della morte del signor Bourais in bassa Bretagna,
in una locanda. Le voci d’un suicidio trovarono conferma; emersero dei dubbi
sulla sua onestà. La signora Aubain controllò i suoi conti, e non tardò a scoprire la sequela15 delle sue nefandezze: sottrazioni d’arretrati, vendite fasulle di
legna, false quietanze16, ecc. Per di più, aveva un figlio naturale17, e “una relazione con una tale di Dozulé”.
Queste infamie l’afflissero molto. Nel mese di marzo del 1853 fu colta da un
dolore al petto; la lingua era opaca come fumo, le sanguisughe18 non calmarono l’affanno; e la sera del nono giorno spirò, a settantadue anni giusti.
La credevano meno vecchia, per via dei capelli scuri che le incorniciavano il
viso smorto, segnato dal vaiolo. Pochi amici la rimpiansero; i suoi modi alteri
allontanavano.
Felicita la pianse, come non si piangono i padroni. Che la Signora fosse morta prima di lei, le confondeva le idee, le sembrava contrario all’ordine delle cose,
inammissibile e mostruoso.
Dieci giorni dopo (il tempo d’accorrere da Besançon) giunsero gli eredi. La
nuora frugò nei cassetti, scelse dei mobili, ne vendette altri, poi se ne tornarono al Registro.
La poltrona della Signora, il suo tavolino tondo, il suo scaldino, le otto sedie,
tutto era partito! Al posto delle stampe si stagliavano dei quadrati gialli sulle
pareti. Si erano portati via anche i due lettini con i materassi, e nell’armadio a
muro non si vedeva più nulla di tutte le cose di Virginia. Felicita risalì le scale,
pazza di tristezza.
Il giorno dopo c’era sulla porta un cartello; il farmacista le gridò nell’orecchio
che la casa era in vendita.
Lei barcollò, e fu costretta a sedersi.
Ciò che più di tutto la rattristava era di dover lasciare la sua stanza, così
confortevole per il povero Lulù. Abbracciandolo d’uno sguardo angosciato,
implorava lo Spirito Santo; e prese l’abitudine idolatra19 di pregare inginocchiata davanti al pappagallo. A volte il sole attraverso l’abbaino colpiva il suo
occhio di vetro e ne faceva scaturire un gran raggio luminoso che la mandava in estasi. [...]
La vista le si indebolì. Le persiane non aprivano più. Molti anni passarono.
La casa non si affittava, né si vendeva.
Temendo che la mandassero via, Felicita non chiedeva nessuna riparazione.
Le assicelle del tetto marcivano; per tutto un inverno il suo capezzale fu bagnato. Dopo Pasqua sputò sangue.
Allora mamma Simon chiamò un medico. Felicita volle sapere che cosa aveva. Ma, troppo sorda per sentire, le giunse una sola parola: “Polmonite”. La cono-
14. ufficio del registro: ufficio pubblico dove si registrano tut-
ti gli atti giuridici.
15. sequela: successione, serie.
16. quietanze: ricevute di pagamento.
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17. figlio naturale: nato fuori del matrimonio.
18. sanguisughe: vermi che succhiano il sangue, applicati per
fare salassi a scopo terapeutico.
19. idolatra: che adora false immagini divine, pagana.
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sceva, e rispose serenamente: «Ah! come la Signora», trovando naturale seguire la padrona.
La festa dei tabernacoli20 si avvicinava.
Il primo era sempre ai piedi della collina, il secondo davanti alla posta, il terzo circa a metà strada. Ci furono rivalità a proposito di quest’ultimo; e le parrocchiane alla fine scelsero il cortile della signora Aubain.
L’affanno e la febbre aumentarono. Felicita si lamentava di non poter far nulla per il tabernacolo. Se almeno avesse potuto mettervi qualcosa! Allora pensò
al pappagallo. Non era decoroso, obiettarono le vicine. Ma il curato diede il permesso; lei ne fu così felice che lo pregò d’accettare in dono, dopo che fosse morta, Lulù, la sua sola ricchezza.
Dal martedì al sabato, vigilia del Corpus Domini, tossì più frequentemente.
[...] Tre brave donne le erano accanto durante l’estrema unzione. Disse che aveva bisogno di parlare a Fabu.
Egli arrivò con il vestito della domenica, a disagio in quella atmosfera lugubre.
«Perdonatemi» disse lei, facendo uno sforzo per allungare il braccio, «credevo che foste stato voi ad ucciderlo!»
Ma che razza di discorso era mai quello? Averlo sospettato di assassinio, un
uomo come lui! S’indignava, e stava per fare una piazzata.
«Ma non vedete che non c’è più con la testa?»
Felicita di tanto in tanto parlava alle ombre. Le brave donne si allontanarono. La Simon mangiò qualcosa.
Poco più tardi prese Lulù, e avvicinandolo a Felicita: «Su! ditegli addio!»
Anche se non era un cadavere, i vermi lo divoravano, un’ala era spezzata e
la stoppa gli usciva dal ventre. Ma, ormai cieca, lei lo baciò in fronte, e lo teneva contro la guancia. La Simon lo riprese per metterlo nel tabernacolo.
(Gustave Flaubert, Un cuore semplice, in Tre racconti, trad. di R. Maccagnani,
Milano, A. Mondadori, 1990)
20. festa dei tabernacoli: l’esposizione dell’ostia consacrata per la festa del Corpus Domini.
Esercizi
1
Rintraccia nel testo tutte le informazioni relative al pappagallo.
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2
Perché la signora Aubain decide di regalarlo a Felicita?
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3
Come giudichi il personaggio della signora Aubain?
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4
Che cosa rappresenta il pappagallo per Felicita?
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5
Perché si può affermare che, anche da morto, l’uccello mantiene la sua funzione consolatoria?
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6
Quali tra gli oggetti presenti nella stanza di Felicita potrebbero trovar posto in un bazar e quali in una cappella?
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7
Sentendo avvicinarsi la morte, perché Felicita manda a chiamare Fabu?
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8
Dividi il brano in sequenze e attribuisci a ciascuna un titolo.
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9
Che tipo di sequenza prevale?
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10 Di chi è il punto di vista?
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Alunno: .............................................................................................................................................................................................................................. Classe: ...................................................................... Data: ......................................................................
Volume 1, Unità 5
11 Con quali tecniche vengono riportati nel racconto i pensieri di Felicita? Nel complesso, come definiresti la
sua psicologia?
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12 Individua i tempi e gli spazi della narrazione.
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13 Che funzione ha la descrizione in questo racconto?
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GIUDIZIO
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