Manuel Castells La costruzione dell`identità europea

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Manuel Castells La costruzione dell`identità europea
SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Tre, 2002
EUROPA. Democrazia, culture e identità: al plurale
a cura di Claudia Padovani
Pag. 5
Introduzione di Claudia Padovani
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 15
Pag. 24
La costruzione dell’identità europea di Manuel Castells
Unione europea, sfida identitaria e patriottismo della cittadinanza multinazionale.
Un’analisi condizionale di Gaspare Nevola
Il faro
Pag. 48
Pag. 63
Comunicazione politica in trasformazione nell’Unione Europea di Philip Schlesinger
Sfide e prospettive per un’identità mediterranea “plurale” di Stefania Panebianco
Passaggio a NordEst
Pag. 77
La dimensione regionale delle politiche europee per l’innovazione. Le prospettive per
il Veneto di Ruben Sacerdoti
Il sestante
Pag. 84
Pag. 93
Pag. 98
Quale governance europea? Note critiche sul Libro Bianco della governance di
Patrizia Messina
Natura e portata della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di
Francisco Leita
Moneta unica e formazione del consenso: verso un governo europeo? Un invito alla
ricerca di Stefano Palombarini
Mayday Mayday
Pag. 105 La filosofia come luogo aperto per un dialogo interculturale! di Filomeno Lopes
Asterischi
Pag. 110 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale; K. Eder, B. Giesen (a cura di),
European Citizenship between National Legacies and Postnational Projects; Y. Mény,
Tra utopia e realtà. Una costituzione per l’Europa; B. Frey, R. Eichmberg, The New
Democratic Federalism for Europe. Functional Overlapping and Competing
Jurisdiction; I. Diamanti, D. Marini (a cura di), Nord Est 2001; F. Belussi, Tacchi a spillo;
A. Cavalli, Incontro con la sociologia; S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti.
Claudia Padovani
Introduzione
“La realistica descrizione dell’Europa come istituzione politica
di regolazione offre solo un’idea parziale di cosa sia in gioco nel
dibattito sull’identità europea. Al di là dell’amministrazione
politica dell’Europa vi sono relazioni sociali che portano con sé
aspettative e valori normativi” (Eder e Giesen 2001)
L’anno 2002 rappresenta una tappa significativa nella costruzione
dell’Europa: si é aperto con l’adozione della moneta comune da parte di
oltre 300 milioni di cittadini dell’Unione e con l’avvio dei lavori della
Convezione sul futuro dell’Europa, che dovrebbe ridefinirne la struttura
istituzionale ed eventualmente indicare la strada verso l’elaborazione di
una carta costituzionale comune. Si riaffaccia allora, con insistenza, la
domanda:”Ma l’Europa, che cosa é?”.
Se si considerasse l’Europa come l’esempio concreto di un international
regulatory state (Caporaso 2001), l’attenzione prestata fino ad ora dalle
istituzioni europee alle esigenze di standardizzazione e armonizzazione
delle normative e delle politiche dei singoli paesi apparirebbe, forse, soddisfacente. Tuttavia pare che il dibattito sulla natura di quello che possiamo chiamare “esperimento europeo” vada molto oltre la funzione di regolamentazione e di offerta di servizi che le istituzioni comunitarie svolgono. Si analizza la compresenza di elementi federali e confederali nell’architettura europea (Fabbrini 2001); si rileggono le narrative che hanno
contribuito alla costruzione dell’Unione (Stone Sweet 2001); ci si interroga sulle implicazioni del prossimo – ma già in fieri – allargamento
dell’Unione verso Est (Sassoon 2001).
Così, mentre si riconosce che la natura futura dell’Europa non è prevedibile chiaramente (Schmitter 2000), essa è stata definita, di volta in volta,
un’organizzazione sopranazionale composita, una federazione, una confederazione, un ordine costituzionale senza costituzionalismo, una tappa
nell’evoluzione dello Stato moderno, un condominio (Meny 2001). E
ancora: un “pooling di sovranità” (Keohane e Hoffman 1991), un “sistema
dinamico di governance multilvello” (Jachtenuchs/Kohler-Koch 1996 citati da Pfetsch 2001), un “network state” (Castells 1998).
Con la Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione, adottata lo scorso
15 dicembre, gli Stati membri ammettono che l’Unione sia giunta ad un
“crocevia”, un momento cruciale della sua esistenza. “L’Europa si trova ad
affrontare contemporaneamente due sfide, l’una all’interno e l’altra al di
fuori dei propri confini”.
La sfida esterna riguarda la posizione ed il ruolo dell’Unione Europea nel
mondo globalizzato in rapido mutamento. Venute meno le aspettative di
un ordine mondiale stabile che avrebbe dovuto seguire al crollo del muro
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n.3 / 2002
di Berlino, gli attori europei sono costretti a misurarsi con le sfide globali
che hanno trovato materialmente e simbolicamente tragica espressione
nei fatti dell’11 settembre 2001 e ora il fanatismo religioso, il nazionalismo
etnico, il razzismo e il terrorismo vengono citati come “forze antagoniste”
contro le quali lottare. Accanto a questi fenomeni di carattere prevalentemente transnazionale, che pare continuino a suscitare reazioni “di vecchio
stampo” da parte degli Stati nazionali, è necessario riconoscere come
anche le conseguenze negative dei processi di globalizzazione siano un
potenziale di destabilizzazione a livello mondiale: conflitti regionali (si
pensi all’acuirsi per l’ennesima volta della crisi fra India e Pakistan e all’escalation degli ultimi mesi nel conflitto fra Israele e Palestina), povertà
dilagante (assistiamo in queste settimane alle vicende tragiche di un paese
ricco di risorse e di opportunità di lavoro quale l’Argentina), squilibri economici e tecnologici (trovare soluzioni al cosiddetto “divario digitale”
sembra essere la nuova parola d’ordine delle istituzioni internazionali),
rischi ambientali ecc.
Il ruolo che l’Europa pensa per sé nel nuovo ordine planetario è quello di
una “potenza che può assumere un ruolo di stabilizzatore (…) e costituire al contempo un faro per molti paesi e popoli”. Essa è vista come un
continente che deve “assumere la propria responsabilità nella gestione
della globalizzazione” e “modificare i rapporti nel mondo in modo tale che
non solo i paesi ricchi bensì anche quelli poveri possano trarne beneficio”,
in un contesto etico di “solidarietà e sviluppo sostenibile” (Dichiarazione
di Laeken 2001). Tutto questo richiede il proseguimento della costruzione europea, un consenso forte sugli obiettivi, il superamento dei vincoli e
dei problemi posti alla struttura istituzionale dall’allargamento ad Est ed il
rafforzamento di una “identità” istituzionale europea nel nuovo ordine
multipolare. Per ottenere tutto ciò da più parti si riconosce anche la
necessità che la politica estera e di difesa comune venga sviluppata in
maniera coerente; possibilità questa che sembra essere messa in discussione ogni qualvolta ci si trovi ad affrontare una nuova sfida globale
(Merlini 2001). Gli sviluppi internazionali recenti hanno infatti messo in
luce la tensione esistente fra elementi di integrazione (quale l’adozione
del mandato di cattura europeo e di misure comuni nella lotta contro il
terrorismo) ed elementi di frammentazione (le modalità di adesione all’alleanza promossa dagli Stati Uniti nella lotta contro Al Quaeda e al terrorismo). Forze centripete e forze centrifughe sono tuttora in atto nello spazio europeo, così come lo sono nello spazio globale. Dinamiche globali e
locali, regionali e nazionali interagiscono in una tale complessità di relazioni, che ci pare prematuro affermare che la reazione ancora fortemente
statocentrica agli eventi dell’11 settembre mini alla base le prospettive di
sviluppo dell’Unione Europea così come non ci sentiamo di affermare la
“fine della globalizzazione” (Jeremy Rifkin, Carta, 1/7 novembre 2001).
Vi sono processi difficilmente reversibili legati all’integrazione mondiale,
trainata dall’economia e sostenuta dalle tecnologie di comunicazione e
informazione; ma si sta anche diffondendo un’accresciuta consapevolezza
della necessità di regole per i processi globali e di modalità coerenti di
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Claudia Padovani
Introduzione
cooperazione fra alcuni governi e quelle stesse istituzioni internazionali
che di quei processi sono state la massima espressione e che, negli ultimi
anni, si sono trovate sempre più spesso “sotto assedio” (Ramonet 2001).
Non, dunque, “fine della globalizzazione”, ma semplicemente l’evolvere di
processi che, per la loro stessa natura, generano e subiscono mutamento
continuo, fughe in avanti e battute d’arresto.
Quanto alla sfida interna rivolta alle istituzioni europee, questa riguarda la
necessità che tali istituzioni si avvicinino ad un “cittadino” che “condivide
i grandi obiettivi dell’Unione” ma chiede anche meno complessità e rigidità, più efficienza e trasparenza ed un miglior controllo democratico.
Nelle parole della Dichiarazione di Laeken il cittadino europeo “auspica”
ruoli importanti per l’Unione in materia di giustizia e sicurezza come
anche di politica estera; “chiede” risultati sul piano dell’occupazione e
della lotta alla povertà; “esige” un approccio comune in materia di inquinamento e sicurezza alimentare: tutte questioni transfrontaliere che,
“come il cittadino intuisce istintivamente, possono essere affrontate soltanto attraverso una cooperazione reciproca”.
Sorgono spontanee alcune domande: come individuare questo “cittadino” e come considerare l’insieme dei cittadini europei? Esiste forse un
demos che condivide una reale volontà politica di abitare lo spazio europeo in quanto tale? Esiste una volontà collettiva che può diventare fondamento di una identità europea potenzialmente costitutiva di una futura
“comunità politica”? Un’identità che non necessariamente deve coincidere con una totale identità culturale ma che, al tempo stesso, non può fondarsi esclusivamente sulla presenza di istituzioni e procedure comuni?
Cultura, identità, cittadinanza e comunicazione finiscono per diventare parole chiave nel dibattito attuale sul futuro di questo “esperimento
europeo” e tuttavia sono concetti problematici cui solo in tempi recenti si
è iniziato a prestare la dovuta attenzione.
Nel formulare ipotesi sulle prospettive dell’Unione è interessante che
diversi autori concordino sull’esigenza di andare oltre le categorie e i
modelli organizzativi offerti dall’esperienza degli Stati europei, e tentino
di sviluppare una “visione” di ciò che l’Unione diverrà nel prossimo futuro. Ci pare che il vocabolario e l’apparato concettuale con cui queste ipotesi vengono formulate fatichi a trovare proprie strade per “mettere all’opera l’immaginazione”; è interessante, tuttavia, che alcuni tentativi vengano fatti, in questa direzione, a partire dal riconoscimento che difficilmente si potrà avere qualche cosa di più che un insieme di istituzioni regolatrici, se non si darà spazio e non si coltiveranno le dimensioni della partecipazione politica e della cittadinanza e, in ultima istanza, se non si affronterà il tema cruciale della possibilità di una “identità europea molteplice”.
Ma poi, chi sono gli Europei? E’ pensabile una identità europea e quali
caratteri potrebbe avere? Se accettiamo di guardare all’Europa come ad
una “famiglia di culture” (Smith 1997), ci chiediamo come si stiano ricomponendo nello spazio europeo elementi che tradizionalmente sono associati all’idea di identità nazionale, ovvero la presenza di una lingua comune, di delimitazioni territoriali, di comuni memorie, tradizioni, miti, di un
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insieme riconosciuto di diritti e doveri. Se anche solo uno di questi elementi consentisse di fissare un discrimine preciso – ad esempio la dimensione religiosa – sarebbero forse da considerare più europei armeni e
georgiani, che hanno condiviso la tradizione cristiana, di quanto lo siano
serbi e turchi, dal momento che la loro cultura è storicamente islamica? In
secondo luogo non sarebbe semplice identificare l’autorità legittimata a
decidere di tali questioni (Pocock 1997).
Ma se si ammette che una qualche identità europea si sta formando, attraverso dinamiche storiche di lungo periodo, in quale relazione si verrebbe
a trovare, rispetto alle consolidate identità nazionali e alle (ri)emergenti
identità regionali e locali, un insieme di valori che potrebbe offrire riferimenti materiali e simbolici comuni alle popolazioni del continente, estendendo così il loro senso di appartenenza? Ed è possibile pensare ad una
molteplicità di appartenenze nel caso di identità collettive, quale sarebbe
quella europea, allo stesso modo in cui si riconosce la molteplicità come
elemento che caratterizza le identità individuali nell’epoca “post-moderna”? E, per proseguire in questa direzione, questa ipotizzabile identità
europea quanto si autodefinisce e quanto deve, invece, tener conto delle
percezioni e delle letture di Altri, “non europei”, per trovare una definizione? Il confronto con altre culture e altre religioni, altre esperienze storiche e altre visioni del mondo non è forse parte fondante dell’esperienza
europea (Morin 1989, Dussel 1993), tanto più per un paese come l’Italia,
affacciato su di un mare Mediterraneo che è stato e continua ad essere
fonte di scambi, flussi di comunicazione e contaminazioni? Ancora: qual è
il legame fra identità e cittadinanza? E quale cittadinanza europea si potrà
sviluppare in un’epoca in cui i processi di estensione e di approfondimento delle relazioni sociali, che vanno sotto il nome ambiguo di “globalizzazione” (Held 1999), mettono in discussione la concezione storica
della cittadinanza (statuale)? Esistono e quali sono le precondizioni per
l’emergere di sfere pubbliche europee e quali narrative si stanno sviluppando in tali spazi?
Sono alcune delle domande che attraversano questo numero di Foedus,
ed è a partire da questi interrogativi che abbiamo cercato di costruire un
percorso di lettura articolato. Una lettura in parte teorica, in parte propositiva ed in parte empirica, che tenta di guardare alla dimensione macro,
ma senza trascurare il significato che tutti questi fenomeni hanno per i territori locali e le pratiche - sociali, economiche, politiche e soprattutto culturali - che vi si svolgono; una lettura capace di guardare verso l’interno
della realtà europea ma al tempo stesso interessata a collocare l’esperienza europea in una dimensione globale ormai non eludibile. Una lettura,
soprattutto, sviluppata grazie al contributo di autori che hanno raccolto
l’invito di mettere al lavoro “l’immaginazione” e di tentare percorsi “non
frequentati” per contribuire a dare forma al divenire europeo.
Al di là della struttura formale del volume, in cui tutte le sezioni presentano riflessioni attinenti alle trasformazioni in atto nello spazio europeo, le
parole chiave che abbiamo individuato – cultura, identità, cittadinanza, comunicazione – diventano “nodi” di un discorso sulla costruzione
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Claudia Padovani
europea che si presenta come “reticolare” e diviene, in tal modo, capace
di collegare la dimensione culturale con le dinamiche istituzionali, l’elaborazione dei documenti con l’adozione della moneta unica, le sfide
poste dal multiculturalismo con quelle rappresentate dal contesto economico globale. Questo tipo di prospettiva consente una serie di approcci
trasversali che indichiamo come possibili chiavi di lettura.
Ci pare che la dimensione comunicativa, pragmatica oltre che simbolica, offra un primo taglio di lettura che consente di fare interagire fra loro
i contributi qui raccolti. Qualche tempo fa Gian Enrico Rusconi, riflettendo sulla formazione di un demos europeo, lo vedeva possibile solamente
come “entità collettiva che si fa popolo comunicando intensamente al
proprio interno” (1998). In una più recente pubblicazione sulla cittadinanza europea, Klaus Eder (2001) afferma che le questioni di identità e
differenza hanno molto più bisogno di “azioni comunicative” rispetto a
quanto avviene per le problematiche di carattere distributivo o legate ad
interessi specifici, poiché “l’identità esiste solo quando essa viene narrata
nel mondo”1. Non si può allora, discutere dell’identità (possibile) degli
europei senza considerare l’importanza ed il ruolo delle istituzioni che
consentono lo sviluppo permanente della comunicazione nelle società
europee. D’altra parte, considerando il rapporto fra cultura, comunicazione e identità e riconoscendo che le questioni di identità sono legate alla
possibilità di condividere elementi culturali, non come derivati della “verità storica” ma come esito della rilettura collettiva della storia, allora il solo
fatto di comunicare sembra consentire una condivisione di cultura. Nel
quadro europeo pare si stiano sviluppando processi di questo tipo attraverso occasioni di comunicazione interculturale che costituiscono il volano per la formazione di nuove culture condivise collettivamente e quindi
il fondamento possibile di nuove identità. Il rapporto fra comunicazione,
sfere pubbliche e politiche europee acquista particolare densità nel contributo proposto da Schlesinger nella sezione Il Faro, dal titolo orginale
“The Changing Shape of Political Communication in the European
Union”. Rileggendo in maniera critica Habermas e Castells, l’autore traccia un primo identikit delle “sfere (plurali) di pubblici (plurali)” che oggi
compongono ciò che egli chiama la “euro-polity emergente”. Ma una lettura comunicativa traspare anche dal contributo di Ruben Sacerdoti,
incentrato sulla Dimensione regionale delle politiche europee per l’innovazione e attento a sottolineare il ruolo giocato dalla conoscenza e
dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione nello sviluppo dello spazio europeo e di regioni quali il Veneto.
Un secondo filo di lettura possibile collega le concezioni di cittadinanza e democrazia espresse, in maniera più o meno esplicita, dai differenti autori e che contribuiscono a chiarire il rapporto fra dimensione identitaria delle politiche europee, prospettive della partecipazione e auspicabile superamento del deficit democratico che le istituzioni europee scontano, nel tentativo di elaborare un modello per la futura governance
europea.
A questo proposito la struttura e la terminologia stessa della Dichiarazione
Introduzione
1
“Identity exists only
when it is talked into
the world” (p. 231).
7
n.3 / 2002
2
Si veda il sito
www.europa.eu.int/
futurum
8
di Laeken ci sembrano significative: non solo vi si riconosce la sfida democratica e si utilizza ampiamente l’artificio retorico del “cittadino europeo”
cui abbiamo fatto riferimento sopra, nel tentativo di ridurre, anche dal
punto di vista comunicativo, la distanza fra istituzioni, soggetti e comunità politiche; ma le diverse sfide vengono anche esposte attraverso una
molteplicità di questioni che sono volutamente lasciate aperte: come realizzare una migliore ripartizione e il riordino delle competenze fra i diversi livelli istituzionali? Come attuare una semplificazione degli strumenti
legislativi e procedurali? Come promuovere una maggiore trasparenza ed
efficienza nelle pratiche istituzionali? Queste domande sono proposte
come materia di discussione alla Convenzione sull’Avvenire dell’Europa
che lavorerà nel corso del 2002 e che avrà il compito di analizzare le questioni essenziali e presentare alla prossima Conferenza Intergovernativa
soluzioni possibili.
Riteniamo che la portata stessa della revisione in atto sia sintomo di un
riconosciuto problema di governabilità delle istituzioni europee: l’allargamento prossimo ai paesi dell’Est Europa costringe a ridimensionare la
complessità e ad una razionalizzazione degli strumenti adottati; il problema della legittimazione democratica e del riordino delle competenze fra i
differenti livelli di governo e le stesse sfide globali costringono l’Unione a
porsi anche quesiti relativi all’opportunità di inserire la Carta dei Diritti
Fondamentali nel trattato di base e alla necessità di adottare un testo
costituzionale. Ma quali dovrebbero esserne gli elementi di base: i valori
che l’Unione coltiva, i diritti e i doveri fondamentali dei cittadini, i rapporti
fra gli Stati membri? Nella sezione Il Sestante Francisco Leita propone una
lettura critica della Carta Europea dei Diritti adottata a Nizza nel dicembre
2000, offrendo preziosi suggerimenti per un approfondimento.
Una seconda iniziativa, questa volta promossa dalla Commissione
Europea, va nella direzione di un chiarimento del ruolo dei diversi soggetti che compongono l’Unione - istituzioni, settore privato e società civile - nonché della ricerca di una maggiore trasparenza nei meccanismi del
suo funzionamento ma anche di un maggiore coinvolgimento delle popolazioni europee, ed è rappresentata dal Libro Bianco sulla Governance,
presentato nel luglio 2001 ed ora aperto alle osservazioni e ai contributi
del “pubblico europeo”2.
Riteniamo, tuttavia, che l’attenzione rivolta dalle istituzioni essenzialmente alle strutture ed ai meccanismi procedurali, con un minimo accenno –
nel caso ad esempio della Dichiarazione di Laeken - al tema dell’identità e
un accenno rapidissimo alle “diversità che possono essere ricchezza”, non
offra sufficienti elementi per affrontare quelle che risultano essere dimensioni cruciali per un reale sviluppo della “grande famiglia Europa”: ovvero
la rilettura dei concetti di cittadinanza e democrazia nel loro rapporto con
le dinamiche culturali ed interculturali. Basti pensare che le critiche al
cosiddetto “deficit democratico” europeo assumono connotati differenti
a seconda che la lettura venga fatta da osservatori provenienti da contesti
di cultura politica diversi fra loro. Così Pfetsch (2001) commenta che gli
osservatori inglesi sono preoccupati dall’assenza di “accountability” delle
Claudia Padovani
Introduzione
istituzioni, i tedeschi dalla non esistenza di un “volk” identificabile, i francesi del rischio di scomparsa della “souveraineté” dei singoli Stati.
Il contributo qui proposto da Patrizia Messina tenta di cogliere il rapporto fra gli sforzi compiuti dalle istituzioni europee per introdurre elementi
di partecipazione democratica e le dinamiche culturali con cui questi
necessariamente si devono misurare, ponendo una particolare attenzione
sullo scarto fra la concezione di partecipazione democratica che sottostà
alle affermazioni di principio e le proposte che dal Libro Bianco emergono per l’implementazione di una governance che mantiene un carattere
fortemente “top-down”. Interessanti sono, in proposito, anche i riferimenti di Stefania Panebianco - in Sfide e prospettive per un’identità mediterranea “plurale” - alla partecipazione politica e sociale stimolata dalle
istituzioni europee e alla promozione di processi democratici in uno spazio culturalmente variegato quale il Mediterraneo. Parlare oggi della possibilità di una “identità mediterranea” può sembrare provocatorio e tuttavia è importante avere consapevolezza di dinamiche che sono già in atto
fra le sponde del Mediterraneo e stanno dando origine a veri e propri
forum di comunicazione non solo di carattere istituzionale, poiché in
larga misura sono espressione del coinvolgimento e delle iniziative delle
società civili.
Un terzo filo rosso può essere rintracciato nel ricorrere di concetti quali
differenze, molteplicità, alterità. Differenze di cultura, religione, storia, lingua ed aspirazioni che compongono il mosaico europeo e inducono Manuel Castells, nell’articolo di apertura, ad invitarci a non guardare
all’identità europea ricercando denominatori comuni ma piuttosto sviluppando un metodo condiviso per far comunicare diversità che già si stanno relazionando. Ma anche differenze negli interessi nazionali, nell’organizzazione economica e nei sistemi monetari dei diversi paesi membri
dell’Unione, cui il contributo di Stefano Palombarini invita a guardare per
comprendere le possibili conseguenze dell’entrata in vigore della moneta
unica con il primo gennaio 2002. Differenze, come sottolinea Ruben
Sacerdoti, fra le diverse aree regionali dell’Europa che possono trarre
grande vantaggio dai programmi comunitari ma devono tenere conto
delle realtà specifiche dei contesti socio-economici.
Molteplicità di appartenenze compresenti e complementari che il contributo di Gaspare Nevola, Unione Europea, sfida identitaria e patriottismo della cittadinanza multinazionale, invita a guardare nelle loro interazioni reali, declinandole nello spazio europeo, nei termini di “cerchie
concentriche di devozione” e sottolineando l’importanza di quei legami di
appartenenza che consentono di distinguere fra identità culturale e identità politica.
Alterità esterne, ma anche interne all’Europa: quelle “totali” che richiamano alla mente la disputa fra Bartolomé de Las Casas e Francisco de Vitoria
del sedicesimo secolo, ma anche quelle “negate” che Joseph Fontana racconta nella sua Europa allo Specchio (1994). Alterità con le quali riteniamo indispensabile che l’Europa impari finalmente a dia-logare, tanto più
in questo inizio di secolo che vede tornare così facilmente in auge la pro-
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spettiva dello “scontro fra civiltà” (Huntington 1997). Per contribuire a
questo dialogo abbiamo ritenuto di non ospitare solamente prospettive
“interne” alla riflessione sul farsi dell’Europa, ma di dare voce a quelle
esperienze che hanno incrociato la storia europea e contribuito, talvolta
suo malgrado, a plasmarla: esperienze mediterranee, narrate da Stefania
Panebianco e voci “da salvare” inserite nella sezione May Day per suscitare una piccola curiosità su ciò che gli Altri leggono, oggi, nel tema dell’identità. Letture di scritti Altri proposte da non-europei, come l’attenta
riflessione di Filomeno Lopes che ci accompagna alla scoperta di ciò che
il pensiero filosofico latinoamericano contemporaneo propone in materia
di intercultura, esperienza fondante per l’America Latina, che solo oggi
diventa tema d’attualità in Europa in maniera significativa.
Questo numero di Foedus può dunque essere pensato come un contributo alla costruzione di uno spazio pubblico in cui, attraverso la rilettura
dei concetti ed il loro confronto con l’attualità del divenire europeo, identità differenti entrino in comunicazione, fino a pensarsi come “identità
progetto”.
Accogliamo, infatti, la sfida di ragionare intorno all’identità europea, consapevoli del rischio rappresentato dal paradosso che qualsiasi prospettiva
massimalista sull’identità europea (ovvero il pensare l’identità come
costruita sulla base di forti valori comuni, esperienze culturali e storia
comune) rischia di provocare chiusure di resistenza in cui singole comunità tendono a difendere la propria interpretazione del mondo. E pensando l’identità come una “condivisione di pratiche sociali e culturali che
sono fonte di significato per gli attori sociali”, individuali e collettivi,
riprendiamo la suggestiva distinzione, proposta da Castells (1997), fra
“identità di resistenza” e “identità progetto”.
L’identità “di resistenza” caratterizza attori che si trovano a subire condizioni di dominio da parte di culture, istituzioni o logiche (internazionali e
globali) pervasive. Questa condizione genera forme di resistenza collettiva sulla base di elementi apparentemente chiari di storia, geografia, biologia che consentono di rendere essenziali i confini della resistenza e producono, in ultima istanza, “l’esclusione degli esclusori da parte degli
esclusi”, ovvero l’irrigidirsi di comunità che si difendono chiudendosi a
qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno. Il riemergere di movimenti localistici cui si è assistito in anni recenti all’interno dello spazio
europeo e in Italia con il fenomeno leghista può essere, dunque, inteso
come esempio di una modalità di resistenza (identitaria, culturale e comunicativa), tanto alle dinamiche di integrazione europea quanto alle dinamiche di frammentazione a livello globale.
Diversamente, le “identità progetto” producono “soggetti” che, nell’accezione di Alain Touraine, sono “il desiderio di essere individui, di creare
una storia personale, di attribuire significato all’intero regno dell’esperienza della storia individuale” (1995). Questo processo non riguarda solo
i singoli, ma anche quegli attori sociali collettivi attraverso i quali gli individui costruiscono la propria interpretazione dell’esperienza. In questo
senso la costruzione dell’identità è un progetto di vita differente, orienta-
10
Claudia Padovani
to alla trasformazione, talvolta un progetto di liberazione. A partire da
questa suggestione tentiamo qualche riflessione conclusiva.
Non si può ancora parlare dell’esistenza di una identità europea definita,
dai contorni precisi, con caratteri chiari; si può però parlare di un processo in atto, una “identità in divenire” fondata sulla complementarietà multiculturale, su alcuni valori comuni, su alcune istituzioni comuni e sulla
possibilità di sviluppare politiche comuni verso l’esterno (Pfetsch 2001).
Essa appare per alcuni versi un processo intenzionale, che risponde a
visioni sul futuro e si nutre di fonti diverse, interne ed esterne.
Siamo in presenza di un reale progetto di identità? E, in quel caso, un progetto di chi? Sviluppato da quali attori e con quali obiettivi? A prima vista
il progetto mostra un carattere essenzialmente top-down: sono le istituzioni a nominare la realtà, promuovere le riflessioni3, stilare i documenti.
Possiamo ricordare che una delle prime occasioni in cui i documenti ufficiali delle istituzioni europee fecero menzione dell’identità europea e
delle possibilità di un suo sviluppo fu la Dichiarazione sull’Identità
Europea adottata nel 1973 dai nove paesi allora membri della Comunità.
In quel documento si faceva dipendere la possibilità di far crescere un’identità europea dallo sviluppo di una politica estera e di difesa comune e
se ne affermava il carattere evolutivo: ”L’identità europea si evolverà in
funzione della dinamica della costruzione di un’Europa unita. Nelle loro
relazioni esterne i paesi membri propongono di promuovere la definizione della loro identità in rapporto ad altri paesi e gruppi di paesi …”.
Considerazioni riprese recentemente nel Trattato di Amsterdam nel cui
Preambolo gli Stati firmatari affermano che, fra gli obiettivi dell’Unione vi
è quello di “affermare la propria identità sulla scena internazionale, in particolare attraverso l’implementazione di una politica estera e di sicurezza
comune”.
E’ legittimo, tuttavia, chiedersi a quale concezione di identità i documenti ufficiali facciano riferimento. Come ricorda Pfetsch, il discorso sull’identità europea a livello istituzionale è prodotto o in relazione all’esterno,
dunque con l’identificazione dell’entità europea quale attore sopranazionale, o in rapporto alle identità nazionali, ovvero nel riconoscimento dell’esigenza di tutelare le distinte esperienze storiche e culturali che compongono lo spazio europeo4. Più difficile trovare negli stessi documenti
accenni ad un altro “modo” possibile dell’identità: quello di un’Europacomunità-politica, composta da cittadini i quali, mantenendo appartenenze politiche e culturali diverse all’interno dei propri paesi, stanno al contempo partecipando ad un’esperienza i cui esiti, in termini di costruzione
di significati condivisi, non sono ancora prevedibili. E’ in questa linea che
il Commissario Europeo Romano Prodi ha recentemente commentato
che l’euro e l’allargamento ad Est dell’Unione stanno creando “un forte
meccanismo di identità” e, in tal modo, “offrono opportunità che non
abbiamo mai avuto in passato” (La Repubblica, 27 dicembre 2001).
Castells ci ricorda, però, che la costruzione dell’identità non potrà che
essere “un fatto delle società europee” e potrà realizzarsi solamente tramite quella “condivisione di pratiche, attraverso l’intera Europa, che
Introduzione
3
Ricordiamo i seminari promossi dal Consiglio d’Europa fra il
2001 e il 2002 sull’identità europea
(www.coe.int/Colloquy/
ColloquesE/European:I
dentity/ ) e il programma del Centro Nazionale di Ricerca francese dal titolo “L’identitè
européenne en question”, che prevede la
realizzazione di seminari come quello organizzato in collaborazione con il Robert
Schuman Center for
Advanced Studies e
l’European University
Institute lo scorso febbraio su Politiche,
minoranze e identità
nell’Unione Europea.
4
L’articolo 151 del
Trattato di
Amsterdam, titolo XII,
recita:”La Comunità
contribuirà al pieno
sviluppo delle culture
degli Stati membri,
nel rispetto delle loro
diversità nazionali e
regionali, evidenziando nel contempo il
retaggio culturale
comune”.
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n.3 / 2002
emerge dall’esperienza”: una concezione di tipo “bottom-up” che consente di pensare alle istituzioni europee come sostenitrici di meccanismi
di costruzione di identità già in atto nelle dinamiche sociali, per i quali è
necessario promuovere adeguate condizioni materiali. Meccanismi alla
base dei quali, ancora una volta, troviamo opportunità e dinamiche di tipo
relazionale e comunicativo.
Pensiamo ai programmi culturali promossi dalle istituzioni europee
(Socrates, Erasmus, Gioventù), ma pensiamo anche e soprattutto ad esperienze quali REMICS e alle reti connesse al movimento per un “Internet
Cityoen”, per la promozione dell’uso democratico e democratizzante
delle tecnologie di informazione e, più in generale, a quelle sfere pubbliche – associazioni, gruppi di pressione, comunità virtuali che talvolta confluiscono in organizzazioni di movimento sociale – che si stanno attivando su argomenti di rilievo per il futuro, dalle politiche per l’immigrazione
al multiculturalismo, dalla tutela ambientale alla società dell’informazione,
e lo fanno attraverso la costruzione di legami di tipo transnazionale, adottando una logica di networking (Waterman 1998) e promovendo modalità di azione politica che già alcuni definiscono informational (Keck e
Sikkink 1995).
C’è forse più costruzione di identità europea in fieri di quanto si riconosca: sarebbe allora fondamentale che le strutture dell’Unione sviluppassero una genuina capacità di valorizzare queste esperienze e confrontarvisi,
se davvero si intende “portare le istituzioni laddove i cittadini vivono e
danno forma ai loro sentimenti” (Castells, in Foedus p. 22).
Concordiamo con coloro i quali, attraverso una lettura costruttivista e
prendendo seriamente l’argomento teorico che sostiene il radicamento
storico dei disegni istituzionali, sostengono che si può guardare al processo di costruzione delle istituzioni europee non come ad una continuazione dell’esperienza dello Stato-nazione, ma come alla continuazione
dell’auto-organizzazione della società europea: una società che si è evoluta in epoca medievale attraverso il potere e l’organizzazione della Chiesa;
attraversando l’Oceano Atlantico, nel corso del sedicesimo secolo, per
ridefinire l’idea di sé non più in termini spaziali ma temporali e culturali;
fino al sorgere dell’Illuminismo e della scienza moderna e all’affermarsi, in
epoca recente, dei diritti umani (Eder e Giesen 2001). Una società che, in
tutto questo percorso, ha continuato a produrre traduzioni differenti di
una medesima concezione di sé di tipo trascendente, universale; ma ha
anche sperimentato storicamente fenomeni di pluri-identità e multiappartenenza come elementi che vanno oltre la costruzione dell’identità
politica; una tradizione che riacquista oggi valore e “combinandosi con
formule identitarie plurime, offre spazio (…) ai diritti di cittadinanza”
(Salvati 2001).
Guardiamo all’Europa come ad un movimento culturale, non solo composto da intellettuali, tecnici e amministratori – le élites già “in comunicazione” di cui parla Schlesinger – ma fondato su pratiche sociali. Il nuovo
mythe-moteur per la creazione di una identità collettiva europea potrebbe essere la concezione stessa della cittadinanza (Habermas 1998, 1999),
12
Claudia Padovani
Introduzione
ovvero la partecipazione dei soggetti alle attività pubbliche in una associazione di esseri liberi ed eguali che vivono pacificamente, come “comunità di cittadini fatta nascere dalle pratiche dei cittadini stessi” (Eder e
Giesen 2001, p. 263); ma tale concezione dovrebbe anche trovare il modo
di conciliare le distanze esistenti fra differenti idee di Europa e fra differenti culture e subculture politiche presenti nello spazio europeo
(Hermet 1997).
Una concezione di cittadinanza, questa, che promette di produrre il senso
di una identità (politica) collettiva ma che al tempo stesso implica la
necessità di luoghi in cui questa possa formarsi: spazi transnazionali di
pratiche partecipative, spazi transnazionali di ordine legale e spazi transnazionali di comunicazione. Tutto questo potrà essere in parte l’esito di
un processo intenzionale in cui le istituzioni europee dovranno svolgere
un ruolo fondamentale nel promuovere quei luoghi del confronto che
contribuiscono alla formazione dello spazio comune e comunicativo europeo, ma sarà anche parte di quel movimento proprio dell’Europa – insieme di comunità-della-comunicazione, per riprendere un’espressione di
Otto Apel – cui oggi diventa necessario e affascinante prestare attenzione.
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n.3 / 2002
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14
Manuel Castells
La costruzione dell’identità europea*
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Alcune considerazioni preliminari
Il testo che presento non è l’esito di un lavoro di ricerca, ma un documento che
vuole dare un contributo all’impostazione di future politiche pubbliche, scritto su
richiesta della presidenza portoghese dell’Unione Europea nel primo semestre
del 2000. Esso fa riferimento ad una pluralità di materiali, informazioni ed analisi,
la maggior parte delle quali sono contenute nella trilogia da me scritta: The
Information Age: Economy, Society and Culture (Oxford: Blackwell, edizione
aggiornata, 2000).
In questa sede non cercherò, quindi, di dimostrare le mie ipotesi, ma di suggerire idee e direzioni per dibattiti futuri, con l’intento di avanzare nella costruzione
dell’identità europea. Non tratterò qui di rilevanti questioni strategiche, quali la
politica economica, lo sviluppo tecnologico e la ristrutturazione dello stato sociale; temi che devono comunque essere necessariamente affrontati in maniera
appropriata altrimenti qualsiasi discorso sull’identità diventa un vuoto esercizio
ideologico. Lasciando ad altri il compito di approfondire questi aspetti, io partirò
da una domanda iniziale: l’identità europea è davvero elemento rilevante nella
costruzione dell’Unione Europea?
* Traduzione italiana
di un articolo pubblicato in The New
Knowledge Economy
in Europe: a Strategy
for International
Competitiveness and
Social Cohesion,
Londra: Edward Elgar
2001, curato da Maria
Joao Rodrigues in
coordinamento con
Robert Boyer, Manuel
Castells, Gosta EspinoAndersen, Robert
Lindley, Bengt-Ake
Lundvall, Luc Soete,
Mario Télo (Trad. dall’inglese di Claudia
Padovani).
Perché l’identità europea è importante
Dopo la creazione dell’euro e la costituzione della Banca Centrale Europea, l’Unione Europea è divenuta, in ogni aspetto concreto, una singola economia, in
attesa della piena integrazione del Regno Unito e della Svezia per consolidare l’Unione. Qualsiasi capovolgimento del processo di integrazione nei prossimi anni
avrebbe conseguenze catastrofiche per le economie europee e per l’economia
globale nel complesso. Al di là della dimensione economica, i paesi dell’Unione
Europea sono racchiusi in una rete di relazioni istituzionali, sociali e politiche
destinate nei prossimi anni a crescere, in dimensione e complessità, a mano a
mano che nuovi paesi verranno associati all’Unione e che le istituzioni europee
estenderanno il loro ambito di attività. Di conseguenza ci troviamo oggi troppo
avanti nel processo di integrazione (con considerevoli vantaggi per ciascuno, fino
ad ora) per pensare ciò che è impensabile: la rottura futura dell’Unione Europea.
Tuttavia le basi di quest’Europa potrebbero essere meno salde di quanto si creda.
Innanzi tutto perché l’economia globale è e sarà caratterizzata da ricorrenti crisi:
nei mercati finanziari, negli accordi commerciali e nell’integrazione delle domande sociali, nazionali, culturali e ambientali che provengono dai popoli del mondo
15
n.3 / 2002
1
Nota del traduttore.
Si preferisce mantenere la dicitura originale del testo inglese,
“network state”, invece
che tradurre per intero con stato-rete, o
stato-reticolo, che non
ci sembra renderebbero altrettanto l’idea di
processo che sottosta
alla dizione dell’autore.
16
– come il fallimento del Summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a
Seattle ha dimostrato. Siamo stati fortunati in occasione delle crisi del 1997-1999
in Asia, in Russia e in Brasile, poichè le turbolenze finanziarie sono state contenute all’interno dei mercati emergenti. Ma più i mercati di carattere “centrale”
diventano elettronicamente interconnessi con il resto del mondo, e più il dinamismo della new economy si affianca ad elevate dosi di rischio e all’incapacità di
previsione, meno possiamo scommettere su di una transizione morbida verso
una globalizzazione completa.
D’altro canto la transizione ad un nuovo paradigma tecnologico e ad una nuova
economia, che solo ora sta acquistando velocità in Europa, sta portando gravi
sconvolgimenti a significativi settori della popolazione, in molte regioni, e condiziona gli interessi di attori sociali e di istituzioni politiche che erano radicate in
economie e società assai diverse. Se a questo aggiungiamo il carattere sempre più
multi-etnico della maggior parte dei paesi europei e l’emergere di nuovi pericoli
di natura geopolitica (nazionalismo e fondamentalismo da parte degli esclusi e di
coloro che sono marginalizzati dalla new economy), credo sia corretto riconoscere che stiamo entrando in un periodo assai movimentato, per quanto esso presenti anche un elevatissimo potenziale come epoca di creatività, prosperità e
riforme istituzionali. Gli esiti di tutto questo possono essere diversi, a seconda di
quello che faranno gli Europei. Gli “europei” è chiaramente il “tranello”dell’equazione. La domanda cruciale è, appunto: chi sono gli europei?
Fino a che l’Unione Europea è un gioco a somma positiva, in qui ciascuno vince
(alcuni in termini economici, altri in termini politici, altri ancora in termini tecnologici o sociali), senza sacrificare troppo della propria identità nazionale e della
sovranità politica, le crisi di transizione possono essere assorbite dagli stessi paesi.
E’ vero che la Commissione Europea non gode di grande sostegno e la scarsa performance del periodo 1997-1999 non ha giovato alla sua popolarità, anche se i
primi mesi della presidenza Prodi l’hanno rinvigorita, riportando speranze per il
futuro. Ma è bene ricordare che nonostante la poca fiducia nella Commissione, la
gente in Europa non percepiva (giustamente) che gli eurocrati avessero un potere reale sulle loro vite. Ora, tuttavia, le cose stanno cambiando. Indipendentemente da quanto potere reale Bruxelles ha, o avrà, l’Unione Europea in quanto
tale e altre istituzioni sopra-nazionali (quali la NATO, l’OMC, il FMI) hanno sottratto sostanziali sfere di sovranità agli stati europei. Non che questi stiano scomparendo, ma sono divenuti nodi, per quanto decisivi, all’interno di un più ampio
reticolo di istituzioni politiche: nazionali, regionali, locali, non-governative, conazionali e internazionali. L’Europa è già governata da uno “stato-network”1 composto di sovranità condivise e di livelli ed istanze multiple di decision-making
negoziato.
Di conseguenza, da un lato ci stiamo avviando verso un complesso processo di
transizione economica/tecnologica/culturale che darà origine ad innumerevoli
problemi e resistenze, a fianco di nuove opportunità e di benessere. Dall’altro
lato, il sistema politico incaricato di gestire questa transizione è sempre più disgiunto dalle radici sociali e culturali su cui le società europee si fondano. In altre
parole: la tecnologia è nuova, l’economia è globale, lo Stato è una rete europea,
in relazioni negoziali con altri attori internazionali, mentre l’identità della gente è
nazionale o, in certi casi, addirittura locale e regionale. In una società democrati-
Manuel Castells
La costruzione dell’identità europea
ca, questo tipo di dissonanza strutturale e cognitiva potrebbe risultare non sostenibile; mentre integrare l’Europa senza condividere un’identità europea è proposito realizzabile quando tutto va bene, qualsiasi grave crisi, in Europa o in un singolo paese, può favorire un’implosione europea dalle conseguenze non prevedibili. Poiché la costruzione dell’identità è un processo di lungo periodo, siamo in
corsa contro il tempo fra l’orizzonte temporale delle crisi di transizione socio-economiche e l’emergere di un’identità europea in nome della quale i cittadini d’Europa potrebbero essere pronti a condividere problemi e a ricercare soluzioni
comuni, invece che accusare il paese vicino e delegittimare i propri governi, potenzialmente sospetti di eurocrazia.
Che cos’è l’identità europea
Per essere chiari, l’identità è un’insieme di valori che forniscono significato simbolico alla vita delle persone aumentando la loro individuazione (o auto-definizione) e il loro senso di appartenenza. Certamente le persone possono avere
varie identità, poiché diverse sono le sfere dell’esistenza: una persona può sentirsi italiana, socialista, cattolica, donna e tutte queste identità si possono sovrapporre senza particolari contraddizioni. Quale di queste identità prevalga, dipende
dal momento della vita e dall’ambito di attività.
L’identità europea sarebbe dunque l’insieme di valori che fornirebbe significati
condivisi alla maggior parte dei cittadini europei rendendo possibile per essi il
sentirsi di appartenere ad una comune cultura europea e ad un sistema istituzionale riconosciuto come legittimo e valido. Quali potrebbero essere, allora, le fonti
di tale identità?
E’ fondamentale sapere, in primo luogo, che cosa non è l’identità europea. Non
è una “civiltà” basata sulla religione, la storia passata o un insieme di “valori occidentali” ritenuti superiori (come nella lettura che ne da Samuel Huntington). I
paesi europei hanno passato secoli (in particolare l’ultimo) ad ammazzarsi reciprocamente, quindi l’idea di una storia comune ha quantomeno una connotazione sinistra. La religione (intesa come cristianità) non è pensabile come fonte di
identità una volta stabilito il principio di separazione fra Chiesa e Stato, tanto
meno nel momento in cui religioni non-cristiane (ad esempio l’Islam) stanno crescendo in Europa, sia fra le comunità etniche minoritarie, sia in paesi che saranno futuri membri (la Turchia). La lingua, una delle principali fonti di dell’identità
culturale è, ovviamente, esclusa come fonte comune dell’identità europea, anche
se io sosterrò che un certo approccio alla lingua è fondamentale per la costruzione dell’identità. L’identità nazionale come identità europea è pure impossibile,
per definizione. Le nazioni e gli Stati-nazione non scompariranno. In realtà essi
cresceranno e diverranno fonti importanti di identità collettive, anche più di
quanto sia avvenuto in passato, quando nuove nazioni, prima oppresse, si manifesteranno apertamente (Catalogna, Galizia, Scozia, Galles, Vallonia, Fiandre) e
forti movimenti nazionalisti affermeranno il proprio diritto, di fronte all’opinione
pubblica, contro la sottomissione della nazioni allo Stato europeo.
Io parto dal presupposto che nel futuro immaginabile, l’Europea non sarà una
costruzione federale simile agli Stati Uniti d’America. Non ci sarà alcuno Stato
europeo unificato, che sostituisca e cancelli gli attuali Stati-nazione.
17
n.3 / 2002
L’identificazione ad una costruzione politica, quale lo Stato, non può essere una
fonte di identità, e questo elimina l’opzione di un “nazionalismo europeo” equivalente al “nazionalismo americano”. L’identità nazionale americana è emersa da
una nazione multi-culturale di migranti. Ma fu perché si trattava di una nazione di
immigrazione in un continente vuoto (o svuotato con la forza dei suoi abitanti
nativi, quando questo fosse necessario) che l’America potè combinare forti identità culturali ed etniche con un’altrettanto forte identità americana. Questo certamente non è, e non potrà essere, il caso europeo.
Di conseguenza, è nell’ambito dei valori, di nuovi valori che possiamo trovare
semi di un’identità europea. Sulla base di indagini empiriche condotte sugli atteggiamenti e della letteratura disponibile, nel mio testo End of Millennium (2000)
io identifico alcuni elementi di quello che chiamo un “progetto di identità europea”. Non qualche cosa che io propongo, ma ciò che appare empiricamente e che
potrebbe favorire un ampio consenso culturale attraverso tutto il continente, al di
là dei principi della democrazia politica (valore ampiamente condiviso, ma non
distintivo dell’esperienza europea).
Questi elementi possono essere identificati come sentimenti condivisi riguardo
all’esigenza di protezione sociale universale delle condizioni di vita; la solidarietà
sociale; i diritti dei lavoratori; i diritti umani universali; la preoccupazione per i
poveri nel mondo; l’estensione della democrazia a livello regionale e locale, con
una nuova enfasi sulla partecipazione dei cittadini; la difesa di culture radicate storicamente, spesso espressa in termini linguistici; per le donne, e per alcuni uomini, l’uguaglianza di genere. Se le istituzioni europee fossero capaci di promuovere questi valori, e di mettere in accordo la vita e le politiche con queste premesse per tutti gli europei, probabilmente questa “identità progetto” crescerebbe. Ma
il problema è esattamente che alcune di queste aspirazioni dovranno essere
ripensate e adattate ad un nuovo contesto storico, per esempio per quanto riguarda lo Stato sociale o la piena occupazione. Inoltre, la semplice enumerazione di
questi valori mostra che pur trattandosi di un elenco ragionevole, non sarebbe
facile combinarli in un insieme coerente, al di là della loro popolarità presso l’opinione pubblica. Così questi elementi di un progetto europeo, mentre devono
essere i materiali con i quali lavorare, non si possono affermare come un modello finito, da imporre in maniera verticale, dall’alto verso il basso, come ad esempio la Rivoluzione Francese fece con i suoi ideali politici, per costruire al tempo
stesso il cittadino universale e la nazione francese, come condizioni necessarie e
sufficienti di una società e di uno Stato civilizzati. Questo straordinario risultato
potè essere raggiunto solo attraverso la dominazione militare e politica, e sotto le
condizioni di una democrazia restrittiva (in cui le donne non votavano e non vi
era tolleranza per le culture storiche che esistevano al di fuori dell’Ile de France).
In un’Europa pienamente democratica, multi-culturale, multi-etnica, esposta ai
flussi globali della comunicazione e dell’informazione, nessun progetto può essere imposto dallo Stato. Di conseguenza l’identità europea non esiste e non c’è
alcun modello che possa essere insegnato o diffuso dalle istituzioni europee e dai
governi nazionali. E tuttavia, il problema che ho sollevato rimane rilevante.
Mentre le identità nazionali e locali continuano ad essere forti, se non si ha lo sviluppo di un’identità europea compatibile, un’Europa puramente strumentale
rimarrà una costruzione assai fragile, il cui possibile futuro naufragio potrebbe
18
Manuel Castells
La costruzione dell’identità europea
portare a gravi crisi nelle società europee. Ma se anche non c’è alcun modello per
l’identità europea, ci può ancora essere un’identità in formazione, ovvero un processo di produzione sociale di identità. In altre parole, non è possibile creare artificialmente un’identità europea, da un “concorso di idee”, allo stesso modo in cui
ad un certo punto il governo di Yeltsin cercava di trovare una nuova identità
russa. Ma al tempo stesso le istituzioni europee potrebbero promuovere lo sviluppo di una serie di meccanismi che, nella loro stessa dinamica, rappresenterebbero gli embrioni di questo sistema di valori condiviso in tutta l’Europa. I
governi europei potrebbero anche istituire un sistema di osservazione capace di
individuare la nascita e lo sviluppo di questi nuovi valori, ed assicurarne la diffusione e l’interazione, evitando, al tempo stesso, di trasformarli in una nuova ideologia, in questo caso l’ideologia di un pan-europeismo. E’ promuovendo la sperimentazione sociale, lasciando che la società si evolva e favorendo la costituzione
di una società civile europea, che potremmo vedere emergere una nuova identità europea nel corso di pochi anni. La descrizione di alcuni processi potenziali che
potrebbero produrre tale identità aiuterà a fare di questa discussione materia per
l’adozione di politiche concrete.
Questioni di metodo: costruire l’identità formando la società
In primo luogo: chi sono gli attori di questo processo di costruzione dell’identità? Sarò esplicito: in questo momento essi sono prevalentemente i governi degli
Stati nazionali europei, che agiscono attraverso il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea. La Commissione può essere solamente un gestore relativamente
autonomo nella condivisione del decision-making. Qualsiasi tentativo di fare
della Commissione il centro del potere e lo sponsor di una nuova identità provocherebbe, in ultima istanza, la rivolta da parte delle identità nazionali e locali, mettendo in discussione il futuro stesso dell’Unione Europea. Quest’ultima non è, e
non sarà, uno Stato federale in senso classico. L’Unione Europea è una nuova
forma di Stato e in questa nuova forma la connessione con le società dipende dai
vari nodi che assumono rappresentanza politica diretta. La costruzione della identità europea, se mai si realizzerà, sarà un fatto delle società europee, su impulso
strategico del Consiglio dei Ministri, e rifletterà un progetto comune condiviso in
maniera trasversale attraverso lo spettro politico dai paesi che vi prendono parte.
Dire questo significa che non ci potrà essere un accordo sul contenuto dell’identità europea (per esempio, fra conservatori e socialisti, fra ultra-nazionalisti e
verdi); ma che un consenso può essere costruito sul metodo, sulla mobilitazione
delle società verso nuovi e condivisi valori che dovrebbero avere ampia diffusione in Europa, in modo che ogni partito, gruppo di interesse o ideologia può sperare di guadagnare qualche cosa dal processo. Questo si avvicina al condividere la
democrazia come metodo, senza dover acconsentire sulla sostanza politica. La
democrazia, oltre ad essere un principio, è in concreto un metodo, un metodo di
rappresentanza politica e di governo
Quale potrebbe essere il metodo per costruire l’identità europea in un consenso
condiviso fra paesi e forze politiche attraverso l’Europa? A questo punto il mio
contributo deve avere il coraggio di farsi necessariamente alquanto speculativo e
di guardare in prospettiva, poiché questo è terreno ancora inesplorato.
19
n.3 / 2002
Processi sociali e istituzionali della costruzione dell’identità
europea
E’ bene ricordare: ogni processo di produzione di identità si basa su una metodologia comune. L’identità è costruita attraverso la condivisione di pratiche sociali e culturali attraverso l’intera Europa, lasciando che l’esito di questa condivisione emerga
dall’esperienza. In altre parole, non sappiamo che cosa questa identità europea sarà,
ma potremmo creare le condizioni materiali per il suo emergere all’interno della
società, per poi rinforzare e comunicare i primi segni emergenti con l’aiuto delle istituzioni europee. Riconosco che alcuni degli elementi di questo meccanismo sono
già parte della pratica europea quindi li sto semplicemente enfatizzando, per aggiungere anche altre proposte che sono meno conosciute o ancora non esistono.
Il primo, e più ovvio, di questi meccanismi è l’educazione. Ritengo debbano
essere introdotti nei programmi scolastici, a tutti i livelli del sistema educativo di
ogni paese, elementi comuni riguardanti la storia, la cultura, la lingua di altri paesi.
E’ auspicabile che un maggior numero di insegnanti e studenti trascorreranno
periodi della loro attività scolastica in altri paesi, secondo l’esempio offerto dal
programma Erasmus per gli studenti unversitari. E’ inevitabile che una reale
interpenetrazione dei sistemi educativi richiede sforzi notevoli e una politica
comune da parte dei paesi europei in questa direzione. L’equivalenza dei sistemi
pedagogici e dei programmi (che non significa uniformizzare tutti i programmi,
ma piuttosto il contrario) consentirà il passaggio da un sistema ad un altro, e renderà possibile l’uso dei diplomi conseguiti in un paese all’interno dell’intero mercato europeo in termini reali (attualmente questa possibilità esiste solamente
sulla carta, dal momento che in molti casi le qualificazioni e le competenze linguistiche non sono davvero equivalenti dal punto di vista dei datori di lavoro. In
effetti: meno del 3% dei cittadini dell’Unione Europea lavorano in un paese diverso dal loro paese di origine).
Il secondo meccanismo, che deve ancora essere esplorato, è l’ampia diffusione e
l’utilizzo di Internet fra la popolazione in generale. Internet è uno strumento
privilegiato di comunicazione e di accesso all’informazione. Non si tratta solo di
tecnologia: esso rappresenta il fondamentale supporto economico, culturale e
politico della società dell’informazione. Una campagna di alfabetizzazione all’uso
di Internet, rivolta prevalentemente alla popolazione adulta (i bambini l’avranno
a scuola) potrebbe fornire ponti di comunicazione fra gli europei e portare le
diverse società al medesimo livello dal punto di vista tecnologico. Il modello offerto dall’esperienza finlandese potrebbe, in questo senso, essere un ottimo esempio dal quale partire.
Il terzo meccanismo è una politica linguistica pan-europea, mirata alla diffusione inter-culturale di tutte le lingue di tutti i paesi, attraverso i sistemi educativi
ad ogni livello, attraverso Internet e attraverso programmi culturali. Rimango sempre mortificato quando vedo che nelle principali università statunitensi gli studenti possono imparare le lingue più diffuse, quali il portoghese o il francese, ma
anche il catalano, il finlandese, o lo swahili. E’ vero che la maggior parte degli studenti americani non imparano le lingue straniere ma credo che, con appropriati
incentivi culturali ed educativi, gli studenti europei lo farebbero. E questa rete
multi-linguistica potrebbe essere la fonte di un reale multi-culturalismo.
20
Manuel Castells
La costruzione dell’identità europea
In quarto luogo c’è bisogno di una politica pan-europea dei media. L’avvento
dei multimedia potrebbe essere dominato da Hollywood e San Francisco e dai
designers di New York, nonchè dai mega-conglomerati globali come quello prefigurato da AOL/Time Warner. La reazione europea a questo stato di cose è nazionalistica, difensiva e, in ultima istanza, appiattita sull’economia di mercato. Nell’era di Internet e delle comunicazioni via satellite non è imponendo delle quote che
stimoleremo le persone a cercare fonti alternative di informazione e comunicazione, diverse da quelle attualmente dominanti nel mondo degli affari. L’Europa
non dovrebbe sostenere con sussidi dei gruppi privati per il solo fatto che sono
europei, ma i governi europei dovrebbero consentire a tali gruppi di fondersi e
rafforzarsi, altrimenti non saranno sufficientemente competitivi. I governi europei
dovrebbero anche favorire lo sviluppo di gruppi multimediali di alta qualità, competitivi e sostenuti da sussidi di carattere pubblico, che operino in maniera indipendente. Sul modello offerto dalla BBC, un gruppo multimediale indipendente
e di elevata qualità, competitivo su scala globale si dovrebbe poter sviluppare,
come rete di joint ventures fra le televisioni pubbliche europee. Questa rete
dovrebbe aprirsi, fin dall’inizio, anche a fornitori di servizi Internet, per dare una
collocazione significativa ai produttori e distributori culturali europei nel prossimo processo di convergenza tecnologica nel sistema dei media. Un sistema
paneuropeo multimediale, sia pubblico che privato, sarà la pietra miliare di una
emergente cultura europea.
Non tutto è cultura: la mobilità geografica del lavoro è essenziale per costruire una comune esperienza europea. Non si devono riprodurre le condizioni in cui
gli europei dei paesi mediterranei sono emigrati verso l’Europa del nord. L’integrazione del mercato del lavoro richiederebbe di avere accesso a forniture di
alloggi e servizi sociali, qualificazioni professionali equivalenti e uguali diritti. Se
davvero le persone potessero lavorare in qualsiasi posto in Europa, non solamente l’economia ne riceverà grandi benefici e la disoccupazione potrebbe venire riassorbita, ma le persone avrebbero un’esperienza concreta di altri stili di vita
e altre culture. Se questo verrà realizzato in condizioni di eguaglianza e non discriminazione, l’Europa che lavora insieme imparerà a vivere insieme.
Un altro elememento che mi sembra rilevante sottolineare è la questione della
multietnicità e del multiculturalismo. L’Europa sta diventando rapidamente
un continente di minoranze etniche. La proporzione di popolazione residente in
Germania ma nata all’estero è già quasi pari a quella degli afro-americani negli
Stati Uniti, circa il 12%. E, come per gli afro-americani, la maggior parte delle persone appartenenti a minoranze etniche si concentra nelle principali aree metropolitane, accrescendo, in tal modo, la propria visibilità. Data la differenza di tasso
di fecondità, rispetto alla popolazione autoctona, i prossimi vent’anni porteranno
ad un aumento spettacolare nel livello di multietnicità in Europa. Se a questo
aggiungiamo la prossima integrazione dei paesi dell’Est Europa e della Turchia,
l’Europa si troverà a dover disegnare specifiche politiche di integrazione culturale, basate sull’eguaglianza dei diritti e sul rispetto delle differenze, che dovrebbero potersi applicare a tutto il continente.
Inoltre, l’Europa ha bisogno di una politica per l’immigrazione capace di attrarre
i necessari talenti che si trovano nelle diverse aree del mondo e di offrire opportunità ai rifugiati politici ma, al tempo stesso, in grado di contrastare efficace-
21
n.3 / 2002
mente l’immigrazione illegale e particolarmente le mafie, che stanno portando in
Europa circa mezzo milione di immigrati clandestini ogni anno. Inoltre, dovrebbero essere realizzate politiche per facilitare la naturalizzazione nel caso di residenti rispettosi della legge e applicate allo stesso modo in tutti paesi. La costruzione dell’identità europea può procedere solamente sulla base dell’accettazione
del carattere multi-etnico, multi-religioso e multi-culturale dell’Europa e questa
accettazione ha bisogno di una base materiale costituita da politiche per l’immigrazione e la naturalizzazione, dall’introduzione del multiculturalismo nel sistema
educativo e dall’apertura dei mezzi di comunicazione e delle istituzioni culturali
alla diversità delle espressioni culturali.
Costruire ponti in Europa significa anche costruire ponti fra le città europee e
fra le regioni europee. Esistono già una serie di reti dinamiche e di istituzioni,
incluso il Comitato delle Regioni, un organo consultivo della Commissione Europea. I governi nazionali dovrebbero accettare ed incoraggiare l’iniziativa dei governi sub-nazionali di costituire proprie reti nello spazio europeo. Un atteggiamento difensivo a questo riguardo da parte dei governi nazionali porterà a conflitti interni senza fine, con le città dei diversi paesi in veste di competitori invece che
di cooperatori. Reti europee inter-municipali e inter-regionali sono fonti essenziali
per ricostruire la cultura, oltre a produrre considerevoli vantaggi economici.
Reti simili di livello europeo esistono fra le organizzazioni d’affari, le organizzazioni dei lavoratori, le associazioni culturali e fra gruppi di cittadini.
Con o senza il sostegno dei governi, la creazione di queste reti di attori sociali è
un altro livello della costruzione dell’identità europea, in quanto esse rappresentano gli embrioni di una società civile europea.
Più complessa è la questione relativa ad una identità politica. Questa non può
essere costruita attraverso la lealtà ad un improbabile Stato federale europeo. In
questo senso il deficit democratico europeo non deriva dalla mancanza di potere
del Parlamento Europeo. Il rafforzamento del Parlamento porterebbe ad un reale
sovranazionalismo ed al federalismo, cosa che gran parte delle opinioni pubbliche
e dei partiti politici non saprebbe tollerare. La Commissione europea non deve
essere sottomessa al Parlamento europeo, ma ai governi europei, al Consiglio dei
Ministri. La questione chiave per il discorso democratico è la trasparenza di ciò
che il Consiglio dei Ministri compie, rispetto ai cittadini e l’esplicita inclusione
delle politiche europee nelle piattaforme politiche dei partiti nelle elezioni a livello nazionale, regionale e locale. La democrazia europea non si realizza rimuovendo le istituzioni dalle radici della loro rappresentanza, ma portando le istituzioni
europee dove i cittadini vivono e danno forma ai loro sentimenti. In ogni caso,
l’aumento del ruolo e dell’attività del Parlamento europeo e una più esplicita connessione di questo ad una constituency europea rimane uno fra gli elementi della
costruzione di una condivisa identità europea.
Ultimo, ma non meno importante, l’identità europea sarà costruita attorno
ad una comune politica internazionale, che include anche una comune politica di difesa. Solo se i cittadini comprendono che attraverso il loro essere europei possono agire rispetto alle questioni globali secondo i propri valori e i propri
interessi, essi realizzeranno quanto importante questa appartenenza sia. Al
momento la politica internazionale europea è confusa, inesistente e priva di potere. E, fra l’altro, è priva di potere in quanto interamente subordinata alla NATO per
22
Manuel Castells
La costruzione dell’identità europea
quanto riguarda la difesa. L’Europa ha bisogno di un esercito indipendente, con
piena capacità tecnologica e operativa, in grado di operare in stretta connessione
con la NATO e gli Stati Uniti. Ma per poter affermare la propria indipendenza
l’Europa ha bisogno di investire in tecnologia, di aumentare le spese militari e di
formare e addestrare forze armate professionali e multinazionali. E’ ipocrisia criticare la cosiddetta “egemonia americana” e poi fare ricorso agli Stati Uniti ogni
volta che si verifica una seria crisi nell’ambito della sicurezza, consentendo che gli
Stati Uniti paghino il conto, in termini di risorse e di personale. Se l’Europa desidera essere autonoma, deve assumersi la propria parte del peso della difesa occidentale. La Forza di Rapido Impiego creata di recente è un buon inizio, ma ancora troppo modesto e privo della reale capacità militare necessaria per agire in
maniera indipendente. Affermarsi nell’arena internazionale come un’ entità unitaria renderebbe chiari agli europei i valori e gli obiettivi strategici per i quali
l’Europa agisce. Ma perché questo non sia solo vuota retorica e penetri nella
coscienza degli europei, i governi dovrebbero istituire un comune sistema di rappresentanza internazionale, coordinando la loro presenza nelle istituzioni internazionali e fornire all’Europa i mezzi finanziari e militari per sostenere tali posizioni. Solo allora potrà emergere, davvero, un’identità politica europea, come
uno degli elementi costitutivi dell’identità europea.
Infine, dal momento che tutti questi meccanismi rappresentano approcci molto
indiretti alla costruzione dell’identità europea, le istituzioni europee dovrebbero
essere in grado di monitorare gli sviluppi e di identificare gli elementi costitutivi
dell’identità europea man mano che questi emergono dalla pratica nelle società.
Potrebbe, allora, essere costituito un Osservatorio sull’Identità Europea, basato su
una rete di osservatori e analisti, con una infrastruttura molto leggera, effettive
risorse economiche, senza potere, il più indipendente possibile. Questa struttura
dovrebbe predisporre un rapporto annuale sul livello di sviluppo dell’identità
europea e sugli elementi sostantivi che sembrano configurare il modello emergente. Le istituzioni europee dovrebbero iniziare a modellarsi, esse stesse, secondo le espressioni culturali e le forme di organizzazione che emergono dalle società civili, in tutta l’Europa. Forse, allora, nuove forme di democrazia potrebbero
emergere, a mano a mano che gli Stati impareranno a seguire e ad adattarsi all’evoluzione delle società.
Manuel Castells è professore di Sociology e di City & Regional Planning all’Università di Berkeley. Tra le opere recenti: The Information Age. Economy, Society
and Culture (Blakwell 1996-2000) e The Internet Galaxy. Reflections on the
Internet, Business and Society (Oxford University Press 2001).
[email protected]
23
n.3 / 2002
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria e
patriottismo della cittadinanza multinazionale. Un’analisi condizionale
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Introduzione: l’euro, la costituzione e il problema aperto
dell’unificazione politica europea
1
Laeken (Bruxelles),
15/12/2001.
2
Per una delineazione dei caratteri di
fondo di quello che
qui chiamo “modello
Maastricht” di Unione
Europea e per un
bilancio su di esso mi
sia consentito di rinviare a Nevola, 2001b.
24
L’Unione Europea si affaccia al nuovo secolo con due importanti biglietti da visita : l’introduzione materiale della moneta comune (l’euro) e l’istituzione di una
convenzione preposta a redigere quella che viene chiamata “carta costituzionale europea”. Le due iniziative, non a caso, sono al centro della cosiddetta
“Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione Europea”1. Questo documento,
sottoscritto al vertice dei capi di Stato e di governo del dicembre 2001, si apre
infatti con l’esaltazione del successo conseguito con l’euro e si sviluppa con l’individuazione delle sfide e delle riforme affidate ad una convenzione, affinché
questa porti alla realizzazione di una rinnovata Unione Europea, che trovi una
sua sintesi finale nella formulazione di una costituzione.
Tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002, in occasione della concreta messa in circolazione dell’euro nei 12 paesi membri che vi hanno aderito, abbiamo assistito
ad una scatenata campagna di comunicazione di massa nel segno dell’”euroforia”. Per i toni e i contenuti che l’hanno caratterizzata, in realtà si è trattato di
una semplice replica di quanto si era già verificato in alcuni Paesi (tra i quali
l’Italia) nel momento della decisione che aveva dato il via all’euro e che aveva
stabilito i Paesi che lo avrebbero adottato da subito (maggio 1998 e gennaio
1999). L’euro costituisce certo uno sviluppo di rilievo nel processo di integrazione europea, ma di fatto, ed è questo il punto che voglio sottolineare, si pone
in chiara continuità con il modello di Unione Europea che si è andato definendo ed affermando nel corso degli ultimi quindici anni circa. Un modello che ha
trovato la sintesi più matura con il Trattato di Maastricht (entrato in vigore nel
novembre del 1993) che ha portato alla nascita dell’”Unione Europea” propriamente detta. Frutto del dinamismo della Commissione Delors dopo gli anni
dell’”eurosclerosi” e della ritrovata intesa franco-tedesca con il crollo del Muro
di Berlino e la riunificazione della Germania, questo “modello Maastricht” di
Unione Europea è rimasto sostanzialmente inalterato nella sua struttura e logica di fondo, nonostante i successivi trattati (quello di Amsterdam entrato in
vigore nel 1999 e quello di Nizza del 2000)2. Insomma, con l’euro l’integrazione
europea resta ancorata ad una visione economico-funzionalista, finalizzata a raf-
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
forzare il “mercato comune”.
Diverso è invece il discorso riguardo all’istituzione, promossa a Laeken, della
Convenzione per una “costituzione europea”. Questa iniziativa rappresenta
infatti, almeno in linea di principio, un passaggio che vorrebbe segnare una svolta nel processo e nel livello di integrazione europea. L’obiettivo ufficialmente
dichiarato è di superare il “modello Maastricht” e di porre rimedio ai suoi limiti
attraverso la realizzazione di una unione propriamente politica, con tanto di
costituzione.
La portata innovativa dell’iniziativa di Laeken non deve essere né trascurata né
banalizzata, per almeno tre ordini di motivi. In primo luogo, perché fino a tempi
recenti (e in parte ancora oggi) nella pubblicistica e nella ricerca accademica
(giuridica e politologica in particolare) sembrava prevalere l’orientamento
secondo il quale l’Unione Europea da Maastricht in poi costituiva già una forma
di unione politica3, e pertanto non avrebbe dovuto dotarsi di una sua costituzione. Per alcuni perché non ne aveva bisogno, per altri perché ne era di fatto
già provvista. Un esempio della prima posizione si trova nella tesi di un gruppo
di autorevoli “europeisti” (il così detto Club di Firenze, comprendente tra altri
Baron Crespo, Dehousse, Foch, Kohnstamm, Noel, Padoa-Schioppa). A proposito della prospettiva di una “costituzione europea”, tale gruppo così si esprimeva solo pochi anni fa : “L’idea è attraente perché semplice, ma contiene rischi
notevoli. Si può facilmente immaginare lo choc che una proposta simile causerebbe in Gran Bretagna, un paese dove non esiste costituzione scritta. Non solo:
poiché il concetto di costituzione è generalmente associato a quello di Stato, si
moltiplicherebbero inevitabilmente i timori di chi già oggi paventa che l’Unione
Europea finisca per soppiantare gli Stati che la compongono” (Club di Firenze
1996, 213). All’Unione Europea basterebbe, concludeva il Club, una breve carta
di sintesi e di riordino dei trattati già esistenti.
Esempi, invece, della seconda posizione, quella secondo la quale l’Unione
Europea disporrebbe già di una sua costituzione, si ritrovano in declinazioni
della tesi che, volta a volta, fanno riferimento a una “carta costituzionale di base
costituita dal Trattato” (Corte di Giustizia di Lussemburgo, in una sentenza del
1986 ; poi ancora nel 1991); alla “natura costituzionale dei Trattati” (Mancini
1985); ad una “costituzione senza costituzionalismo” (Weiler 1996); ad una
“costituzione in divenire” (Barbera, 2000); ad una “costituzione parziale”
(Haeberle 2001)4. Sullo sfondo della prima come della seconda posizione, lo
stesso problema del “deficit democratico”, oggi al centro del dibattito pubblico
e scientifico, veniva per lo più considerato un falso problema, frutto delle ubbie
di alcuni intellettuali “spaesati” di fronte al “nuovo universo politico europeo”
(Scharpf 1999; Siedentop 2001).
In secondo luogo, la novità della “convenzione costituzionale” è data dal fatto
che a parlare di e ad attivarsi ufficialmente per una costituzione europea è, per
la prima volta, il Consiglio dei capi di Stato e di governo, ossia l’organismo meno
“comunitario” e più “intergovernativo” tra quelli che formano l’Unione Europea,
e peraltro quello da cui dipendono in ultima istanza le sorti del processo di integrazione. In altre parole, il tema costituzionale abbandona il terreno finora privilegiato delle dispute ideali-ideologiche, care ad esempio ai federalisti europei,
così come quello degli auspici di tanto in tanto lanciati dalla Commissione o dal
3
Assimilabile agli
Stati Uniti secondo
alcuni; inedita e originale secondo altri;
non del tutto compiuta secondo altri
ancora. Per una critica esplicita e convicente dell’assimilabilità tra integrazione europea e formazione degli Stati
Uniti. Cfr. Pocock,
1996.
4
Per una discussione critica delle varie
posizioni Barbera
2000; Abromeit 2001;
De Witte 2001.
25
n.3 / 2002
5
Per usare il linguaggio di Lowi
(1999), l’Unione
Europea mostra di
voler operare in
quell’area di “policy
costitutiva” (o “costituente”) per eccellenza che è quella
riguardante la definizione di assetti
costituzionali, area
dalla quale si è fino
ad oggi prudentemente tenuta fuori.
Ciò nonostante alla
fine la Convenzione
di Laeken potrebbe
partorire niente
altro che una (pur
utile) proposta di
riordino dei
Trattati.
26
Parlamento europei. Con questo non si vuole evidentemente dire che la costituzione europea sia diventata davvero una prospettiva concreta, quanto piuttosto che essa viene in questa fase percepita come un elemento da introdurre nell’agenda decisionale politica, affinché tanto la pratica politica europea quanto le
prassi politiche nazionali siano vincolate ad dettato di una costituzione5.
In terzo luogo, infine, l’apertura della “fase costituzionale” - indipendentemente da quello che sarà il suo effettivo esito finale - consegna a commentatori, analisti e cittadini un potenziale elemento di chiarificazione sul processo di integrazione europea, sulle sue tappe, sulle sue continuità e svolte, e possibilmente sulla “natura dell’unione”. La messa in agenda operativa di una “fase costituzionale” potrà aiutare a capire quando potremo dirci “unione politica”, a quali
condizioni, con quali eventuali limitazioni. Così come ad evitare che le analisi si
impiglino in formulazioni vaghe o ambigue sulla natura del processo di integrazione e sul suo livello di sviluppo, in formulazioni che tendono a trapassare facilmente l’una nell’altra a seconda della congiuntura del momento e grazie ora
all’uso di retoriche suggestive, ora all’uso di categorie più o meno ingegnose.
A dire il vero, anche se intesa in continuità con il “modello Maastricht”, alla
moneta comune è stata spesso attribuita anche la capacità, quanto meno, di produrre effetti sul processo e sul livello di integrazione europea tali da comportare, alla fine, essa stessa un passaggio di svolta (secondo una variante omnicomprensiva e pretenziosa del meccanismo evolutivo dello spill-over): l’euro non
solo come mezzo di contabilità e di transazione economico-finanziaria, ma
anche come simbolo di coesione e di identificazione europea. In definitiva, ciascuno a suo modo, l’euro così come la “costituzione” messa in cantiere dovrebbero - si dice - portare ad un “nuovo modello” di Unione Europea, ad una unione propriamente politica, per quanto originale e inedita rispetto ad altre forme
storiche.
Secondo i loro promotori e non pochi osservatori, l’euro e la “costituzione”, in
sintesi, dovrebbero portare all’”unificazione politica” europea. Stando ad una
simile visione, sarebbe già in corso da tempo quello che recentemente è stato
esplicitamente chiamato “grande esperimento in progress di unificazione politica europea” (Pasquino 2000, 3). Tuttavia, se analizzato nei termini della logica di
sviluppo dei processi di unificazione politica, un tale percorso di costruzione
dell’”Unione Politica Europea” appare piuttosto come una “scorciatoia”, che è
destinata a frustrare le aspettative e a produrre delusione. Una tesi di fondo che
intendo qui sostenere è, infatti, che se l’Unione Europea vuole davvero e realisticamente andare “oltre il modello Maastricht” e percorrere il cammino verso
una qualche forma di “unificazione politica”, allora altri devono essere gli obiettivi essenziali da perseguire e altra la sequenza secondo cui ordinarli. Il percorso dell’unificazione politica si prospetta infatti più difficile e di più lunga lena di
quanto possa lasciare supporre la già difficoltosa e lunga strada costituita dall’introduzione della moneta comune oggi e da una “costituzione” al termine dei
lavori della neonata Convenzione di Laeken. E sembra promettere esiti meno
esaltanti di quelli spesso evocati dalla retorica europeistica. Per giunta senza
garantirli. In altri termini, la “discontinuità” attesa dalla “promessa costituzionale” della Convenzione di Laeken potrebbe non rivelarsi tale e lasciare l’Unione
Europea modellata sull’integrazione economico-funzionalista. Di fronte ad uno
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
scenario del genere, il modello Maastricht continuerebbe a restare il più significativo elemento di successo nella storia del processo di integrazione: a suo
modo, un vero e proprio segno di svolta nella storia europea recente.
Naturalmente, nei limiti sanciti da una integrazione eminentemente economicofunzionalista.
2. Unificazione politica. Un abbozzo di schema concettuale
L’euro di cui ora disponiamo e la “costituzione” di cui potremmo disporre in
quanto tali non producono “unificazione politica”. Affinché una moneta comune e una carta costituzionale non restino semplicemente, l’una, uno strumento
di contabilità e di transazione economico-finanziaria6, l’altra, una mera dichiarazione verbale di principi che si accosta ad altre analoghe già esistenti7, è necessario che tanto l’una quanto l’altra prendano forma e operino nel contesto di
una unificazione politica data almeno nei suoi elementi essenziali. La moneta e
la costituzione possono rappresentare effettivamente “segni fondamentali” di
unificazione politica quando emergono come prodotto e riflesso dell’unificazione politica: è questa che è pre-condizione di quelle, e non viceversa. E’ solo
in un contesto dato di questo tipo che moneta e costituzione, a loro volta, possono effettivamente concorrere, accanto ad altri fattori, ad alimentare e consolidare l’unificazione politica.
Nonostante i progressi che hanno segnato la sua storia nell’arco dell’ultimo
mezzo secolo, e degli ultimi 10-15 anni in particolare, il processo di integrazione europea non è approdato ad una qualche forma di “unità politica”. L’attuale
Unione Europea, il “modello Maastricht”, non ha cioè superato quello che chiamo il “test dell’unificazione politica” (Nevola 2001a; 2001b). In breve, il “test di
unificazione politica” è costituito da una congiuntura critica (o da una serie di
congiunture critiche) che si pone come banco di prova sul quale un “sistema
con pretese politiche” si cimenta con la possibilità/capacità di prendere esso (e
solo esso, quando ritiene di farlo) decisioni valide per sé stesso (e per tutto sé
stesso, quando ritiene che così debba essere). Si tratta, in altre parole, di un test
di “autogoverno”. In questo senso, sono congiunture critiche quelle situazioni
che fanno emergere la presenza e la dislocazione dell’”autorità” e della “lealtà”.
Il superamento del test dell’unificazione politica implica che un sistema, sulla
base di sue proprie strutture organizzative e normative, sia in condizione di
governare i processi di “assegnazione autoritativa dei valori” e di “riconoscimento leale della comune cittadinanza”, non solo nelle situazioni di “stato ordinario” ma anche, e soprattutto, in quelle di “stato di eccezione” (o, per altri
versi, di “stato straordinario”)8. In particolare, nelle situazioni critiche di “stato
di eccezione” i rischi di conflitto acuto o di disordine, di paralisi o di ingovernabilità, sono arginabili ovvero risolti attraverso la (ri-)strutturazione del “monopolio dell’autorità” e del “monopolio della lealtà”. L’acquisizione del monopolio
dell’autorità e della lealtà in caso di crisi è fondata sulla possibilità/capacità,
da parte di un sistema con pretese politiche, di disporre di, e all’occorrenza
mobilitare, due risorse essenziali : il “potere” e l’”identità collettiva”. Ossia, rispettivamente, i “legami di comando” e i “legami di appartenenza”. Affinché
possa assicurare stabilità alla “soluzione del caso di eccezione”, il potere deve
6
Una moneta comune può essere un
semplice strumento
di transazione e di
contabilità, e in
quanto tale non riflette necessariamente una «unificazione
politica». La moneta,
come una lingua,
ha una duplice valenza: “funzionaleveicolare” l’una
(serve a comunicare
e fare circolare informazioni standardizzate, nel senso inteso da Parsons e
Luhmann), “identitario-espressiva” l’altra (dà forma e possibilità di espressione a soggetti dotati
di autorità e di identità collettiva; nel
senso della critica di
Habermas a
Luhmann).
7
Se una Carta è
riflesso di “unificazione politica” dobbiamo parlare di
Costituzione in senso proprio; se non lo
è, al più parliamo di
“costituzione”, ossia
usiamo le virgolette
per contrassegnare
qualcosa che vogliamo assimilare ad una costituzione ma
che costituzione in
effetti non è.
8
Nella formulazione
di questo concetto di
“test di unificazione
politica” confluiscono linee teoriche
provenienti da
Easton, 1973; Linz,
1981; Schmitt, 1972.
27
n.3 / 2002
9
Si veda anche il
diverso schema di
Strange (1998),
imperniato sulla
linea concettuale
“identità---legittimità---lealtà”.
però (quanto prima) tradursi in autorità (ovvero in “potere riconosciuto collettivamente come giusto”), e l’identità collettiva in lealtà (ovvero in “identità collettiva capace di tenere insieme”). In questo processo di duplice traduzione, le
due risorse essenziali del potere e dell’identità diventano l’una strumento dell’altra. Il potere trae dall’identità collettiva quella legittimità in grado di “giustificare i comandi” (legittimità di cui necessita per tradursi in autorità); l’identità
collettiva trae dal potere quella forza in grado di “vincolare l’appartenenza”
(forza di cui necessita per tradursi in lealtà). E’ nelle congiunture critiche che,
tipicamente, i “legami di comando” e i “legami di appartenenza” si saldano gli
uni con gli altri, e coniugandosi insieme (ri-)definiscono l’unità politica, il suo
autogoverno e la dislocazione e organizzazione dell’autorità e della lealtà (ossia,
come si è detto, la legittimità del potere e la forza vincolante dell’identità).
In questo quadro di sintassi concettuale9, peraltro qui solo abbozzato, potere e
identità assumono la natura specifica e particolare, rispettivamente, di “potere
politico” e di “identità politica”. D’altra parte, come sappiamo, le risorse del
potere e dell’identità non sono sempre necessariamente ricercate o mobilitate
in vista di obiettivi quali l’unificazione politica, ossia sul terreno della lotta-competizione per la definizione e il governo della polity. Insomma, né il potere né
l’identità sono solo e sempre di tipo politico.
Nelle pagine che seguono mi occuperò solo di una delle due risorse essenziali
sulle quali un sistema può fondare le sue pretese politiche e fare fronte al test
dell’unificazione politica : la risorsa dell’identità. Va da sé che le condizioni per
un effettivo superamento del test dell’unificazione politica chiamano in causa
anche l’altra risorsa, il potere. Tuttavia, per delimitazione del campo di indagine
e per economia di analisi, in questa sede semplificherò il mio argomento complessivo, sviluppandone solo uno dei due corni.
3. Sul concetto di identità collettiva
10
Queste controversie hanno luogo specie in ambito sociologico ed antropologico. Per una sintesi
degli argomenti
principali cfr.
Sciolla, 1983 ; Pollini
1987. Per sviluppi e
approfondimenti
più recenti cfr.
Eisenstadt, 1993 ;
Martin, 1995.
28
L’utilizzo del concetto di identità collettiva continua a suscitare aspre controversie, sia sul piano euristico che su quello valoriale10. Da un lato, il concetto è
stato messo in discussione in riferimento ad un insieme sociale, ad una società
(vedi ad esempio Berger, Luckmann 1969). Dall’altro, è stato sostenuto che esso
può essere appropriato al più per le società tradizionali, caratterizzate da un
supposto stato di stasi o da un basso tasso di mutamento. Secondo quest’ultima concezione, in particolare, l’identità viene intesa come “forte”, “chiusa”, “stabile”, per definizione (vedi ad esempio Remotti 1996). Quando questi tratti di
identificazione di una società vengono meno, e cioè nelle società moderne o
industriali, postmoderne o postindustriali (a seconda dei punti di vista), verrebbe a cadere la stessa utilità del “linguaggio dell’identità”. E’ la tesi di Touraine,
ad esempio, quando afferma che “una società sembra avere una identità tanto
più forte, quanto più lentamente essa cambia, e quanto più esattamente essa
riproduce i propri codici di comportamento. Quando prendiamo in considerazione le società più industrializzate, giungiamo persino a dubitare dell’utilità
della nozione di società. Noi pensiamo che essa presupponga l’esistenza di una
unità e di una identità non più corrispondenti alla realtà che osserviamo”. Da
questa lettura discende che: “Oggi ... occorre sbarazzarsi dell’idea di società e,
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
di conseguenza, di ogni immagine identitaria della vita sociale, per riconoscere
che la realtà sociale, lungi dall’esprimere un’essenza, uno spirito, o una volontà,
altro non è che un fragile risultato, assai parzialmente coerente e in costante
mutazione, di un insieme di reti di relazioni sociali, relazioni di dominio, di
influenza e di autorità, che comportano dei conflitti, dei compromessi o delle
deviazioni” (Touraine 1983, 157-58 ; 1993 ; 1998).
Sulla base di questa concezione dell’identità collettiva e sulla scia, in particolare, di un supposto tramonto dell’identità collettiva legata allo Stato-nazione
(vedi ad esempio Guéhenno 1994 ; Habermas 1999), da tempo si è diffusa la
tendenza a negare che l’identità costituisca un problema concettuale e pratico
(a maggior ragione, si dice) per i progetti di sviluppo dell’integrazione europea.
Naturalmente avremo modo di tornare a più riprese su questo punto. Prima è
però opportuno chiarire, seppure a grandi linee, che è possibile un’altra concezione dell’identità collettiva, di tipo tutt’altro che “essenzialistico”, e invece
aperta al mutamento, in grado di accogliere i fenomeni della società moderna
evidenziati da Touraine e, alla fine, niente affatto improduttiva sul piano della
conoscenza o improvvida su quello dell’azione politica.
Per delineare i contorni di una simile concezione alternativa dell’identità collettiva può essere utile rivisitare alcuni argomenti da tempo elaborati da Habermas
in relazione alle società del nostro tempo. In primo luogo, una società complessa, come vengono spesso definite le nostre, “produce un’identità in un
modo determinato, ed è opera sua se non la perde” (Habermas 1979, 14).
Questa concezione, riallacciata alla “teoria dell’agire comunicativo” habermasiana, ha qui rilievo perché sottolinea come l’identità collettiva sia un prodotto,
una costruzione e non un dato naturale; poi perché esplicita un problema di
“mantenimento dell’identità”. Nell’uno come nell’altro caso, l’identità collettiva
è l’esito di un processo riflessivo e comunicativo, di apprendimento critico : “l’identità collettiva è oggi possibile solo in forma riflessiva, nel senso cioè di essere fondata nella coscienza di avere chances eguali e generali per prendere parte
ai processi di comunicazione, nei quali la formazione dell’identità ha luogo
come processo continuo di apprendimento” (Habermas 1979, 94). Per
Habermas il processo riflessivo e comunicativo è costituito da una trama di relazioni sociali normativamente vincolate e dialogicamente strutturate che portano
a quella che egli chiama “identità razionale”.
In secondo luogo, questa concezione di identità collettiva fa fronte alla sfida del
mutamento. Anzi, si qualifica proprio di fronte ad esso. In analogia con quanto
avviene per l’identità del singolo, afferma Habermas, un’identità collettiva è tale
(e il suo processo di formazione può quindi dirsi riuscito) se è in grado di risolvere i problemi relativi al suo mantenimento quando si imbatte in mutamenti
profondi che concernono la sua struttura e il suo contesto. Insomma, un’”identità riuscita” è quella che consente ad una società (ad un “gruppo”) di restare se
stessa pur cambiando.
In terzo luogo, un’identità collettiva del genere, prodotta e mantenuta in modo
riflessivo e comunicativo, non ha evidentemente bisogno di fare affidamento su
dei “contenuti fissi” e tuttavia, come ammette lo stesso Habermas, non può poggiare sul nulla. Essa ha infatti “bisogno di volta in volta di avere dei contenuti”, i
quali costituiscono, per così dire, i materiali ai quali il processo riflessivo e
29
n.3 / 2002
11
La versione più
aggiornata e matura di questa concezione habermasiana
è in Habermas
(1996). Naturalmente, i limiti qui sommariamente sottolineati si evidenziano
soprattutto quando
il suo “discorso”
passa dal livello filosofico etico-normativo a quello sociopolitico empirico, al
quale siamo qui
interessati.
12
L’identità politica
è peraltro in questione anche quando ci
si occupa dell’identità nazionale o di
ogni comunità con
pretese di autonomia politica e di
autogoverno. Sul
caso dello Statonazione cfr. ad
esempio Breully,
1995; Hermet, 1997.
Più in generale
Nevola, 1998.
13
Pur formulata in
un contesto diverso
e in chiave di contrapposizione radicale, la dicotomia
(“esistenziale” prima
che “politica”)
“noi/loro” di Carl
Schmitt (1972) resta
un importante contributo sul tema.
30
comunicativo attinge (anche con modalità selettive, aggiungiamo noi) nel dare
vita ad una identità collettiva.
La concezione habermasiana di identità collettiva non è esente da ambiguità o
da opacità, dovute anche ad un procedimento elaborativo di lungo periodo e
intessuto da slittamenti concettuali spesso solo impliciti. Nondimeno merita
rilievo il fatto che in essa ritroviamo a suo modo coniugati insieme quelli che
invece Anthony D. Smith ritiene due modelli alternativi e contrapposti di “creazione delle identità collettive culturali”: il modello delle identità come artefatti
costruiti socialmente e quello delle identità come precipitato di generazioni di
esperienze e memorie comuni (Smith 2000). Dove la concezione habermasiana
continua però ad essere piuttosto vaga e indeterminata è nella definizione dei
processi di formazione e di mantenimento dell’identità collettiva di una data
società. Tali processi vengono infatti concepiti da Habermas in chiave di rete
relazionale puramente comunicativo-dialogico-consensuale. Si ritiene che essi
siano imperniati su un qualche principio di “autenticità” nell’espressione della
volontà collettiva, là dove questa viene fatta coincidere con una raffigurazione
della società civile e un’idea di “democrazia deliberativa” che si vogliono in ultima istanza chiuse a considerazioni di potere e scevre da pratiche di manipolazione11. L’obiezione di fondo a questa concezione habermasiana è che le reti
relazionali e i processi di comunicazione sociale sono intimamente costituiti
anche da fattori e dinamiche di tipo strategico-conflittuale, ossia da logiche del
potere e della manipolazione (Rusconi 1984; Riker 1986; Nevola 1994a), e a ciò
non sfuggono i processi legati all’identità collettiva. Il riferimento alla dimensione del potere, in particolare, oltre ad essere ineludibile nei processi di formazione e di mantenimento dell’identità collettiva, consente la traduzione dell’identità culturale (sulla quale si sofferma ad esempio Smith e la letteratura culturalista in tema di identità nazionale) in identità politica. Ed è proprio l’identità collettiva politica che in ultimo qui ci interessa nell’analisi dell’integrazione
europea12. Facciamo un altro passo in avanti nel nostro argomento.
Un’identità collettiva ha a che fare con la definizione del “noi”, del “chi siamo”
e del “chi non siamo”. La definizione del “noi” rimanda perciò sempre ad un
qualche riferimento/confronto con la presenza di “altri”13. Il principio di identità è inscindibile dal principio di alterità : c’è un “noi” perché c’è un “loro” o un
“voi”. Gli esseri umani vivono e organizzano la loro vita sulla base di “raggruppamenti” (al plurale), attorno a fattori che possono essere i più diversi.
Storicamente non si è mai dato, e ad oggi non è prevedibile, “un solo gruppone
umano” (Lemberg 1964). Questo non significa che, in linea di principio, non si
possa parlare di “identità umana” (con riferimento, ad esempio, ai diritti dell’uomo, all’eguaglianza tra gli uomini o al cosmopolitismo kantiano). Il punto
è, però, che un’impostazione del genere non è sufficiente per capire e spiegare
come di fatto si organizza e funziona la vita collettiva e politica degli uomini. Per
il resto, la tensione tra tendenze al “particolarismo” e tendenze all’”universalismo” è inscritta nella storia e nella cultura europee, e costituisce un aspetto
essenziale della modernità - come ha brillantemente mostrato in più occasioni
Berlin (1994), con l’immagine della dialettica tra Illuminismo e Romanticismo.
Un’identità collettiva si costituisce, pertanto, sempre per contrasto ovvero per
differenza. Implica contestualmente identità verso l’interno di un gruppo e
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
diversità verso l’esterno del gruppo (cioè rispetto ad un altro o altri gruppi).
Questo non significa che un determinato gruppo sia al suo interno (necessariamente o verosimilmente) caratterizzato da “affinità assoluta” (“omogeneità”): il
pluralismo e quindi le differenze interne non sono escluse e anzi sono tipicamente presenti. Così come non significa che un dato gruppo si caratterizzi per
“estraneità assoluta” (“eterogeneità”) verso l’altro: la comunicazione e quindi le
comunanze inter-gruppo non sono escluse14. Il punto qualificante sta nell’”affinità relativa” e nell’”estraneità relativa”. La prima qualifica un gruppo al suo
interno rispetto all’esterno; la seconda qualifica un gruppo nei confronti di un
altro gruppo. L’affinità intra-gruppo è percepita come maggiore a quella intergruppo, così come l’estraneità inter-gruppo è considerata superiore a quella
intra-gruppo. I fattori di affinità e di estraneità possono essere di varia natura,
così come sono di varia natura le dimensioni dell’identità collettiva15.
Il sistema identitario “affinità-estraneità” può essere concepito in modo “oggettivistico” (come “fatto sociale”, à la Durkheim) e/o “soggettivistico” (come
“intenzione soggettiva che dà senso all’agire”, à la Weber). Implica tanto “autoidentificazione” quanto “eteroidentificazione”. Sul piano dell’autoidentificazione, l’affinità di gruppo (sempre relativa) designa che i membri di un gruppo :
1) hanno delle cose in comune; 2) sono consapevoli di avere delle cose in
comune; 3) sono consapevoli che una di queste cose in comune è l’”appartenenza” (sentimento di appartenenza comune e di riconoscimento reciproco).
Parallelamente, sul versante dell’eteroidentificazione, l’affinità (relativa) di
gruppo sta a significare che i membri di un gruppo si vedono attribuiti dai membri di un altro gruppo : 1) delle cose in comune ; 2) una consapevolezza di avere
delle cose in comune ; 3) la consapevolezza che una di queste cose in comune
è l’”appartenenza” (sentimento di appartenenza comune e di riconoscimento
reciproco). Sia sul piano dell’autoidentificazione che su quello dell’eteroidentificazione è il terzo aspetto, la consapevolezza dell’appartenenza, ad essere decisivo e discriminante per la definizione di un gruppo e della sua identità collettiva16. Nondimeno, nessuno dei tre aspetti va inteso come dato di partenza e fattore “naturale” di identità collettiva. Essi rappresentano tutti, piuttosto, delle
poste in gioco e degli approdi potenziali nei processi di formazione delle identità e nella lotta politica che innerva tali processi. Questo in generale, ma soprattutto nei casi di identità collettive con pretese politiche.
4. L’unione europea tra identità multiple e identità politica
Come sappiamo, l’”idea di Europa”, per secoli elaborata e rielaborata dalle élites
culturali e politico-sociali, si è storicamente plasmata per “differenze”, si è basata sull’”alterità” (Chabod 1989; per una sintesi recente Romano 2001). Il concetto di “idea di Europa” è però diverso da quello di “identità collettiva europea”
(Delanty 1998). Qui interessa quest’ultimo, poiché è quello appropriato per
affrontare quella “realtà” storico-politica in fieri che è l’Unione Europea e non
già l’Europa. Naturalmente, la prima non potrà prescindere dalla seconda. Di
fatti, da un punto di vista sociopolitico, come ogni identità collettiva, anche
quella europea consiste nella “traduzione” di un’”idea” (l’idea di Europa, appunto), con la quale categorizziamo la nostra “realtà (sociale)”, in un sistema di
14
Vedi spunti in
Sartori 2000, al di là
delle polemiche che
ha suscitato a livello
politico-culturale.
15
Sul punto è paradigmatico il caso
dell’identità nazionale, per il quale si
rimanda alle formulazioni ormai classiche di Renan e di
Weber.Sull’argomento esiste ormai una
sterminata letteratura che qui non
provo nemmeno ad
esemplificare.
16
Mentre nel nostro
schema concettuale
dimensione “identità-appartenenza” e
dimensione “poterecomando” hanno
pari rilievo costitutivo per l’unificazione
politica, Walzer
tende ad assegnare
una priorità assoluta alla prima: “Il
bene più importante
che distribuiamo fra
noi è l’appartenenza
(membership) alla
comunità, e ciò che
facciamo a tale
riguardo determina
tutte le nostre altre
scelte, da chi esigeremo obbedienza ed
imposte, e a chi assegneremo beni e servizi” (1987, 41).
31
n.3 / 2002
17
Osserva Smith: ”Gli
esseri umani possiedono identità multiple –
familiari, di genere, di
classe, religiose, etniche e nazionali – che
di volta in volta, in
relazione a molte circostanze, prendono la
precedenza sulle
altre” (2000, 133). Vedi
anche Huntington
1997.
32
norme, credenze, atteggiamenti e azioni socialmente diffusi e comuni in un
gruppo.
Soffermarsi sul processo di integrazione europea in termini di identità collettiva
implica quindi adottare un punto di vista particolarmente attento ai “processi di
massa”, ossia alle opinioni, agli atteggiamenti e comportamenti dei cittadini
comuni. Oggi più che in passato. Per una lunga stagione storica, infatti, l’identità europea poteva essere ricercata a livello di élite. Oggi questo restringimento
dell’orizzonte identitario non è più mantenibile. Da un lato, perché il processo
di integrazione europea ha luogo in un contesto caratterizzato da “mobilitazione cognitiva” (Inglehart 1983), grande diffusione dei mass-media e cittadinanza
democratica inclusiva; dall’altro, perché con l’introduzione di una moneta unica
e con l’obiettivo di trovare risposta al suo deficit democratico, l’Unione Europea
intende proporsi come una realtà sempre più concreta, quotidiana e vicina alla
vita dei cittadini comuni.
E però, è proprio a livello di massa, di “traduzione di un’idea in atteggiamenti e
comportamenti socialmente diffusi”, che l’identità collettiva europea continua a
mostrare la sua debolezza. Come immancabilmente registrano le indagini di opinione, il senso di appartenenza e di identificazione europea dei cittadini si
mostra ben lungi dal reggere il confronto con quello nazionale, ma anche con
quello “subnazionale” (Hewstone 1986; Wilterdink 1993; Gabel 1998; Emerson
1999; vedi anche le indagini Eurobarometro). Nelle inchieste questa situazione
viene già colta da domande che chiedono agli intervistati di dire quanto (molto,
abbastanza, poco, per niente) essi si sentano “europei”, quanto “nazionali”
(francesi, tedeschi, spagnoli, italiani, ecc.) e quanto “regionali” (bretoni, bavaresi, catalani, toscani, ecc.). Ma i risultati a sfavore dell’identificazione europea
emergono con ancora maggiore nettezza quando la domanda propone agli
intervistati di optare per l’identità europea oppure per quella nazionale (oppure per quella subnazionale); o quando si chiede loro quanto siano disposti a
sobbarcarsi dei costi (sotto il profilo dei diritti e dei benefici di cittadinanza)
(Nevola 1994b; Holmes, Sunstein 2000) per sostenere l’Unione Europea e l’appartenenza a questa. In scenari identitari di questo genere, la stessa prospettiva
delle “identità multiple” può mostrare i suoi limiti, specie quando le diverse
sfere di identità di ampio raggio e su base territoriale (regionale, nazionale,
europea) entrano in tensione tra di loro e ad essere in gioco è l’espressione di
lealtà in congiunture critiche. Qui sorge un problema di “gestione delle identità multiple”, non solo a livello del singolo individuo ma anche e soprattutto a
livello collettivo. Pertanto, la prospettiva dell’”identità multipla” non deve diventare un facile alibi retorico per nascondere le difficoltà effettive del senso di
identità europea di fronte alla concorrenza, soprattutto, delle identità nazionali
(ma anche di quelle subnazionali).
La problematica in ultimo sollevata rimanda ad un’utile distinzione formulata da
Smith tra carattere “multiplo e situazionale” dell’identità individuale e carattere
“pervasivo” dell’identità collettiva17. Il carattere “pervasivo” dell’identità collettiva dipende dal fatto che “A livello collettivo, non sono le opzioni e i sentimenti
degli individui a interessare, bensì la natura del legame comune” (Smith 2000,
134). L’autore specifica la “natura del legame comune” identitario collettivo
secondo un’ottica “culturale”, fino a piegare l’identità collettiva alla concezione
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
durkheimiana del “fatto sociale”: l’identità collettiva acquista cioè una qualità
oggettiva avvolgente, esterna e coattiva rispetto all’individuo, in quanto prodotto di processi di socializzazione e di comunicazione (vedi anche Berger,
Luckmann 1969). L’argomento di Smith chiarisce, da una parte, la differenza tra
identità individuale e identità collettiva; dall’altra, il fatto che la consistenza di
un’identità collettiva non può essere ricondotta alla somma di una molteplicità
di opzioni individuali (come si potrebbe invece desumere da un’ingenua utilizzazione delle indagini di opinione, le quali tendono a trascurare il così detto
“effetto di composizione”). Esso lascia però aperto il problema delle identità
multiple, delle loro possibili relazioni e delle loro rispettive capacità di avvolgere/coinvolgere i singoli individui. E’ lo stesso Smith a rilanciare il problema, e
proprio in riferimento alla questione identitaria europea: “Teoricamente ...
sarebbe perfettamente possibile per i popoli europei sentire di appartenere a
più di un’identità culturale collettiva, cioè considerare se stessi Siciliani, Italiani
ed Europei ... (e allo stesso tempo sentirsi anche donne, appartenenti alla classe media, musulmani, ecc.). Ma, contemporaneamente, bisognerebbe anche
chiedersi: qual è la forza relativa di queste «cerchie concentriche di devozione»?
Quali di esse presenta la maggiore influenza sulle vite delle persone di oggi? E
infine, quali tra queste lealtà e identità culturali è probabilmente la più duratura e pervasiva?” (Smith 2000, 134).
Le numerose indagini condotte da Smith su questo problema non lasciano
dubbi su quale sia la sua risposta: come nel passato, ancora oggi l’identità nazionale. Allo stesso modo, Smith è inequivoco nell’individuare il fattore che fa prevalere l’identità nazionale rispetto ad altre in un quadro di identità multiple: la
cultura. Per essere più precisi, quella dimensione profonda e “mitica” della cultura, che funge da mythomoteur, operando una trasfigurazione simbolica di
esperienze collettive in valori comuni a un popolo (e che formano così la sua
identità) (Smith 1992; anche Tullio-Altan 1995).
Della risposta di Smith al problema dell’identità multipla convince l’indicazione
della preminenza dell’identità nazionale. Non altrettanto, invece, la spiegazione
in chiave eminentemente culturale di tale prevalenza. Del tutto assente risulta,
infine, una prospettiva teorica che indichi una possibile e realistica identità collettiva europea. Quanto al primo limite, osservo soltanto che l’autore mostra
interesse esclusivo per l’identità culturale collettiva, mentre in questa sede
ritengo prioritario mettere in evidenza un concetto di identità politica collettiva. E, anzi, considero quest’ultimo essenziale per dare conto del problema delle
identità multiple e del “peso” che ciascuna di queste può acquisire nel definire
le sfere della vita collettiva. Lo schema concettuale abbozzato sopra mette in
risalto che, affinché un’identità collettiva possa costituirsi come risorsa capace
di contribuire all’unificazione politica di una comunità, essa necessita di “forza”,
ossia di essere sostenuta da strutture e strumenti di “potere”, i quali traducono
l’identità in “lealtà”. E’ su questo piano, e cioè su quello di un’identità politica
come lealtà vincolante il legame comune, che a tutt’oggi continua ad esprimersi la prevalenza identitaria dello Stato-nazione - vale a dire di quel tipo di unità
politica formatasi nel corso dei processi di strutturazione/delimitazione dello
spazio politico che hanno avuto luogo in Europa, in diverse ondate, in particolare tra il XVI e il XIX secolo (Hintze 1980; Maravall 1991; Eisenstadt, Rokkan
33
n.3 / 2002
18
Lo scenario politico
del “dopo 11 settembre
2001” mostra, anzi,
come lo Stato-nazione
abbia semmai rinforzato le sue posizioni
di centralità, non solo
in campo politicomilitare internazionale ma anche in quello
economico-sociale
interno.
Naturalmente, questa
diagnosi vale più per
alcuni Stati-nazione e
un po’ meno per altri,
come ha ancora
recentemente ricordato Hoffmann, 2002.
Cfr. anche
Panebianco, 2001.
34
1973; Tilly 1984; Poggi 1978; Schulze 1994; Hermet 1997; Reinhard 2001; De
Benedictis 2001).
Da questo punto di vista, la diagnosi ormai da tempo avanzata sulla crisi, se non
sulla fine, dello Stato-nazione (vedi ad esempio Badie 1996; Ohmae 1996) sembra trovare debole riscontro18. Le analisi concernenti l’opinione di massa, gli
assetti politico-istituzionali e la struttura dello “spazio mondiale” (oltre che di
quello europeo), al di là di ogni giudizio di valore o di preferenza normativa,
vedono ancora lo Stato-nazione come unità politica di primo riferimento
(Krasner 2001; Wolf 2001; riguardo al processo di integrazione europea
Moravcsik 1998). Questo non vuol dire che altri attori o altri “luoghi” non siano
compresenti e talora in competizione con lo Stato-nazione per il controllo delle
risorse necessarie alle pretese di unificazione politica (identità, ma anche potere). Altri attori o “luoghi” che possono essere tanto “privati” quanto “pubblici”,
su base territoriale o meno, di dimensione “sovranazionale” (ad esempio la stessa Unione Europea, l’ONU, il WTO, la Banca Mondiale, i vari G-7/G-8), “subnazionale” (le regioni o altri enti territoriali, gruppi di interesse, gruppi etnici,
associazioni) o “transnazionali” (le multinazionali o le organizzazioni del crimine). Per quanto questi attori/luoghi possano effettivamente competere con lo
Stato-nazione per il controllo delle risorse di identità e/o potere, essi non risultano però in condizione di soppiantare lo Stato-nazione sul piano della capacità
di tradurre l’identità in lealtà vincolante e il potere in autorità. (Come sappiamo,
diverso può però essere il caso per quanto concerne i movimenti secessionisti
o indipendentisti su base etno-religiosa).
E’ per questo motivo che, ad esempio, non convince del tutto la tesi di Strange
(1998), per altri aspetti invece illuminante, sulla obsolescenza della centralità
dello Stato-nazione nel sistema internazionale: essa confonde e sovrappone,
infatti, “potere” e “autorità”. Così, mentre è plausibile insistere sul fenomeno
(comunque storicamente non nuovo) della “diffusione del potere” a livello
internazionale (e transnazionale, ma anche intranazionale, aggiungo), non lo è
altrettanto sostenere che negli ultimi trent’anni circa sia emersa una vera e propria “diffusione dell’autorità”. Insomma, lo Stato-nazione non è (almeno finora)
configurabile come una “autorità” analoga ad altre e accanto ad altre. E la medesima conclusione vale sul piano della lealtà.
Lo stesso tipo di rilievo, seppure declinato in termini in parte differenti, è indirizzabile alla tesi che vede (o ri-vede) la “regione”, intesa come soggetto territoriale, (ri-)appropriarsi della centralità identitaria rispetto allo Stato-nazione.
Nella efficace argomentazione, ad esempio, di Schiera, “L’individuazione di
aggregazioni più ridotte e rispettose delle regioni storiche e culturali della convivenza porterebbe certamente ad avvicinarsi ad una soluzione concreta di quel
problema dell’identità di cui continuamente si parla” (1997, 93). L’indicazione
muove da una prospettiva che è fondata su solide concezioni storico-politiche
e, soprattutto, sul carattere mutevole e contingente delle forme di unificazione
politica nel tempo. In questo quadro, a (ri-)emergere è l’attore/luogo “regione”
come “unità” di riferimento in perenne lotta (o resistenza) con le pretese unificanti dello Stato-nazione. Il punto critico di questa visione è, però, che nell’attuale congiuntura storico-politica la “regione” (o assimilabili aggregazioni “subnazionali/transnazionali”) non pare in condizione, nemmeno essa, di superare il
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
test dell’unificazione politica. Limitiamoci, come abbiamo qui fatto, al versante
dell’identità collettiva: ciò che difetta alla “regione” non è tanto l’identità culturale (che spesso anzi sovrasta quella dello Stato-nazione), quanto l’identità politica: vale a dire, la traduzione dell’identità collettiva in lealtà vincolante, in particolare in situazioni in cui le identità multiple sono esposte a “conflitti di appartenenza”19. Di conseguenza, la prospettiva di un’”Europa delle Regioni” (Héraud
1973 ; Miglio, Barbera 1997) come modello politico-identitario per lo sviluppo
dell’Unione Europea non pare in condizione di fronteggiare la concorrenza del
modello dell’”Europa degli Stati-nazione”.
A questo punto possiamo aggiungere che un’identità collettiva è politica ed
esprime lealtà di gruppo in quanto indica un senso di appartenenza di individui
ad un medesimo gruppo sociale, senso di appartenenza caratterizzato :
1. da consapevole riconoscimento reciproco tra i suoi membri;
2. da una comunanza di aspetti di vita sociale;
3. da disponibilità di risorse comuni (simboliche e materiali);
4. da un sentimento di solidarietà reciproca e verso il gruppo;
5. da una legittimazione comune della catena di comando e dei suoi contenuti;
6. da confini e da criteri condivisi di inclusione/esclusione di cittadinanza
che delimitano rispetto a ciò che è “estraneo”;
7. da tendenza all’autoriproduzione e alla durata nel tempo, nel passaggio da
una generazione all’altra e di fronte a mutamenti profondi che possono
toccare il gruppo.
E’ a questo tipo di identità collettiva che guardiamo, in particolare, quando solleviamo la “questione identitaria” per l’Unione Europea del “dopo Maastricht”.
E con questo veniamo al tema di una prospettiva identitaria per l’Unione Europea, sempre secondo l’ottica dell’analisi condizionale richiamata all’inizio.
19
In questo tipo di difficoltà si imbatte
anche l’interessante
ridefinizione dell’identità-Heimat “regionale” proposta da
Duso, 2000. Al riguardo, la nostra perplessità non concerne tanto
l’esigenza espressa di
superare la concettualità Stato-centrica
(ritenuta ormai poco
pregnante dato il supposto tramonto dello
Stato), quanto l’indicazione di abbandonare il concetto di
sovranità. Così facendo, infatti, la prospettiva suggerita di una
ripresa del modello
del “federalismo senza
Stato” (alla Althusius)
corre il rischio di
lasciare un “vuoto
politico” (creato dall’obsolescenza dello
Stato).
5. L’unione europea e la sfida identitaria
20
Secondo la severa ma lucida analisi di Lepsius, fino al Trattato di Maastricht l’integrazione europea si era “legittimata primariamente sulla base di criteri di efficienza economica”. In coerenza a tale tendenza, “Il processo di integrazione
economica si è svolto, per così dire, a un livello più basso rispetto a quello dei
modelli carichi di valori alti e legami condivisi, e ciò ha fatto sì che la formazione della volontà e l’assunzione di decisioni fossero autonome dagli intrecci di
natura politica, sociale e culturale presenti negli ordinamenti nazionali”. Entro
questo quadro, le élites politiche europee potevano promuovere i loro programmi attraverso una cooperazione funzionale fondata su criteri di razionalità
economica, forti di “un’ampia immunità di fronte all’opinione pubblica”
(Lepsius 1997, 7-8)20.
Si tratta di una tesi ampiamente condivisibile, che però va a mio avviso estesa
quanto alla sua portata temporale. Il criterio di legittimazione funzionalista,
basato sull’efficienza economica, continua infatti ad ispirare il modello
Maastricht di Unione Europea, fino ad oggi. A differenza che nel recente passato, tuttavia, con il passaggio all”Unione Europea” e con i vincoli imposti
dall’Unione Economica Monetaria (attraverso l’istituzione della Banca Centrale
Un’analisi che ha
visto nell’Unione
Europea il venir meno
della “democrazia dei
cittadini” ma parallelamente l’imporsi di
un nuovo modello di
democrazia (“organica”) “postparlamentare” basato sulla
“democrazia delle
organizzazioni” è in
Andersen, Eliassen
1996. La recezione
aproblematica di questo supposto mutamento ha rivelato la
sua frettolosità e il suo
semplicismo nel volgere di pochi anni, come
mostrano i dibattiti
pubblici recenti.
35
n.3 / 2002
21
A conclusioni in
buona misura convergenti perviene l’analisi delle politiche di
welfare di Ferrera,
2000. Insomma, come
ha notato Streeck, “E’
oggi ben chiaro che gli
Stati nazionali continueranno per lungo
tempo a giocare un
ruolo estremamente
importante per l’organizzazione, l’identificazione e l’azione
politica in Europa, in
particolare per quanto riguarda i temi dell’eguaglianza, della
giustizia e della sicurezza sociale”
(2000,3).
36
Europea e l’introduzione della moneta comune), tale criterio da solo si rivela
chiaramente inadeguato. I segnali non mancano: dal ridestarsi di un certo scetticismo presso l’opinione pubblica ai dibattiti politici tanto sul “deficit democratico” quanto sull’esigenza di una costituzione europea. In altre parole, il
modello Maastricht ha esaurito la sua spinta propulsiva nei confronti del processo di integrazione europea. Se l’Unione Europea vuole davvero procedere
oltre nel suo sviluppo, anziché limitarsi al modello Maastricht e ad un suo consolidamento, è necessario un salto di qualità sotto il profilo di quella che Lepsius
(1997) ha chiamato “politicizzazione” dell’integrazione europea, e che a mio
avviso spinge l’Unione Europea ad affrontare il “test dell’unificazione politica”
(Nevola 2001a; 2001b).
L’unificazione politica, lo si è visto sopra, dipende tra l’altro dalla disponibilità di
quella preziosa risorsa che è l’identità collettiva. L’intima connessione tra sviluppo dell’integrazione europea e problema dell’identità collettiva emerge, a
suo modo, anche dall’analisi di Scharpf (1999), un’analisi fondata su un’impalcatura concettuale affine a quella di Lepsius. Secondo Scharpf, l’Unione Europea
fa fatica a passare dall’”integrazione negativa” all’”integrazione positiva”, poiché
non riesce a fondarsi su una “legittimazione orientata verso l’input” (ossia una
legittimazione strutturata sui processi di partecipazione e rappresentanza
democratico-parlamentare). Questa incapacità deriva dal fatto che l’Unione
Europea non dispone di una sua identità collettiva (non esiste “un popolo europeo”). Nel tentativo di risolvere questa impasse, Scharpf suggerisce di tenere
presente che l’Unione Europea può però fare affidamento su una “legittimazione orientata verso l’output”, ossia trarre sostegno dalla sua capacità di produrre
risultati, dall’efficacia delle sue prestazioni nelle diverse aree di policy. E tuttavia, anche sul piano dell’efficacia delle sue politiche, come mostra lo stesso
Scharpf, l’Unione Europea denota importanti segni di debolezza. Limitatamente
alla sfera delle politiche economico-sociali cui l’autore presta attenzione,
l’Unione Europea risulta infatti inefficace rispetto ad una serie di settori cruciali della vita collettiva, tipicamente ad elevata salienza politica (politiche sociali e
politiche macroeconomiche per l’occupazione, politiche fiscali, relazioni industriali, istruzione)21.
All’argomento di Scharpf va aggiunto che le difficoltà che l’Unione Europea registra sul piano dell’efficacia delle politiche sono esse stesse un riflesso del problema aperto dell’identità collettiva. Si tenga infatti presente che la distinzione
tra “legittimità orientata all’input” (basata sull’identità collettiva) e “legittimità
orientata all’output” (basata sull’efficacia delle policies) è una distinzione chiaramente analitica . Nel concreto operare dei processi politici democratici le due
fonti di legittimità coesistono, come mostra emblematicamente l’esperienza
dello Stato-nazione. Tale coesistenza, è bene rimarcarlo, non è solo storicoaccidentale, ma costitutiva per la democrazia, almeno nelle forme normative ed
empiriche a noi note. E difatti non è casuale che il tentativo di Scharpf di sganciare, nel caso dell’Unione Europea, un tipo di legittimità dall’altro non porti ai
risultati attesi. Ancor di più: tra legittimità orientata all’input e legittimità orientata all’output non si tratta solo di compresenza necessaria, ma di dipendenza
della seconda dalla prima. Insomma, il problema dell’identità collettiva entra in
gioco tanto per l’uno quanto per l’altro tipo di legittimità. Anche nel caso
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
dell’Unione Europea.
Ma fino a che punto e in quali termini la “questione identitaria” è riconosciuta
essere effettivamente in grado di condizionare le prospettive di sviluppo dell’integrazione europea del dopo Maastricht ? Nella letteratura che affronta il
tema troviamo oggi differenti risposte all’interrogativo. Proviamo a vedere ed
esemplificare brevemente alcune delle principali posizioni per avere un quadro
dei termini della discussione.
Secondo il costituzionalista tedesco Grimm (1994), ad esempio, l’Unione
Europea non dispone della risorsa identitaria (“non esiste un popolo europeo”),
nell’attuale momento storico, né ne disporrà in un futuro storicamente prevedibile. Sulla base di questa diagnosi si sostiene, in sostanza, che l’integrazione
europea non potrà andare oltre lo stadio di sviluppo già toccato, raffigurabile
come un sistema di coordinamento inter-statale, e in ogni caso non riconducibile ad alcuna forma di “unità politica”. Da questo punto di vista, la prospettiva
di una costituzione europea veicolerebbe soltanto una visione equivoca, dato
che, in assenza di un’identità collettiva, tale prospettiva in realtà “non riuscirebbe a trasformare la natura necessariamente pattizia dei trattati” internazionali
sui quali, dopotutto, continua a reggersi l’Unione Europea (Grimm 1996, 365;
anche Frank 2000).
Partendo da una medesima diagnosi di mancanza di un’identità collettiva europea, Schmitter (2000; anche Pasquino 2000) formula una visione del processo
di integrazione europea secondo la quale esso può nondimeno evolversi verso
forme più stringenti di unione politica. Anche se nell’orizzonte dell’Unione
Europea non si intravede una forma di unità politica paragonabile a quella tipica degli Stati-nazione, attraverso l’attivazione di una serie di riforme istituzionali (che l’autore presenta come piccole e modeste), l’Unione Europea sarebbe in
grado di ridefinire la portata, l’efficacia e la capacità di vincolo dei suoi sistemi
di cittadinanza, di rappresentanza e di processo decisionale22. Secondo analisi
del genere, pertanto, l’Unione Europea avrebbe sì un problema di identità collettiva, ma questo non pregiudicherebbe le sue prospettive di sviluppo politico.
Ancora diversa è, infine, la posizione di Habermas (1999; anche Delanty 1998).
Secondo il filosofo di Francoforte, l’Unione Europea al momento non può ancora fare riferimento ad una compiuta identità collettiva europea; tuttavia le sue
prospettive di sviluppo verso l’unificazione politica sarebbero assicurate dal
fatto che a livello europeo sono già esistenti (come “anticipazioni”) condizioni
civiche capaci di produrre quella “solidarietà tra estranei” di cui consiste un’identità collettiva. Se fino a qualche anno fa per Habermas (1992) l’identità collettiva europea andava assumendo i caratteri di un’”identità post-nazionale”,
nelle riformulazioni più recenti essa appare invece rinviare a quelli di un’”identità sovra-nazionale”, nel senso di “replica”, su scala maggiore (appunto sovranazionale), del superamento “nazionale” delle identità locali23.
Come già anticipato in apertura, a mio avviso la questione identitaria rappresenta oggi una sfida per il processo di integrazione europea (Laffan 1996). Essa
si costituisce come soglia ineludibile se per l’Unione Europea si propongono
progetti di sviluppo “oltre il modello Maastricht” e in direzione di una qualsivoglia forma di effettiva unificazione politica. Da questo punto di vista, la prospettiva qui esemplificata con Schmitter pare poco convincente in quanto racchiude
22
È qui utile osservare
come il vertice di
Nizza del dicembre
2000 sia risultato piuttosto fallimentare proprio sul piano di quelle riforme istituzionali
(dal voto a maggioranza alla riponderazione del peso degli
Stati membri negli organismi comunitari)
che potrebbero apparire “piccole e modeste”, e che invece nascondono uno spessore politico tale da sollevare quelle “questioni di sovranità” che
immediatamente irrigidiscono le posizioni
degli Stati membri nelle trattative.
23
“Se questa forma di
identità collettiva è
dovuta agli esiti di
una spinta astrattiva
(Abstraktionsshub) che
è già stata capace di
trasformare la coscienza locale e dinastica in una coscienza
nazionale e democratica, perché non
dovremmo intendere
come proseguibile
questo processo di
apprendimento ?”
(Habermas 1999, 87).
37
n.3 / 2002
24
Una ripresa di questa chiave di analisi
rokkaniana in esplicito riferimento all’integrazione europea è in
Bartolini 1998; Nevola
2001b, 2001c.
25
Per una prima trattazione di questo tema
rimando a Nevola,
2001c.
26
In altra sede (Nevola
2001c) ho provato a
sintetizzare alcune
essenziali macrocomponenti di questa comune eredità europea, alcune delle quali sono riconducibili
alla dimensione dell’integrazione europea che Helen Fallace
(1999) chiama “affiliazione socio-politica”.
Decisamente critico
sulla possibilità di
individuare una
comune eredità culturale europea è Smith
2000. Sul problema in
generale Kaelble 1990;
Mendras 1999;
Therborn 1995; Lévy
1999; Galasso 2001.
38
un equivoco: o le “piccole” riforme istituzionali puntano ad un consolidamento
del “modello Maastricht” oppure, se esse si prefiggono lo sviluppo di un’unione propriamente politica, da sole non sono sufficienti allo scopo, e con ciò si
ritorna al nodo dell’identità collettiva. Né vale come obiezione l’argomento assai
diffuso secondo il quale in questo modo si proporrebbe per l’Unione Europea
il modello dello Stato-nazione: in causa è infatti il più generale problema
dell’”unificazione politica”. Ossia, il problema della strutturazione di uno spazio
politico (polity)24 regolato dal principio dell’autogoverno. Hic Rhodus hic salta !
Il mio, lo ripeto, è un “argomento condizionale”: se ... allora. Con questo, è evidente, non ci si pronuncia sulla desiderabilità di “quale Unione Europea”
(modello Maastricht piuttosto che unificazione politica). Sul piano del realismo
dell’analisi politica ritengo per certi versi condivisibile una visione quale quella
di Schmitter. Essa non deve però essere caricata di significati equivoci o impropri: non va cioè intesa come una prospettiva verso l’unificazione politica. Se
invece si vuole andare in quest’ultima direzione, l’interrogativo che bisogna
affrontare è: quale tipo di identità collettiva è realisticamente possibile per
l’Unione Europea? E a quale tipo di unificazione politica è riconducibile una tale
identità? Come l’Unione Europea possa pervenire a una tale identità è tutta
un’altra questione, della quale qui non mi occupo25.
6. Patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale
L’Unione Europea dispone di alcuni pre-requisiti sui quali potrebbe fare affidamento in vista di un progetto di identità collettiva. Tali pre-requisiti possono
essere incorniciati dentro due grandi quadri di sintesi: una comune eredità culturale e di valori, per quanto problematica, controversa e intrisa di conflitti e
lacerazioni26 e un sistema di cittadinanza, per quanto sostanzialmente derivato e
dipendente dai sistemi di cittadinanza nazionali (Lippolis 1994; Withol de
Wenden 1997; Wiener 1997; Bartole 2000; Rusconi 2000). Su queste basi, per
l’Unione Europea si può pensare ad un’identità collettiva di “secondo grado”,
che non si pone né come sostitutiva né come competitiva con le identità nazionali, in particolare, ma nemmeno con quelle sub-nazionali o regionali, più in
generale. Si tratta, piuttosto, della configurazione di uno spazio identitario
comune europeo che è tale proprio perché al suo interno è data e valorizzata la
possibilità di un reciproco riconoscimento delle diverse identità nazionali (e
subnazionali) come tali e come europee. A sua volta, questa possibilità di riconoscimento reciproco definisce e consolida un simile spazio comune identitario
europeo. In questo senso, l’attenzione va verso un’identità collettiva europea
che integri e valorizzi le identità nazionali (e subnazionali) e che, proprio per
questo, tragga da esse fondamento ed energia.
Un’identità del genere non produce, tuttavia, una lealtà “primaria”, ma piuttosto “secondaria”. In questo contesto, infatti, i cittadini sono in grado di tenere
fede al loro legame politico con l’Unione Europea (le sono leali) perché questa
riconosce e non sfida le loro lealtà nei confronti dei “luoghi politici” nei quali e
attraverso i quali essi esprimono le loro pratiche di autogoverno (in una prospettiva e con implicazioni diverse Koslowski 1999). In questo modo può prendere forma quello che chiamo un “patriottismo europeo della cittadinanza mul-
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
tinazionale” (Nevola 2001c). Per cercare di delineare un po’ meglio questo tipo
di identità collettiva può intanto essere utile richiamare l’attenzione su una tipologia concettuale elaborata da Rokkan e Urwin (1982). In un loro studio sui processi di formazione dello Stato-nazione e sulla politica delle identità territoriali
sull’asse centro-periferia, gli autori hanno distinto due tipi ideali di identità collettiva: l’identità legata ad uno “spazio territoriale” e l’identità legata ad uno
“spazio di appartenenza”. Nel primo caso, il “centro” cerca di assicurarsi il dominio politico attraverso un sistema di controllo amministrativo e una politica di
omogeneizzazione culturale; e per questa via si realizza un’identità comprensiva delle “periferie” (“modello monocefalo”). Nel secondo caso, l’identità resta
associata a ciascuno dei “gruppi periferici”, mentre il “centro” viene a costituirsi come una collezione di identità distinte (“modello policefalo”). Il patriottismo
della cittadinanza multinazionale che ho delineato come prospettiva identitaria
per l’Unione Europea, pur nella sua peculiarità, può essere accostato (come
una sorta di variante debole) al secondo tipo ideale formulato da Rokkan e
Urwin, cioè quello dell’”identità policefala”.
In questo senso, tale patriottismo europeo si qualifica, in particolare:
1. in riferimento ai contenuti di un comune patrimonio culturale europeo,
senza però negarne il carattere “diviso”, pluralistico e conflittuale;
2. in quanto fa affidamento su un sistema di cittadinanza democratica, che
riannoda le norme “universalistiche” di questo alle diversità delle sue concrete manifestazioni storico-politico-culturali; e lo ridefinisce come “sistema di riconoscimento di lealtà” radicate nella varietà delle esperienze “particolari” nazionali (e in parte subnazionali);
3. in quanto recupera un “multiculturalismo europeo” che non esprime soltanto l’esistenza di una molteplicità di “culture” subnazionali o transnazionali, ma soprattutto la molteplicità delle identità politiche degli Statinazione. Per questo motivo preferisco la formula di “cittadinanza multinazionale” a quella di “cittadinanza multiculturale”, gradita invece ai teorici del multiculturalismo e delle minoranze etno-culturali, e negli ultimi
anni fatta propria anche da Habermas27.
Secondo questo modello di “patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale”, l’identità collettiva europea dovrebbe fondarsi sulla capacità di combinare insieme, da un lato, eredità storiche ed identificazioni di gruppo tra loro
diverse e particolari; dall’altro, una cornice comune di valori, principi e norme
democratici e costituzionali, i quali sono sì “universalistici”, ma anche “europei”
e, soprattutto, originati e plasmati attraverso differenti contesti e storie “nazionali” (e “subnazionali”). E’ in una visione del genere che, a mio avviso, riposa il
significato più genuino e coerente di un “patriottismo democratico europeo”, il
quale tenga insieme identificazione con principi “formali, astratti ed universali”
della cittadinanza democratica (costituzionalismo, appartenenza costituzionale
e lealtà democratica) e identificazione con ambiti di vita politico-culturali
“sostanziali, concreti e particolaristici” radicati nelle storie nazionali (patriottismo, appartenenza e lealtà nazionali e sub nazionali)28.
L’ipotesi di lavoro di un patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale
può esporsi al fuoco incrociato di critiche tra di loro opposte. Può infatti facilmente suonare come troppo ambiziosa per alcuni e troppo modesta per altri.
27
La nostra formula è
semmai più vicina a
quella di Weiler
(1997) di “molteplici
demoi coesistenti”.
Una recente analisi
che integra in chiave
“europeistica” la visione habermasiana con
una particolare versione del repubblicanesimo (Pettit 2000) e
una ripresa del multiculturalismo
(Kymlicha 1999) è in
Lavdas 2001.
28
In questo senso, il
“patriottismo europeo
della cittadinanza
multinazionale” differisce dal “patriottismo
costituzionale europeo” formulato da
Habermas, in ragione
del fatto che quest’ultimo tende a fondarsi
solo sul primo dei due
elementi con i quali
abbiamo qualificato
la nostra formula.
39
n.3 / 2002
29
Il punto ha trovato
anche formulazioni
più radicali : “Sinché
il concetto di identità
nazionale non viene
reso compatibile con
il concetto di identità
europea, l’europeismo
resta legato al dominio dell’utopia. Ci vollero secoli perché l’idea di nazione maturasse negli Stati europei ; sono stati necessari secoli perché l’idea di nazione in
Italia si trasformasse
da visione letteraria
in progetto politico”
(Di Nolfo 2001, 17).
30
Una differente analisi dei modelli di integrazione e di democrazia europea, sulla
base di una teoria
evoluzionistica dei
sistemi politici, individua nel processo storico di integrazione
europea una tendenza definita, la quale
condurrebbe ad un
approdo univoco (seppure complesso) verso
un modello di
“Europa federale” e di
“democrazia dei cittadini”. Cfr. Attinà,
2000.
40
Può darsi che sia effettivamente troppo ambiziosa, ma essa deriva coerentemente da un’”analisi condizionale”: se ... allora. Se l’Unione Europea vuole procedere oltre il modello Maastricht e verso una qualche forma di unione politica,
allora dovrà dare risposta al problema dell’identità collettiva29. D’altra parte è
anche plausibile che la proposta qui fatta emergere possa risultare per altri troppo modesta. Essa certo può non soddisfare le aspettative suscitate dal Discours
à la Nation européenne (1932) di Benda o dal Manifesto di Ventotene (1941)
di Spinelli e Rossi, ma è quanto qui si ritiene realisticamente possibile come
progetto identitario per l’Unione Europea: un’identità collettiva di “secondo
grado”, subalterna a e derivata da quelle nazionali (in particolare).
Se quella qui delineata è la prospettiva identitaria realisticamente disponibile
per l’Unione Europea, dobbiamo allora concludere che il processo di integrazione in corso non pare in condizione di superare in modo compiuto il test dell’unificazione politica. Questo perché a restare deficitaria è l’identità politica
europea, quella che pretende ed esprime vincoli di lealtà di gruppo. Il fatto che
per l’Unione Europea si veda un’identità collettiva di “secondo grado” è chiaramente un limite sotto il profilo dell’unificazione politica. Tuttavia, la possibilità
di un’identità europea come “patriottismo della cittadinanza multinazionale”
costituisce, oggi e per un futuro prevedibile, un passo in avanti di grande
momento e tutt’altro che facile da realizzare. Diversamente, non resta che un’altra ipotesi di lavoro: quella di puntellare e consolidare il modello Maastricht di
Unione Europea. Senza sovraccaricarlo di significati e di aspettative che esso
non è in grado di sostenere e senza però sminuire il contributo che esso può
offrire alla dimensione “europea” della vita collettiva.
Precluso il modello storico dello Stato-nazione (comprese le sue varianti multinazionali) (Linz 1995), per l’Unione Europea sembrano rimanere aperti due
modelli storici: quello che richiama, ad esempio, la vicenda storica della Lega
Anseatica e quello che rimanda alle esperienze imperiali. Il primo può rivelarsi
istruttivo per il “modello Maastricht” di Unione Europea; il secondo, un termine di confronto per una prospettiva del “dopo Maastricht”. Nel primo caso si
rinuncerebbe senz’altro a progetti di unificazione politica; nel secondo, ci si
metterebbe sulla strada dell’unificazione politica. Con quali risultati effettivi, è
difficile dire30. E del resto, le esperienze imperiali hanno dato soluzioni tra loro
molto differenti al test dell’unificazione politica. Per fare un solo esempio, infatti, quanto a superamento del test di unificazione politica il caso del Sacro
Romano Impero è chiaramente diverso da quello dell’Impero Austro-Ungarico.
La prospettiva di un patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale è in
sintonia con l’alternativa imperiale, anche se non promette un automatico conseguimento dell’unificazione politica. Questo può bastare, mi sembra, per dire
che essa è solo apparentemente debole o rinunciataria. Con tutti i suoi limiti di
fronte alle identità, alle lealtà e ai patriottismi nazionali, rappresenta un’impresa
veramente storica. Ma possiamo dare per scontato che l’Unione Europea sia in
grado di intraprenderla?
7. Epilogo
Un fattore, tra altri, che al momento non consente di nutrire eccessive certezze
Gaspare Nevola
Unione Europea, sfida identitaria
sulla risposta all’ultimo interrogativo è riconducibile ad un fenomeno (ri-)emergente e sempre più diffuso, recentemente sottolineato da Cotta: “le élites politiche nazionali (o segmenti di queste) si accorgono dell’importanza che per la
loro sopravvivenza politica ha l’arena sovranazionale e decidono di impegnarsi
più attivamente”, ricorrendo a strategie di voice. La conseguenza è che: “L’impronta prevalentemente tecnocratica e il basso grado di politicità che hanno
finora caratterizzato le istituzioni europee sono (...) destinati ad essere messi
alla prova in misura crescente nei prossimi anni”. Parallelamente, “le possibilità
di conflitti sulla scena europea sono destinate ad aumentare” (Cotta 1998, 456).
Dallo scenario così delineato l’autore trae il convincimento, pure condivisibile,
che si sia “acceso il motore del cambiamento politico in Europa”. Si tratterà di
vedere quali implicazioni esso potrà avere, specie nel contesto di crisi internazionale del “dopo 11 settembre”, per la costruzione dell’Unione Europea31. E,
soprattutto, quali saranno le dinamiche e le reazioni collettive sul fronte della
lealtà politica.
Scriveva Benedetto Croce: “già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di
una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché, come si è già avvertito,
le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche); e
a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un
piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro
anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e
tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie
più piccole, non dimenticate, ma meglio amate” (Croce 1993, 435-36). Era il
1932. L’Europa “si trovava inviluppata in una rete di alleanze, patti e trattati di
mutua assistenza, oltre alle garanzie generali e ai meccanismi della Società delle
Nazioni. Sulla carta il continente era ottimamente garantito contro qualsiasi
forma di violenza internazionale; ma in realtà, tutta questa «pattomania» aveva
prodotto soltanto una fragile struttura, destinata a crollare non appena messa
alla prova”. Così, “il continente europeo stava vivendo gli ultimi anni di un periodo la cui parola d’ordine - almeno apparentemente - era stata «pace, moderazione e riforma»”. Ci si muoveva all’insegna dei Patti di Locarno, inseguendo la
logica del “mutamento pacifico”. “Ma non appena la grande depressione fece
sentire il suo soffio gelido, le sorti del «mutamento pacifico» cominciarono a
declinare” (Wheeler-Bennet 1968, 199). Ma è nelle situazioni critiche, dopotutto, che ha tipicamente luogo il test dell’unificazione politica.
31
Riflettendo in proposito, Panebianco ha
osservato : “Non è
segno di cinismo ma
solo il richiamo di
un’altra costante storica ricordare che
non si sono mai dati
casi di unificazione
‘federale’ se non sotto
lo stimolo di una serie
di minacce militari.
Se l’Europa sarà, la
guerra ne sarà stata
la levatrice” (Panebianco 2001, 1006).
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Gaspare Nevola è docente di Analisi delle politiche pubbliche e di Scienza politica presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Tra le sue pubblicazioni: Conflitto e coercizione. Modello di analisi e studio di casi, il Mulino 1994;
Giustizia sociale e giovani. L’ideale di un secolo e la sfida del “civismo adattivo”, Edizioni Lavoro 2000.
[email protected]
46
n.3 / 2002
Philip Schlesinger
Comunicazione politica
in trasformazione
nell’Unione Europea*
Il faro
*
Versione rivista per
questo numero di
Foedus di un articolo
apparso su Political
Communication,
16/1999 (Trad. dall’inglese di Claudia
Padovani).
48
Introduzione
L’integrazione politica ed economica nell’Unione Europea (UE) sta portando a
mutamenti significativi nel modo stesso di concepire gli spazi pubblici del dibattito e della discussione. L’UE rappresenta una sfida crescente al pensiero comune
relativo sia all’organizzazione politica e allo spazio comunicativo, sia alle identità
collettive e al senso di appartenenza.
La spinta dell’UE verso la creazione di istituzioni politiche comuni è tratto distintivo quando confrontato con altri blocchi commerciali nel mondo (Katzenstein
1996). Hirst e Thompson considerano che l’UE sia “il progetto più ambizioso di
governance economica multinazionale nel mondo moderno” e suggeriscono che
l’Unione potrebbe essere vista come “una complessa comunità politica costituita
da istituzioni comuni, Stati membri e popolazioni” che combinano i loro sforzi
nella governance (1996, 153-154). L’impatto di lungo termine di pratiche collaborative all’interno dell’Unione sta gradualmente modificando il modo in cui la
vita politica viene condotta. L’estensione e la natura della comunicazione politica
sono destinate a mutare in linea con la riconfigurazione dell’economia politica
dell’Unione.
Nel mondo contemporaneo lo schema di riferimento prevalente per la pratica
della politica democratica e l’esercizio della cittadinanza è rappresentato dallo
Stato-nazione. Convenzionalmente lo spazio politico comunicativo è considerato
co-estensivo con lo spazio nazionale. Ma questo carattere funzionale viene messo
in discussione dall’emergere di una comunità sopra-nazionale quale l’UE. Lo spostamento verso una formazione sopra-nazionale inizia a trasformare le relazioni
comunicative stabilite fra pubblici nazionali e sistemi di potere di tipo stato-centrico.
In questo articolo illustrerò gli sviluppi teorici che tentano di guardare a queste
realtà in mutamento, facendo riferimento in particolare alla tradizione di pensiero sulla comunicazione sociale relativa alle nazioni e agli Stati e considerando in
particolare il lavoro di Jurgen Habermas e di Manuel Castells.
Se uno spazio comunicativo sostenuto dai media e di carattere sopranazionale sta
emergendo a causa dell’integrazione europea, tale spazio riflette differenze di
Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
classe ed è primariamente il dominio di élites politico-economiche e non quello
di un più ampio pubblico europeo. La deformazione del mercato dell’informazione a favore di coloro che hanno potere ed influenza è congruente con l’ampiamente riconosciuto “deficit democratico” dell’UE che deriva dallo stile essenzialmente esecutivo e burocratico delle sue istituzioni (la Commissione e il Consiglio dei Ministri) insieme alla debole responsabilità dell’organo legislativo (il
Parlamento Europeo).
Oltre la sfera pubblica “nazionale”
Il pensiero teorico relativo alla sfera pubblica si è modificato in linea con la trasformazione dello spazio politico nel continente europeo. Habermas (1989) e i
suoi seguaci vedono la sfera pubblica come un’arena che esiste al di fuori delle
istituzioni dello Stato, nella quale un’ampia gamma di visioni e opinioni si possono sviluppare in rapporto a questioni di interesse pubblico. Nonostante l’utilità di
tale concezione per la ricerca nel campo dei media, la visione ideal-tipica di
Habermas della classica sfera pubblica borghese è stata oggetto di un notevole criticismo soprattutto in rapporto al carattere esclusivo e limitato nei confronti delle
donne, della classe operaia, della gente di colore (Calhoun 1994).
Il dibattito è noto e non c’è bisogno di ripercorrerlo in questa sede. Si dovrebbe,
tuttavia, porre enfasi sul fatto che la teoria iniziale di Habermas prendeva lo Statonazione europeo, inteso come comunità politica, come proprio schema di riferimento. Allo stesso modo, lo sviluppo contemporaneo della sfera pubblica argomentato da Leon Mayhew (1997) considera gli Stati Uniti come proprio spazio
politico. Anche se la formazione storica della sfera pubblica è stata strettamente
connessa al processo di creazione degli Stati-nazione, quella relazione è tuttavia
di carattere contingente (Eley 1992, 296).
La prospettiva che i processi comunicativi delineino i confini di una comunità politica è centrale per l’approccio della comunicazione sociale nella teoria del nazionalismo. Le nazioni si distinguono da altre collettività per la speciale natura della
loro comunicazione interna o, secondo la dicitura di Karl Deutsch (1966), per la
loro “complementarietà comunicativa”. Scrittori influenti di questa scuola prendono dunque in considerazione il ruolo svolto dell’educazione, dalla standardizzazione linguistica, dalle routines nazionali quotidiane e dall’esistenza di una
comune storia collettiva (Anderson 1983; Billing 1995; Castells 1996,1997, 1998;
Gellner 1983. Si veda Schlesinger 2000 per una rilettura critica di questi autori).
Habermas nei suoi primi scritti descriveva la “polity” come una singola sfera pubblica con un unico centro autoritativo. In realtà questo è un caso limite che suggerisce un notevole grado di omogeneità culturale interna, riscontrabile solamente in poche società. Piuttosto, come Nancy Fraser ha osservato, l’ideale di
eguale partecipazione nel dibattito pubblico è meglio raggiunto immaginando
una pluralità di pubblici in competizione. Questo consente di prestare attenzione
alla diversità di interessi e di contesti, postulando al tempo stesso la possibilità di
una “interazione discorsiva fra più pubblici” (1996, 126). Craig Calhoun ha suggerito che dovremmo quindi pensare nei termini di “sfere di pubblici” ovvero di
“intersezioni multiple fra pubblici eterogenei e non solo considerare l’esistenza
privilegiata di un singolo pubblico onnicomprensivo” (1995, 242).
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n.3 / 2002
In questo modo la vita pubblica nelle democrazie del tardo capitalismo coinvolge
una pluralità di discorsi in competizione per la loro posizione nello spazio nazionale. Ovviamente ciò presuppone un ordine democratico che consente a gruppi
diversi di entrare nel confronto dell’opinione pubblica e questo non significa
necessariamente che essi lo facciano in termini di egualglianza. Ma anche questo
approccio rivisitato continua a considerare lo spazio pubblico come prototipicamente definito dallo Stato-nazione.
Consideriamo invece il discorso politico nello spazio dell’UE, che non è né uno
Stato-nazione né una “polity” in senso convenzionale. Il discorso nazionale e il
discorso europeo di fatto coesistono. L’Europa è all’interno dello Stato-nazione,
come parte dell’agenda politica interna e anche in quanto parte costitutiva di un
più ampio schema politico-economico; al tempo stesso essa è anche un altro
luogo, un differente livello politico, un luogo della decisione che si trova all’esterno. Nell’UE, data questa ambiguità, il contesto nazionale delineato dallo Stato
non definisce più in maniera esaustiva l’orizzonte della comunità comunicative.
Per analizzare lo spazio comunicativo emergente in Europa si deve porre attenzione alle nuove arene sopra-nazionali e ai pubblici che le costituiscono.
La dimensione comunicativa dell’Unione Europea
Sta forse emergendo una distinta sfera di pubblici a livello europeo? Habermas
(1994, 21-23) ha osservato che in Europa “la forma classica dello Stato-nazione si
sta attualmente disintegrando” di fronte alle pressioni dell’economia globale da
un lato e alle dinamiche del multiculturalismo dall’altro. Invece di fattori tradizionali quali l’etnicità comune o la lingua comune, Habermas propone che “la cultura politica serva come denominatore comune per un patriottismo costituzionale
che affini, al tempo stesso, la consapevolezza della molteplicità e l’integrità delle
diverse forme di vita che esistono in una società multiculturale” (1994, 27). “Cultura politica” si riferisce qui ai principi legali e alle istituzioni politiche, alle norme
e alle pratiche che sono diffuse attraverso un determinato sistema politico; in
breve, essa indica le regole del gioco. Habermas prevede che ci saranno reti che
si estenderanno attraverso i confini nazionali e individua un intergioco ideale fra
“processi istituzionalizzati dell’opinione e della formazione della volontà” e “reti
informali di comunicazione pubblica” (1994, 31). Egli postula una forma radicale
di coinvolgimento popolare di ampia base negli affari pubblici come un correttivo essenziale alla politica professionalizzata. La democrazia parlamentare, dunque, “richiede una strutturazione discorsiva di reti pubbliche e di arene in cui circuiti anonimi di comunicazione sono distaccati dal livello concreto delle interazioni singole”, in breve: uno spazio comunicativo (Habermas 1997, 71).
Più tardi Habermas ha parzialmente messo da parte la visione della sfera pubblica singola e ha scritto, invece, di una rete assai complessa che si dirama in una
moltitudine di arene sovrapposte, internazionali, nazionali, regionali, locali e subculturali (1997, 373-374). Tuttavia la concezione sottostante della sfera pubblica
rimane. E’ all’interno di questo schema logicamente integrativo che emergono
cosiddette “costruzioni di ponti ermeneutici” fra discorsi differenti. Habermas ora
ritrae la sfera pubblica come potenzialmente non-finita; qualche cosa che si è spostato da situazioni locali specifiche (quale la nazione) verso la co-presenza virtua-
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Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
le di cittadini e consumatori collegata dai media pubblici. Dobbiamo concludere
che una sfera pubblica europea sarebbe allora aperta, con connessioni comunicative estese ben oltre il continente. Tutto questo ha un senso, poiché i flussi contemporanei e le reti della comunicazione assicurano che nessuna comunità politica possa rimanere isolata. Il problema è come mettere insieme il fatto che noi
realmente apparteniamo al villaggio globale con il postulato di una identità europea. Dobbiamo comunque domandarci quali confini comunicativi sono più
importanti per lo sviluppo di una identità politica distinta e per lo sviluppo di una
cultura politica europea. In altre parole, come potrebbero i processi comunicativi contribuire alla coesione sociale dell’Unione? Un corpo politico europeo senza
almeno alcuni segni distintivi di carattere comunicativo, semplicemente non può
essere immaginato come possibilità sul piano sociologico.
Per Habermas l’impatto potenziale delle tecnologie di comunicazione sulle comunità è subordinato al modo in cui uno spazio comunicativo adatto può essere
costituito all’interno dell’UE. Habermas tocca il concetto del “network” ma questa idea è molto più sviluppata nel lavoro di Manuel Castells (1996, 1997, 1998)
per il quale le nuove tecnologie di comunicazione contribuiscono alla formazione di un tipo completamente nuovo di società, quella che definisce di tipo “informational”.
Come Habermas, Castells considera l’UE come una realtà di particolare interesse.
Egli guarda all’Unione come al precursore di un nuovo ordine politico, nuove
forme di associazione e lealtà: la “europolity” emergente rappresenta quello che
Castells chiama “the network state”. L’UE è considerata non solamente come una
zona politico-economica, ma proprio a causa del suo carattere reticolare, è anche
vista come uno specifico tipo di spazio comunicativo. Per Castells l’UE è costituita da differenti “nodi” di importanza variabile, i quali nel loro insieme compongono una rete. Regioni e nazioni, Stati-nazione, istituzioni dell’Unione compongono nel loro insieme uno schema di autorità condivisa. Castells (diversamente
da Habermas) considera la nazione senza Stato come un prototipo di forme
potenzialmente innovative di una affiliazione post-stato-nazionale, un esempio
del flessibile lavoro di rete che offre molteplici identità e alleanze a coloro che vi
abitano. Le nazioni (a differenza degli Stati) sono caratterizzate da “modalità di
comunione culturale, costruite nella mente delle persone attraverso la condivisione di storia e di progetti politici” (1997, 51).
Questo si accorda con l’affermazione più generale di Castells, quando dice che
“superato dalle reti globali di benessere, potere e informazione, il moderno Statonazione ha perduto gran parte della propria sovranità” (1997, 354). Il risultato è
una “dissoluzione delle identità condivise”, che produce una separazione visibile
fra élites globali che si considerano cittadine del mondo e coloro che senza detenere alcun potere economico, politico e culturale, “tendono ad essere attratti
verso identità comunitarie le quali o vanno oltre lo Stato-nazione oppure operano al di sotto di quel livello” (1997, 356). L’UE è un esempio del primo caso, mentre Catalogna e Scozia sono esempi del secondo. Per Castells l’integrazione europea “rappresenta allo stesso tempo una reazione al processo di globalizzazione e
la sua espressione più avanzata” (1998, 318).
Potremmo chiedere, anche in questo caso, che cosa definisca i confini del putativo spazio comunicativo invocato da Castells. La risposta risiede nel nesso delle
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n.3 / 2002
istituzioni politiche che costituiscono l’Unione, nelle loro interazioni e nei crescenti legami orizzontali “sussidiari” fra gli Stati membri (1998, 330-331). Questo
coincide esattamente con l’argomento di Habermas. In breve: una forma di complementarietà comunicativa à la Deutsch emerge dai processi informali di costruzione dello Stato. La spinta potenzialmente globalizzante delle tecnologie di
comunicazione è ridimensionata da emergenti modalità di interazione sociale
all’interno dello spazio europeo. Queste sono polivalenti e fanno interagire allo
stesso tempo attori economicamente, politicamente e culturalmente diversi.
Tutto questo presume che l’UE stia sviluppando una speciale intensità di interazioni che favorisce la comunicazione interna e crea un confine di riferimento che
coesiste con la modalità del networking globale.
Euro-polity e spazio comunicativo
L’impatto dello schema istituzionale dell’Unione sul discorso politico e dei media
(come anche sulle teorie discusse fino qui) non è sorprendente. Fin dal 1950 lo
sviluppo di uno spazio europeo sopranazionale ha avuto grande influenza sugli
Stati membri (Millward 1994). Oggi, considerata come una quasi-polity, l’UE è
costituita da quattro istituzioni principali: la Commissione Europea, il Consiglio
dei Ministri, il Parlamento Europeo e la Corte Europea di Giustizia. Insieme, questi costituiscono un’unica struttura istituzionale. Anche se l’UE è uno spazio politico, essa è anche un punto di congiunzione di attività comunicative che vanno
dalla disseminazione delle politiche, attraverso le attività di lobby, fino ai commenti e alle relazioni ufficiali. L’intergioco fra dimensione comunicativa e dimensione politica è centrale nello sviluppo del mio argomento complessivo.
La Commissione è “il motore del processo di integrazione” (Christiansen 1996,
78). Si tratta di un’istituzione sopranazionale composta da venti commissari; un
corpo burocratico che formula politiche e implementa la legislazione dell’Unione.
La Commissione è anche il principale oggetto di attenzione da parte delle lobby
e di altre forme di comunicazione politica privata. Si è sviluppato, tuttavia, un crescente dibattito sull’esistenza di un deficit democratico, ovvero sulla mancanza di
responsabilità della Commissione tanto nei confronti dei rappresentanti eletti al
Parlamento Europeo, quanto nei confronti del pubblico.
Mentre la Commissione definisce l’agenda politica e legislativa, il Consiglio dei
Ministri composto dagli Stati membri è il forum centrale per la negoziazione interstatuale e la rappresentazione degli interessi nazionali. Le sue procedure sono
comunque più segrete di quanto non lo siano quelle della Commissione, proprio
a causa della natura intergovernativa dei negoziati e vi è stata una notevole resistenza nell’aprire all’ampio pubblico l’accesso alle informazioni (Edwards 1996,
143). Questo rende il Consiglio meno accessibile ai gruppi di pressione di quanto lo sia la Commissione. Ciò che noi apprendiamo di questi opachi processi di
decision-making viene trasmesso in primo luogo attraverso fonti di informazione
nazionali; mediante un processo di “framing” che consente ai governi nazionali
di porre enfasi sulle loro vittorie e di dare poco risalto ai compromessi raggiunti
con gli altri Stati membri.
Il Parlamento europeo è l’unico corpo eletto direttamente nell’Unione. Fin
dall’Atto Unico Europeo del 1985, e ancor più dall’adozione del Trattato
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Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
sull’Unione Europea del 1991, i suoi poteri si sono allargati e recentemente esso
ha acquisito un accresciuto ruolo di co-decisione nella legislazione insieme al
Consiglio dei Ministri (Earnshaw e Judge 1996). Il suo accresciuto potere politico
lo ha reso un’istituzione di rilievo per le attività di lobby.
La Corte Europea di Giustizia è percepita da molti analisti come l’organo che ha
dato un contributo sostanziale al processo di integrazione europea attraverso le
sue interpretazioni della legislazione europea, la chiamata in causa degli Stati
membri relativamente alla non implementazione dei regolamenti e anche attraverso la risoluzione di questioni legali fra le istituzioni dell’Unione. Le corti nazionali, come pure cittadini e gruppi di interesse appartenenti ai diversi Stati membri hanno portato dei casi di fronte alla Corte Europea. L’interazione della Corte
con altre istituzioni e l’interesse nello sviluppare sia il diritto comunitario che le
politiche sono stati cruciali per l’integrazione europea (Wincott 1996).
La comunicazione relativa all’UE è stata ovviamente definita da schemi politici e
culturali di carattere nazionale durante le campagne per l’elezione del Parlamento
Europeo e in occasione di referendum. Le elezioni del parlamento non avvengono all’interno di un singolo elettorato europeo, ma piuttosto si concentrano su
questioni politiche nazionali e vengono quasi esclusivamente gestite da partiti
politici nazionali e narrate attraverso i media nazionali, i quali utilizzano le medesime modalità utilizzate per le elezioni nazionali (Blumler 1983; Wober 1986;
Leroy e Siune 1994). Allo stesso modo le campagne d’informazione dell’UE si
sono rivolte alle strutture politiche, dei media e delle relazioni pubbliche di livello regionale e nazionale.
La “europeizzazione” dei processi di governo si riflette nello sviluppo di una reale
comunità politica europea transnazionale. Le istituzioni dell’Unione sono state a
lungo obiettivo delle lobbies organizzate quali l’Unione degli Industriali nella
Comunità Europea, il club noto come European Round Table e la Confederazione
dei Sindacati Europei (Bartak 1998, 12-13). Vi è anche un “esercito negoziale” di
professionisti e consulenti nel campo degli affari pubblici, a livello europeo; come
pure esistono ampie corti di interessi esterni, in particolare legati a Stati Uniti e
Giappone (Mazey e Richardson 1996; Miller e Schlesinger 2000). Anche se uno
spazio pubblico sopranazionale si è effettivamente sviluppato attorno agli attori
del policy-making nelle varie istituzioni, gran parte delle attività sono legate, in
ultima istanza, ad interessi nazionali e regionali.
I processi europeizzati della comunicazione politica, quali la consulenza politica,
le attività di lobby, gli affari pubblici e la rappresentazione degli interessi, riflettono il carattere multilivello del sistema europeo. La complessità della società politica in Europa fa sì che, in linea con le teorizzazioni recenti, non possiamo pensare allo spazio politico come contenuto all’interno dello Stato-nazione, e neppure che il ruolo dell’informazione sia adeguato se limitato ad assistere la condotta del cittadino all’interno di una comunità nazionale democratica. Dal
momento che la direzione politica generale e l’adozione di politiche nell’Unione
pesano in maniera crescente sugli Stati membri, la dimensione europea sta sempre più contribuendo a definire l’agenda del discorso politico mediatico delle
comunità nazionali stesse (Fundesco 1997; Morgan 1995; Schlesinger 1998).
Negli Stati membri i valori editoriali nazionali influiscono sulla copertura giornalistica degli eventi e delle decisioni e le fonti governative nazionali sono di impor-
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tanza notevole per i giornalisti che si occupano di questioni europee. Morgan ha
osservato che la maggior parte dei giornalisti “opera con un senso molto sviluppato di ciò che è accettabile a livello nazionale per quanto riguarda le informazioni relative all’Unione” (1995, 327). Gli stili di narrazione correnti comportano
che è più facile che i cittadini ricevano informazioni relative alle decisioni e alle
legislazioni di quanto non apprendano del processo politico stesso. Le modalità
del reporting, infatti, tendono a non presentare “dove” e “da chi” un’influenza è
stata esercitata, come pure a mascherare i compromessi raggiunti fra i rappresentanti nazionali.
Elementi della società civile europea hanno iniziato ad emergere, organizzati
attraverso la mobilitazione di interessi diversi e spesso in competizione fra loro,
orientati verso le istituzioni politiche dell’Unione. La comunicazione politica, intesa in senso ampio, pur focalizzata sull’euro-polity è, al tempo stesso, mediata in
maniera complessa dagli attori politici nazionali e regionali. Nella misura in cui
l’informazione relativa e l’interpretazione delle attività dell’Unione viene disseminata verso l’esterno dal cuore rappresentativo dell’Unione, essa fluisce lungo i
canali delle reti di comunicazione istituzionale a livello nazionale e regionale. L’UE
non costituisce, dunque, una singola sfera pubblica. La governance multilivello,
le tensioni e le divergenze continue fra livello sopranazionale e livelli degli Stati
membri e delle regioni, oggi ci richiedono di pensare in termini di sfere di pubblici sovrapposte.
E’ stata questa stessa complessità che ha spinto a cercare una sfera pubblica
comune, capace di trascendere le diversità dell’Europa. In primo luogo, vi è stato
il tentativo di sviluppare uno “spazio audiovisivo europeo”, promuovendo film e
produzioni televisive in cooperazione fra diversi stati; in secondo luogo si è avuta
la spinta verso la creazione di una “area di informazione europea” basata sulla
convergenza di telecomunicazione, computer e media. Ciascuna di queste iniziative politiche presupponeva l’esistenza di uno spazio comunicativo comune. La
prima enfatizzava i valori e le eredità culturali, mentre l’altra poneva l’attenzione
sull’immagine di una società inter-connessa e sullo scambio informativo. Nessuno
dei due approcci era realmente guidato da una preoccupazione diretta per la
comunicazione politica in quanto tale. In ogni caso, nella misura in cui essi hanno
incarnato concezioni relative ad aspetti culturali o informativi della cittadinanza,
essi hanno chiaramente influito sulla costruzione di uno spazio politico in cui la
comunicazione è importante.
La relazione fra media e cittadinanza politica è stata più evidente negli sforzi compiuti per individuare uno schema comune per assicurare il pluralismo dei media
nell’Unione. Tuttavia fino ad oggi ciò che si è potuto osservare è la contrapposizione fra gli opposti interessi di coloro i quali aspirano ad un unico grande mercato dei media all’interno del quale i grandi conglomerati del settore possano
operare con vincoli minimi e coloro i quali desiderano proteggere gli interessi dei
consumatori negli Stati membri. Il livello al quale il pluralismo può essere assicurato rimane un punto oscuro: dovrebbe essere quello degli Stati membri o quello dell’Unione stessa? Questo dilemma riflette lo status ambiguo dello spazio politico-comunicativo nell’UE.
Dal momento che la comunicazione pubblica interna all’Unione è ancora ampiamente prodotta per mercati nazionali definiti da confini statuali, vi è poco spazio
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Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
per modalità di tipo pan-europeo. La breve storia dei tentativi di delineare un servizio pubblico di portata europea, attraverso canali televisivi via satellite, è una
storia di fallimenti (Collins 1993). Né, con le eccezioni che verranno considerate
più avanti, vi sono mai stati elementi sufficienti per pensare che esista un mercato europeo per i mezzi di comunicazione a stampa. Senza la grande massa dei
consumatori europei di media, organizzati in maniera transnazionale come
audiences o come pubblici di lettori, non vi è base per parlare di un singolo pubblico europeo per la comunicazione politica.
La politica pubblica sui media e la comunicazione a livello europeo, in sintesi,
sono state frammentarie e inconsistenti nel tentativo di creare uno spazio comunicativo comune. In realtà, le dinamiche contemporanee del libero mercato transnazionale dell’informazione hanno avuto maggiore impatto sulla comunicazione
politica di quanto ne abbiano avuto gli interventi ufficiali. Nello spazio comunicativo europeo oggi alcuni mezzi di informazione stanno realmente dando origine
a audiences specializzate ed a pubblici di lettori, attraverso la ricerca di mercati
sui quali operare. Un mutamento significativo sta avvenendo nelle collettività cui
i media si rivolgono, dovuto essenzialmente agli sviluppi dell’UE come nuova
forma politica. Possiamo pensare a queste audiences emergenti come a qualche
cosa che sta occupando uno spazio transnazionale. Anche se guidati dalla ricerca
del profitto, alcuni media di portata europea stanno creando nuove possibilità per
il dibattito collettivo, per quanto si tratti ancora di un dibattito assai ristretto.
Questo contrasta fortemente con il fallimento dei tentativi attuati dai policymakers di creare un nuovo pubblico europeo dovuto alla presenza di barriere
assai radicate di tipo linguistico, culturale, etnico e statuale, che fanno dell’Europa
il mosaico che conosciamo (Schlesinger 1993, 1994).
In relazione a questo è essenziale distinguere fra informazione resa disponibile
per le élites coinvolte nel processo di policy o nelle decisioni economiche e l’informazione prodotta per il pubblico di massa. La stampa è generalmente preferita dalle élites, mentre la televisione è il mezzo di comunicazione di massa più utilizzato. Detto questo, la televisione è sempre più in grado di trovare delle nicchie
di mercato di tipo “pay-per-view”, mentre la crescita della tecnologia digitale fa si
che questo mezzo sia capace in maniera crescente di indirizzarsi alle élites.
Professionisti di alto livello fanno riferimento in maniera crescente ad Internet
nella loro ricerca di informazioni specializzate e l’uso che essi fanno del World
Wide Web e della posta elettronica viene ora preso in considerazione come indice dello status di élite nelle indagini relative agli affari economici.
La mediazione sopranazionale
Anche se la stampa rimane un mezzo quasi esclusivamente nazionale, vi sono
quotidiani e riviste che consapevolmente si indirizzano alle élites europee (come
quelle globali) composte da decisori politici ed economici. Mentre per la televisione, i cambiamenti possono essere illustrati dal caso di Euronews.
La stampa per l’élite politico-economica
Le élites economiche rappresentano un campo di battaglia cruciale per l’informazione stampata. Quanto le imprese dei media e i loro giornalisti guardino all’are-
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na europea, dipende essenzialmente dal vantaggio che ne possono ricavare. Si
deve distinguere fra una prospettiva “interna” e una prospettiva “esterna”. All’interno dell’UE le preoccupazioni principali delle élites riguardano le ramificazioni
della creazione di un ordine economico e politico sostenuto dal diritto e dalle
norme. Coloro che guardano lo spazio europeo dall’esterno lo vedono in maniera differente. Dal punto di vista del capitale internazionale, l’Europa è una regione che richiede attenzione e intelligenza; ciò che avviene al suo interno è rilevante perché influisce sulla stabilità politica del continente, sulla competizione economica fra blocchi regionali e Stati e sull’attrattiva delle condizioni di investimento. L’Europa è un mercato regionale distinto e la sua specificità è valorizzata quando consideriamo la sua forza di attrazione per un quotidiano con distribuzione
mondiale quale il Financial Times.
Il Financial Times si propone come “ la miglior fonte per il business mondiale”
affermando la propria autorevolezza nei confronti della crescente globalizzazione
dei mercati e adottando una prospettiva informativa di carattere internazionale.
La sua circolazione è di oltre 300.000 copie; il pubblico dei suoi lettori supera il
milione e viene distribuito in 140 paesi (http://www.FT.com, 27 gennaio 1999).
Secondo un’autorevole indagine di mercato il Financial Times è il quotidiano più
letto nei quindici paesi dell’Unione, in Norvegia e in Svizzera. Il Financial Times
è di proprietà di Pearson ed ha il proprio quartier generale a Londra, ma ha anche
globalizzato il proprio mercato di riferimento. L’Europa è sicuramente un mercato regionale cruciale per il Financial Times il quale pubblica nel Regno Unito, in
Francia, in Germania, in Svezia e in Spagna. In Europa, fra gli operatori più importanti delle principali imprese in diciassette paesi, questo quotidiano supera nettamente i competitori, fra i quali Die Frankfurter Allgemeine Zeitung, Der Spiegel,
l’International Herald Tribune e il Wall Street Journal.
A Bruxelles i giornalisti riconoscono che il Financial Times viene “generalmente
citato come la fonte ufficiale favorita” proprio grazie al suo “pubblico europeo”
(Morgan 1995, 333). Nonostante le sue ambizioni di carattere globale, l’edizione
europea del Financial Times contribuisce alla definizione di un’agenda comune
per una frazione dell’élite europea. Ad esempio, l’8 febbraio 1998, quando 155
economisti tedeschi hanno scritto alla stampa chiedendo un rinvio nell’implementazione dell’Unione monetaria, essi hanno inviato la loro lettera sia al
Financial Times che al Die Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Insieme con i paesi del Benelux, Francia e Germania sono gli Stati continentali di
grande interesse per la diffusione di The Economist, di proprietà dell’Economist
Newspaper Ltd. con base a Londra. Come il Financial Times ma nel mercato dei
settimanali, The Economist è il giornale del suo settore maggiormente letto in
Europa, e copre circa il 3 % del pubblico potenziale. All’interno della compagnia si
ritiene che esista “una élite di governo e di business pan-europeo ... che parla inglese quotidianamente utilizzando tale lingua negli affari e nella vita personale”. Le
indagini confermano questo: del 4% degli impiegati di livello superiore attraverso i
quattordici paesi più ricchi d’Europa (circa 5 milioni e settecentomila persone) il
68% parla o legge l’inglese (il 42% conosce il francese, il 23% il tedesco); di questi
più del 38% utilizza un po’ di inglese per lavoro, anche se con notevoli differenze
fra paese e paese. Per The Economist lo sviluppo dell’UE offre “opportunità culturali transnazionali” per la vendita del suo prodotto (comunicazione personale, 21
56
Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
aprile 1998).
La compagnia è anche entrata nello speciale mercato di Bruxelles, lanciando nell’ottobre 1995 la European Voice sul modello del Roll Call di Washington DC.
European Voice è un settimanale con un “senso di villaggio” che si rivolge alla
gente importante della micro-comunità di Bruxelles. Questa pubblicazione gode
della “cooperazione esclusiva della Commissione Europea, del Consiglio dei Ministri e del Parlamento Europeo, che fanno circolare 7.000 copie individuali ai Commissari, ai loro gabinetti, ai membri del Parlamento e agli alti funzionari”. Fra i lettori di riferimento troviamo lobbisti, comunità di affari e il mondo della carta
stampata, per una circolazione totale di circa 16.000 copie (http://www.europeanvoice.com).
La breve vita di The European, lanciato nel maggio 1990 e chiuso nel dicembre
1998, può essere indicativa dei rischi coinvolti nel fare ampio affidamento, anche
se non esclusivo, sul mercato europeo, come anche del presentare un’agenda politica fortemente critica delle istituzioni. The European iniziò come foglio settimanale che mirava a contribuire all’unità europea sotto gli auspici del Mirror
Group Newspapers basato in Inghilterra, al tempo di proprietà di Robert Maxwell;
e finì come un settimanale d’informazione in stile tabloid con una vocazione
euroscettica, di proprietà della holding Barclay Brother’s European Press. Nella
sua ultima veste la testata aspirava a divenire, come The Economist, una “lettura
essenziale per la gente che guida l’Europa” (Neil 1997).
Informazione televisiva per i consumatori “importanti”
Euronews venne lanciata nel gennaio 1993, nel tentativo di produrre un’agenda
informativa distintiva per un ampio pubblico europeo. Essa arrivò all’indomani di
una serie di esperimenti falliti nel campo della televisione pan-europea.
Sostenuto da un consorzio di diciotto emittenti di servizio pubblico e del parlamento Europeo, il progetto rifletteva il desiderio di alcuni dirigenti e in particolare del governo francese di produrre una prospettiva europea sull’informazione
mondiale (Hjarvard 1993).
La pressione per entrare nel mercato era particolarmente pesante dopo la Guerra
del Golfo del 1991, quando il successo di CNN sia nell’attività di informazione dal
fronte, sia nell’agire come veicolo per la diplomazia televisiva, aveva fatto sorgere
un nuovo territorio, successivamente penetrato anche dal servizio della BBC
World Television News. Anche se globali nella loro portata, queste imprese angloamericane sono fortemente radicate nelle rispettive culture giornalistiche nazionali, con identità di impresa distinte e un forte affidamento al marchio. In confronto con Euronews, che ha sempre trasmesso nelle principali cinque lingue
europee (inglese, francese, tedesco, italiano e spagnolo) e dal 1997 anche in
arabo, sia la CNN che BBC World sono canali monolinguistici. Come emittente
tradizionale, Euronews riflette le principali caratteristiche delle diversità linguistiche e nazionali dello spazio culturale europeo.
Nonostante le notevoli perdite finanziarie, Euronews ha dimostrato più volte di
essere attraente per le imprese che ripensavano le proprie strategie nel mercato
europeo della comunicazione. La compagnia che gestiva il sistema venne acquistata nel 1995 da una sussidiaria del gigante di telecomunicazione francese
Alcatel-Alsthom, per superare i vincoli posti dal debole finanziamento pubblico
57
n.3 / 2002
fornito dalle emittenti europee e dalle istituzioni dell’Unione. Alcatel tentò di
combinare la sua capacità di distribuzione della comunicazione con i servizi di
informazione offerti da Euronews ((Machill 1998). L’acquisizione da parte dell’impresa di telecomunicazione francese della capacità di produzione di informazione ebbe vita breve. Le quote di Alcatel vennero acquistate da ITN, fornitore di
informazione televisiva britannico, nel novembre del 1997. Avendo scoperto che
realizzare trasmissioni su scala europea nella tradizione del servizio pubblico
poteva rappresentare un nuovo prodotto di nicchia, ITN diversificò le proprie attività entrando nel broadcasting dopo aver operato per quarant’anni nella fornitura di informazione. La possibilità di trasmissione in diverse lingue veniva considerato un elemento competitivo nel mercato europeo, con un potenziale aggiunto
per la vendita internazionale. La strategia si fondava sulla convinzione che nel
tempo, e soprattutto con la moneta unica, i pubblici nazionali dell’UE avrebbero
sviluppato gradualmente il senso di una comune agenda di informazione (comunicazione personale, 20 aprile 1998).
Euronews è l’unica emittente pan-europea che trasmette in più di due lingue.
Ricerche sull’audience dimostrano che il canale raggiunge novanta milioni di
famiglie, via cavo, satellite e trasmissione terrestre, tre volte l’ampiezza del servizio di BBC World. Euronews è il secondo trasmettitore di informazioni in Europa
dopo CNN, con una percentuale di share mensile del 21.3% (http://www.euronews.net). L’ampia distribuzione, tuttavia, non equivale all’ascolto effettivo e l’informazione transnazionale di questo tipo raggiunge comunque pubblici molto
ridotti rispetto a quelli raggiunti da emittenti di informazione rivolti a specifiche
audiences nazionali (Sparks 1998).
Inoltre, anche se i numeri non dicono quale sia l’uso che il pubblico fa dei programmi di informazione che ha a disposizione, Euronews è diffuso soprattutto
nei principali mercati dei media degli stati membri continentali: in Francia (20.9
milioni di utenti), in Italia (20.2 milioni), in Germania (12.9 milioni), in Spagna
(11.7 milioni). Questi sono i principali stati non anglofoni nelle cui lingue
Euronews trasmette. Nel Regno Unito, per contro, il pubblico potenziale è solamente di 1.2 milioni, ampiamente superato dal Belgio e dall’Olanda, che hanno
popolazioni di dimensioni assai più ridotte. Euronews sta cercando di tradurre la
diversità linguistica in un vantaggio commerciale.
La distribuzione digitale offre gli strumenti per poter rispondere a specifici gusti
delle audiences in un mercato frammentato in cui le scelte degli utenti possono
essere espresse in maniera diretta. ITN ritiene che vi sia un crescente mercato per
l’informazione sull’Europa fra coloro che non sono soddisfatti dei programmi di
informazione nazionali, definiti in maniera sempre più ristretta, e cerca quindi di
rivolgersi ad utenti che compongono la fascia elevata del mercato, i quali preferiscono ricevere l’informazione nella propria lingua (Plunkett 1998). La compagnia
ha cercato il sostegno finanziario della Commissione e del Parlamento Europeo,
riconoscendo l’esigenza di un intento politico che sostenga questo tipo di iniziativa nel lungo periodo e anticipando il fatto che la tecnologia digitale potrà, nel
tempo, rendere possibile un canale degli affari pubblici dell’Unione. Resta da
vedere se questa audience di nicchia per l’informazione possa fornire una via per
creare un pubblico realmente transnazionale. La politica originaria del governo
francese in questo settore, volta a respingere il dominio anglosassone nel merca-
58
Philip Schlesinger
Comunicazione politica in trasformazione
to internazionale dell’informazione, non ha avuto successo per due aspetti: in
primo luogo l’effettivo controllo si è spostato a Londra, anche se la produzione è
ancora localizzata a Lione in Francia. In secondo luogo ITN ha riorganizzato la
compagnia secondo ciò che i managers britannici considerano buon giornalismo.
Sarà forse la pratica segnata dall’esperienza inglese a fornire l’idioma comune per
un segmento sempre più ampio del pubblico televisivo dell’Europa continentale,
in competizione con i sistemi propri degli Stati nazione?
Lo spazio comunicativo europeo
Come possiamo allora pensare allo spazio comunicativo europeo in mutamento?
In primo luogo, il cuore dell’emergente classe politica europea e dell’élite economica ha a disposizione un numero di media a stampa che viene utilizzato in
maniera intensa e variegata. In secondo luogo, nonostante le ben conosciute
complessità delle politiche linguistiche nell’UE, l’inglese funziona già come lingua
franca fra le élites. In terzo luogo, un mercato transnazionale per l’informazione
relativa allo spazio europeo esiste e non solamente in Europa. Probabilmente
perché gli uomini d’affari e le élites politiche vedono l’UE e l’Europa più in generale come una regione distinta all’interno dell’economia globale.
Una distinta e complessa euro-polity che sta generando forme multi-livello di comunicazione politica che attraversa l’attività di lobby, le campagne ufficiali di informazione e l’informazione in generale, sta prendendo forma. Non vi è una singola e coerente arena pubblica europea, ma piuttosto un campo di forze politiche
spesso contraddittorio. Piuttosto che immaginare una sfera pubblica europea come
il risultato dell’integrazione economica e politica, dovremmo pensare alla crescita
di sfere interrelate di pubblici europei. Come queste si evolveranno è materia di
riflessione. In ogni caso ciò che Keith Middlemass (1995) ha definito un processo
di “euro-civilizzazione” potrebbe in ultima analisi collegare questi spazi discorsivi fra
loro. Nel lungo periodo si potrebbe sviluppare una distinta cultura politica europea,
che offra un focus potenziale per un nuovo livello di identità politica. Precondizione
necessaria affinché questo avvenga, tuttavia, sarebbe un ampio coinvolgimento del
pubblico negli affari pubblici europei. Al momento, in realtà, sono alcune élites
europee ad aver iniziato a costituire uno spazio comunicativo ristretto.
In una prospettiva ideal-tipica, i cittadini transnazionali d’Europa dovrebbero avere: 1) un eguale e diffuso livello di competenza comunicativa; 2) un accesso relativamente facile ad un’ampia gamma di mezzi di comunicazione; 3) una competenza comunicativa generalizzata che raccolga un sufficiente corpo di conoscenza, interesse e capacità comunicative per dare senso all’Unione, alle sue opzioni politiche e ai suoi dibattiti.
Un’ipotetica sfera europea di pubblici dovrebbe, fra le altre cose: 1) implicare la
disseminazione di un’agenda informativa europea; 2) portare mutamenti significativi nelle abitudini di consumo di informazione a livello europeo; 3) favorire il fatto
che coloro che vivono all’interno dell’UE inizino a pensare la propria cittadinanza,
almeno in parte, come qualche cosa che trascende il livello degli Stati membri.
In realtà sappiamo che nel processo di ricezione dei media, qualsiasi agenda pubblica comune verrà “addomesticata” in maniera differente all’interno di ciascun
contesto linguistico e nazionale (Gurevitch et al. 1991). Questo non preclude il
59
n.3 / 2002
fatto che i pubblici nazionali possano, per alcuni aspetti significativi, essere
comunque orientati verso uno schema di riferimento europeo. Esistono già alcune forme nascenti di giornalismo “europeo”; ma perché questo contribuisca alla
creazione di un pubblico europeo, esso deve trovare ampi pubblici transnazionali, che riconoscano che esso offre qualche cosa di differente dalle modalità nazionali dell’offerta informativa, con una differente attenzione istituzionale e un’agenda diversa da quella degli Stati membri individuali. Per guadagnare terreno,
questo giornalismo dovrà interessare e diventare rilevante per molti cittadini
europei.
Gli interventi di politica pubblica per creare uno spazio comune europeo dei
media e i tentativi di raggiungere il pubblico attraverso l’informazione ufficiale
non sono stati di grande successo. Se alcuni media europei hanno iniziato ad
emergere nell’ambito della stampa e della televisione – e rimangono tuttora esperienze isolate – la vera forza trainante sono stati i comportamenti orientati al mercato. Ma se il mercato dell’informazione inizia ad assumere una “forma europea”,
e quindi a contribuire alla costruzione di uno spazio comunicativo ristretto per
alcuni, questo è avvenuto grazie al contesto istituzionale offerto dall’UE.
L’esistenza stessa dell’euro-polity emergente ha creato le condizioni per lo sviluppo di un’élite transnazionale legata ai media. Il risultato è che una conversazione tra élites sta oggi avendo luogo all’interno dello spazio europeo e la gran
parte di questa conversazione è condotta in lingua inglese.
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Philip Schlesinger è Professore di Film and Media all’Università di Stirling dove
dirige il Media Research Institute. E’ anche professore di Media and Communication all’Università di Olso. Si è occupato estesamente di questioni europee, di
identità nazionale e di comunicazione politica. E’ co-editor della rivista Media,
Culture and Society e membro della Academy of Learned Societies e della Royal
Society di Edimburgo.
[email protected]
62
Stefania Panebianco
Sfide e prospettive per
un’identità mediterranea
“plurale”
Il faro
La vivacità del Mediterraneo come oggetto di analisi
Individuare una definizione unica di Mediterraneo largamente condivisa è un’operazione complessa per la vivacità dell’oggetto di analisi. Il Mediterraneo può
essere analizzato sottolineando il suo destino comune e la sua unità, come ha
fatto Fernand Braudel (1985), o la sua conflittualità, concentrandosi su episodi
storici che hanno contrapposto Islam e Occidente (le crociate e la reconquista),
sulle tristi pagine del colonialismo e della decolonizzazione o sui conflitti politico territoriali che ancora oggi infiammano alcune zone del bacino. Una visione
dicotomica del Mediterraneo alquanto comune distingue la funzione che esso
può svolgere come ‘ponte’ che unisce le due sponde, da quella di “muro” che le
separa. In realtà, nell’area non mancano né elementi unificanti né conflittuali e
solo una valutazione di entrambi può offrire una visione completa delle relazioni inter-statali e sociali che intercorrono nel Mediterraneo.
L’eredità storico-culturale fornisce diversi elementi comuni al Mediterraneo. La
civiltà mediterranea del passato si è sviluppata grazie agli scambi sul piano culturale, sociale e politico. La storia dell’antica Grecia e dell’antica Roma offre
numerosi esempi di flussi culturali oltreché commerciali. L’aumento dei trasporti e delle comunicazioni dell’era ellenica favorì i movimenti migratori e permise
un’elevata mobilità territoriale che, mettendo in contatto comunità distanti,
incentivò la circolazione di idee e scoperte culturali tra le comunità. I continui
contatti tra le società dell’area produssero un’elevata interpenetrazione socioculturale. Cos’è rimasto della civiltà mediterranea del passato? Tra le maggiori
eredità comuni delle civiltà sviluppatesi nel Mediterraneo ricordiamo, sul piano
intellettuale, la logica e la ragione della filosofia greca; su quello politico, il diritto e la forma politico-territoriale dell’impero romano; su quello spirituale, le religioni monoteistiche basate sui testi sacri (la Bibbia, i Vangeli e il Corano). Una
visione unitaria del Mediterraneo deriva anche da osservazioni di tipo geografico; la definizione di Mediterraneo come regione si basa infatti su caratteri comuni come la diffusione di colture agricole tipicamente mediterranee (la vite, l’ulivo, gli agrumi) o il clima mite.
Accanto all’unità storico-culturale e geografica, vi sono numerosi fattori di divi-
63
n.3 / 2002
1
Vedi alcuni dei più
comuni stereotipi in
Panebianco (2001a:
117).
64
sione che segnano il Mediterraneo. Dal punto di vista politico, ad esempio, nel
bacino del Mediterraneo oggi si sono sviluppati modelli politici diversi: democrazie liberali compiute, regimi più o meno autocratici o regimi in transizione. La
religione è un elemento importante che distingue il Mediterraneo, che è la culla
delle religioni monoteistiche (l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam), ma in realtà
la storia ha visto ripetutamente le religioni alimentare le guerre (come ad esempio la guerra di Bosnia) sfatando il falso mito della religione come fattore unificante. Inoltre, la laicità dello Stato, un passaggio che il Mondo Cristiano ha già
compiuto da tempo, non si è affermata in ugual misura in tutti i paesi del
Mediterraneo; in alcuni paesi arabi l’Islam regola la vita pubblica e privata e si
contesta la modernità che separa le due sfere e attribuisce alla dimensione religiosa una valenza meramente intimistica e personale. Sul piano economico, poi,
i paesi del Mediterraneo sono interessati da forti disparità di sviluppo. Vanno
anche aggiunti gli stereotipi ancora diffusi tra i popoli del Mediterraneo che alimentano incomprensioni e intolleranza; l’occidente viene spesso demonizzato
per i valori materiali che incarna e diffonde attraverso politiche ritenute “neoimperialiste”, mentre nei paesi europei l’Islam è visto talvolta come un pericolo
ed una minaccia alla stabilità del mondo occidentale1. Il Mediterraneo certamente non appare come un “lago di pace”.
La visione che emerge da questa rapida descrizione è quella di un Mediterraneo
frammentato e conflittuale nonostante l’eredità culturale comune. Eppure i processi di cooperazione regionale in corso nell’area - in particolare il Partenariato
EuroMediterraneo - rivelano la consapevolezza degli attori regionali che la
gestione dei problemi che affliggono il bacino del Mediterraneo impone strategie comuni. Anche il Mediterraneo è investito dai processi globali legati alla perdita di poteri dello stato (il fenomeno della crisi dello stato-nazione), con la conseguente redistribuzione dei ruoli che coinvolge anche attori non-statali, e da
minacce alla sicurezza che sono sempre più transnazionali. Lo Stato-nazione non
possiede gli strumenti per risolvere autonomamente questioni spinose come il
degrado ambientale, la scarsità delle risorse naturali come l’acqua, la sperequazione della distribuzione della ricchezza, lo sviluppo economico fortemente diseguale, la crescita demografica incontrollata che alimenta i flussi migratori dalla
costa meridionale a quella settentrionale del Mediterraneo. Tutti questi problemi richiedono strategie di cooperazione multilaterale. L’instabilità politica, le
tensioni socio-economiche o politico-territoriali costituiscono inoltre rischi
anche per la stabilità sub-regionale e condizionano i rapporti sud-sud. La necessità di affrontare congiuntamente le sfide alla sicurezza impone quindi la cooperazione multilaterale come una componente obbligatoria delle relazioni tra i
paesi del Mediterraneo.
Gli sforzi in questa direzione vengono compiuti non solo attraverso iniziative dei
governi ma anche di attori non statali. Lo Stato, che non è più l’unico protagonista delle relazioni internazionali, viene affiancato da ONG, organizzazioni internazionali, attori transnazionali, rappresentanti della società civile, che avviano
rapporti di cooperazione creando specifiche reti tematiche e forum di dialogo.
Questo tipo di cooperazione multilaterale basata su una comunicazione diretta
permette di migliorare la conoscenza reciproca e stimolare l’integrazione regionale politica, economica e culturale.
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
Alla luce di queste considerazioni, la definizione di Mediterraneo che va adottata è quella di un Mediterraneo “plurale” basato su comuni interessi e comuni origini, in cui le diverse tradizioni culturali vanno intese come fonte di arricchimento reciproco. La riscoperta delle origini comuni e la valorizzazione delle
diversità vanno assunti come base delle relazioni tra i popoli del Mediterraneo;
sono questi gli elementi che danno una consistenza alla regione del
Mediterraneo specificandone i tratti peculiari e pertanto possono contribuire alla
promozione di un’identità mediterranea anch’essa “plurale”. Una sintesi tra unità
e diversità, tra cooperazione e conflitto, in sostanza un compromesso tra il
rispetto delle diverse tradizioni culturali e la valorizzazione delle origini comuni
permette di analizzare i processi di cooperazione regionale che si prefiggono
come obiettivo di lungo periodo la costruzione di una comunità di sicurezza nel
Mediterraneo legata ad un’identità mediterranea, senza minimizzare le difficoltà
che questo processo incontra.
Processi di cooperazione regionale nel Mediterraneo:
il Partenariato EuroMediterraneo
Il Partenariato EuroMediterraneo (PEM) lanciato a Barcellona nel Novembre
1995 dai capi di stato e di governo dei 15 paesi dell’Unione Europea e di 12 paesi
del bacino del Mediterraneo2 ha avviato un processo di cooperazione regionale
che si basa sul Partenariato politico e di sicurezza, sul Partenariato economicofinanziario e sul Partenariato sociale, culturale e umano3. L’aspetto innovativo di
questa politica dell’Unione Europea per il Mediterraneo è dato dall’aver affiancato alla cooperazione economica tipica dell’aiuto allo sviluppo degli anni ’70 e
’80 la dimensione politica e gli aspetti umani della sicurezza, inserendo questioni come il sostegno ai processi democratici, lo sviluppo della società civile, il dialogo culturale. La riformulazione della Politica Mediterranea dell’Unione
Europea ha spostato, quindi, il baricentro della cooperazione dal settore commerciale ed economico alla sicurezza e alla dimensione umana. Il PEM si prefigge di integrare i paesi del Mediterraneo attraverso un progetto di cooperazione
multi-dimensionale per migliorare le condizioni economiche e favorire la stabilità politica sostenendo al tempo stesso lo sviluppo di istituzioni democratiche, il
rafforzamento del ruolo della società civile, la tutela dei diritti umani e sociali, il
rispetto dello stato di diritto. In ultima istanza, il PEM si propone di stimolare una
società mediterranea multiculturale basata su valori transnazionali.
Gli obiettivi e gli strumenti del Processo di Barcellona sono indicati nella
Dichiarazione di Barcellona e nel Programma di Lavoro allegato (1995), e ripresi
nelle Conclusioni adottate dalla Presidenza delle Conferenze InterMinisteriali
che si tengono con cadenza quasi annuale (Malta 1997, Palermo 1998, Stoccarda
1999, Lisbona e Marsiglia 2000, Bruxelles, 2001, Valencia 2002). Questi documenti costituiscono la base normativa del PEM che, nel lungo periodo, può far
procedere l’integrazione regionale verso un sistema di sicurezza euro-mediterraneo. Poiché il Mediterraneo racchiude il potenziale destabilizzante delle fratture Nord-Sud e Islam-Occidente, la questione di fondo rimane allo stato insoluta: tra i partners euromediterranei prevarranno le relazioni cooperative o quelle
conflittuali? Gli interessi comuni suggeriscono agli attori regionali strategie
2
I paesi partners
dell’Unione Europea
sono: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto,
Israele, Autorità Palestinese, Libano, Siria,
Giordania, Malta, Cipro, Turchia. La Libia
è l’unico paese della
sponda sud che non
partecipa pienamente
al Processo di Barcellona; con la fine dell’isolamento internazionale per l’affare di
Lockerbie nel 1999 la
Libia ha acquisito la
status di paese “osservatore”.
3
Per una dettagliata
analisi del processo di
adozione del PEM,
degli obiettivi e della
struttura istituzionale
del Processo di
Barcellona cfr. Attinà
et als (1998); Attinà e
Stavridis (2001).
65
n.3 / 2002
cooperative.
Il PEM offre uno schema di relazioni Nord-Sud attraverso il Mediterraneo basate
sul partenariato più che sul confronto e il conflitto, ma relazioni conflittuali e
cooperative hanno storicamente coinvolto il Mediterraneo e tutt’oggi esistono
conflitti politico-territoriali che portano i paesi euro-mediterranei ad affrontare il
dilemma della “concorrenza conflittuale” contro una “zona di pace cooperativa”.
Tensioni bilaterali intra-regionali sono ancora presenti nell’area, principalmente
a causa dell’interruzione del processo di pace Israelo-Palestinese, dell’esplosione della seconda Intifada e della violenta reazione degli israeliani, ma anche per
le annose questioni insolute di Cipro, del Sahara Occidentale o delle alture del
Golan. Una grave ipoteca grava inoltre sulle relazioni tra i popoli del Mediterraneo per le forti disparità socio-economiche che acuiscono le incomprensioni e
le divergenze alimentando insofferenza e intolleranza.
In un contesto politico e socio-economico così delicato l’interazione tra le diverse società del Mediterraneo con l’interpenetrazione tra diversi modelli culturali
è cruciale. Le barriere geografiche non possono prevenire i flussi di persone che
portano con sé la loro cultura, la loro religione, i loro usi e costumi. Con lo sviluppo delle telecomunicazioni (TV via cavo, internet, ecc.) la società occidentale
ha penetrato il mondo islamico. Così come, attraverso l’immigrazione, la società
europea è entrata in contatto con le tradizioni culturali musulmane che gli immigrati portano con sé e praticano regolarmente come manifestazione della loro
identità. La società Araba e quella Europea non possono più essere considerate
come due entità distinte: Islam e occidente sono diventati intimamente legati e
caratterizzati da scambi continui. È impossibile mantenere le due società separate e “incontaminate” anche a causa dell’emergenza di un Islam europeo che ha
tratti peculiari (ad esempio, nell’Islam europeo gli individui hanno un ruolo più
incisivo perché l’Islam è una scelta individuale) (Allievi, 2000). Di fatto, si sta
creando una società transnazionale e la ridefinizione dell’identità diventa una
questione essenziale in virtù del fatto che i cambiamenti sociali producono adattamenti identitari.
I programmi adottati nel quadro del terzo capitolo della Dichiarazione di
Barcellona sono certamente quelli più delicati da questo punto di vista e sono
anche quelli sui quali, dopo le manifestazioni di incomprensione e intolleranza
cultural-religiosa scoppiate a seguito degli attentati al Pentagono e al World
Trade Center di New York dell’11 settembre 2001, i paesi dell’Unione Europea
puntano ora con maggiore enfasi. Riconoscendo l’esistenza di differenze ma
anche di elementi in comune tra le civiltà del Mediterraneo, il Processo di
Barcellona si prefigge di fugare le tendenze all’esclusione culturale, al razzismo
e alla xenofobia per guidare invece verso una società multi-culturale. L’approccio
costruttivista che sta alla base del PEM assume che per raggiungere l’obiettivo di
pace e stabilità nel Mediterraneo è necessario scoprire una identità mediterranea
basata su valori e principi comuni senza rinunciare alla propria specificità culturale. È un progetto ambizioso la cui fattibilità è periodicamente sminuita dall’affiorare degli argomenti sulla incompatibilità della civiltà islamica con quella occidentale, che sono descritti spesso come due sistemi di valore antitetici perché la
coesistenza tra la società islamica e quella occidentale è resa impossibile dalle
“continue relazioni profondamente conflittuali tra Islam e Cristianità”
66
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
(Huntington, 1998).
Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da un acceso dibattito su un ipotetico “scontro tra civiltà”, specialmente tra Islam e Occidente. Dopo gli attentati dell’11
Settembre i discorsi sull’impossibilità di una coesistenza pacifica tra questi due
mondi hanno avuto facile presa sull’opinione pubblica. Invece, secondo lo schema su cui si basa il PEM, per ottenere nel Mediterraneo pace e stabilità si può e
si deve scoprire un’identità mediterranea che condivida valori e principi comuni
senza rinunciare alla specificità culturale. Affinché questo obiettivo non rimanga
un mero auspicio, le dichiarazioni più recenti individuano nel sostegno al dialogo culturale la chiave di volta del PEM. Sia le Conclusioni della Presidenza della
Conferenza informale dei Ministri degli Affari Esteri di Bruxelles (novembre
2001) sia il Discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dal Presidente della
Commissione europea dinanzi al Parlamento Europeo (Prodi 2001) puntano sull’adozione di specifici programmi regionali nel settore educativo, culturale e nel
campo delle migrazioni come strumenti per combattere le forme di razzismo, i
pregiudizi e gli stereotipi.
La questione dello “scontro tra civiltà” in realtà è malposta, perché le civiltà non
sono entità monolitiche, bensì sono soggette ad evoluzione e adattamento grazie all’azione degli uomini che appartengono a una società e grazie ai processi di
socializzazione favoriti dalle istituzioni. Un concetto statico di civiltà non rende
onore ai cambiamenti e ai processi evolutivi che caratterizzano le civiltà.
Analogamente, le identità culturali sono un miscuglio di elementi che non sono
omogenei, non sono strutture preconcette, bensì vengono prodotte da un processo che muta nel tempo. L’uomo possiede un’identità plurima che sviluppa
attraverso le esperienze. Questa è la questione fondamentale: l’identità si modella e rimodella attraverso un processo di apprendimento favorito dall’interazione
col mondo esterno.
Gli stati partners non hanno fondato il PEM sul relativismo culturale che, portato all’estremo, conduce verso la chiusura e il conflitto, bensì sul dialogo tra culture del Mediterraneo. Taluni studi sul mondo arabo, ad esempio, affrontano la
questione della democrazia adottando un approccio relativista che spiega l’assenza di democrazia nel mondo islamico sottolineandone la specificità rispetto
al mondo occidentale. La questione centrale, in realtà, è l’universalità di alcuni
valori. Nel mondo arabo si sta diffondendo sempre più una visione riformista
dell’Islam che si concilia con i valori universali dei diritti umani, dei diritti delle
donne e dei bambini, negando l’incompatibilità dei paesi islamici con la democrazia o i diritti umani ricondotta alla specificità culturale. Si tratta di visioni elitarie del tutto avulse dalla società e dall’opinione pubblica? O esistono programmi regionali euromediterranei che coinvolgono segmenti della società nella
cooperazione funzionale?
Nel settore politico e di sicurezza gli attori del PEM sono invitati a creare la fiducia reciproca attraverso le Partnership Building Measures, misure che sviluppano la dimensione cognitiva dei partecipanti al Processo attraverso lo scambio di
informazioni in un ambiente informale, favorendo la conoscenza e la fiducia reciproca. Il PEM con le sue istituzioni formali e informali e le sue regole partecipa
allo sviluppo e alla diffusione dell’idea euro-mediterranea, concetto fondante di
un’identità Mediterranea in costruzione. Indipendentemente dai risultati (non)
67
n.3 / 2002
raggiunti nel settore politico e di sicurezza per l’instabilità politica in Medio
Oriente, il Processo di Barcellona e i principi che questo ha affermato sono alla
base delle attività degli attori non-governativi che partecipano ai programmi di
cooperazione decentrata e periodicamente si riuniscono nei Forum Civili
EuroMed o nelle reti tematiche che sono state create nel quadro del PEM; attori
che svolgono una funzione fondamentale nel processo di socializzazione che sta
alla base della creazione di un’idea comune di Mediterraneo che può favorire lo
sviluppo di un’identità regionale. Non si nega l’esistenza di controversie e differenze tra le società del Mediterraneo, di fattori che provocano (o possono provocare) conflitti etnici; ma la cooperazione funzionale stimola la coesistenza
pacifica e il rispetto reciproco tra i popoli del Mediterraneo e i tratti comuni che
potrebbero favorire la percezione di una identità mediterranea.
I Forum Civili EuroMed e le reti tematiche come
produttori di una identità mediterranea regionale
L’approccio bottom-up è alla base del Processo di Barcellona. Il quadro istituzionale del PEM che si è via via delineato comprende, oltre alla cooperazione intergovernativa, quella non-governativa. Attori non-statali, come i parlamentari o le
ONG, la comunità economica e i partners sociali partecipano – di fatto - all’avanzamento del Processo di Barcellona. I rappresentanti dei governi si incontrano a livello ministeriale, di alti funzionari o di tecnici; i parlamentari si riuniscono nel Forum Parlamentare EuroMediterraneo; i rappresentanti della società
civile operano da “attori della cooperazione” attraverso i Forum Civili EuroMed,
i programmi EuroMed che si basano sulla cooperazione decentrata e le reti tematiche. In tal modo la società civile intesa in senso lato (industriali, accademici,
giornalisti, artisti, ecc.) partecipa allo sviluppo delle relazioni euro-mediterranee
facilitando la conoscenza reciproca e creando contatti transnazionali in numerosi settori.
A Barcellona nel 1995 un certo accordo è stato raggiunto dai paesi partners che
hanno definito gli ambiti della cooperazione multilaterale e hanno condiviso
principi e norme comuni. Per formulare politiche comuni e adottare le regole
del gioco ci si rifà al quadro normativo fissato dalla Dichiarazione di Barcellona e
dal Programma di Lavoro allegato (1995), che viene periodicamente perfezionato dalle Conclusioni delle Conferenze InterMinisteriali EuroMediterrranee. La
Dichiarazione di Barcellona ha indicato diversi ambiti di cooperazione, alcuni dei
quali hanno prodotto proposte politiche, mentre altri sono rimasti alla fase
declaratoria. I valori che stanno alla base del Processo di Barcellona sono stati
ulteriormente esplicitati nella “Strategia Comune” sul Mediterraneo che il
Consiglio dell’Unione ha adottato nel giugno 2000, nella quale si ribadisce l’importanza strategica di questa regione per l’Unione Europea e si indicano come
obiettivi prioritari il sostegno al PEM, la promozione dei valori fondamentali
dell’Unione (diritti umani, democrazia, buon governo e stato di diritto), l’assistenza alla transizione economica dei paesi Mediterranei, la cooperazione nei
settori giustizia e affari interni, il dialogo tra culture per combattere intolleranza,
razzismo e xenofobia. È comunque evidente che non basta elencare i principi
comuni per trasformarli in valori transnazionali condivisi.
68
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
Piuttosto che a livello politico, l’accordo sui valori normativi si raggiunge più agevolmente ai livelli di cooperazione tecnico-funzionale, cioè all’interno di comunità politiche o reti tematiche. È difficile condividere appieno modelli di comportamento, perché i valori suggeriti dall’Unione Europea sono in qualche modo
criticati dai paesi partners del Mediterraneo. Tuttavia, sulla base di obiettivi, procedure e strategie che hanno prodotto la Dichiarazione di Barcellona e i documenti successivamente adottati, i rappresentanti della società civile hanno creato istituzioni multilaterali informali e procedono nell’avanzamento del Processo
di Barcellona senza essere arrestati dai conflitti politici dell’area.
I rappresentanti della società civile vengono socializzati a pratiche euromediterranee, diventano familiari con l’idea di Mediterraneo come area comune, sviluppano un’identità comune attraverso la cooperazione decentrata che sta alla base
di programmi regionali EuroMed che coinvolgono i giovani (EuroMed Youth
Action), che tutelano il patrimonio artistico (EuroMed Heritage), o che favoriscono lo sviluppo dei mezzi audiovisivi (EuroMed Audiovisual)4.
La cooperazione tra attori sociali avviene anche nel quadro dei Forum Civili
EuroMed che rappresentano un contr’altare alle Conferenze InterMinisteriali
EuroMediterranee. I Forum Civili Euromed che si sono tenuti a Barcellona nel
1995, Malta nel 1997, Napoli nel 1997, Stoccarda nel 1999, Lisbona e Marsiglia nel
2000 e Bruxelles nel 2001, hanno agito come stimolo per la cooperazione a livello dei governi. Al fine di favorire il coinvolgimento di un ampio numero di attori distinti dai governi centrali, sin dalla prima Conferenza InterGovernativa di
Barcellona del 1995 gli attori non-governativi hanno preso l’iniziativa di organizzare un livello di interazione parallelo al livello inter-ministeriale. Rappresentanti
della società civile operanti prevalentemente nei settori dei diritti umani, dell’ambiente, dell’industria e del commercio hanno organizzato in quell’occasione
il primo Forum Civile EuroMed come alternativa alla Conferenza InterMinisteriale di Barcellona del novembre 1995. Dopo Barcellona, le Conferenze InterMinisteriali di Malta, Stoccarda e Marsiglia e le conferenze informali di Lisbona e
Bruxelles sono state accompagnate da Forum Civili EuroMed, di fatto istituzionalizzando la cooperazione regionale a livello di società civile anche se l’accento
viene posto di volta in volta su determinati settori. In queste occasioni i rappresentanti della società civile adottano raccomandazioni ed elaborano documenti
ufficiali e relazioni su questioni relative ai diritti umani, alle relazioni industriali,
all’ambiente, al commercio, al dialogo culturale.
Il Forum Civile EuroMed di Stoccarda (1999) si componeva di quattro sessioni
tematiche. Al Forum di sull’ambiente hanno partecipato ONG dei vari paesi del
Mediterraneo che si battono per uno sviluppo sostenibile della regione EuroMediterranea. Il Forum EuroMed sui diritti umani e la cittadinanza nel Mediterraneo è stato organizzato da un network Euro-Mediterraneo che opera per lo sviluppo dei principi della democrazia e la tutela dei diritti umani. Il Forum
EuroMed sullo sviluppo economico, le relazioni industriali e il ruolo delle organizzazioni sindacali ha riunito rappresentanti degli industriali, di camere di commercio e di organizzazioni sindacali per affrontare questioni come lo sviluppo
degli scambi commerciali, la lotta alla disoccupazione e la creazione di lavoro,
l’equilibrio tra interessi economici e sociali. Il Forum Euro-Mediterraneo
“Formazione e Cultura” ha operato per costruire un ponte culturale tra le due
4
Per una descrizione
dei programmi regionali EuroMed cfr.
Panebianco (2001a).
69
n.3 / 2002
5
Le raccomandazioni
adottate dal Forum
Civile EuroMed di
Bruxelles del 19-20
ottobre 2001 sono disponibili online:
www.forumcivileuromed.org
70
sponde del Mediterraneo. Vi hanno partecipato accademici, ONG, rappresentanti di centri culturali e di ricerca che promuovono gli scambi culturali e la
cooperazione nel campo della formazione.
Il Forum Civile EuroMed di Marsiglia (2000) si snodava su tre assise: il Forum
EuroMed delle ONG, il Forum EuroMed delle Camere di Commercio e il Forum
EuroMed delle autorità e comunità locali. In quella occasione la posizione dei
partecipanti nei confronti del funzionamento del PEM è stata molto critica e,
fatto un bilancio dei primi cinque anni di vita del Partenariato, hanno chiesto una
revisione dei meccanismi di base per avvicinare il Processo ai cittadini. Il Forum
Civile ha adottato una Dichiarazione Finale congiunta mentre, a loro volta, i singoli Forum avevano elaborato specifiche raccomandazioni da inoltrare ai partecipanti della Conferenza dei Ministri degli Affari Esteri.
Il Forum Civile Euromed di Bruxelles, che ha preceduto di qualche settimana la
Conferenza EuroMediterranea dei Ministri degli Affari Esteri del 5-6 novembre
2001, è stato concepito come momento di raccordo tra il Forum Civile EuroMed
di Marsiglia e quello di Valencia del 2002, per garantire la continuità del lavoro
delle ONG nel quadro del PEM. Il segnale lanciato dagli attori della società civile
che hanno partecipato al Forum Civile è stato nuovamente critico ma propositivo: è necessario ristrutturare il Partenariato per realizzare gli obiettivi ambiziosi
contenuti nella Dichiarazione di Barcellona attribuendo un ruolo primario al
terzo capitolo della Dichiarazione di Barcellona sugli affari umani, sociali e culturali. Il Forum Civile si è diviso in tre workshops che hanno affrontato questioni delicate del Partenariato: la prevenzione dei conflitti nello spazio euro-mediterraneo, le migrazioni e il dialogo culturale. Per rafforzare il rapporto tra la
società civile e le istituzioni europee il Workshop sul dialogo culturale ha richiesto che venga istituita una forma di consultazione regolare e permanente con la
Commissione europea e il Parlamento europeo; per favorire la circolazione delle
idee e gli scambi tra culture ha invece proposto la creazione di un sito internet
in più lingue dove affrontare varie questioni culturali. Le raccomandazioni adottate dal Forum Civile sono state inviate ai funzionari dei governi, ai rappresentanti del Consiglio e della Commissione e al Segretario della Lega Araba5.
Con la partecipazione nei Forum Civili EuroMed i rappresentanti della società
civile diventano attori del processo politico e attirano l’attenzione dei ministri
sulle priorità che individuano nei settori di loro competenza. Attraverso i Forum
Civili i rappresentanti della società civile offrono nuovi stimoli ai ministri degli
affari esteri che periodicamente si riuniscono per rivedere le basi del Processo di
Barcellona nel tentativo di rinvigorirlo con nuove idee e programmi cooperativi.
Mentre la delicata situazione politica in Medio Oriente pone dei forti limiti alla
cooperazione inter-statale (ad esempio l’adozione della Carta per la pace e la stabilità nel Mediterraneo prevista a Marsiglia è stata rinviata) la capacità di networking a livello di società civile non si ferma, anzi viene ulteriormente stimolata ad
affrontare questioni cruciali come la prevenzione dei conflitti nello spazio euromediterraneo, incluso il conflitto medio-orientale, cui è stato dedicato uno dei
workshops del Forum Civile di Bruxelles. Programmi di cooperazione che coinvolgono tecnici, esperti e membri della società civile e che implicano scambi culturali diretti si sono rivelati quindi più efficaci e duraturi di un processo “calato
dall’alto”. Il Forum Civile EuroMed, importante momento di incontro dei rap-
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
presentanti della società civile che operano nell’area EuroMediterranea, contribuisce così alla diffusione del concetto di multi-culturalità nel PEM.
L’interazione tra società civili è ulteriormente favorita dalla creazione di reti e
associazioni più o meno formali tra attori sociali che vengono coinvolti dalle attività del PEM e stimolano la cooperazione funzionale e l’integrazione regionale.
La Commissione favorisce e sostiene la creazione di reti euro-mediterranee che
permettono lo scambio di know-how tra i paesi dell’Unione Europea e i paesi
partners del Mediterraneo, individuano le best practices in ogni specifico settore e contribuiscono al rafforzamento del PEM attraverso la cooperazione tra attori che svolgono funzioni simili nei vari paesi del Mediterraneo.
Le attività dei networks creati nel quadro del PEM sono varie. La maggior parte
di queste reti è finanziata attraverso il programma MEDA e il grado di istituzionalizzazione (specialmente la regolarità degli incontri e la frequenza delle attività) muta da un settore all’altro. Generalmente si tratta di progetti triennali che
possono essere rifinanziati. Riportiamo di seguito gli esempi più significativi:
- EuroMeSCo, creata nel 1996, è una rete di istituti di politica estera che fanno
ricerca sui problemi di sicurezza e stabilità. Si differenzia dalle altre reti perché la
sua creazione era espressamente prevista dalla Dichiarazione di Barcellona come
misura di fiducia reciproca. I membri di EuroMeSCo organizzano seminari di studio, elaborano ricerche sulle questioni di politica estera più rilevanti per il
Mediterraneo e interagiscono con gli alti funzionari responsabili delle questioni
politiche e di sicurezza che rientrano nel primo capitolo della Dichiarazione di
Barcellona, cui presentano i risultati delle loro ricerche6.
- STRADEMED è una rete di esperti di politica estera che conduce ricerche sulle
strategie inter-regionali e organizza corsi di formazione7.
- FEMISE è una rete di istituti economici che dal 1999 conduce ricerche sulle questioni economiche, commerciali e sociali legate all’attuazione di un’area di libero scambio nel Mediterraneo da realizzarsi entro il 2010 e dell’attuazione degli
accordi bilaterali di partenariato, nonché sugli scambi commerciali sud-sud8. Nel
2001 le attività di FEMISE sono state rinnovate per altri 4 anni.
- MEDSTAT è una rete di istituti nazionali di statistica creata per armonizzare i dati
statistici relativi all’area euro-mediterranea sulla falsariga di Eurostat. Alla scadenza del primo triennio è stato approvato MEDSTAT II.
- MEDAPME, creata nel 1999, è la rete euromediterranea di piccole e medie imprese gestita dall’associazione europea di piccole e medie imprese (UEAPME) per
migliorare le capacità tecniche e manageriali dei piccoli imprenditori9.
- UNIMED, creata per tre anni nell’aprile 2000, è la rete euromediterranea degli
industriali gestita dall’associazione europea degli industriali (UNICE) che si prefigge di rafforzare l’associazionismo nei paesi del sud e l’influenza delle organizzazioni di imprenditori a livello nazionale, regionale e internazionale10.
- ARCHIMEDES, concluso nel giugno del 2001, era un programma di cooperazione
avviato dall’associazione europea delle Camere di Commercio (Eurochambres)
per creare un partenariato tra le Camere di Commercio europee e quelle dei
paesi del Mediterraneo, per avviare scambi tra Camere di Commercio europee e
dei paesi partners, per organizzare conferenze, corsi di formazione, missioni di
assistenza tecnica e strategica per fornire alle Camere di Commercio dei paesi
partners e ai loro associati know-how e segnalare esperienze di best practices11.
6
www.EuroMeSCo.net
7
www.strademed.org
8
www.femise.org
9
www.euromeda.com
10
www.unimedbn.org
11
www.eurochambres.be/whatwedo/arc
himedes.htm
71
n.3 / 2002
12
La sesta edizione si è
tenuta al Cairo il 3-4
ottobre 2000
www.medpartenariat.com.eg
- MEDPARTENARIAT è un forum di cooperazione tra imprese euro-mediterranee che
si prefigge di stimolare gli scambi commerciali e i flussi degli investimenti diretti
ai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo12. Il forum europeo
Europartenariat Italia Sud 2000 che si è tenuto a Palermo nel dicembre 2000, è
stato aperto alla partecipazione di imprese dei paesi euro-mediterranei; nonostante il conflitto in Medio Oriente fosse in corso, erano presenti sia imprese
israeliane sia palestinesi.
- REMFOC è una rete Euro-Maghrebina per la formazione nel settore delle telecomunicazioni.
- JEMSTONE è una rete di giornalisti.
La creazione di reti di esperti serve a promuovere la fiducia reciproca tra i partecipanti attraverso lo scambio di informazioni e il confronto sui diversi metodi di
lavoro, contribuendo a individuare una “lingua comune”. Attraverso le reti tematiche le organizzazioni di esperti e i rappresentanti della società civile emergono
come attori informali ma attivi del partenariato, non si limitano a “subire” da
utenti finali le decisioni adottate a livello governativo, bensì contribuiscono con
proposte e studi di fattibilità allo sviluppo del PEM. Nella consapevolezza che la
cooperazione tra rappresentanti della società civile favorisce lo sviluppo di
modelli cognitivi pluralisti, affinché il patrimonio di queste reti non venga disperso e i risultati della cooperazione possano essere capitalizzati, la Commissione dovrebbe promuovere l’istituzionalizzazione di queste reti rifinanziando i programmi scaduti e avviando l’interazione in altri settori per stimolare lo sviluppo
di una cultura mediterranea strategico-politica, economico-d’impresa, o d’informazione che possa offrire la base culturale per una società civile transnazionale.
L’attuazione concreta degli obiettivi del Partenariato negli affari sociali, culturali
e umani richiede l’avvio della concertazione con i rappresentanti della società
civile, una struttura organizzativa della società civile stabile e un adeguato sostegno finanziario.
Il Mediterraneo come comunità di sicurezza in fieri
Il quadro normativo del PEM adottato dai 27 paesi partners si basa sulla promozione di pratiche che non fanno ricorso alla minaccia; esso piuttosto, istituzionalizza il dialogo politico, le partnership building measures - le misure di partenariato che sviluppano la comprensione e la fiducia reciproche, l’interazione tra
attori non-governativi, meccanismi comuni per la gestione dei disastri, ecc.
Queste pratiche sono in linea con quelle delle comunità di sicurezza in cui le dispute sono affrontate pacificamente. Secondo Karl Deutsch una “comunità pluralista di sicurezza” è data da “un gruppo di persone che è diventato integrato” e si
basa sul senso di appartenenza ad una comunità e sulla risoluzione pacifica dei
contrasti (Deutsch et al. 1957). La comunità di sicurezza si instaura quindi tra un
gruppo di paesi come quelli europei che, sentendo di appartenere alla stessa
comunità, nel dopoguerra hanno creato istituzioni multilaterali per gestire i loro
rapporti e hanno sviluppato un modello cooperativo che ha permesso di pacificare le relazioni tra loro, cosicché la guerra come strumento per risolvere i conflitti è ormai obsoleta.
Secondo ulteriori studi sul regionalismo, forme di cooperazione regionale basa-
72
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
ta su istituzioni multilaterali nel tempo possono produrre comunità di sicurezza
(Adler 1997). Mentre per Deutsch le comunità di sicurezza si sviluppano laddove c’è già un’identità comune, per Emanuel Adler esse possono essere costruite
anche in presenza di identità diverse (come nell’ASEAN). Si invertono i termini
del problema: identità, valori e cultura comuni non sono più considerati come
un requisito necessario per sviluppare forme di cooperazione regionale, bensì
diventano il prodotto finale dell’intensificarsi delle relazioni e del dialogo attraverso le istituzioni comuni. L’accento non è posto tanto sull’integrazione sociale, quanto sulle istituzioni multilaterali e le pratiche di community-building che
queste attivano producendo le condizioni necessarie per relazioni pacifiche
(Adler 1998). Queste condizioni sono le strutture materiali e cognitive, le transazioni tra stati e società e l’identità collettiva o we-feeling.
Riletto attraverso questo modello analitico, il PEM ha il potenziale per agire come
security community-building institution, che diffonde e istituzionalizza principi, valori, norme, e stimola la comprensione reciproca tra i partners. Le basi per
un regime di sicurezza sono state poste dal quadro normativo chiaramente identificabile e dai valori accettati dai partners che hanno sottoscritto i documenti
ufficiali (ad esempio il ricorso ai negoziati, l’adozione di codici di condotta, i
principi democratici, la tutela dei diritti umani, lo stato di diritto). Stiamo sperimentando la fase declaratoria che generalmente precede la creazione di una
comunità di sicurezza basata su early warning, prevenzione dei conflitti, gestione delle crisi, peace-building, limitazione delle armi, etc.? I partners, consapevoli
che il significato di alcuni di questi concetti e valori è controverso e necessita
ulteriore elaborazione, hanno sottoscritto un accordo generale ripromettendosi
di specificare ulteriormente i contenuti della cooperazione.
Le istituzioni del PEM, attraverso il dialogo multilaterale e le pratiche di community-building, nel lungo periodo possono produrre una comunità di sicurezza, ma questo non è un processo lineare né irreversibile. Le confidence building
measures sono meccanismi essenziali per la costruzione di una comunità basata
sulla fiducia reciproca (Adler 1997). Le partnership building measures adottate
nel quadro del PEM si prefiggono di costruire le basi per pratiche e comportamenti comuni. Inoltre, il PEM offre un forum in cui attori statali e non statali discutono sui concetti e definiscono i loro interessi comuni. I forum civili e le reti
tematiche che affrontano questioni legate all’ambiente, ai diritti umani, alla produzione industriale, ecc. danno vita a comunità epistemiche che possono essere
considerate come l’embrione di una società civile regionale.
Il PEM ha l’ambizioso obiettivo di creare una regione cognitiva transnazionale
Mediterranea il cui popolo possiede identità collettive e condivide altre strutture normative e regolative (Adler 1997, 276). Allo stato attuale nel PEM manca il
senso di appartenenza alla stessa comunità, mentre nel settore della sicurezza la
fiducia reciproca, la trasparenza e l’apertura su cui si basa il dialogo politico sono
continuamente incrinate dal conflitto in corso in Medio Oriente. Nella visione
costruttivista, il senso di appartenenza alla comunità può essere “instillato”,
ovvero sviluppato attraverso attori e istituzioni di socializzazione il cui compito è
quello di aiutare a credere in un destino e un’identità comuni. Il PEM tende ad
“inventare” un’identità culturale (Willa 1999) attraverso la valorizzazione degli
elementi comuni esistenti. Il progetto del PEM può essere considerato come il
73
n.3 / 2002
quadro per creare una nuova comunità, per definire un concetto del “noi” che
possa superare le fratture attorno alle quali ha luogo l’azione statale. Ma fintanto
che i partners del PEM rimarranno sospettosi e considereranno l’altro come una
potenziale fonte di minacce alla sicurezza, la costruzione di una regione cognitiva è ritardata.
Nelle condizioni attuali il Processo di Barcellona rappresenta un “accordo regionale di partenariato di sicurezza” creato per affrontare la stabilità e la sicurezza
regionale. Un security partnership arrangement è basato su “un gruppo di misure internazionali e nazionali interrelate […] create per migliorare le condizioni
di sicurezza e difendere la stabilità geopolitica della regione” (Attinà 2001, 141).
Nel quadro del PEM esiste già un gruppo di accordi tra cui alcuni ‘accordi fondamentali’ e un numero di ‘accordi operativi’ collegati su cui si basa un partenariato di sicurezza, ma manca la sensazione di appartenere alla stessa comunità.
Dialogo e apertura devono guidare la coesistenza di diversi popoli. La diversità
culturale deve essere considerata come una fonte di ricchezza piuttosto che
come fonte di conflitto. Si tratta di un leit-motiv frutto della retorica politica?
L’assunto di base del PEM è che l’esistenza di stati democratici con società pluraliste favorisce l’integrazione regionale. Il pluralismo culturale che permea il
PEM sostiene lo sviluppo di valori, istituzioni e pratiche liberali per garantire la
coesistenza pacifica. Tuttavia, ci sono tensioni sociali che vanno risolte. I partners
del Mediterraneo sono spesso critici verso l’affermazione dei valori liberali occidentali, interpretati talvolta come sinonimo di valori neo-imperialisti. Il mancato
accordo sulla definizione dei concetti di base e un’errata percezione dell’altro,
ovvero dei diversi gruppi sociali che compongono il Mediterraneo, possono rallentare il processo di community/region building. Non si tratta di incoraggiare i
paesi meridionali a omologarsi ai paesi dell’Unione; la questione centrale risiede
piuttosto nel permettere una differenziazione culturale per riconciliare l’affermazione dell’identità con una nuova universalità (Kodmani-Darwish 1998, 45).
Conclusioni: l’identità mediterranea tra teoria e realtà
Gli studi sull’identità spiegano qual è il processo di socializzazione che porta i
popoli a internazionalizzare un’identità sottolineando il potenziale dell’apprendimento e la funzione delle istituzioni come identity-producer (Wendt 1996). Gli
attori hanno diverse identità sociali che sono continuamente ridefinite in processi di interazione ed esistono solo in relazione agli altri. Le identità possono
cambiare attraverso l’apprendimento sociale, ma in alcuni contesti le identità
sociali sono relativamente stabili. Per rispondere alla domanda “chi sono io?” un
individuo deve definire se stesso e percepire la sua specificità rispetto all’altro.
L’individuo è in grado di avere contemporaneamente più identità, così come
svolge più ruoli e funzioni in società. L’identità non può essere interpretata per
categorie esclusive, bensì va definita in termini funzionali, perché esiste un cerchio concentrico di identità: “in normali circostanze la maggior parte degli esseri umani può vivere felicemente con molteplici identificazioni e si diverte a muoversi tra queste a seconda delle circostanze” (Smith 1992, 59).
Anche all’interno della stessa civiltà differenze ed elementi comuni coesistono
(basti pensare al fondamentalismo ebraico o cristiano), vi sono dibattiti e discus-
74
Stefania Panebianco
Un’identità mediterranea “plurale”
sioni, diversità di cultura, lingua, religione, ecc. Neanche i paesi dell’Unione
Europea hanno società del tutto omogenee. Il processo di integrazione europea
è stato caratterizzato dalla (ri)nascita dei movimenti nazionalisti il cui obiettivo
primario è la protezione della specificità culturale e tuttora permangono tensioni interne create da movimenti nazionalisti come, ad esempio, l’ETA in Spagna o
l’IRA in Irlanda. Ciononostante, nell’Europa occidentale si è sviluppata un’identità europea che non si sostituisce a quella nazionale, al contrario quest’ultima
rimane forte, e il “sentirsi europeo” si aggiunge all’appartenenza nazionale,
regionale e locale. L’analisi dell’identità europea in chiave costruttivista delinea
l’importanza dei processi di europeizzazione e permette di definire l’identità
europea un’identità “multipla”, data dalla coesistenza dell’identità nazionale,
regionale, locale ed europea, diversi livelli identitari che coesistono senza entrare in conflitto (Panebianco 2001b). Questo schema può essere applicato anche
al Mediterraneo?
Il processo di socializzazione avviato dalle istituzioni formali e informali del PEM
si basa sulle misure di fiducia reciproca, strumenti che favoriscono il pluralismo
culturale, promuovono la tolleranza e la cooperazione funzionale. In che misura
il processo avviato a Barcellona nel 1995 ha sensibilizzato i cittadini dei paesi
mediterranei? Certamente questo processo è ancora giovane e la sua riuscita è
minacciata dai conflitti politico-territoriali ancora insoluti, oltre che religiosi e
culturali, e sarebbe prematuro, ancorché avventato, ipotizzare allo stato attuale
un coinvolgimento capillare della società.
Se la prospettiva storica offre esempi di unità culturale nel Mediterraneo ai tempi
dei greci o dei romani, quando un’impronta comune caratterizzava il bacino,
oggi il Mediterraneo è una costruzione artificiale, perché non corrisponde ad
una realtà oggettiva concepita spontaneamente. Dati i processi di cooperazione
in corso nell’area e gli obiettivi su cui si basa il PEM, il Mediterraneo può essere
definito come una regione in costruzione.
Nella visione del PEM un’identità regionale mediterranea “plurale” basata sulle
differenze socio-identitarie è un fattore unificante, non conflittuale. La fase cruciale del processo di creazione di una identità regionale consiste nella definizione del “noi” e degli “altri”. Il senso di appartenenza ad un gruppo si sviluppa
enfatizzando le diversità rispetto ad altri gruppi e sottolineando le caratteristiche
culturali uniche. Trovare l’incentivo per l’appartenenza al gruppo è una funzione importante dell’identity producer. I tratti distintivi all’interno di un gruppo
sono fruttuosi fintantoché non si trasformano in fattori di intolleranza. Il ruolo
delle reti tematiche create nel quadro del PEM costituite da rappresentanti della
società civile che operano nei paesi del bacino del Mediterraneo è fondamentale nel processo di socializzazione che può favorire la creazione di un’identità
regionale mediterranea. Il rischio inerente alla creazione di un’identità regionale mediterranea “guidata” da esperti di paesi dell’Unione Europea che offrono
consigli e know how è che i popoli dei paesi partners la sentano estranea, perché imposta dai paesi occidentali, identificando il processo di regionalizzazione
con mire espansionistiche di stampo neo-coloniale. Tuttavia, l’analisi empirica ha
dimostrato che la partecipazione, il dialogo e lo scambio di informazioni all’interno di questi networks sono favoriti dall’interesse comune dei partecipanti e
dalla elevata specializzazione dei rappresentanti dei paesi partners che fanno
75
n.3 / 2002
parte di questi progetti.
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Stefania Panebianco, dottore di ricerca in Relazioni Internazionali, lavora presso
il Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Catania. Ha pubblicato la monografia Il lobbying europeo, Giuffrè, 2000, e curato Visions of EuroMediterranean
Co-operation, Frank Cass, London (in corso di stampa).
[email protected]
76
Ruben Sacerdoti
La dimensione regionale
delle politiche europee per
l’innovazione. Le prospettive
per il Veneto
Passaggio a Nordest
Introduzione
A partire dal 2002 il Veneto sarà considerato dalla Commissione europea una
delle 22 regioni di eccellenza in Europa nella creazione di imprese innovative,
assieme a regioni quali Cambridge e Oxford per il Regno Unito, Monaco e
Stuttgart per la Germania, Lione e Grenoble per la Francia, Milano ed EmiliaRomagna per l’Italia.
Il riconoscimento avviene tramite il coinvolgimento della regione nella rete
PAXIS1, un’azione della DG Imprese, nell’ambito del V Programma Quadro, volta
a mettere in rete quelle regioni che mostrano condizioni ambientali ottimali per
la creazione e lo sviluppo di start-up high-tech.
Malgrado il ritardo relativo del Veneto nella nascita di nuove imprese high-tech,
è però evidente come tutti gli “ingredienti” della ricetta siano in azione: esiste un
“sistema di innovazione regionale” adattato alla tipicità del modello di sviluppo
regionale (Moi, Ametis e Guarnaccia 1999), sono presenti diversi programmi
pubblici e privati di finanziamento alle start-up, sono attivi i venture capitalists
ed esiste l’embrione di una rete di “business angels”; vi è una rete di incubatori,
parchi scientifici e servizi alle imprese diffusa sul territorio, vi è un rodato sistema di interfaccia università-mondo della ricerca-imprese, esistono diversi distretti con un humus imprenditoriale di primo livello.
Il sistema necessita tuttavia di una maggiore focalizzazione da parte dei policy
makers locali, e dunque di dotazioni finanziarie superiori, principalmente a titolo di finanziamenti pre-seed e seed, del miglioramento dei meccanismi di creazione imprenditoriale, e della messa in relazione con le reti europee delle regioni d’eccellenza al fine di poter confrontare le metodologie e i meccanismi di promozione dell’imprenditorialità high-tech, l’internazionalizzazione delle start-up,
il confronto delle performance. Tutti elementi di assoluta crucialità in vista del
VI Programma Quadro di ricerca e sviluppo tecnologico 2002-2006, pienamente
operativo fin dal 2003, dove le reti di eccellenza svolgono un ruolo cruciale a sup-
1
PAXIS, Pilot Action
of Excellence on
Innovative Start-ups,
1999-2005, nell’ambito del programma
“Promozione dell’innovazione e incoraggiamento della
partecipazione delle
PMI”. Per informazioni dettagliate si
veda il sito
www.cordis.lu/paxis.
77
n.3 / 2002
porto della costruzione dell’Area Europea della Ricerca.
Obiettivo di questo articolo è di mostrare il ruolo fondamentale che la partecipazione ai programmi comunitari a favore del rafforzamento dell’innovazione
può giocare sull’economia delle regioni europee, e in particolare su una regione
come il Veneto, e di come essa debba trasformarsi in priorità politica tramite la
definizione di un “modello di governance dell’innovazione” a livello regionale.
La ricerca in Europa
2
Fonte: OSCE,
Science, Technology
and Industry
Scoreboard, 2001
L’Unione europea sta diventando sempre più una società e un’economia fondata sulla conoscenza. Lo sviluppo del knowledge ha effetti diretti sulla competitività e l’impiego, così come sul modo in cui la società funziona nel suo complesso.
Malgrado l’importanza della conoscenza sia stata riconosciuta dal Summit europeo di Lisbona del febbraio 2000, la ricerca in Europa mostra ancora dati contrastanti. Vi sono indubbi punti di forza ma ancora evidenti debolezze, che si riflettono in un ‘trade deficit’ nei prodotti high-tech superiore ai 20 miliardi di euro2.
A sua volta il deficit della bilancia tecnologica dei pagamenti riflette un ampio
numero di fattori sottostanti – un livello di spesa in R&S inferiore nella UE (1,8%)
rispetto agli USA (2,8%) e al Giappone (2,9%), un ambiente meno dinamico per
l’innovazione e un sistema relativamente frammentato della ricerca, frammentata e spesso sovrapposta nei 15 paesi membri (National Commission on
Entrepreneurship, 2001).
Tale situazione ha portato la Commissione europea a riconoscere la necessità di
sviluppare una vera e propria “Area della Ricerca Europea”(ARE), che costituirà
l’obiettivo centrale del VI Programma Quadro 2002-2006 e che vedrà convergere
non solo le azioni delle Direzioni Generali Impresa e Ricerca, ma anche quelle
della DG Regioni (Commissione europea, 2000c). A tale scopo gli Stati membri
devono attuare politiche comuni nel campo della finanza, delle risorse umane,
della relazione fra i settori pubblici e privati, della creazione di una struttura di
riferimento comune, e declinarle a livello regionale. Risulta cruciale, in questa
fase, studiare e mettere in opera le condizioni per una reale territorializzazione
delle politiche della ricerca e adattare queste ai differenti contesti socio-economici.
Il livello regionale
Le autorità locali e regionali supportano già in tutta Europa la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione. Si stima che i finanziamenti accordati ammontino annualmente a circa una volta e mezzo l’ammontare totale del Programma
Quadro dell’UE, il 90% del quale è allocato a livello regionale.
In effetti, il livello locale è quello che è meglio attrezzato per creare forti collegamenti tra le imprese necessari per l’innovazione, e quindi per generare ricchezza economica e occupazione: creare reti della conoscenza, clusters di imprese, legare il sistema scientifico ai fabbisogni dell’industria e dei servizi, sono tutte
iniziative più facilmente organizzabili a livello locale e regionale. Le autorità
regionali sono anche quelle meglio posizionate per analizzare le best practices e
identificare altre regioni con cui cooperare, che possono essere geograficamen-
78
Ruben Sacerdoti
Dimensione regionale delle politiche europee
te distanti, come nel caso dei “4 motori per la crescita” (Baden Würtemberg, the
Rhône-Alpes, Lombardia e Cataluña), oppure frontaliere (come per Bruxelles,
Fiandre, Wallonia e Nord-Pas-de-Calais). Tale cooperazione può rafforzare la
capacità regionale per la ricerca e l’innovazione facilitando la specializzazione e
l’azione complementare e incoraggiando la rapida disseminazione della conoscenza. Continuando a perseguire il proprio interesse, le autorità regionali possono garantire un nuovo slancio attraverso la creazione di un’Area della Ricerca
Europea garantendo la sua effettività e consistenza.
La partecipazione all’ARE non è riservata alle regioni più centrali e maggiormente competitive. Gli strumenti disponibili – il Programma Quadro, i Fondi Strutturali e le azioni a livello nazionale e regionale - sono il risultato di politiche convergenti delle DG Regioni, Impresa e Ricerca e dell’azione dei governi nazionali,
e possono essere efficacemente utilizzati in modo coerente e sinergico per
garantire la partecipazione di tutte le regioni.
In effetti porre l’innovazione al centro delle policies ha importanti implicazioni
territoriali. Storicamente l’attività economica, così come lo stock di capitale e le
risorse umane maggiormente qualificate, si sono concentrate, con poche eccezioni, nelle aree centrali dell’Unione, determinando benefici effetti in termini di
ricchezza e di occupazione, ma effetti negativi in termini di sostenibilità ambientale dello sviluppo.
Se i gaps più vistosi sono stati colmati grazie all’azione delle politiche nazionali
supportate direttamente dai Fondi strutturali e dal Fondo sociale della Commissione europea, le regioni dell’Unione possono ancora essere nettamente suddivise in gruppi omogenei, differenziati per il livello di sviluppo economico.
Applicando ad esempio l’indice di accessibilità3 che stima, per ogni regione, il
tempo necessario per raggiungere le altre regioni, pesate per la loro importanza
economica, si ottengono tre gruppi di regioni:
- le regioni centrali, per le quali l’indice di accessibilità è superiore del 50% alla
media europea (a 15) e che tiene conto anche dei 12 paesi che parteciperanno
all’allargamento: sono situate nel triangolo North Yorkshire (UK), FrancheComté (Francia), Hamburg (Germania);
- le regioni periferiche, per le quali l’indice di accessibilità è inferiore del 40% alla
media, situate nel Nord Europa (Svezia e Finlandia), nel Nord Ovest (Scozia e
Irlanda), nel Sud (Portogallo, Spagna, Italia e Grecia meridionale)
- le altre regioni con un indice compreso fra il 40 e il 50% della media.
Il quadro che emerge è quello di un’elevata concentrazione delle attività nelle
regioni centrali, che rappresentano solo il 14% del territorio ma un terzo della
popolazione e quasi metà (47%) del PIL. La densità della popolazione è in queste regioni di 3,7 volte più alta che in quelle periferiche. Il PIL procapite nelle
regioni centrali è due volte maggiore di quello delle regioni periferiche4, così
come più alta è la produttività (2,4 volte), il sistema dei trasporti più sviluppato
(in termini ad esempio di concentrazione di autostrade di 4 volte e doppio di vie
ferrate), la spesa in R&S (2,1% del PIL contro lo 0,9%), e così via5.
La questione della R&S è cruciale: la struttura dei costi di produzione delle
imprese è notevolmente cambiata negli ultimi anni, con l’incremento della quota
di costi in R&S e la netta riduzione del costo dei trasporti. Ora poiché la spesa in
R&S, assieme ad altre attività strategiche e ad alto valore aggiunto, tende a con-
3
Si tratta di un tipico indicatore utilizzato nelle politiche
regionali. Va considerato come una
semplice stima. Per i
dettagli si veda:
Schürmann e Talaat
2000. Si consideri
anche: European
Commission, 1999b.
4
Delle 88 regioni
centrali solo 11 evidenziano un PIL
procapite inferiore
alla media europea;
delle 111 regioni
periferiche solo 23
un reddito superiore.
5
L’applicazione
dello stesso indice
agli USA ha dato
risultati diversi: possono essere identificate 4 regioni di
importanza globale
in termini economici, ognuna con oltre
15 milioni di persone e un PIL procapite superiore alla
media USA in ognuno dei singoli stati.
Questo, assieme al
rappresentare il 28%
del territorio e il
49% della popolazione totale e il 54% del
PIL, evidenzia un
livello più basso di
concentrazione
rispetto alla UE,
anche se la ben
superiore grandezza
geografica complessiva rappresenta
sicuramente un fattore esplicativo.
79
n.3 / 2002
6
Il caso più evidente
è senza dubbio quello delle imprese del
settore delle biotecnologie, il più ampio
settore high-tech. Nel
rapporto 2000 di
Ernst & Young, vengono evidenziate
geograficamente le
localizzazioni di tali
imprese. Il risultato
è un’area centrale
continua che ingloba Londra, Parigi,
Monaco, Berlino e
Amsterdam.
7
Si tratta del principale meccanismo
per la partecipazione ai Programmi
Quadro di R&S e di
innovazione: la
Commissione sottoscrive contratti di
partecipazione ai
costi sostenuti per i
progetti con percentuali inferiori al
100% (di norma il
50%).
8
Le regioni Obiettivo
1 sono le regioni
europee ritenute a
ritardo di sviluppo
economico (come
l’Italia meridionale)
e per questo beneficiarie di importanti
investimenti da
parte dei Fondi
Strutturali. Il numero di progetti in cui
è presente almeno
un partner proveniente da una regione Obiettivo 1 cresce
dal 27% del 1994 al
41% del 1998. Il
numero totale di
partecipazioni delle
regioni Obiettivo 1
nel IVPQ passa da
1,705 nel 1995 a
4,067 nel 1998.
80
centrarsi nelle regioni centrali dove il know-how e le infrastrutture specializzate
sono localizzate, questo deve essere considerato uno dei fattori esplicativi della
crescente polarizzazione dei settori high-tech nella UE, dove si assiste alla concentrazione di attività a basso valore aggiunto nelle aree periferiche6.
L’impatto dei Programmi Quadro di ricerca e sviluppo
tecnologico
La situazione appena descritta è nota da tempo, e l’aspetto territoriale è sempre
stato tenuto nella massima considerazione nelle politiche comunitarie.
Purtroppo analisi quantitative sulla distribuzione geografica dei fondi disponibili
come shared-cost actions7 nel IV Programma Quadro non sono ancora disponibili. I dati di provenienza nazionale mostrano una lenta ma continua diminuzione della concentrazione, a beneficio di Portogallo, Grecia e Irlanda, anche se tale
partecipazione resta altamente concentrata nelle città capitale. In generale, la
partecipazione delle regioni Obiettivo 1 è crescente8, così come il coinvolgimento delle PMI. Vi è quindi un netto incremento della cooperazione tra gli Stati
della UE, con un netto beneficio in termini di trasferibilità della conoscenza (sia
tacita sia codificata) tra le organizzazioni dei differenti paesi membri.
Il V Programma Quadro (1998-2002) rappresenta il progressivo spostamento di
obiettivo da una politica orientata esclusivamente verso la tecnologia ad una che
include l’innovazione come concetto chiave. In sintesi, i precedenti programmi
davano priorità alle aree della scienza e della tecnologia in cui l’Europa necessitava rafforzare la sua capacità, mentre il VPQ trova fondamento in problemi più
marcatamente sociali che la scienza e la tecnologia possono contribuire a risolvere.
In linea di principio, il modo in cui gli obiettivi del VPQ sono formulati porta ad
una maggiore considerazione della distribuzione della conoscenza per la costruzione dell’absorption capacity e non solo della knowledge creation.
Il programma orizzontale “Promozione dell’innovazione e incoraggiamento della
partecipazione delle PMI” ha ampliato il gruppo obiettivo per includere non solo
i performers high-tech, ma anche le imprese per le quali l’ingresso iniziale nel
VPQ risulta difficile: l’obiettivo è di ridurre gli ostacoli all’innovazione per le
imprese delle regioni meno favorite e dei settori più tradizionali. Allo stesso
tempo è stata data più ampia diffusione dell’informazione verso i potenziali fruitori, attraverso gli Innovation Relay Centers, i National Contact Points, e un
processo di maggiore trasparenza nei bandi. Sebbene l’eccellenza nelle attività
scientifiche e tecniche continui a rappresentare il principale criterio per la partecipazione al VPQ, vi sono parti del programma che consentono ai partecipanti
di raggiungere tale livello gradualmente nel tempo.
L’UE ha anche giocato un ruolo rilevante nella disseminazione di buone pratiche
nelle politiche di R&ST, aiutando a creare una comunità della ricerca, della tecnologia, dello sviluppo e dell’innovazione dove i decision-makers, i ricercatori e
tutti gli attori principali possono comunicare e lavorare assieme, sia in modo formale sia informale, nei comitati consultivi, nei programmi, nelle iniziative di
scambio. Attraverso la sua influenza sulla formulazione e implementazione delle
politiche nazionali, l’azione della UE ha contribuito indirettamente a chiudere i
Ruben Sacerdoti
Dimensione regionale delle politiche europee
gaps di R&ST e di innovazione fra i paesi membri, a cambiare la cultura e ha contribuito in un certo modo a migliorare il processo di pianificazione politica. Sono
diverse le iniziative, come i Piani tecnologici regionali (RTP), le Strategie di innovazione regionale (RIS), le Strategie regionali di innovazione e trasferimento tecnologico (RITTS), ideati assieme dalle DG Impresa e Ricerca, che hanno contribuito a porre l’innovazione in cima alle agende in oltre 150 regioni. Tali progetti hanno contribuito a lanciare processi di lungo periodo tuttora in atto, preparando il terreno per l’ulteriore decentramento delle politiche di R&ST a livello
regionale. Il fine tuning della pianificazione di politiche di R&ST e l’adeguamento dei Fondi Strutturali a questo scopo, sono parte integrante di tale successo.
La politica di R&ST ha rafforzato la sua attività nei paesi del Sud (Portogallo,
Spagna e Grecia), nelle regioni meno favorite e nei paesi candidati (NAC), favorendo la riduzione delle disparità regionali. Nel complesso tali politiche hanno adottato più un approccio orientato all’innovazione che all’eccellenza tecnologica come tale, ma non sono state accompagnate da uno sforzo esplicito dei Fondi
strutturali per fornire il supporto necessario alle imprese e agli istituti di ricerca
per predisporsi in tempo ai futuri programmi di R&ST. Le condizioni stesse per
una “genuina” territorializzazione delle politiche della ricerca (ad esempio adattandole meglio ai differenti contesti geografici, economici e sociali) devono ancora essere studiate e implementate, e probabilmente ciò non avverrà in tempi
brevi.
La Commissione è attualmente concentrata sul lancio del VI Programma Quadro
pluriennale 2002-2006 per la realizzazione dello Spazio europeo della ricerca
(Commissione europea, 2000c). Qui lo sforzo è ora spostato su un livello più
globale in linea con la sfida della globalizzazione e della competizione con USA e
Giappone. La Comunicazione della Commissione sulle Guidelines for EU Research Activities (2002-2006), adottata nell’Ottobre 2000 e fatta propria dalla Risoluzione di Novembre 2000 del Research Council che rappresenta tutti gli Stati
Membri, indica come ci si attende che le regioni siano coinvolte nell’ARE fissando un certo numero di obiettivi comunitari in 5 aree principali: attività di ricerca; innovazione e PMI; infrastrutture; risorse umane; relazione fra scienza, società e cittadini. Sono tre gli aspetti orizzontali che devono essere tenuti nella massima considerazione: la coerenza complessiva della cooperazione europea nella
scienza e tecnologia, la dimensione internazionale dei progetti e l’aspetto regionale. Si enfatizza anche l’importanza di predisporre misure che incoraggino la
piena valorizzazione del potenziale regionale, attraverso le attività di networking
e la piena valorizzazione della vicinanza geografica o della specializzazione produttiva delle aree.
Ma la vera novità è l’enfasi forte e senza riserve data all’eccellenza come criterio
prioritario. Il Programma favorirà la partecipazione delle aree di eccellenza e dei
centri dell’eccellenza europea, attraverso attività di mapping, benchmarking e
networking di tali aree9. Spetta dunque ad ogni regione guidare gli importanti
effetti territoriali che emergeranno con il VI PQ.
La sfida per il Veneto
In questo senso, dunque, l’occasione unica per il Veneto, di cui si accennava nel-
9
Altri aspetti importanti dell’ARE, gli
effetti di learning
della partecipazione
a consorzi e network per la ricerca,
la mobilità dei ricercatori come meccanismo di scambio
tacito di conoscenza
e l’effetto di policy
learning delle attività di R&S, erano già
presenti nel 4° e 5°
Programma
Quadro.
81
n.3 / 2002
10
Anche le politiche
della DG Regioni
verranno nei prossimi anni indirizzate
nei paesi membri
verso il supporto
alla New Economy e
alla Knowledge
Society.
l’introduzione. Il riconoscimento dell’“eccellenza” si trasforma, se ben sfruttato
in un contributo in grado di rafforzare la presenza delle entità regionali nei programmi comunitari e di garantire un’ampia partecipazione al VIPQ e alle altre iniziative comunitarie in via di definizione10.
La partecipazione alla rete PAXIS, se ottimizzata, comporta la progressiva definizione per la Regione Veneto di un modello di governance dell’innovazione che
sia di base al rilancio dell’economia.
Un’ampia partecipazione al programma, che implica la sedimentazione a livello
regionale di reti “lunghe” fra imprese, centri di ricerca e università (Grandinetti
e Rullani, 1996) e il favorire l’emergere di nuove imprese innovative, significa
facilitare il progressivo spostamento da una specializzazione produttiva basata
sulla piccola e media industria tradizionale verso i servizi avanzati e l’alta tecnologia. E’ questa a nostro avviso la sola strada che possa contribuire efficacemente a rilanciare il sistema economico veneto lungo sentieri di crescita endogena di
lungo periodo, gli unici in grado di garantire quegli incrementi continui della
produttività che stanno alla base di tutte le economie industriali mature
(Anastasia e Coro’, 2000).
Ma sta poi alle imprese venete il saper raccogliere la sfida dell’innovazione,
mostrare la propria creatività e utilizzarla per conquistare nuovi mercati.
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Ruben Sacerdoti, già Project officer per la DG Imprese della Commissione europea, si occupa come project manager di spin-off e start-ups high-tech. Ha operato anche per l’implementazione delle reti di PMI e l’internazionalizzazione dei distretti industriali dell’Emilia-Romagna, e in progetti di sviluppo economico finanziati dall’ONU e da altre organizzazioni internazionali.
[email protected]
83
n.3 / 2002
Patrizia Messina
Quale governance europea?
Note critiche sul Libro
Bianco della Governance
Il sestante
1
Cfr. Le Galès P.
(1998); Le Galès P.,
Lequesne C. (1998),
Crouch C., Le Galès
P., Trigilia C.,
Voelzkow H. (2001)
84
Il processo di integrazione europea sembra procedere di pari passo con il
consolidarsi del ruolo giocato dai sistemi locali subnazionali (città, regioni,
distretti industriali) e con l’affermarsi di un sistema di governance policentrico
in seno al quale interagiscono attori locali, regionali, nazionali ed europei1.
Tuttavia, solo di recente questo sistema di governance policentrico è divenuto
oggetto di studi approfonditi e di interesse per chi opera nell’ambito delle politiche pubbliche dell’UE.
Il termine “governance”, d’altra parte, entrato di recente nel lessico politico,
manca tuttavia di una definizione univoca e viene utilizzato con connotazioni
diverse e spesso incommensurabili tra loro. Proprio per questo diventa interessante analizzare come questo concetto venga utilizzato dalla Commissione europea nel momento in cui, attraverso il Libro Bianco sulla Governance, essa pone
l’idea di governance al centro della nuova politica comunitaria di integrazione
europea.
Secondo l’idea che viene proposta dal Libro Bianco, “governance”, contrapposta a “government”, indica il passaggio dalle forme gerarchiche e dirigiste di programmazione e di direzione del policy making a forme alternative di programmazione in cui prevalgono relazioni orizzontali e cooperative tra attore politico
e società civile, tra organizzazioni politiche e organizzazioni private. In questa
accezione fatta propria dalla Commissione europea, affermare l’idea della governance significa, allora, sostenere un processo di democratizzazione delle istituzioni europee e costituisce senz’altro un elemento importante di innovazione
per il processo decisionale, soprattutto nel contesto dell’Unione europea degli
anni Duemila che ha raggiunto il traguardo dell’unificazione monetaria. Questo
è ancora più vero se si pensa alla prospettiva dell’allargamento dell’UE ai paesi
dell’Europa Centro-orientale, provenienti da una storia e da una cultura di
governo, locale e nazionale, tendenzialmente dirigista e vicina a una logica di
government piuttosto che di governance.
La pubblicazione del Libro Bianco sulla Governance europea può essere letta
allora, in primo luogo, come un’autocritica interna della Commissione europea
e il riconoscimento esplicito della necessità di cambiare strategia nel “metodo
comunitario” che ha guidato finora l’integrazione europea, “adottando un’impostazione meno verticistica ed integrando in modo più efficace i mezzi di azione
Patrizia Messina
Quale governance europea?
delle sue politiche con strumenti di tipo non legislativo” (p.5). Un metodo, quello comunitario, che ha ancora molto da dare, ma che “ha bisogno di essere rinnovato” (p.37) coniugando l’azione di regolamentazione con quella di un’azione
di regolazione propriamente politica.
L’utilizzazione del concetto di governance come sinonimo di democrazia e partecipazione viene peraltro confermata dallo stesso Romano Prodi intervenuto, in
qualità di Presidente della Commissione europea, al convegno internazionale
Nation Federalism and Democracy, tenutosi a Sardagna di Trento il 5 ottobre
2001: “La forza dell’Europa è il processo di integrazione dal basso, consensuale,
senza imposizioni: quella che si dice un’Europa di minoranze e non di dominanti
(…). Non è nella mente di nessuno creare una sovrastruttura centralizzata, liberticida e nemica delle autonomie. L’idea è esattamente quella contraria: partendo
dalla valorizzazione delle diversità, procedere a strutture comuni di armonizzazione che rendano più facile, più efficiente e più efficace la crescita economica,
politica, sociale e culturale del Continente.
Se, tuttavia, è vero che questo sistema di governance policentrico europeo è una
novità inedita che risulta essere ancora inesplorata, allora va anche detto che le
definizioni che di esso possono essere date sono sintetizzabili essenzialmente in
due tipi radicalmente diversi: il primo è quello di una enunciazione a priori di
principi che dovrebbero orientare le pratiche di governo europeo ai vari livelli
territoriali e che finisce con l’assumere una accezione prevalentemente prescrittiva; il secondo è invece il risultato di una ricostruzione a posteriori dei tipi di
governance più ricorrenti, che caratterizzano di fatto le pratiche dei sistemi locali europei ed ha quindi un’accezione essenzialmente descrittiva. Nel primo caso
il concetto è definito “dall’alto”, secondo una logica neopositivista, come una categoria generale connotata da precisi requisiti, tanto più se assume una valenza
prescrittiva; nel secondo caso il concetto è invece definito, per così dire, “dal basso”, come una tipologia meno generalizzabile e comunque costruita secondo una logica costruttivista, a partire dallo studio di casi e dalle pratiche osservate
empiricamente2.
Quest’ultima definizione, tuttavia, potrà essere compiutamente data solo fra
qualche tempo e dopo ricerche specifiche sul campo. La definizione di governance fornita dal Libro Bianco non può che essere, quindi, del primo tipo, cioè
una definizione prescrittiva che individua i principi della “buona governance”
sulla base dei quali (in preparazione del Consiglio europeo di Laeken che ha
dato il via ad un più ampio processo di riforma costituzionale dell’Unione) sono
state avviate intanto diverse azioni3 con l’esplicito obiettivo di diffondere la “cultura della buona governance” nel contesto europeo. E’ in questa dimensione più
ampia e articolata che le indicazioni del Libro Bianco devono essere lette per
poter essere comprese appieno.
Il punto di partenza da cui la riflessione del Libro Bianco prende avvio è dato da
una crisi di legittimazione delle istituzioni politiche, non solo degli Stati-nazione,
ma anche e soprattutto dalle istituzioni politiche europee, percepite troppo lontane e nello stesso tempo troppo invadenti. Eventi come il “no” irlandese, la scarsa affluenza al voto e più in generale il basso profilo del dibattito che lo ha preceduto, sono tutti elementi che devono suonare come un campanello d’allarme
per l’Unione europea. Nello stesso tempo, tuttavia, come risulta da numerosi
2
Come è stato messo
in luce da Gangemi
(1999), questi due
modi di definire i
concetti non sono
politicamente neutrali, ma portano
con sé anche due
diverse concezioni
di democrazia e,
quindi, di governance.
3
Si pensi ai recenti
bandi (DG EAC
N.60/01; 2001/C
206/07) che incentivano le ong, gli enti
locali e le università
a presentare progetti-intervento che
abbiano come tema
quello della governance e della cittadinanza europea.
Poco apprezzabile è
invece il budget
destinato alla ricerca scientifica sul
tema della governance europea: solo
l’1,8 % del totale.
85
n.3 / 2002
4
Il Libro Bianco
definisce esplicitamente cosa intende
per società civile.
Essa comprende le
parti sociali (organizzazioni sindacali
e associazioni
padronali), le ONG,
le associazioni professionali, il mondo
dell’associazionismo
anche locale, con
un particolare contributo delle chiese e
delle comunità religiose. Per sottolineare “il ruolo e il contributo della società
civile organizzata
nella costruzione
europea”, si rimanda al documento
omonimo il GU 329
del 17.11.1999, p.30.
5
Entro il 31 marzo
2002 possono essere
inviate osservazioni
sul Libro Bianco
direttamente alla
Commissione al
seguente indirizzo
postale:
Libro Bianco sulla
governance.
Commissione europea. C80 05/66 Rue
de la Loi n.200 B1049 Bruxelles
86
sondaggi, i cittadini europei si aspettano che l’Unione intervenga efficacemente
per affrontare problemi di natura globale, che superano le capacità di intervento
dei singoli Stati, come per esempio i problemi ambientali, dell’occupazione, della sicurezza alimentare, della criminalità e, potremmo aggiungere oggi, del terrorismo internazionale. A questo deficit di fiducia verso le istituzioni europee, la
Commissione cerca di dare una risposta efficace presentando la sua proposta di
“riforma della governance europea” come uno dei suoi principali obiettivi strategici. Nello stesso tempo, quindi, la governance europea viene presentata sia
come obiettivo da raggiungere sia come mezzo attraverso cui tale obiettivo può
essere raggiunto, con evidenti sovrapposizioni concettuali che rischiano di pesare negativamente sul dibattito sulla governance europea.
Secondo quanto esplicitamente affermato dal Libro Bianco “il concetto di
governance designa le norme, i processi e i comportamenti che influiscono sul
modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con
riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e
coerenza” (p.9).
In primo luogo, secondo i principi di apertura e di partecipazione, le procedure
decisionali e di implementazione delle politiche devono essere più trasparenti,
più comprensibili e facili da seguire. Questo obiettivo può essere realizzato sia
attraverso la diffusione di informazioni on-line, sia rendendo pubblici i criteri di
qualità (standard minimi) da rispettare nelle consultazioni sulle politiche
dell’Unione, sia soprattutto attraverso “una più stretta interazione con le autorità regionali e locali e con la società civile” (p.5) con cui la Commissione intende
instaurare un dialogo più sistematico. A tal fine la Commissione si impegna ad
introdurre una “maggiore flessibilità nelle modalità esecutive della normativa
comunitaria, in modo da tenere conto delle specificità regionali e locali” (p.5).
Un tale cambiamento richiede una serie di azioni concertate da parte di tutte le
istituzioni europee, ma anche degli Stati membri attuali e di futura adesione,
delle autorità regionali e locali e della società civile4. Maggiore partecipazione e
coinvolgimento nel processo di policy making delle società locali significano
anche maggiore responsabilizzazione degli attori coinvolti nella costruzione
dello spazio europeo, il quale, in un regime democratico, non può essere definito esclusivamente dall’azione svolta dalle istituzioni politiche comunitarie. In
altre parole, se la legittimità dell’Unione europea dipende oggi sempre di più dal
coinvolgimento di tutti, “ciò significa che il modello lineare, secondo il quale le
politiche sono adottate ed imposte dall’alto, deve essere sostituito con un “circolo virtuoso” basato sul feedback, sulle reti e su una partecipazione a tutti i livelli, dalla definizione delle politiche fino alla loro attuazione” (p.12).
Proprio per sottolineare questo cambiamento strategico fondamentale per la
riforma della governance europea, che aprirebbe spazi di partecipazione non
solo alle reti istituzionali tra enti locali (regioni, città) ma anche a quegli attori
della società civile fin ora lasciati ai margini del processo di decision making, il
Libro Bianco si presenta essenzialmente come una proposta di riforma su cui
ognuno è chiamato ad esprimersi, comunicando il proprio parere direttamente
alla Commissione europea5.
Alla dimensione del networking europeo il Libro Bianco dedica particolare
attenzione sottolineando l’opportunità di elaborare nuove forme di relazione tra
Patrizia Messina
Quale governance europea?
le reti informali, ben radicate nelle società locali, e le istituzioni politico-ammministrative con cui le prime faticano a interagire, come l’esperienza dei Fondi
strutturali ha dimostrato, soprattutto quando si tratta di reti relativamente chiuse e poco correlate alle istituzioni politiche locali, regionali e cittadine.
Mancando il collegamento con le istituzioni europee tramite la rete istituzionale
locale, “molte di queste reti si sentono tagliate fuori dall’elaborazione politica
UE” (p.20), mentre invece potrebbero contribuire in modo decisamente efficace
al successo delle politiche dell’Unione. Per questa ragione la Commissione si impegna a definire “un’impostazione proattiva nei confronti delle principali reti, così da consentire loro di contribuire al maturare delle decisioni e all’attuazione
delle politiche” (p.20).
Rimane tuttavia da chiarire come ciò possa avvenire senza un’attenta analisi, che
non può essere fatta a priori, dei diversi tipi di reti sociali informali e della loro
diversa capacità di rapportarsi alle istituzioni politiche, locali, nazionali ed europee, e di produrre capitale sociale, misurabile anche in termini di cultura civica
e di livello di fiducia e legittimazione verso le istituzioni politiche. Come diverse
ricerche sul campo hanno messo in luce6, una maggiore conoscenza delle reti sociali informali diventa, infatti, di importanza cruciale per rendere possibile l’articolazione di tipi specifici di policies in grado di mediare tra “istituzioni formali”
e “reti informali”, evitando quell’effetto perverso che l’intervento pubblico tende
generalmente a provocare sulle reti informali, inducendole ad istituzionalizzarsi
e a burocratizzarsi.
Un aspetto altrettanto significativo della riforma della governance europea è costituito, inoltre, dal riconoscimento della necessità di operare nella direzione di
una profonda semplificazione degli atti amministrativi e del diritto comunitario
e della necessità di ricorrere a strumenti più adeguati di quanto non lo siano, in
certi casi, gli atti normativi.
Alcune questioni di grande rilevanza per il futuro dell’Unione riguardanti, per
esempio, le politiche comunitarie dell’immigrazione, le politiche ambientali e di
regolazione del mercato interno, possono essere meglio affrontate ricorrendo
alla coregolamentazione che “combina azioni vincolanti di ordine giuridico e
normativo con azioni decise, in base alla loro conoscenza ed esperienza pratiche,
dagli operatori maggiormente interessati. Ne risulta una più ampia padronanza
delle politiche in oggetto, poiché partecipano all’elaborazione e al controllo
della loro attuazione coloro che sono maggiormente coinvolti” (p.23) con il risultato di un maggiore rispetto della normativa medesima. E’ questo il caso, per
esempio, di alcune politiche per lo sviluppo locale, come le politiche agricole o
dei Fondi strutturali, che hanno dato vita alla mobilitazione di una serie di attori
locali, con la costruzione di euro-networks di fondamentale importanza per il
successo delle politiche stesse.
Lo stesso principio della semplificazione amministrativa viene ulteriormente rafforzato dal ricorso sia al cosiddetto “metodo aperto di coordinamento” che si affianca alle misure di tipo programmatico o legislativo e consiste in “un modo di
promuovere la cooperazione e lo scambio delle pratiche migliori e di concordare obiettivi e orientamenti comuni agli Stati membri” (p. 24), sia ad apposite
Agenzie di regolamentazione che offrono indubbi vantaggi rispetto agli uffici di
una pubblica amministrazione, quali “la capacità di avvalersi del know-how set-
6
Cfr. Schön D. A.
(1989), Cartocci R.
(2000), Messina P.
(2001).
87
n.3 / 2002
toriale di alto livello tecnico” (p.26), la maggiore visibilità apportata ai settori di
cui si occupano e, non ultimo, il notevole risparmio di spese per le imprese che
ne usufruiscono.
In questo ordine di idee la riforma della governance europea, si ritiene, possa
dare un contributo significativo alla governance mondiale. Molte delle idee
espresse nel Libro Bianco si prestano infatti a essere messe alla prova anche a
livello mondiale, basti pensare, per esempio, al ricorso alla coregolamentazione
per trattare alcuni aspetti della new economy e del mercato globale.
Ma il nodo più interessante su cui convergono tutti gli elementi presentati dal Libro Bianco sulla riforma della governance è costituito dal riconoscimento di una
riforma istituzionale più complessiva dell’Unione europea. Con l’introduzione
dell’Euro e l’allargamento, due avvenimenti che saranno catalizzatori di cambiamenti fondamentali, va riconosciuto che “l’Unione non è più un processo diplomatico, ma un processo democratico che incide in profondità nella realtà nazionale e nella vita quotidiana. Il Consiglio europeo deve rafforzare la sua capacità
di coordinare tutti gli aspetti dell’azione dell’Unione” (p.33). Tuttavia, perché ciò
sia possibile è necessaria una riforma istituzionale che, attraverso una modifica
dei trattati, definisca una più chiara divisione dei poteri tra legislativo (Consiglio
e Parlamento dovrebbero disporre dei medesimi poteri di controllo) ed esecutivo, permettendo così alla Commissione di assumersi la piena responsabilità dell’esecuzione. La riforma della governance, in questi termini, non preluderebbe
affatto, quindi, a un ridimensionamento della politica, per lasciare più spazio alla
regolazione del puro mercato, come da più parti si è ipotizzato (Cassen 2001),
ma piuttosto ad un suo potenziamento nei termini di una maggiore capacità di
regolazione attraverso gli strumenti di una maggiore trasparenza del processo
decisionale e di una sua apertura verso forme di partecipazione realmente democratica, ma anche con un’azione di coordinamento e di “governo della governance” che traspare in modo chiaro anche da una lettura approfondita del Libro
Bianco.
Per sapere se le proposte di riforma contenute nel Libro Bianco sulla Governance europea avranno un seguito, e se ci sarà una reale volontà politica comune
orientata nella medesima direzione di riforma istituzionale prospettata nel documento, bisognerà aspettare comunque la riforma istituzionale che, come previsto dal Consiglio europeo di Laeken, dovrebbe portare alla definizione di una
Carta costituzionale europea.
Nel frattempo possono essere individuati, tuttavia, alcuni aspetti problematici legati alle proposte del Libro Bianco, a partire dalla riforma della governance
europea.
In primo luogo, visto che, come lo stesso Libro Bianco ricorda, “non è possibile
creare una cultura della consultazione mediante norme di legge” (p.19), una
riforma della governance porta con sé un inevitabile paradosso. Se, cioè, la
governance è un processo di coinvolgimento “dal basso” degli attori locali, non
si può pensare di ordinare dall’altro di “essere spontanei e partecipativi”, senza
incorrere in uno dei classici paradossi della pragmatica della comunicazione,
noto come “ingiunzione paradossale”. Le azioni previste per una riforma della
governance dovrebbero avere, pertanto, piuttosto la funzione di creare le condizioni più favorevoli per una maggiore partecipazione “dal basso” e non certo
88
Patrizia Messina
Quale governance europea?
quella di sollecitare la partecipazione “spontanea” di soggetti che percepiscono
le istituzioni europee come troppo distanti. Per la stessa ragione, non si può pensare di poter potenziare effettivamente una forma di partecipazione dal basso
predisponendo i canali di accesso e di comunicazione politica in modo predefinito e tendenzialmente rigido. Ecco perché una definizione solo prescrittiva di
governance sembra essere la meno adatta a questo scopo.
Inoltre, se la principale finalità del Libro Bianco è quella di diffondere la cultura
della governance nei processi di policy making, sottolineando i vantaggi e il
sistema di vincoli e opportunità ad essa correlati, diventa allora altrettanto
importante non ricadere in una divulgazione semplificata e distorta del processo
di governance che, per poter essere compreso e reso efficace, deve essere calato nel contesto culturale, socioeconomico e relazionale dei diversi sistemi locali, in una parola, nei sistemi concreti di azione in cui tale processo viene implementato, riuscendo a distinguere, per esempio, tra diverse tipologie di reti informali. Da qui la difficoltà di definire la governance europea in modo univoco e
generalizzabile, specialmente se si intende partire, effettivamente, dalla pluralità
multiculturale, spesso incommensurabile, dei sistemi locali.
Detto in altri termini, se la governance viene definita a priori o, se si preferisce,
“dall’alto”, come propone il Libro Bianco, essa si presenta allora, più probabilmente, come una proposta di “governo della governance”: che cosa la governance sia nella pratica dei sistemi locali europei può essere detto, infatti, solo
dalle azioni realizzate dalle società locali nel corso del tempo.
Se invece si intende definire la governance come il risultato, seppure auspicabile, di un processo di democratizzazione dello spazio europeo, costruito a posteriori e dal basso, cioè a partire dai sistemi locali e dai nuovi movimenti e non più
dalla mera azione diplomatica delle istituzioni europee, allora bisognerebbe passare al più presto da una definizione prescrittiva, che rischia di precostituire
canali di accesso troppo rigidi per le nuove forme di partecipazione (contravvenendo così ad uno degli obiettivi fondamentali dello stesso Libro Bianco), ad una
definizione costruttivista, più partecipativa, che davvero lasci adeguato spazio
alle nuove forme di partecipazione politica, per potersi esprimere attraverso
canali di accesso da ripensare insieme ai nuovi e vecchi attori della politica locale e nazionale.
In conclusione, all’interno di ciò che il Libro Bianco chiama “governance europea”, possono essere individuate almeno due componenti diverse, che coesistono nella stessa definizione di governance che il documento fornisce, ma che
andrebbero invece opportunamente distinte:
a) la prima è un’azione di partecipazione democratica, di cooperazione, a partire da quegli attori della società civile europea che sono in grado di contribuire,
dal basso, alla costruzione dello Spazio europeo;
b) la seconda è un’azione di governo della governance, di coordinamento o, se
si preferisce, di regolazione politica, svolta da un centro politico europeo (quindi sovranazionale) legittimato ad assumersi tale funzione.
A questo punto, una distinzione di tipi logici delle forme di regolazione politica
sembra essere quindi di fondamentale importanza per non generare equivoci ed
obiezioni inevitabili che, facendo coincidere il processo di governance con la
partecipazione dal basso, a partire dalla “società civile organizzata”, senza tener
89
n.3 / 2002
conto del ruolo giocato dall’attore politico, rischierebbero, da un lato, di mettere in secondo piano proprio il ruolo politico di un centro decisionale in grado di
garantire il governo della governance, finendo con l’indebolire nei fatti proprio
ciò che si sostiene di voler rafforzare (Cassen 2001). D’altra parte, una mimetizzazione e una scarsa visibilità della funzione di “governo della governance”, esercitata comunque dalle direttive della Commissione europea sotto forma di regolamentazione, come accade per esempio negli ambiti di alcune politiche per lo
sviluppo locale (Sacerdoti 2001) attraverso la definizione di precisi parametri
standard di sviluppo (regolamentazioni per le produzioni Doc; per la definizione delle Regioni di eccellenza; per le Aree Obiettivo, ecc.) rischia di costituire un
pericolo ancora maggiore per la costruzione di uno spazio europeo effettivamente rispettoso delle differenze locali e delle pari opportunità dei territori. In
altre parole, se la governance europea per lo sviluppo locale finisse con il diffondere uno “standard europeo” di regolazione dei sistemi locali che in alcuni
casi potrebbe risultare anche fortemente incoerente con il modo di regolazione
locale (Solari 1997), gli effetti potrebbero essere, nei fatti, anche devastanti per
lo sviluppo di alcuni sistemi locali.
In questa prospettiva, se si vogliono evitare effetti perversi della riforma della
governance europea, la distinzione tipologica tra diverse forme di governance,
non solo a livello europeo, ma anche a livello locale (Messina 2001), diventa di
fondamentale importanza e, in questo senso, il contributo che può essere dato
dalla ricerca sul campo diventa senza dubbio di rilevanza fondamentale e imprescindibile.
Riferimenti bibliografici
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Bianco, Bruxelles, 25 luglio 2001 - COM (2001) 428.
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civile organizzata nella costruzione europea, GU 329 del 17.11.1999, pp. 13
Cartocci R. (2000) “Chi ha paura dei valori? Capitale sociale e dintorni”, in Rivista
Italiana di Scienza politica, n.3, pp.423-74.
Cassen B. (2001), “Il tranello della governance”, in Le Monde Diplomatique”, giugno.
Crouch C., Le Galès P., Trigilia C., Voelzkok H. (2001), Local Production Systems
in Europe: Rise or Demise?, Oxford: Oxford University Press.
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Gangemi G. (1999), Metodologia e democrazia. La comunicazione attraverso
metafore, concetti e forme argomentative, Milano: Giuffrè.
Messina P. (2001), Regolazione politica dello sviluppo locale. Veneto ed Emilia
Romagna a confronto, Torino: Utet.
90
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dell’innovazione a livello locale”, working-paper presentato al Seminario di ricerca Sistemi locali e spazio europeo: le politiche dell’Unione europea per
l’innovazione, Università di Padova, DSSP, 3 dicembre.
Schön D. A. (1989), “L’intervento pubblico sulle reti sociali informali”, in Rivista
trimestrale di Scienza dell’amministrazione, n.1, pp.3-47.
Solari S. (1997), “Informazione, co-evoluzione e regolazione economica”, in E.
Benedetti, M. Mistri, S. Solari (a cura di), Teorie evolutive e trasformazioni
economiche, Padova: Cedam, (pp.213-30).
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D. (1971) Pragmatica della comunicazione umana, Roma: Astrolabio.
Patrizia Messina è ricercatrice di Scienza politica presso il Dipartimento di Studi
storici e politici dell’Università di Padova, dove insegna Governo locale e Sistemi
locali e spazio europeo. Fra le pubblicazioni recenti, il volume Regolazione politica dello sviluppo locale. Veneto ed Emilia Romagna a confronto, UTET libreria 2001.
[email protected]
91
Francisco Leita
Natura e portata della Carta
dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea
Il sestante
L’analisi e la valutazione dal punto di vista giuridico, nel caso di un documento
quale la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, comportano, per un
verso, un riferimento alla forma nella quale esso è racchiuso, e, d’altro lato, una
considerazione della sua sostanza, cioè del contenuto delle disposizioni in cui
esso si articola. Le conclusioni raggiunte con riferimento a entrambi questi aspetti della questione, poi, dovrebbero ricevere una qualche conferma dalla risposta
a cui si pervenga in relazione all’ulteriore problema dei mezzi sanzionatori disponibili in caso di violazione dei diritti in essa proclamati.
Quanto all’aspetto formale, la laconica conclusione del Consiglio europeo di
Nizza (7-9 dicembre 2000) nel senso che “la questione della portata della Carta
sarà esaminata in un secondo tempo” già autorizza ad escludere qualsiasi effetto
obbligatorio di questa. Ed in effetti, simile constatazione trova piena conferma
nella circostanza che la formula scelta per l’adozione del testo, alla fine, è stata
quella di una “Proclamazione solenne” da parte del Parlamento europeo, del
Consiglio e della Commissione.
Questa veloce quanto inoppugnabile constatazione non esime tuttavia da una
considerazione del problema più vasto di che cos’altro potrebbe (o potrà) essere la Carta nell’ambito del diritto dell’Unione europea. Tanto più ora che, con la
Dichiarazione di Laeken, conclusiva del Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre
2001, più pressante si è fatto il discorso su di una “costituzione per i cittadini europei”. In effetti, in vista di tale risultato, in questo recente documento non solo
si predispongono mezzi (una apposita Convenzione) e si determinano tempi (la
prossima Conferenza intergovernativa), ma, per quanto riguarda il nostro problema, chiaramente si indica l’esigenza di “riflettere sull’opportunità di inserire
la Carta dei diritti fondamentali nel trattato di base”. Accanto a questa prospettiva che potrebbe dirsi “naturale” in quanto ispirata all’idea della costruzione per
gradi dell’Unione europea, e che consisterebbe nell’includere la Carta nello stesso Trattato sull’Unione europea, vi sarebbe la possibilità, certo di più difficile
realizzazione, di versare il suo contenuto in un “testo costituzionale” da adottarsi a termine “nell’Unione”, come pure ipotizza fugacemente la stessa
Dichiarazione di Laeken.
Occorre tuttavia considerare la possibilità che la scelta sul come dotare di forza
cogente la Carta dei diritti fondamentali si risolva alla fine all’interno del Trattato
93
n.3 / 2002
istitutivo della Comunità europea, dal momento che lo stesso documento conclusivo del Consiglio europeo del dicembre 2001 lascia aperta la questione se
debba “essere riveduta la distinzione fra Unione e Comunità”, e quindi “la suddivisione in tre pilastri” e, d’altra parte, pone ancora una volta “il quesito dell’adesione della Comunità europea alla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti umani”, con ciò (apparentemente) escludendo che anche l’Unione, in
quanto soggetto a se stante possa mai soggiacere alla competenza degli organi
di Strasburgo per la salvaguardia dei diritti umani.
Comunque sia, ed evitando per ora valutazioni circa i mezzi internazionali disponibili od anche solo ipotizzabili per garantire l’osservanza della Carta nell’ambito comunitario, vanno qui considerate le conseguenze della possibile inserzione della Carta nel Trattato (sull’Unione europea), o addirittura della sua eventuale fusione in un (nuovo) trattato-costituzione. Infatti, essa da un lato finirebbe per svolgere la funzione – tipica delle “Dichiarazioni dei diritti (e dei doveri)
dei cittadini” con cui solitamente si aprono le moderne costituzioni statali – di
istituire un ambito immune dall’esercizio delle competenze (o dei poteri) delle
istituzioni (in questo caso europee) di governo; la cui ampiezza corrisponderebbe a quella riconosciuta ai diritti fondamentali dell’uomo.
D’altro lato, l’inclusione della Carta dei diritti fondamentali nel trattato dell’Unione europea, avrebbe anche il significato di impegnare le stesse istituzioni a
promuoverne l’applicazione e a garantirne l’osservanza. Verrebbe quindi da pensare che, ove la Carta assumesse portata obbligatoria, la sfera delle competenza
delle istituzioni dell’Unione forzatamente verrebbe a modificarsi in modo da
comprendere i poteri necessari per garantire i diritti fondamentali.
Ma, occorre dire, le menzionate funzioni, per un verso di limite e per altro verso
di promozione dell’azione delle istituzioni dell’Unione europea – comprese,
beninteso, quelle della Comunità, in quanto fanno parte anch’esse del quadro
istituzionale (unico) dell’Unione – sono già svolte dall’articolo 6 paragrafo 2 del
Trattato, il quale, com’è noto, dichiara l’impegno dell’Unione a rispettare i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea sui diritti umani
e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.
Certo, si potrebbe ciò nonostante pensare che la Carta, in quanto contiene
anche diritti fondati nel diritto dell’Unione, sia chiamata a svolgere la funzione di
rendere per così dire immodificabili questi (altri) diritti ad opera delle istituzioni, erigendoli a (ulteriore) parametro di legittimità degli atti delle istituzioni
medesime. Ma anche in questo caso, la proclamazione nella Carta di simili diritti o libertà prettamente comunitarie – si pensi alla libertà di circolazione – e l’eventuale sua inclusione nei Trattati, sarebbe soltanto una maniera per ribadire
ciò che già è nel diritto comunitario, o se si vuole nella struttura stessa del mercato interno, e quindi, in definitiva, dell’Unione, che su di esso si fonda.
Altrettanto vale in relazione alla possibile attribuzione di forza cogente alla Carta
nei riguardi degli Stati membri, dato che essi, indipendentemente dalla costituzionalizzazione della Carta stessa, risultano comunque tenuti al rispetto in quanto principi generali del diritto comunitario dei diritti fondamentali dei cittadini
dell’Unione (che non siano già garantiti dalle loro rispettive costituzioni o da
appositi strumenti internazionali), non solo quando agiscano in veste di agenti
del diritto comune, ma anche quando la loro azione non sia meramente appli-
94
Francisco Leita
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE
cativa di atti delle istituzioni, ma si fondi sul principio di sussidiarietà.
Ciò detto con riferimento alla possibile attribuzione di valore cogente alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è possibile svolgere alcune considerazioni sul suo contenuto.
Sotto questo profilo, va in primo luogo segnalato che la Carta riafferma “i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati
comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal
Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte
di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti
dell’uomo”.
Questo dichiarato intento di recepire l’acquis europeo e internazionale in materia viene poi ribadito dal paragrafo 3 dell’art 52 della Carta, che si preoccupa di
rendere ancor più certa l’equivalenza fra i diritti già garantiti da altri strumenti
internazionali e quelli da essa stessa proclamati, chiarendo che per i diritti “corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione”.
Peraltro, questa vera e propria ricezione di uno standard di protezione dei diritti fondamentali, affermatosi per così dire al di fuori del diritto comunitario, non
preclude la protezione più estesa che ad essi eventualmente accordi il diritto dell’Unione (articolo 52, paragrafo 3, ultima proposizione), né il riconoscimento di
diritti “che trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione
europea”. Ma l’articolo 52 paragrafo 2, chiarisce che questi ultimi “si esercitano
alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi”, e ciò potrebbe far pensare
che il loro esercizio può essere in qualsiasi occasione ristretto mediante modifica del Trattato e, in definitiva, indurre dubbi sul loro carattere “fondamentale” o,
se si vuole, “costituzionale”. Tuttavia, come si è anticipato, anche se non si deduce il carattere “fondamentale” di questi diritti dall’esigenza di assicurare quell’ambito di immunità che corrisponde alle prerogative della persona umana, la
loro intangibilità nell’ambito normativo comunitario dovrebbe comunque ritenersi assicurata dalla circostanza che essi, in quell’ambito, vengono già riconosciuti in quanto connessi alle finalità stesse dei trattati in questione. Così, ad
esempio, il “diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri” riconosciuto dall’articolo 45 della Carta ad ogni cittadino dell’Unione, è sicuramente esistente nell’ambito comunitario indipendentemente
da questa sua ulteriore proclamazione, in quanto presupposto indispensabile
tanto del mercato interno, realizzatosi alla stregua del trattato comunitario,
quanto dello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, la cui istituzione rientra tra
le finalità perseguite dal Trattato sull’Unione.
Certo è che i redattori della Carta in nessun modo hanno inteso istituire nuovi
diritti rispetto a quelli che il processo di integrazione ha sin qui indotto, e pertanto hanno voluto precisare (nel paragrafo 2 dell’articolo 51) che essa “non
introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione,
né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”. Evidentemente questa disposizione è destinata a valere nel caso che si scelga di inserire la Carta nel
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n.3 / 2002
trattato di base, ma perderebbe ogni funzione se la Carta rimanesse un documento privo di valore vincolante.
Rimangono pertanto come delimitati entro l’ambito di ogni ordinamento nazionale, il riconoscimento stesso e l’ampiezza del diritto alla salute (articolo 35) o
simili che vengono proclamati “alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi
nazionali”, in quanto la loro effettiva salvaguardia non rientra pienamente nelle
competenze delle istituzioni comunitarie. E’ chiara qui la preoccupazione di evitare che un riconoscimento per così dire pieno di simili diritti a livello comunitario, possa tradursi in un trasferimento di competenze alle istituzioni comunitarie in settori in cui gli Stati membri hanno fino ad ora tenacemente difeso le
proprie prerogative.
In altri casi, il diritto riconosciuto dalla Carta sembrerebbe avere un contenuto
determinato dal diritto comunitario derivato, sicché, più che una vera e propria
proclamazione di un attributo da riconnettersi in ogni caso alla dignità umana,
esso appare come il frutto di una scelta politica: tale la libertà di circolazione e di
soggiorno dei cittadini dei paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di
uno Stato membro, la quale “può essere accordata, conformemente al trattato
che istituisce la Comunità europea” (articolo 45, paragrafo 2).
Resta da dire della problematica qualificazione di alcune disposizioni, quale quella dell’articolo 37, relativa alla tutela dell’ambiente (ma un discorso simile vale
per altre disposizioni quale quella dell’articolo 38, relativa alla protezione dei
consumatori), in cui la Carta, più che attribuire un vero e proprio diritto che
possa farsi valere nei confronti dell’autorità (in questo caso comunitaria) regolatrice della materia, più propriamente indica un certo standard o livello che debbono presentare le politiche dell’Unione. E’ evidente, in questi casi, come la
mancata menzione del beneficiario (il cittadino, l’individuo legalmente residente in uno Stato membro), oppure l’indeterminatezza del parametro al quale
devono essere informate le politiche dell’Unione, si traducono in una sostanziale impossibilità per chiunque di far valere un qualsiasi diritto a una data azione o
a una determinata misura.
Se dunque, per i motivi descritti, molto disuguali appaiono fra di loro le disposizioni della Carta quanto a precisione e latitudine con le quali si proclamano i vari
diritti, conviene analizzare finalmente se ciò si ripercuote nella effettività delle
misure disponibili per garantirne il rispetto.
A questo proposito e in termini generali occorre soltanto precisare che, anche a
volere prefigurare il valore cogente della Carta, nessun meccanismo apposito viene predisposto per sanzionare eventuali violazioni dei diritti in essa proclamati.
In questa prospettiva, rimarrebbero pertanto esperibili gli stessi mezzi attualmente disponibili, e specialmente l’annullamento, ad opera della Corte di giustizia delle Comunità europee, dell’atto delle istituzioni che risulti illegittimo in
quanto concreti una violazione di uno dei diritti fondamentali. Ma tale risultato,
come è noto, è tipico del sistema comunitario, e non riguarda gli atti dell’Unione. Da qui la conclusione che la ricezione della Carta nel trattato di base dovrebbe comportare un’espansione delle possibilità di controllo giurisdizionale
della legittimità degli atti del diritto dell’Unione da parte della Corte di giustizia.
D’altra parte, dirigendosi le disposizioni sostanzialmente “alle istituzioni dell’Unione” neppure i meccanismi di garanzia esistenti in seno agli ordinamenti
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Francisco Leita
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE
nazionali potrebbero essere a questo fine attivati. Inoltre, per effetto di quanto a
suo tempo rilevato circa la sostanziale incompetenza degli Stati ad agire per il
rispetto dei diritti sanciti nella Carta, risulterebbe del tutto improbabile che una
ricezione nel Trattato sull’Unione europea di tali diritti comporti la disponibilità
della sanzione (la sospensione di alcuni dei diritti derivanti dal trattato) che l’articolo 7 del trattato stesso riserva agli Stati membri che si rendano responsabili
di una violazione grave e persistente del principio del rispetto dei diritti fondamentali.
Si è già detto della questione, tuttora irrisolta, della accettazione della competenza della Corte europea dei diritti umani in relazione alle violazioni dei diritti
contenuti nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Evidentemente, la garanzia fornita da questo strumento esterno rispetto al sistema dell’Unione dipende dall’accettazione della convenzione medesima, ma significativamente, come si è rilevato, la Dichiarazione di Laeken sembrerebbe solo riferirsi alla possibilità che ciò avvenga da parte della Comunità
europea, escludendo evidentemente di chiamare in causa per questa via la
responsabilità internazionale dell’Unione.
Ma anche con riferimento alla Comunità, l’eventuale accettazione non potrebbe
portare all’ammissibilità di ricorsi alla Corte di Strasburgo per la violazione di
diritti fondamentali non inclusi nella Convenzione europea, e precisamente di
quelli che si fondano sul diritto dell’Unione.
Suggerimenti per la lettura:
Lenaerts K. and De Smijter E. E. (2001), “A «bill of rights» for the European
Union”, in Common Market Law Review, vol. 38, pp. 273-300.
Liisberg J. B. (2001), “Does the EU Charter of Fundamental Rights threaten the
supremacy of Community Law?”, in Jean Monnet Working Papers, No. 4/01,
si veda il sito http://www.jeanmonnetprogram.org.
Lord Goldsmith Q.C. (2001), “A Charter of rights, freedoms, and principles”, in
Common Market Law Review, vol. 38, pp.1201-1216.
Lugato M. (2001), “La rilevanza giuridica della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea”, in Rivista di diritto internazionale, pp.1009-1025.
Maastricht Journal of European and Comparative Law (2001), Special issue:
European Charter of Fundamental Rights, Vol.8, Number 1, pp.3-114.
Panebianco M. (2001), “Verso una “Costituzione” comune dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, pp.
730-744.
Francisco Leita è titolare di Cattedra Jean Monnet in Diritto europeo. Insegna
Diritto degli scambi internazionali nella Facoltà di Scienze politiche
dell’Università di Padova e International Law of Human Rights nell’European
Master’s Degree in Human Rights and Democratisation, presso la stessa
Università. E’ autore di saggi su diversi temi: l’uso della forza nel diritto internazionale, i meccanismi internazionali di tutela dei diritti umani, la cittadinanza italiana, il trattamento degli stranieri in Europa.
[email protected]
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n.3 / 2002
Stefano Palombarini
Moneta unica e formazione
del consenso: verso un
governo europeo?
Il sestante
Un invito alla ricerca
Se un merito può essere fin d’ora attribuito all’euro, è quello di avere mostrato i
limiti del programma di ricerca della scienza economica. Gli strumenti e la struttura di ragionamento della disciplina sono essenzialmente orientati verso un
obiettivo specifico, quello di fornire valutazioni di scelte ed azioni in termini d’efficienza, ossia di congruità rispetto all’ideale della parsimonia tradotto in una
forma particolare di razionalità (quella economica, appunto). La scienza economica è finalizzata a fornire indicazioni per l’azione: per un obiettivo dato, seleziona tra le vie possibili per raggiungerlo quella meno dispendiosa. La teoria
monetaria non fa eccezione da questo punto di vista. Basti pensare che a lungo
i dibattiti sull’euro hanno fatto riferimento alla teoria della zona monetaria ottimale, che già nel nome porta il segno della propria finalità normativa.
La lettura di un qualsiasi quotidiano dimostra però che il problema dell’efficienza economica è completamente marginale nel passaggio dalle monete nazionali
a quella unica europea; tanto è vero che il dibattito sulla gestione futura dell’euro (moneta forte o debole? strumento al servizio di strategie competitive aggressive verso Stati Uniti e paesi asiatici o della stabilità interna e della lotta contro
l’inflazione?) è lontano dall’aver prodotto la convergenza verso posizioni unitarie e resta tutto sommato relegato in secondo piano. Il motivo è presto detto:
l’indicazione normativa sulla gestione efficiente delle risorse che struttura la
scienza economica positivamente intesa (vale a dire la pratica dominante tra gli
studiosi di economia) presuppone un interlocutore politico - il responsabile
della gestione di quelle risorse - che qui molto semplicemente è assente. Le
sagge e sofisticate indicazioni dei consiglieri del Principe sulla oculata gestione
delle risorse pubbliche non interessano nessuno se il Principe non c’è e le risorse sono gestite da dodici, quindici o più feudatari indipendenti. Si legga l’intervista a Giuliano Amato, immediatamente successiva al vertice di Laeken e pubblicata da la Repubblica del 17 dicembre 2001. “Già da tempo la sfera delle decisioni comunitarie stava diventando sempre più una sfera interamente intergovernativa nella quale si arriva al consenso non quando è stata trovata una soluzione comune, ma solo quando sufficienti brandelli di interessi nazionali sono
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Stefano Palombarini
Moneta unica e governo europeo
stati soddisfatti: un minimo comune denominatore sempre al di sotto di ciò che
sarebbe necessario. Ma ora va anche peggio: il conflitto tra gli interessi nazionali non consente più nemmeno di arrivare a quel già insoddisfacente minimo
comun denominatore.”
E’ del tutto evidente che il problema centrale per i dirigenti europei nel momento in cui il passaggio all’euro diventa visibile per tutti i cittadini dell’Unione non
è quello dell’efficienza economica, questione che prenderà senso politico e non
semplicemente teorico solo se e quando esisterà una struttura di governo con
sovranità piena sul territorio europeo; ma appunto quello del potere politico,
della sovranità nel senso letterale di identificazione del sovrano. Non inganni il
fatto che nel dibattito sulla riforma delle istituzioni europee la titolarità della politica monetaria sia formalmente assente, il che si deve unicamente a ragioni di
opportunità. La gestione della moneta in assoluta indipendenza da parte della
Banca Centrale Europea è oggetto di una delega da parte di un potere politico
che andrà ricomposto e tendenzialmente unificato se non si vuole vedere morire l’euro ancora in fasce. Il controllo della moneta è infatti in ogni caso riconducibile al sovrano, che certo ha facoltà di delegarne l’esercizio ad un organismo
indipendente; ma la delega può sempre e comunque essere ritirata o sospesa. Si
pensi alla Bundesbank, banca centrale indipendente per antonomasia e il cui statuto ha ampiamente ispirato quello della Bce, e a come essa sia stata obbligata a
piegarsi alla volontà dell’autorità politica nel momento in cui si è trattato di decidere il tasso di cambio tra le monete delle vecchie germanie orientale e occidentale o di rinunciare al marco. E’ per questo che il problema del potere politico in Europa è assolutamente centrale anche rispetto alle questioni monetarie.
La vulgata secondo la quale la politica monetaria sarebbe con l’euro definitivamente sottratta dall’ambito discrezionale della scelta politica non corrisponde al
vero: anche in assenza di un governo europeo vi è inevitabilmente un controllo
politico sulla Bce. E’ corretto invece pensare che nella attuale situazione di frammentazione del potere non esista un attore politico in grado di interloquire con
la Banca e condizionarne le decisioni, e questo implica che le modalità d’esercizio del controllo politico su di essa siano ridotte ad una sola: la minaccia, esercitabile da ciascuno degli stati che condividono la moneta unica, di ritiro puro e
semplice della delega alla Bce e di ritorno alle valute nazionali. Il che implicherebbe evidentemente il collasso dell’euro, nel caso a far defezione fosse un
“grande” paese come la Francia o la Germania, o quanto meno una crisi gravissima della costruzione europea.
Il problema di un governo europeo si pone dunque con forza, non solo e non
tanto per l’esigenza di un contrappeso politico all’azione dei banchieri europei,
quanto per la sostenibilità stessa del nuovo regime monetario. Chi pensa a
moneta e politica come a due sfere distinte dimentica che la moneta, quali ne
siano i modi di gestione, è sempre e in ogni caso strumento della politica.
La scienza economica non ha dunque molto da rispondere alle tante domande
che si aprono in una fase del tutto inedita della costruzione europea, fase che
implica una rottura di continuità rispetto alle dinamiche precedenti.
L’integrazione è avanzata infatti per un effetto “palla di neve” deliberatamente
perseguito dagli europeisti più convinti: le politiche comunitarie in ambito energetico hanno obbligato a trovare accordi anche in materia di agricoltura, ma le
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n.3 / 2002
intese in questo ambito hanno spinto anche a politiche industriali comuni eccetera. La discontinuità logica e pratica in questo tipo di dinamica viene dal fatto
che, in presenza di una moneta comune, non si tratta più di delegare alle istituzioni comunitarie l’esercizio di un potere politico di cui si mantiene la titolarità,
ma appunto eventualmente di ridefinire il profilo della sovranità.
Eventualmente, perché non è affatto detto che questo passo ulteriore sarà compiuto. Anzi, nel momento dell’abbandono delle monete nazionali si deve registrare il paradosso di un’integrazione politica che è praticamente ferma da anni.
La scienza economica non ha molto da dire in proposito, perché appunto la questione decisiva non è quella dell’efficienza, ma del potere politico. Bisogna cioè
valutare come l’euro giocherà sugli specifici meccanismi di formazione del consenso in ciascun paese, riconoscendo che in linea teorica due possibilità sono
aperte: quella di una dinamica virtuosa che generi non solo la consapevolezza,
ma anche l’interesse politico alla creazione di un governo europeo, e quella di
un movimento contraddittorio, nel quale l’euro sia percepito come un ostacolo
alla riproduzione degli equilibri politici e venga dunque contestato o addirittura
abbandonato.
In una ricerca di questo tipo, la dimensione nazionale mantiene una propria rilevanza per due motivi fondamentali.
In primo luogo, l’euro avrà effetti asimmetrici, condizionati da configurazioni
istituzionali che differiscono fortemente tra i singoli stati dell’Unione Europea. In
termini molto generali, la scienza economica più sensibile all’analisi dei dati di
realtà segnala che in seguito all’introduzione dell’euro difficoltà saranno possibili, in particolare per le organizzazioni produttive orientate verso la produzione di
beni di scarsa qualità la cui competitività è legata essenzialmente al fattore-prezzo. Facciamo riferimento in particolare alla letteratura sui modelli di capitalismo, che da tempo contesta che si possa pensare alla organizzazione capitalista
come ad una configurazione socio-economica unitaria che struttura tutte le economie di mercato. Contrariamente alla teoria neoclassica, che sostiene la superiorità di un modello concorrenziale ispirato alle economie anglosassoni su tutti
gli altri, si afferma invece la pluralità delle fonti di competitività, e quindi la possibilità per capitalismi strutturati da logiche eterogenee di riprodursi anche in un
contesto di globalizzazione e quindi di competizione internazionale crescente.
Anzi, ispirandosi alla teoria del commercio internazionale di Ricardo, la letteratura sulla varietà dei capitalismi sottolinea che l’internazionalizzazione potrebbe
rinforzare le diversità anziché cancellarle.
L’Europa è in qualche modo un condensato di questa potenziale diversità: nel
continente coesistono il capitalismo inglese, che tende ad affidare al mercato la
gestione dell’insieme dei meccanismi della regolazione socio-economica, quello
francese, nel quale il settore pubblico ha invece giocato storicamente un ruolo
determinante, il capitalismo socialdemocratico dei paesi scandinavi, con il ruolo
decisivo nelle associazioni degli interessi e dei negoziati triangolari, quello renano, con le pratiche della cogestione ed un intervento pubblico ampiamente
decentrato ad orientare le dinamiche concorrenziali. Parafrasando Ricardo, si
sostiene che ciascun modello ha risorse istituzionali specifiche, e quindi vantaggi competitivi comparati per determinati tipi di produzione, nei quali tenderà a specializzarsi. La spinta verso riforme di stampo liberista in ambito fiscale,
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Stefano Palombarini
Moneta unica e governo europeo
educativo e formativo, lavoristico eccetera, che tendono a generalizzare un tipo
specifico di capitalismo, quello strutturato dalla logica concorrenziale, sarebbe
allora il frutto di un progetto politico e non di una necessità economica. Tesi del
tutto opposta a quella dei molti che associano passaggio alla moneta unica e ineluttabilità delle riforme sistemiche di marca liberista.
Ma qui appunto la scienza economica, anche quella più idonea a produrre interpretazioni pertinenti della realtà e non semplici indicazioni normative, compie
l’ultimo passo di cui è capace e scopre il suo limite. L’economia neoclassica svolge il ruolo succube di rivestire di scientificità il progetto politico liberista, che fa
dell’economia concorrenziale anglosassone il modello unico di capitalismo, sola
configurazione sociale ed economica compatibile con gli imperativi della competitività all’epoca della globalizzazione; ma perché tale progetto abbia assunto
tanta forza e le riforme di tipo liberista siano andate generalizzandosi nonostante si possa fondatamente contestare il loro contributo all’efficienza economica, e
nonostante i disastri sociali prodotti in Russia, Messico, Argentina eccetera, l’economia critica non è in grado di dire. Questo limite è lo stesso che condiziona
gli studi critici sul passaggio alla moneta unica che restano ancorati alla sola disciplina economica: è certo importante segnalare gli effetti asimmetrici dell’euro
sui diversi modelli di capitalismo ed i rischi d’implosione della costruzione europea, ma tali rischi non possono essere correttamente valutati se non si abbandona l’ottica dell’efficienza economica e si pone al centro dell’analisi la dimensione politica dei processi in atto.
Vi è dunque un enorme spazio da occupare per una ricerca che si dia per obiettivo l’analisi in termini politico-economici dell’introduzione della moneta unica
in Europa. Ricerca che più che interdisciplinare dovrebbe essere condotta rompendo le barriere tra le diverse scienze sociali. Non si tratta infatti tanto di moltiplicare i punti di vista sull’euro, quanto di costruirne uno nuovo. E’ certo
importante prendere in considerazione l’avviso di economisti, sociologi, politologi eccetera, ma l’ambizione è quella di pensare insieme le conseguenze che
l’euro avrà sui processi di accumulazione e ripartizione della ricchezza (la sfera
economica) e di accumulazione e ripartizione del potere (la sfera politica), processi intimamente correlati e indissociabili.
La seconda ragione per la quale la dimensione nazionale resta decisiva per una
ricerca di questo tipo è che il circuito dell’accumulazione politica, vale a dire il
legame circolare tra l’azione di politica economica, il suo impatto sugli interessi
materiali e la formazione del consenso politico ed elettorale si chiude a livello di
ciascun paese. E’ questo meccanismo che va indagato per dare conto della scelta di abbandono delle monete nazionali. Non è affatto detto che tale scelta
risponda ad identiche motivazioni nei diversi paesi, anzi si deve supporre che
essa sia il prodotto di strategie politiche diverse seppur convergenti. La ricerca
dovrebbe dunque in primo luogo identificare le coalizioni di interessi che in ciascun paese si sono formate attorno all’obiettivo del passaggio all’euro. Inoltre, è
sul circuito dell’accumulazione politica che andrà ad incidere nei diversi stati
nazionali la moneta unica, inducendo effetti probabilmente diversi che potranno
variare nell’ampio ventaglio che va dalla scelta di trasferire parte della sovranità
alle istituzioni comunitarie sino al possibile rigetto dell’euro e alla riappropriazione nazionale della politica monetaria.
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n.3 / 2002
La varietà degli esiti possibili deriva dalla diversità delle forme istituzionali che
strutturano i meccanismi dell’accumulazione e della ripartizione del potere e
della ricchezza nei diversi paesi, giocando su ciascuno dei tre passaggi del legame circolare tra politica economica, dinamica macroeconomica e formazione del
consenso.
- L’impatto della politica economica sull’insieme delle dinamiche macroeconomiche è mediato dalle modalità di organizzazione dei sistemi finanziari e produttivi, che variano fortemente all’interno dei confini dell’Unione: come abbiamo già sottolineato, non esiste alcun modello europeo di organizzazione della
produzione comune ai paesi che partecipano alla moneta unica. Nonostante la
diffusione crescente di riforme ispirate alle economie anglosassoni, restano fortissime specificità sia nei diversi segmenti della catena di creazione del valore
(dai processi d’innovazione e ricerca all’organizzazione del lavoro, dalla specializzazione produttiva al finanziamento delle imprese) che nell’ambito più generale della regolazione socio-economica (dai sistemi educativi e di formazione
della manodopera al peso e al ruolo delle associazioni degli interessi, dal sistema
pensionistico e di copertura sociale al concetto stesso di legittimità dell’intervento pubblico nell’economia).
- Gli esiti macroeconomici dell’azione pubblica forniscono una risposta ad interessi sociali che all’interno di ciascun paese sono eterogenei e contraddittori. In
primo luogo, il profilo della struttura sociale varia fortemente da un paese all’altro: gli interessi in gioco non sono gli stessi ovunque. Inoltre, la presenza di un
interesse socio-economico non implica automaticamente il formarsi di una
domanda politica ad esso collegata: le domande politiche sono non solo radicate in contesti sociali che differiscono fortemente all’interno dell’Unione, ma
anche frutto di processi identitari culturalmente, ideologicamente e storicamente condizionati, riconducibili a fattori che trovano per lo più nella dimensione
nazionale l’ambito di studio pertinente.
- Le stesse modalità di traduzione del grado di soddisfacimento delle domande
politiche in termini di consenso elettorale e di ripartizione del potere politico
differiscono poi fortemente, poiché non v’è stata alcuna convergenza europea
nell’ambito delle forme statali e neppure in quello più limitato dei sistemi elettorali. L’azione pubblica mira in ogni caso a selezionare e soddisfare talune
domande politiche, aggregando compromessi sociali che possano sostenerla e
convalidarla, ma è ovvio ad esempio che in un sistema presidenzialista lo snodo
fondamentale del processo di accumulazione politica sia costituito dall’elezione
del presidente, e che sia importante per i responsabili politici scegliere strategie
che producano in quel momento il massimo del consenso elettorale. Allo stesso
modo, il sistema dei partiti ed il sistema elettorale (per nulla simili nei paesi europei) sono fattori essenziali per determinare lo spazio delle strategie accessibili a
ciascun attore politico: ad esempio, in un sistema bipolare maggioritario per ciascun schieramento l’essenziale è aggregare un compromesso sociale il più ampio
possibile, non così in un sistema multipolare a scrutinio proporzionale, dove
strategie “di nicchia” sono praticabili.
Lo studio cui vogliamo invitare abbandona dunque l’ottica dell’efficienza economica: si tratta in primo luogo di ricostruire le strategie politiche che hanno condotto nei diversi contesti nazionali alla scelta politica di abbracciare l’euro. E’
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Stefano Palombarini
Moneta unica e governo europeo
dunque all’impatto sulla formazione del consenso e la ripartizione del potere
politico che si deve guardare per rendere conto del passaggio (o, per taluni
paesi, del mancato passaggio) alla moneta unica. Per capire come la rigidità del
tasso di cambio prima, e l’abbandono delle monete nazionali poi, hanno inciso
sulle dinamiche politiche, bisogna però prendere in conto le loro conseguenze
sull’accumulazione economica: la scelta di partecipare al processo di integrazione monetaria ha risposto a talune domande politiche e ne ha scartate altre, ha
tutelato specifici interessi e ne ha sacrificati altri, promuovendo la formazione di
coalizioni sociali delle quali si deve per ciascun paese identificare il profilo.
La seconda parte della ricerca è rivolta al futuro. Poiché per definizione le strategie politiche hanno un orizzonte delimitato (non avrebbe senso selezionare le
scelte per ottenere consenso a distanza di venti o cinquant’anni) si deve escludere che le coalizioni di interessi che hanno reso possibile il passaggio all’euro
saranno in ogni caso rafforzate dal funzionamento della moneta unica. Non è
affatto detto che l’euro saprà servire gli interessi dei gruppi che hanno spinto alla
sua adozione. Ad esempio: in Italia la partecipazione al processo di unificazione
monetaria ha spinto verso un modello di relazioni industriali favorevole alla grande industria, ma non è per nulla scontato che una volta esistente l’euro sarà funzionale agli interessi della grande industria. Il passaggio alla moneta unica non
segna dunque la fine della storia. Va studiato il suo impatto specifico sui processi politici in corso, il suo contributo alla composizione e all’evoluzione dei blocchi sociali nazionali. Solo se in un numero sufficientemente elevato di paesi la
strategia di mediazione politica tra gli interessi dominanti implicherà il trasferimento di quote consistenti di sovranità alle istituzioni comunitarie la moneta
unica prenderà forza e si consoliderà. Nel caso invece i processi dell’accumulazione politica spingessero nella direzione opposta a quella della creazione di un
governo europeo, per l’euro verranno tempi difficili.
NOTA BIBLIOGRAFICA
L’integrazione europea è oggetto di una letteratura sconfinata, e non ci pare il
caso qui di fornire segnalazioni particolari.
Non altrettanto vasta, ma certo ricchissima è la letteratura sui modelli di capitalismo. Anche qui sarebbe complicato fornire una lista esaustiva dei tanti lavori di
grande interesse. A semplice titolo indicativo, segnaliamo: Albert M. (1993),
Capitalismo contro capitalismo, Bologna: Il Mulino; Regini M. (2000), Modelli
di capitalismo, Roma-Bari: Laterza; Dore R. (2001), Capitalismo di borsa o capitalismo di welfare?, Bologna: Il Mulino; Crouch C., Streeck W. (a cura di) (1996),
Les capitalismes en Europe, Paris: La Découverte; Soskice D. (1999), “Divergent
production regimes: coordinated and uncoordinated market economies in the
1980s and 1990s”, in Kitschelt H. e al. (a cura di), Continuity and Change in
Contemporary Capitalism, Cambridge: Cambridge University Press; Amable B.,
Barré R., Boyer R. (1997), Les systèmes d’innovation à l’ère de la globalisation,
Paris: Economica.
La problematica generale della teoria della regolazione, della quale l’approccio
descritto è uno sviluppo, andrebbe conosciuta per capire la struttura teorica
della ricerca proposta. Si vedano: Boyer R. (1986), La Théorie de la régulation:
103
n.3 / 2002
une analyse critique, Paris : La Découverte (disponibile anche in italiano) e
Boyer R., Saillard Y. (1995), Théorie de la régulation. L’état des savoirs, Parigi :
La Découverte.
Dei primi tentativi di integrare la dimensione della politica nella teoria della regolazione si può trovare traccia in: Lordon F. (1997), Les Quadratures de la politique économique, Paris : Albin Michel; Théret B. (1992), Régimes économiques
de l’ordre politique, Paris : PUF; Palombarini S. (1999), “Vers une théorie régulationniste de la politique économique”, L’Année de la régulation, n°3, Paris, La
Découverte.
Sui problemi epistemologici posti dall’analisi teorica dell’azione politica, cui
abbiamo fatto cenno, una riflessione più ampia e articolata è svolta in:
Palombarini S. (1998) “Discorso politico e discorso teorico”, in Teoria politica,
n°1.
Infine, va segnalato che già esiste un primo tentativo di mettere al lavoro la metodologia evocata in questo contributo. I risultati dello studio della dinamica politica ed economica italiana sono presentati in Palombarini S. (2001), La rupture
du compromis social italien, Paris: CNRS Editions.
Stefano Palombarini è ricercatore presso il Cepremap di Parigi e insegna
Macroeconomia all’Università di Parigi VIII e Politica comparata all’Università di
Padova. Si occupa di politica economica, cambiamenti istituzionali e integrazione europea.
[email protected]
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Un libro da salvare
Mayday Mayday
Fornet-Betancourt R. (2001), Transformacion Interculturale
de la Filosofia, Bilbao: Ed. Desclée de Brower.
La filosofia come luogo aperto per un dialogo interculturale
La filosofia come luogo aperto per un dialogo interculturale è la “proposta” del
filosofo e teologo cubano, Raul Fornet-Betancourt in un suo recente libro dal
titolo molto affascinate oltre che impegnativo “Transformacion Interculturale de
la Filosofia” (Trasformazione interculturale della filosofia).
Fornet-Betancourt ci offre un testo (427 pagine, divise in due parti), che è anzitutto un saggio inedito di filosofia interculturale. Si tratta di un lavoro che “tenta
di delineare una prospettiva di lavoro per il questionare filosofico in America
Latina; una prospettiva che ci consenta di filosofare tenendo presente la complessità e le diverse esigenze di tutte le culture del nostro continente e che abbiamo qui proposto come un progetto per la trasformazione interculturale della
filosofia”. Si tratta di un progetto di per sé più affascinante che facile da realizzare e l’autore, in questo saggio, propone alcune linee guida che possono condurre alla sua realizzazione effettiva. Nella prima parte Betancourt affronta alcune
questioni di ordine metodologico, epistemologico ed ermeneutico con l’intento
di elaborare un programma reale di trasformazione interculturale della filosofia
a partire dalla realtà iberoamericana. Ciò che è essenzialmente messo in discussione in queste prime pagine è la nozione istituzionale di filosofia: Betancourt
evidenzia anzitutto la necessità di superare tale nozione per comprendere la filosofia come un modo di apprendere il proprio tempo e il proprio contesto storico e culturale. Da questo punto di vista è interessante ripercorrere il percorso
biografico che ha portato l’autore a questa consapevolezza.
Laureato in filosofia nelle università di Aachen e di Salamanca e Dottore in
Filosofia all’università di Brema dove è oggi professore di Filosofia, Raul FornetBetancourt, pur essendo cubano, scopre per la prima volta la filosofia latinoamericana attraverso la lettura del filosofo francese Jean Paul Sartre. Lo affascina
la critica di Sartre nei confronti del colonialismo e del razzismo. Egli considera
Sartre il pioniere del pensiero e della comunicazione interculturale tra le filosofie. Ma soprattutto Sartre è per il Nostro uno dei critici più severi dell’eurocentrismo della Ragione europea e quindi della filosofia occidentale europea.
Attraverso la lettura di Sartre, e mentre trascorre periodi in Brasile, Messico,
Argentina, Cuba e in diverse parti dei Carabi, Betancourt inizia a studiare la filosofia latinoamericana. E’ in questo periodo che egli approfondisce alcune questioni epistemologiche ed ermeneutiche della filosofia latinoamericana, esplicitate in maniera sistematica nella prima parte di questo volume. Emerge anzitut-
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n.3 / 2002
1
Uno dei padri della
teologia della liberazione latinoamericana e autore di diversi
scritti in quest’ambito.
2
È autore di numerosi
scritti sulla filosofia
latinoamericana, considerato l’ispiratore
della corrente della
filosofia della liberazione latinoamericana.
3
Filosofo e teologo di
fama mondiale,
anch’egli fra i Padri
della teologia della
liberazione, attualmente è il massimo
esponente della filosofia della liberazione
latinoamericana che
si è sviluppata a partire dagli anni ’60.
Dussel è autore di
numerossime opere
sulla teologia e sulla
filosofia latinoamericana, alcune delle
quali tradotte in italiano. Ricordiamo
L’Occultamento
dell’Altro. All’origine
del mito della modernità, Celleno: La
Piccola Editrice
(1993).
106
to la consapevolezza che la filosofia latinoamericana non corrisponde alla realtà
culturale dell’America Latina. E’ una filosofia prevalentemente monoculturale
perché esprime soprattutto la cultura meticcia dei discendenti degli europei.
Questo vizio, a suo giudizio, trova origine nell’acriticità dell’aspetto istituzionalizzato della filosofia in quanto tale nel panorama del dibattito sulla filosofia latinoamericana la quale, per Betancourt, conosce tre momenti. Il primo corrisponde al momento dell’adattamento della filosofia europea alla realtà latinoamericana. Si tratta di un momento in cui avviene una specie di inculturazione del pensiero filosofico europeo (scolastica, positivismo e marxismo) nelle diverse realtà
e circostanze latinoamericane. Il secondo momento, che inizia nel secolo XIX, è
quello caratterizzato dalla ricerca di una vera e propria filosofia latinoamericana,
una filosofia “pés no chao” (piedi per terra) - per usare un’espressione del teologo brasiliano Clodovis Boff1 – iniziata in particolare dal filosofo argentino Juan
B. Alberdi2. E’ una fase caratterizzata dalla ricerca di una filosofia latinoamericana
che nasce dai bisogni reali ed effettivi dell’America Latina. Infine, si avvia il
momento della filosofia latinoamericana che si esprime con la categoria della
“liberazione” e che ha come suo massimo esponente il filosofo argentino
Enrique Dussel3, che vive in esilio da ormai tanti anni in Messico.
La filosofia della liberazione appare a Betancourt come il terzo volto assunto
dalla filosofia latinoamericana nella sua trasformazione nell’arco dei tempi. La
novità radicale rispetto ai due momenti e volti precedenti consiste nel fatto che
quest’ultimo include nella filosofia un modello pubblico. L’intenzione è quella di elaborare non una filosofia da laboratorio e quindi essenzialmente legata ai
vecchi schemi istituzionali, ma una filosofia che scopre il pubblico non solo
come oggetto di riflessione filosofica, bensì come orizzonte pratico che deve
costituire elemento prioritario della riflessione filosofica latinoamericana. Temi
pubblici come ad esempio la giustizia sociale e la giustizia pubblica costituiscono per la prima volta il “centro” di tutto il dibattito filosofico.
Betancourt si inserisce nel dibattito, sposa questo terzo volto della filosofia della
liberazione latinoamericana e all’interno di questa tradizione sviluppa la sua critica essenziale. Egli constata che persino la filosofia della liberazione ha peccato
in senso monoculturale in quanto nelle sue analisi sulla complessa realtà latinoamericana privilegia un’eredità culturale che è quella dei creoli, degli spagnoli e dei portoghesi e quindi non si è aperta sufficientemente né all’esperienza
afroamericana né a quella degli indigeni. Ecco allora che anche se la riflessione
filosofica di Betancourt nasce all’interno della filosofia della liberazione latinoamericana classica del primo periodo, essa intende essere anzitutto un tentativo
di trasformazione della stessa a partire da una prospettiva interculturale. La novità della proposta metodologica dell’autore consiste nel rilevare che tutte le altre
culture che compongono il panorama latinoamericano devono essere riconosciute e soprattutto devono essere trattate come interlocutrici valide nella riflessione filosofica in generale e nella riflessione filosofica della liberazione latinoamericana in modo particolare.
La filosofia interculturale così proposta si presenta come lo specchio di un
movimento che sta unendo oggi tutte le voci più critiche della riflessione filosofica contemporanea nei Paesi Periferici e soprattutto in America Latina. Tale filosofia chiude definitivamente coi paradigmi classici della filosofia istituzionale,
come anche con quello della liberazione, ed offre un nuovo paradigma: quello in
cui interculturalità e liberazione si sintetizzano, sono complementari. Betancourt
sceglie dunque la prospettiva della liberazione, ma la colloca - diversamente da
Dussel e altri - nell’ambito del dialogo tra le culture. Un dialogo che secondo
l’autore non deve privilegiare nessuna cultura ma piuttosto tendere ad una trasformazione di tutte le eredità filosofiche. Ciò spiega anche il motivo per cui il
programma di questo movimento della filosofia interculturale – che ha come
fondatore e massimo esponente lo stesso Betancourt – si attua attraverso consultazioni, congressi, seminari, convegni a cui partecipano esponenti di diverse
tradizioni del pensiero filosofico che l’odierna umanità ha sviluppato, fra i quali
Raimon Panikkar, Enrique Dussel, Karl Otto Apel. La filosofia in questo caso
viene liberata da ogni etnocentrismo.
Non si propone tanto una “filosofia di molte culture” quanto piuttosto una “filosofia in differenti culture”. Questa opzione ha come scopo, secondo l’autore, la
costruzione di una alternativa sia al multiculturalismo che al transculturalismo
attualmente in voga. Ciò che viene riconosciuto è la “plurilocalità” della filosofia, cioè il fatto che essa conosce molti tempi e luoghi di nascita. Viene storicamente abolita la “grecità” come origine classica della filosofia e si riafferma con
forza l’esistenza di una “plurioriginalità” della filosofia. La filosofia interculturale
betancurtiana non tende dunque ad una coesistenza di culture bensì ad una permeabilità delle culture, a far si che le diverse tradizioni filosofiche si compenetrino e si influenzino reciprocamente. Ciò cui si tende è avere delle “culture
della filosofia” e una “filosofia nelle culture”, in quanto non si cerca l’addizione
ma semplicemente di non escludere la capacità che ogni cultura ha di trasformarsi, di correggersi attraverso il dialogo con le altre culture.
Nella seconda parte l’autore sviluppa il profilo teorico per un filosofare interculturale autentico, nel contesto mondiale della globalizzazione delle strategie politiche del neoliberalismo, quale principale sfida storica alle nostre attuali tradizioni culturali. Allo stesso tempo egli mostra i percorsi alternativi, vale a dire apre
piste per una pratica dell’interculturalità in quanto alternativa di vita concreta ai
processi odierni della globalizzazione neoliberale che ci vuole convincere che
“un mondo globale” (nel senso capitalista) è sinonimo di un mondo universale4.
Betancourt cerca in questa ultima parte di costruire i percorsi che conducano ad
una universalità slegata dalle figure di una idea di unità la quale, come ha
ampiamente dimostrato la storia contemporanea, risulta facilmente manipolabile da determinate culture. Da qui la necessità, secondo Betancourt, di superare
il concetto metafisico dell’universalità per farne un processo storico concreto: un programma “normativo” incentrato sull’incremento della solidarietà tra
tutti gli universi che compongono l’emisfero umano.
La sfida che oggi si pone alla filosofia, ovvero il trasformarsi in un luogo aperto
per il dialogo interculturale, ha dunque la sua origine nella consapevolezza che
le grandi difficoltà per costruire un modello di Razionalità Interculturale, stranamente non provengono da una dottrina filosofica, o meglio ancora da una scuola egemonica di filosofia, ma da un progetto di civilizzazione economico politico
che è appunto la globalizzazione intesa nella sua natura esclusivista e mercantilista, essenzialmente fondata nel neoliberalismo. La globalizzazione appare dunque, nella prospettiva della filosofia interculturale betancourtiana, molto più di
4
Betancourt 2001, p.
171.
107
n.3 / 2002
una semplice impresa economica, bensì una autentica filosofia della storia,
che tende ad uniformare tutto e tutti in un movimento in cui qualsiasi alternativa viene accusata di irrazionalità. Al contrario, la convinzione del Betancourt è
che la Razionalità umana sia capace di farsi ragionevole, vale a dire essa è capace
di seguire un cammino di ragionevolezza che porti alla partecipazione solidale di
tutte le culture nella costruzione dell’avventura di una sola e medesima umanità. Ecco allora la necessità anche per Betancourt di una Ragione Dialogica ma
soprattutto – a differenza di Karl Apel e Habermas – di una Ragione Solidale:
il filosofare autentico è quindi esercitare solidarietà con argomentazione in un
ambiente dialogico attraverso la rinuncia alla violenza e all’arbitrario.
Filomeno Lopes, guineense, ha conseguito il Dottorato di Filosofia presso
l’Università Gregoriana. Lavora da anni come redattore nella sezione di lingua
portoghese della Radio Vaticana. E’ autore del recente Filosofia intorno al
fuoco. Il pensiero africano contemporaneo tra memoria e futuro (EMI 2001).
[email protected]
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FIDUCIA
n.3 / 2002
Recensioni
Asterischi
ZYGMUT BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 1999.
Il testo di Bauman si può collocare a buon diritto nell’ambito di quel pensiero europeo pienamente riformista che si prefigge di misurarsi con le trasformazioni del capitalismo moderno, in cui spiccano autori
come Alain Touraine, Ulrich Beck ed Anthony Giddens. Mentre Giddens e Beck sono diventati i consiglieri più ascoltati di leader di governo progressisti, come Tony Blair e Joschka Fisher, Bauman – come
Touraine – volge la propria attenzione alle peculiari modalità di agire sociale orientato politicamente
poste in essere da quei movimenti sociali che attraverso le proprie iniziative, progetti, conflitti e negoziati
cercano di (ri-)costituire i rapporti indispensabili (e costantemente mutevoli) fra dinamiche dell’economia
ed esigenze della società.
Il titolo originale dell’opera, In Search of Politics, rende efficacemente il senso della ricerca di Bauman,
orientata ad esplorare l’incerta linea di confine fra società e politica (e fra sociologia e politologia), da cui
deriva l’attenzione al costante confronto fra dimensione pubblica e privata.
Risulta particolarmente degna di nota, in tale “esplorazione”, la ricchezza dei riferimenti culturali – da
Arendt a Castoriadis, da Marx a Freud, da Nietzsche a Weber, ad Adorno – che tradizionalmente contraddistingue le opere di Bauman, un sociologo che è stato molto influenzato dalle riflessioni contenute nella
Banalità del male di Hannah Arendt e che, in questo testo, sviluppa gli elementi problematici contenuti
in altre opere arendtiane (Tra passato e futuro, Vita activa), soffermandosi approfonditamente sul concetto di spazio pubblico, analizzato con particolare riferimento alle dinamiche strutturali che lo stanno corrodendo e svuotando.
Proprio tale “svuotamento dello spazio pubblico” diviene la chiave interpretativa del problema dell’insicurezza dei cittadini, questione che assume una salienza crescente nel dibattito politico contemporaneo e che,
secondo Bauman, non può essere affrontato efficacemente tramite politiche repressive meramente congiunturali, in quanto parte della crisi complessiva delle tradizionali autorità politiche statual-nazionali derivante dai processi di globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni, che caratterizzano la nostra epoca.
La definizione di spazio pubblico di Bauman trae origine dalla critica delle dottrine della politica – e della
democrazia – che esasperano la separazione fra sfera pubblica e sfera privata, come se si trattasse di realtà reciprocamente indipendenti. “Piuttosto, al centro [della riflessione] dovrebbe essere il legame, la reciproca dipendenza, la comunicazione fra le due sfere. Il confine tra pubblico e privato, che queste teorie
tracciano con tanta precisione, dovrebbe essere visto come interfaccia piuttosto che ricalcato sul modello del confine fra stati” (p. 91).
La distinzione sfera privata/sfera pubblica risale alla polis classica, in cui si distinguono l’oikos (dimensione “domestica”, familiare) e l’ecclesia (il “luogo” del politico), dove si prendono le decisioni vincolanti per
la generalità dei membri della città (ciò che oggi definiremmo, con Weber, agire politico in senso proprio).
Tra l’oikos e l’ecclesia, i greci collocano una terza sfera, l’agorà, che connette e tiene unite le prime due;
una sfera in cui costantemente si sviluppano conflitti e nella quale, pertanto, i medesimi possono essere
ricomposti e condotti al compromesso, una sfera (al contempo “privata” e “pubblica”, non interamente
predeterminata) nella quale l’individuo trova il proprio “habitat” sociale ed in cui i problemi privati possono combinarsi e trovare risposte pubbliche.
Per la sua stessa natura di interfaccia, l’agorà (o spazio pubblico) può essere soggetta all’azione corrosiva delle iniziative provenienti dalle dimensioni fra le quali è collocata: quanto accaduto nel corso del
110
Novecento, come ha evidenziato Hannah Arendt, mostra in quale modo l’agorà possa essere fagocitata e
distrutta dalla dimensione dell’ecclesia (nella fattispecie, sotto forma di Stato totalitario). La tragica esperienza del totalitarismo ha lasciato un’eredità molto importante nel pensiero politico: la consapevolezza
della necessità di una linea di confine fra agorà ed ecclesia; ora, suggerisce Bauman, si tratta di riconoscere l’importanza dell’altro “limite”, quello che distingue l’agorà dall’oikos: “Ormai è quel secondo confine, in precedenza dato per scontato, a rappresentare il punto di maggior traffico e il principale terreno di
scontro. L’agorà rimane un territorio invaso, ma questa volta i ruoli sono stati invertiti e le truppe d’invasione si ammassano lungo il confine che le separa dal privato” (p. 101). Se la funzione dello spazio pubblico è quella di connettere i problemi privati in modo significativo per costruire strumenti collettivi efficaci, il suo “svuotamento per privatizzazione” (ed il conseguente prevalere, in ogni ambito sociale, di pure
logiche “di mercato”) implica, più che una condizione di generica solitudine, l’isolamento (l’im-potenza in
cui si trovano gli uomini quando viene distrutta la sfera politica della loro vita). Quel che si definisce isolamento nella sfera politica, in quella dei rapporti sociali prende il nome di estraneazione, condizione contrassegnata dall’assenza di relazioni, che sembra rappresentare la più seria minaccia per il futuro del “cittadino globale”.
In Search of Politics evidenzia anche l’attenzione posta dall’autore nell’analisi del ruolo svolto in tale processo dalle classi politico-parlamentari nei singoli Stati: “I meccanismi all’opera dietro la costruzione dell’incertezza e dell’insicurezza sono ampiamente globali, per cui restano al di là della portata delle istituzioni politiche esistenti, soprattutto delle autorità statali elette” (p. 57). In tale contesto, secondo Bauman, il
risultato effettivo conseguito dagli “aggiustamenti strutturali” posti in essere dagli attori politici istituzionali
(messi sotto pressione dai mercati ormai globalizzati) è la produzione di un’autentica economia politica
dell’incertezza, ossia un insieme di regole che sostituiscano le “vecchie” norme protettive del Welfare
State (nel linguaggio esplicito di Bauman, “l’insieme di regole per porre fine a ogni regola”). La ratio delle
nuove norme è semplice: si deve affermare come referente sociale condiviso la massima che “ognuno è
potenzialmente in esubero o sostituibile” (p. 173).
Il permanere di ampie quote della popolazione del pianeta in condizioni di allarmante povertà risulta funzionale alla logica dell’economia politica dell’incertezza: “I poveri sono l’Altro dei consumatori spaventati. (...) La vista dei poveri tiene a bada i non-poveri, perpetuando così la loro incertezza. Li spinge a tollerare o sopportare con rassegnazione l’inarrestabile flessibilizzazione del mondo. Imprigiona la loro immaginazione e li ammanetta ai polsi” (pp. 177ss.).
Effetto dell’economia politica dell’incertezza è la diffusione, all’interno del corpo sociale, di un profondo
senso di smarrimento, da cui scaturiscono reazioni spesso pretestuose aventi ad oggetto coloro che si prestano ad essere individuati come portatori di caratteristiche “eterogenee” (immigrati, subculture giovanili...). In questo modo, si può fissare su un elemento “estraneo” il risentimento derivante dalla propria insicurezza: le mobilitazioni, reali o virtuali, per la difesa dell’incolumità e della sicurezza esprimono, in modo
elementare, una “voce” territoriale e microcomunitaria (e un’aspirazione a qualche forma di esistenza politica), in cui gli abitanti di una città, di un quartiere o, addirittura, di un condominio, definiscono i confini
del noi (e palesano, al contempo, l’assenza di uno spazio pubblico in cui rappresentarsi). Queste manifestazioni costituiscono, pertanto, un sintomo del bisogno che la collettività ha di unirsi nella soluzione di
problemi comuni e mostrano, contemporaneamente, la forza persuasiva delle rassicurazioni “a buon mercato”, in quanto individui isolati (e amministratori dello spazio pubblico de facto depotenziati) finiscono
per poter sperare di costruire solo comunità permeate di paure e di sospetto e basate sull’esclusione di chi
appare come “diverso”.
La tendenza a proiettare su tutto quanto possa rappresentare “uno stile di vita alternativo” (come gli stranieri) le frustrazioni scaturenti da processi macro-sociali che si diffondono attraverso i mass-media tramite
definizioni bizzarre e misteriose (un linguaggio da iniziati: “giudizio dei mercati”, “bolle speculative”, “condizioni generali di scambio”...), ottiene l’effetto di frantumare ulteriormente le reti di possibili azioni solida-
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n.3 / 2002
li a tutela dello “spazio pubblico”, rafforzando l’egemonia dei poteri economici transnazionali. Di conseguenza, per Bauman la possibilità di ridurre la profonda insicurezza esistenziale che incombe sul “cittadino
globale” dipende dalla capacità di riconnettere, secondo una logica integrativa, le diverse energie individuali nella dimensione della comunità politica, la sola che può garantire non solo i diritti di libertà, ma
soprattutto la perpetuazione delle condizioni per l’esercizio di quei diritti, disinnescando, al contempo, pericolose dinamiche regressive che rischiano di lacerare ulteriormente ogni forma di “legame sociale”.
In questo aspetto risiede, probabilmente, il principale pregio del libro di Bauman: se, da un lato, l’autore
invita a diffidare da concezioni eccessivamente semplificate della constantiana “libertà dei moderni”, ossia
di quelle concezioni della libertà che fanno smarrire, della medesima, la dimensione della relazione sociale, dall’altro lato, Bauman si dimostra molto “esigente” anche nell’operazione di recupero dei “valori comunitari”. I poteri economici transnazionali, le grandi imprese delocalizzate, infatti, sembrano adattare agevolmente le proprie produzioni alle richieste particolaristiche delle realtà locali; queste, anzi, stimolano
forme di consumo “locali” tendenzialmente funzionali al nuovo assetto “rizomatico” assunto dalle imprese
“postfordiste” e dalla loro fitta rete di subfornitori, che garantiscono just in time la componentistica necessaria al completamento di prodotti differenziati in base al contesto di fruizione. Anche in merito al parallelo fenomeno della “finanziarizzazione dell’economia”, ossia della formazione di un gigantesco mercato
finanziario mondiale, in assenza di corrispettive istituzioni politiche di controllo, Bauman propone un’interpretazione sulla quale appare difficile non concordare: le iniziative volte ad esaltare il particolarismo più
esasperato agevolano l’azione implacabile dei “poteri globali”. In altri termini, la frantumazione politica
prodotta dalle controspinte etnocentriche, dalle “piccole patrie” e dai particolarismi di vario tipo, rappresenta la miglior garanzia, per i poteri economici globali, del perdurare della discrasia fra spazio globale dell’economia e spazio locale della politica (con la conseguente im-potenza di quest’ultima), tema già identificato come cruciale per la comprensione della nostra epoca da Marco Revelli (Le due destre, Bollati
Boringhieri, Torino, 1996).
La consapevolezza di dover articolare un’azione politica a livello globale rischia di smarrirsi in una spirale
particolaristica alimentata, da un lato, dall’ansia da insicurezza presente nel corpo sociale e, dall’altra, dalla
demagogia orientata a fini elettorali propria della classe politica: la combinazione di questi due elementi
produce quelle ondate di retorica anti-immigrati che, agendo concretamente in funzione anti-integrativa
e desolidarizzante ed impedendo la costruzione di nuove realtà coalizionali nel corpo sociale (in difesa di
un accesso universale ai diritti di cittadinanza, ad esempio), non può che favorire la riproduzione ed il rafforzamento dello squilibrio delle forze fra i vari attori sociali, a favore dei poteri globali. In radicale contrasto rispetto a tutti i demagogici fautori della tolleranza zero, l’autore individua proprio nel riprodursi di
questo squilibrio la radice delle nostre attuali insicurezze.
(Marco Almagisti)
[email protected]
KLAUS EDER, BERNHARD GIESEN (a cura di), European Citizenship between National
Legacies and Postnational Projects, Oxford, Oxford University Press, 2001.
Il dibattito attorno alla definizione di cosa sia la cittadinanza europea sta acquisendo sempre maggiore risonanza non solo in ambito accademico, ma presso le istituzioni europee stesse, come testimoniano le considerazioni e le preoccupazioni contenute nel Libro Bianco sulla Governance Europea recentemente
pubblicato. La strategia integrativa finora perseguita, basata sulle convenienze economiche, sembra aver
esaurito il suo potere attrattivo e rivela istituzioni vulnerabili, democraticamente deficitarie ed affette da
crisi di legittimazione. Ripensare e consolidare tali istituzioni è la sfida cruciale, soprattutto dopo l’adozio-
112
ne della moneta unica e nella prospettiva dell’allargamento ai paesi dell’Est. L’Unione Europea non può
più prescindere dal consenso di chi la vive, di chi agisce nello spazio sociale che essa delimita. Ecco perché il tema della cittadinanza assume un’importanza capitale: non solo per una questione di controllo politico sulla forma emergente di governance europea, quanto piuttosto perché essa costituisce un tentativo
di favorire l’integrazione sociale mediante la creazione di un nuovo demos europeo. Nuovo perché nasce
al di là degli Stati-nazione (transnazionale); nuovo perché nasce al di là dei confini delle comunità etniche
definite politicamente (postnazionale); nuovo perché creato mediante una diversa concezione di identità
collettiva europea: culturalmente frammentata, disomogenea, talora conflittuale. Discutere di cittadinanza
europea significa, dunque, sperimentare nuove modalità di integrazione, astraendo dalle definizioni etnocentriche di cittadinanza. Significa percorrere nuove piste interpretative che approfondiscano il tema della
complessità e che risolvano la dicotomia tra i concetti di cittadinanza “minima” (garantita da diritti sovranazionali di base) e cittadinanza “complementare” (fondata sui diritti nazionali e locali integrati da quelli
sovranazionali) finora applicati.
La raccolta di saggi curata da Klaus Eder e Bernhard Giesen rappresenta un tentativo estremamente suggestivo di superamento di entrambe le prospettive analitiche, in direzione di una “terza via” per la concettualizzazione della cittadinanza centrata sulla dimensione comunicativa: comunicazione tra culture europee diverse, ma anche comunicazione tra ambiti disciplinari diversi (scienza politica, storia, sociologia, giurisprudenza).
Il volume raccoglie undici articoli che tentano di indagare se e con quali contenuti sia possibile costruire
una identità collettiva in termini “comunitari”, partendo dalle specifiche identità collettive nazionali di ciascun paese membro dell’Unione Europea. In tal senso il concetto di cittadinanza, inteso come indicatore
simbolico dell’appartenenza alla collettività europea, rappresenta il focus analitico a partire dal quale si articolano le analisi degli autori.
I contributi presentati sono organizzati in tre parti. Nella prima, “National legacy of belonging – The tradition of citizenship in Europe”, Dieter Gosewinkel e Bernhard Giesen discutono in che modo la costruzione teoretica e sociale dell’idea di appartenenza nazionale influisca sulla costruzione di un’identità collettiva europea. L’adozione dell’accezione “occidentale” (europeo occidentale e nordamericano) del concetto
di cittadinanza, quale riferimento teorico principale per il corrente dibattito sulla cittadinanza comunitaria
europea, inficia a priori la possibilità di un dialogo tra i paesi dell’Unione e tende a creare una situazione
di impasse. In primo luogo, infatti, tale accezione si fonda sul principio legalistico-formale in base al quale
la cittadinanza si estrinseca esclusivamente tramite l’esercizio di diritti politici, civili e sociali garantiti da
uno Stato. In secondo luogo la concettualizzazione dell’idea di cittadinanza costituisce il prodotto della
sedimentazione storica degli eventi che hanno portato alla costruzione dei singoli Stati, delle nazioni, delle
identità collettive; e l’intensità delle relazioni di aderenza tra questi termini (Stato, nazione, identità, cittadinanza) variano al variare del decorso storico che ciascuno stato occidentale ha vissuto. Così Francia,
Regno Unito, Germania e Stati Uniti, pur rintracciando un comune denominatore del concetto di cittadinanza negli ideali Illuministi di uguaglianza e autonomia individuale, hanno tuttavia percorso strade diverse nella definizione dei rapporti che legano cittadini e Stato (più o meno centrati sull’uno o l’altro termine). In entrambi i casi, il contesto di riferimento è una struttura, lo Stato appunto, che assume configurazioni estremamente eterogenee sul territorio europeo e che non ha nulla a che vedere con l’organizzazione assunta dalla stessa Unione Europea. Se, pertanto, l’approccio corrente normativo al concetto di una
cittadinanza europea tende a marcare le differenze più che a spingere verso l’integrazione, allora è probabile che sia altrove che vadano ricercati gli elementi fondanti per un comune senso di appartenenza: nel
valore aggiunto che la cittadinanza europea produrrebbe per chi ne beneficia.
Partendo da tale premessa, gli autori propongono un duplice percorso di indagine attorno ad alcune questioni cruciali: da un lato si definiscono le caratteristiche dei diritti di cittadinanza europei, il ruolo e l’impatto che un contesto di mercato europeo hanno nel modellare i contenuti della cittadinanza, l’effettiva
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n.3 / 2002
possibilità di esercitare tali diritti tramite democratiche istituzioni europee. Dall’altro, si prospetta la questione della costruzione dell’identità europea a partire da un contesto multiculturale, in cui dissenso e conflitto possano ricomporsi in un progetto di cittadinanza alternativo. Nella Seconda Parte, “Projects for full
citizenship in the Euro-polity”, Klaus von Beyme analizza in che modo il concetto di cittadinanza venga
costruito e sviluppato in ambito europeo attraverso il tentativo di ricomporre alcune tensioni insolubili.
Quella originata dal processo di aggregazione, ad un meta-livello, delle diverse e talora incompatibili tradizioni nazionali di cittadinanza, al fine di creare consenso attorno all’idea di un’identità comune. E la tensione emergente tra le prescrizioni in materia di cittadinanza che si rinvengono nei documenti dell’Unione
Europea (in particolare nel Trattato di Maastricht) ed il concreto svilupparsi del processo di integrazione.
I quattro pilastri della legittimazione dello stato moderno, i concetti di legalità, nazionalità, democrazia e
stato sociale, diversamente bilanciati nelle rispettive concezioni di cittadinanza dei singoli Stati membri,
non riescono a convergere in un unico modello di riferimento per l’Unione. Controversa è la definizione,
in assenza di un’omogeneità etnica, dei confini dell’inclusione/esclusione dall’esercizio dei diritti; limitati
e non del tutto precisati sono gli strumenti attraverso cui esercitare diritti politici, civili e sociali in un ambito europeo frammentato e fortemente connotato in termini economici. Si assiste, pertanto, ad un duplice,
contraddittorio movimento: la spinta alla creazione di una comunità di eguali eurocittadini entra irrimediabilmente in conflitto con la logica economica che governa il mercato comunitario e che promuove rapporti di diseguaglianza (come sottolinea Wolfgang Streek nella sua analisi degli European Works Council).
Il passaggio da una comunità europea legittimata sulla base di criteri di efficienza economica ad una comunità europea fondata su valori politici transnazionali diventa, pertanto, decisivo.
Le “Modeste proposte democratiche” di Philippe Schmitter, tentando di sciogliere alcuni di questi nodi
controversi, suggeriscono concrete pratiche per la costruzione di uno spazio pubblico europeo in cui i cittadini si riconoscano non più solo come fruitori di libertà economiche, quanto piuttosto come titolari di
specifici diritti politici, civili e sociali. Diritti che forniscano loro concreti benefici; diritti che, con il loro alto
impatto simbolico, vincolino gli europei all’entità politica sovranazionale che li garantisce. Modificare le
procedure elettorali, introdurre lo strumento referendario, garantire la piena adesione alla Convenzione
europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, corrispondere un “Eurostipendio” ai cittadini indigenti oppure consentire ai lavoratori di poter usufruire di un “Euro-congedo sabbatico” sono
tutti interventi che, incentivando la partecipazione degli eurocittadini, genererebbero una maggiore fiducia e una maggiore identificazione nelle istituzioni dell’Unione.
Gli articoli contenuti nella Terza Parte del volume, “Citizenship participation in an European public space”,
proseguono ed ampliano la riflessione attorno alla dimensione cruciale della partecipazione e definiscono
l’ambito in cui essa si esercita nei termini habermasiani di sfera pubblica “all’interno della quale gli attori
sociali interagiscono e si mobilitano, [e che] è costitutiva della società civile ed essenziale per l’esercizio
della cittadinanza” (pag. 160). La sfera pubblica rappresenta l’arena di interazione tra potere pubblico e
mercato, una sorta di spazio normativo che media tra questi due elementi, entro cui la società civile sviluppa forme di partecipazione politica e sociale. Tuttavia, le particolari configurazioni delle istituzioni e del
policy-making dell’Unione Europea, evidenzia Carlos Closa, rendono il processo di costruzione di tale
sfera pubblica altamente controverso, perché ancora fortemente legate alla dimensione nazionale, nonché
locale, di appartenenza. E tale processo richiede, pertanto, ai cittadini e alle istituzioni, un esercizio di rilettura di tale complessa e conflittuale identità multipla e di mediazione tra i vari livelli di appartenenza.
Il tema della partecipazione è al centro anche delle riflessioni contenute nell’articolo di Yasemin Soysal.
Secondo l’autrice, l’Unione Europea rappresenta un esempio paradigmatico, per quanto ancora in divenire, di un processo globale in atto ormai da un decennio che vede contrapporsi, da un lato, il rilancio delle
identità nazionali e dall’altro, la sperimentazione di nuove forme di appartenenza transnazionale. Tali
nuove forme aggregative sono fondate su una concezione universale ed astratta di identità collettiva e dei
diritti individuali e la loro creazione è favorita a livello internazionale dalla creazione di multiple-polities
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entro cui articolare la propria capacità di voice. L’esito di tale antinomia è la creazione di nuove modalità
di partecipazione che travalicano i tradizionali confini nazionali e mediante le quali gruppi ed individui
esercitano, attivano (enact) la loro cittadinanza.
Se, pertanto, l’Unione Europea rappresenta un sistema politico-istituzionale, sociale e culturale altamente
disomogeneo, caratterizzato dalla compresenza di spinte centripete (verso una maggiore integrazione) e
spinte centrifughe (verso un rafforzamento della dimensione locale, in ottemperanza al principio di sussidiarietà verticale), in cui gli individui elaborano narrative di identità collettiva transnazionali, agiscono e si
mobilitano nell’ambito uno spazio pubblico multi-livello, quale identità europea è possibile costruire? La
Quarta Parte del libro, intitolata “Postnational project of belonging”, tenta di rispondere a tale domanda prospettando la possibilità di elaborare un progetto di cittadinanza “alternativo”, fondato su una diversa concezione simbolica dell’identità europea. Se risulta difficile costruire un’identità europea forte, ancorata al
riconoscimento dell’appartenenza ad un medesimo demos, allora è, forse, proprio nella diversità e nel conflitto che hanno connotato lo sviluppo degli Stati-nazione europei che va ricercata una traccia per la definizione di un’identità collettiva. Identità che, come suggerisce M. Rainer Lepsius, va traslata dal livello nazionale e ricomposta ad un superiore livello transnazionale, mettendo in comunicazione le identità locali e le
relative sfere di valori mediante processi culturali. Identità che, sottolinea Klaus Eder, deve muovere dall’accettazione della diversità, e non dalla sua soppressione, e promuovere la comunicazione della differenza. Le coppie antitetiche integrazione/conflitto e condivisione/dissenso originate dalla disomogeneità culturale europea rappresentano gli elementi costitutivi di identità europea flessibile ed interculturale, plasmata mediante la creazione di networks e processi di comunicazione. In tal senso, dunque, “l’esempio
europeo offre per questa nuova forma di costruzione di un ordine sociale che trascende l’idea di un ordine
sociale basato sulla condivisione di valori, un laboratorio storico, una nuova soluzione evolutiva” (pag. 230).
L’Europa, concludono Eder e Giesen, è, al contempo, un insieme di strutture regolative e uno spazio simbolico in cui gli europei proiettano aspettative, fruiscono di valori e sviluppano relazioni sociali. Può essere definita come la Seconda Nuova Nazione, il frutto di una nuova ed eccezionale costruzione sociale che,
riconoscendo la propria diversità ed enfatizzandola, produce democrazia.
(Giorgia Nesti)
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Yves Mény, Tra utopia e realtà. Una costituzione per l’Europa. Conversazione
con Remo Cassigoli, Firenze, Passigli Editori, 2000.
Intervistato da un giornalista, che si rivela piuttosto un prezioso sodale intellettuale, Yves Mény, professore illustre, in questo libro ci dà il suo punto di vista sulla plausibilità dell’Unione Europea, sui suoi vincoli
e chanches e fornisce indicazioni sulle sue prospettive di sviluppo. Con parole che sono destinate ad
accompagnare nei termini di una riflessione critica un progetto di Trattato Fondamentale dell’Unione commissionato dal Parlamento Europeo al Centro Robert Schumann che lui stesso presiede. Un testo, quello
di Mény, che raccoglie in ordine logico le norme sulla struttura e la funzione del suo apparato istituzionale e selettivamente propone in una formula stringata i principi generali e gli strumenti di affermazione dei
diritti dei suoi cittadini. Esso esibisce per quella cosa dal nome di Europa il senso di uno stadio avanzato
di una soggettività politica; chiamata a maturare attraverso il lavoro di ben stabilizzate, riconosciute e chiaramente articolate strutture di autorità e l’affermazione di una trama robusta di cittadinanza. E ci sfida con
la domanda di un impegno rinnovato a precisare quello cui gli europei possono aspirare e quello che
vogliono, in relazione alle più rilevanti necessità e opportunità storiche e alle determinazioni di una vera
ambizione.
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Questo documento è frutto di una relativa tensione costituente: si dà come un prodotto imperfetto e
sommario dalla ridotta energia ideologica e simbolica, perché apparentemente si limita a codificare le disposizioni esistenti considerate più vitali ed essenziali; del resto vuole proporsi solo come una tappa modesta d’un processo che viene da lontano e che ha ancora molta strada davanti a sé. Ci permette comunque
una ricognizione rapida e panoramica dei numerosi aspetti e livelli (dagli obiettivi alle attività alle finanze
alle protezioni dei diritti etc.) che compongono un edificio con un suo barocchismo imponente ma pure
dotato d’una ricchezza razionale.
Invece le lunghe pagine di conversazione a briglia sciolta sono una scossa all’intelligenza: vivaci e di largo
respiro, formicolano di idee interessanti e regalano suggestioni originali, nella cadenza di una risposta alla
domanda, sul genere d‘un Valéry, “che cosa farete di questo oggi”. Né sovranista né federalista, né euroentusiasta né euroscettico Mény, situandosi “tra utopia e realtà”, allude allo spazio davvero ristretto dove l’auspicabile incontra il possibile. Egli taglia corto con l’idea che la Comunità possa mai diventare una replica
in grande delle formule nazionali, una realizzazione su tabula rasa come gli Stati Uniti da una qualche
Convenzione di Filadelfia; questa è solo un’illusione, un’ipotesi fuorviante. Essendo l’Europa incapace di
suscitare delle passioni forti e una mistica come lo Stato-nazione, il trasferimento di alcune prerogative
degli Stati su un piano sopranazionale provocherebbe delle reazioni esasperate e delle resistenze invincibili. Quanto a quel patriottismo costituzionale su cui insiste un Habermas, esso non sembra attrarre l’attenzione di Mény apparentemente perché egli lo ritiene incapace di per sé di sostenere qualcosa di duraturo e di importante e di mobilitare energie. Ma allo stesso tempo egli crede alla verosimiglianza di una
progettualità collettiva europea e un prossimo spostamento dall’attuale approccio in prevalenza tecnocratico e burocratico ad uno di deliberazioni largamente dibattute e condivise. In consonanza con europeisti
pragmatici alla Delors e alla Amato, Mény prende partito per un’azione gradualista e un riformismo cauto.
Suggerisce la via stretta, quella che sta nello scenario di una governanza che passa per il confronto tra i
distinti governi nazionali e l’attivazione di una democrazia transnazionale fondata su alcuni meccanismi diffusi di controllo dal basso delle decisioni; e che può produrre importanti scelte politiche comuni e un ordine di tutela dei diritti anche senza il presupposto necessario di un’unità politica vecchia maniera. Peraltro
si può fare già adesso affidamento sull’esistenza di una sfera civile europea, dal momento che “l’Europa
nella sua diversità concorda nella definizione dei diritti fondamentali più che la Repubblica americana”;
mentre si deve postulare un supplemento di immaginazione per niente ovvio perché si stabilizzi una prospettiva decente di protagonismo delle Istituzioni sul piano della politica estera e sociale e perché si rafforzi nel segno della continuità e dell’efficacia la comunicazione tra queste e la cittadinanza.
D’altra parte Mény ci ricorda che siamo arrivati ad un momento cruciale del processo di costruzione europea: dove occorre proprio pronunciarsi esplicitamente sul senso ultimo dell’Unione e dare un’indicazione
inequivocabile sulla sua direzione di marcia. Siamo alla chiusura della stagione del primato dell’economico che si è tutta svolta senza tanta cura per la trasparenza pubblica e con la pratica del sotterfugio. Dopo
la moneta unica e nella prospettiva dell’allargamento sono aumentate le preoccupazioni per una possibile
diluizione e sono affiorati nuovi dubbi sulla capacità di tenuta dell’Unione di fronte alle crisi e sulla consistenza del suo ruolo internazionale. Con quei tanti segni di paralisi motivazionale e di deficit deliberativo
che ci tocca così spesso verificare, con i nostri politici così totalmente assorbiti dalla politica politicante e
incalzati dal quotidiano e dal locale, ecco sostiene Mény, l’Europa ci fa pensare ora al quadro di Brueghel
de “gli zoppi che guidano i ciechi”. Ci lascia a tratti l’impressione di rappresentare, per dirla con Delors,
non molto di più di un immenso supermercato. Allora si tratta di ricollegarci all’idealità delle origini al di
là dell’imperativo parziale della produzione economica e del valore in sé della grandezza geografica. Per
questo occorre ritematizzare la capacità propulsiva e la volontà di convergenza esistenziale delle nostre
nazioni: quelle ‘persone collettive’della storia divisa d’Europa che restano però, allo stesso tempo, le protagoniste imprescindibili del suo cammino di unificazione e le sole possibili fonti di vita di quel che può
essere solo un Aufhebung, una trascendenza cioè con conservazione. La sorte d’Europa invero poggia su
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‘una certa idea’ del suo destino che è di sostanza postmoderna, perché viene da un retaggio anche tragico di discordia e s’orchestra su una complessità inclusiva di contraddizioni e di differenze. Ma la sua vera
risorsa, fuori da schemi ingegneristici e da astrazioni cosmopolitiche, l’Europa la scopre in una cultura che
si riferisce non a dei pretesi caratteri costitutivi metastorici ma ad un fondo sedimentato lungo un percorso di lotte e sforzi e mobilitazioni, che essa sembra chiamata a riprendere e rimodulare. C’è infatti secondo Mény, che pare riecheggiare qui un motivo già di Jean-Marc Ferry, un patrimonio culturale comune
legato ad applicazioni di politiche pubbliche e depositato nelle istituzioni e nelle coscienze delle nostre
nazioni così differenziate per contingenze storiche, credenze religiose, gerarchie di valori e modi dell’azione collettiva, che scongiura la loro tendenza a chiudersi e ripiegarsi su se stesse. Perché qui nelle nazioni si sono venute realizzando delle congiunzioni similari tra l’istanza di libertà e quella di eguaglianza e tra
patriottismo e rappresentanza, insieme con quella messa in opera, così importante per la qualificazione
della cittadinanza, delle strutture dello Stato del benessere. E qui ha preso forma un’organizzazione democratica che ha permesso la celebrazione del demos con il bilanciamento dei poteri e la soddisfazione solidaristica dei bisogni, con l’emancipazione degli individui fondata sui diritti. E ancora qui si è predicata
attorno a certi valori una sorta di singolarità, connessa ad una proiezione di padronanza universalistica.
Comprensibile e irrinunciabile è perciò l’attaccamento degli individui a quegli spazi in cui tutto questo ha
le sue radici. L’Europa, dunque, che si pone per ora come un orizzonte di volontà a senso mal definito è
una forza in evoluzione che ha da recuperare, rielaborare e prolungare, in un processo senza fratture frontali, l’esigenza di singolarità e storicità in vista di una nuova opzione di universalità, seppur questa ora sia
da rincorrere nella debolezza. La questione della sua riuscita strategica dice Mény, alla maniera di un certo
Guéhenno, si risolve nel trovare un giusto equilibrio tra la memoria e il contratto, la comunità ereditata e
la comunità di scelta come condizione di un esserci insieme complessivo oltre le dissociazioni funzionaliste .
Infine il nostro autore dedica molte pagine a una riflessione critica circa i principali nodi e problemi che
dentro i vari paesi gli sembrano mettere in gioco l’identità europea. Sono quelli che riguardano la nostra
capacità di assumere la complessità della nostra storia e la drammaticità dell’impoverimento culturale e
artistico che accompagna il crescere della nostra opulenza e il dovere di riposizionare il welfare ad un livello di spesa sostenibile insieme alla grave minaccia che una certa deriva tecnocratica ed economicistica fa
pesare sulla democrazia. Il suo discorso contiene, tra l’altro, un invito pressante a tenere a mente il significato cardinale di mediazione sistemica che ha per noi il principio di solidarietà e a farci carico d’una qualche “difesa della società” nei confronti di chi, in nome del mercato e della piena libertà, vorrebbe annegarla nel puro interindividuale.
(Giuseppe Olmi)
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BRUNO FREY, REINER EICHENBERGER, The New Democratic Federalism for Europe
– Functional Overlapping and Competing Jurisdictions, Aldershot, Edward
Elgar, 1999.
Lo studio del ruolo delle istituzioni nell’efficienza dei processi economici sta suscitando un interesse crescente. Allo stesso tempo, il “federalismo” (non meglio specificato) viene da qualche tempo citato come
l’assetto istituzionale capace di risolvere gran parte dei problemi della nostra società.
In economia, si sta facendo strada un programma di ricerca che vede nella competizione tra giurisdizioni
un possibile elemento di novità ed efficienza negli assetti istituzionali. Su questo argomento si registrano
numerosi interventi, provenienti soprattutto da paesi di lingua tedesca (ricordiamo quelli di Vanberg). Tra
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questi si colloca l’opera di Frey ed Eichenberger che trae le conclusioni di una trentennale ricerca sulle
configurazioni istituzionali che permettono di migliorare l’efficienza delle amministrazioni locali aumentando al contempo la libertà di scelta individuale e la partecipazione democratica. Si tratta di una nuova ed
articolata teoria del federalismo funzionale orientata non tanto ad essere uno strumento analitico, quanto soprattutto una proposta di ‘assetto istituzionale’ europeo.
La proposta di Frey ed Eichenberger si basa sull’istituzione di giurisdizioni specializzate nella produzione
di servizi pubblici che possono sovrapporsi territorialmente, possibilmente in competizione (functional
overlapping and competing jurisdictions - d’ora in poi FOCJ), prodotte dall’iniziativa degli associati e
quindi basate sul principio del ‘club’. Le FOCJ sono insomma delle vere e proprie unità di governo rette
dai principi di democrazia diretta e finanziate dai contributi dei soci. Gli autori sostengono che l’architettura istituzionale dev’essere costituita in modo da rendere il più possibile forti gli incentivi imposti ai politici ed alle amministrazioni affinché soddisfino le preferenze dei cittadini.
La teorizzazione delle FOCJ di Frey ed Eichenberger prevede un numero limitato di unità territoriali di
governo mono o multifunzionali dotate di autonomia fiscale che permettono di configurare l’area amministrativa in base al problema specifico da risolvere. Esse vengono prodotte endogenamente dall’iniziativa
spontanea dei membri – cittadini o enti locali – che si suppongono associarsi in base all’omogeneità delle
preferenze. In secondo luogo, oltre alla concorrenza verticale tipica di sistemi amministrativi federali, le
FOCJ garantiscono anche una concorrenza orizzontale, inducendo delle spinte ancor maggiori all’efficienza gestionale. Queste giurisdizioni possono sovrapporsi territorialmente, permettendo ai membri di aderire a quella che meglio soddisfa le loro preferenze. Partecipando ad una giurisdizione si acquisisce non solo
il diritto di beneficiare dei servizi prodotti ma anche il diritto di voto nell’assemblea dell’amministrazione
dell’organismo in questione. Il voto espresso mantiene carattere politico, ma, rispetto ai processi di elezione con delega generale, la natura monofunzionale delle giurisdizioni ed il rapporto diretto imposta-servizio permettono una migliore precisione nella rappresentanza, una maggiore informazione dell’associato
e quindi una possibilità di scelta differenziata a seconda del servizio. Uno dei principali vantaggi di tale
sistema è che consente meccanismi di disapprovazione di tipo “exit”, non possibili nelle attuali giurisdizioni se non trasferendo la propria residenza.
Secondo Frey ed Eichenberger questa particolare architettura istituzionale, già sperimentata ed analizzata
dagli autori in alcuni cantoni svizzeri, dovrebbe aumentare la partecipazione competente del cittadino
all’amministrazione e quindi la legittimazione delle amministrazioni e della democrazia in generale. Il fatto
di essere funzionali permette a queste giurisdizioni di assolvere ai propri compiti con maggiore efficienza,
consentendo una migliore valutazione dei risultati grazie all’impossibilità di sussidi incrociati tra attività. La
coordinazione politica è necessaria, ma in questo modo viene parcellizzata in sfere ottimali dal punto di
vista funzionale riducendo le esternalità. Migliora anche la possibilità per i cittadini di esprimere le proprie
preferenze e, in particolare, di trovare soddisfatte quelle maggiormente intense in ogni periodo della loro
esistenza. Infine, il meccanismo delle FOCJ minimizza lo scambio di voti.
Secondo questa proposta, la redistribuzione di larga scala rimarrebbe così ben definita in poche istituzioni nazionali che a loro volta diverrebbero maggiormente controllabili col voto. Infatti, la riduzione e la specializzazione dei compiti di ogni amministrazione permettono l’aumento dell’informazione del cittadino e
quindi della sua capacità e possibilità di controllo e partecipazione democratica.
Questo lavoro presenta un certo grado di innovatività nel campo della letteratura dell’economia delle istituzioni in quanto ha un carattere normativo pur non assumendo la prospettiva di convergenza delle istituzioni. E’ un’opera di ingegneria costituzionale chiara, sintetica e coerente. Il quadro costituzionale proposto si basa sull’analisi degli effetti di vari tipi di meccanismi di incentivazione, non proponendoli tuttavia in modo disgiunto com’è cattivo uso in economia, ma come sistema coerente, come ordine complessivo. La prospettiva illustrata è assimilabile al liberalismo costituzionale, cioè a quella teoria che sostiene
che la competizione può produrre i suoi effetti positivi solo se inquadrata da regole chiare e coerenti. Essa
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tuttavia sembra porre più enfasi sul principio di competizione, visto ancora una volta come soluzione di
ogni inefficienza, che su quello del sistema di regole. Quest’ultimo è visto come funzionale alla concorrenza e non ad altri valori, proponendo la usuale prospettiva economica in cui in una funzione obiettivo si
rischia di mettere sullo stesso piano il costo dello smaltimento dei rifiuti e le libertà democratiche. Tuttavia,
in tempi di federalismi malprogettati, l’architettura dei meccanismi istituzionali descritti rappresenta un
esempio di come si possa utilmente condurre l’analisi della coerenza delle regole che costituiscono le riforme istituzionali. Questo tipo di federalismo funzionale, inoltre, dovrebbe essere compatibile con diverse
identità culturali e quindi, al contrario di altri schemi, funzionare bene con diverse sub-culture politiche.
La struttura di “club” assicura infatti la massima libertà nel decidere le regole del gioco in modo che queste rispecchino i propri valori culturali. Si tratta in altre parole di un’architettura che garantisce le diversità: possiamo aderire (o fondare) una giurisdizione che garantisce maggiori beni pubblici, oppure scegliere quella che correla più precisamente costi e benefici per gli utenti. Questo senza imporre ad una minoranza sistemi che non approva né costi per il finanziamento di servizi di cui non può o non vuole godere.
Rimangono alcune perplessità, del tutto economiche, sul fatto che gli elevati costi fissi che sappiamo caratterizzare gli enti locali possano essere compensati dai benefici in termini di efficienza e flessibilità individuati. Il libro non accenna, infatti, ai costi per raggiungere un sistema di regole adatto a contenere una concorrenza costruttiva, né agli effetti di possibili e naturali “imperfezioni” di un tale “mercato” sull’accessibilità ai servizi. Nonostante la democrazia diretta aumenti la capacità e l’incentivo ad interessarsi ed a partecipare, possiamo ritenere che il cittadino non potrà in ogni caso godere di un grado di informazione superiore a quello già scarso che, ad esempio, possiede un azionista di minoranza in una società per azioni – e
che lo costringono ad accettare la gestione dell’impresa con passiva rassegnazione. Il rischio quindi è che
i principi proposti – sovrapposizione, libertà di scelta e concorrenza – rimangano astratti, per poi divenire gli slogan di politiche incoerenti. L’informazione non perfetta e l’importanza dell’ideologia per l’adesione ad una giurisdizione sono delle variabili alle quali i due autori non hanno prestato l’attenzione necessaria, troppo certi delle virtù della democrazia diretta e dell’interesse “razionale” del cittadino.
(Stefano Solari)
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ILVO DIAMANTI, DANIELE MARINI, Nord Est 2001, Venezia, Fondazione Nord Est.
Il magma comincia a consolidarsi: il Nord Est non è più in ebollizione. Non protesta più. È sempre meno
mito e sempre più realtà economica europea. Secondo i curatori, questo è il filo conduttore della nuova
edizione, composta da 14 saggi di 19 autori (oltre ai curatori Diamanti e Marini, ci sono: Anastasia,
Bernardi, Bisogno, Bordignon, Castiglioni, Chiarvesio, Corò, Della Zuanna, Fava, Gambuzza, Grandinetti,
Jori, Lazar, Micelli, Possamai, Rasera e Turato), che segue, a distanza di un anno, il precedente Nord Est
2000. Già nel primo rapporto era stato più volte ribadito che il Nord Est non ci teneva più ad essere considerato un fenomeno da baraccone. Il nuovo rapporto sottolinea che è in atto una nuova fase di normalizzazione in un’area che, forse, per troppo tempo è stata nel mirino di tanti osservatori italiani e stranieri
e al centro più delle polemiche che dell’attenzione generale.
Da molti punti di vista il Nord Est sta rallentando la propria corsa e le difficoltà che incontra sono note:
costo del lavoro, difficoltà di reperimento della manodopera e mancanza di infrastrutture. La popolazione
invecchia e scarseggiano i ricambi per rimpolpare la forza lavoro. Calano le nascite, cambiano le prospettive e, a fronte di uno sviluppo industriale che richiede operai, tra i giovani c’è sempre meno voglia di lavoro manuale. E non si tratta di un effetto della prolungata scolarità, perché, da questo punto di vista
(Bernardi), il Nord Est non fa eccezione rispetto al resto d’Italia: calano i diplomati che si iscrivono all’u-
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niversità e, fra coloro che si iscrivono, solo un terzo arriva alla laurea (metà dei quali con almeno tre anni
di ritardo). Il sistema educativo è poco produttivo e questa caratteristica allontana tutta l’Italia dal resto
d’Europa. Tuttavia, una valutazione più attuale del sistema educativo si potrà avere solo quando saranno
apprezzabili gli effetti delle grandi riforme in atto (cicli scolastici e sistema universitario), della decentralizzazione dell’offerta formativa e, soprattutto, dell’introduzione di sistemi di valutazione a tutti i livelli.
Per quanto riguarda il movimento demografico, il Veneto delle famiglie numerose è solo un ricordo
(Castiglioni e Dalla Zuanna), ma lo spopolamento di molti comuni (Bellunese, Friuli, bassa pianura veneta, etc.) è dovuto non tanto alla bassa natalità, quanto alla fuga dei giovani verso le città. Anche dai grandi
centri urbani, però, si fugge per il costo inaccessibile degli affitti e la cattiva qualità della vita. A fronte di
queste emigrazioni, ci sono comuni che crescono, come quelli delle cinture urbane, che, grazie all’offerta
di affitti più vantaggiosi, raccolgono i giovani che lavorano nei grandi centri. Ci sono comuni che fanno
eccezione come quelli del Trentino Alto-Adige (in particolare quelli di lingua tedesca) dove le coppie giovani non spopolano la montagna e fanno più figli. Crescono, infine, anche i comuni della pedemontana
industrializzata per il massiccio arrivo di immigrati stranieri.
La popolazione del Nord Est è sempre più preoccupata per la criminalità e l’immigrazione (e per la criminalità da emigrazione) e sempre meno preoccupata della disoccupazione, perché si è diffusa la convinzione che c’è lavoro e c’è benessere (Bordignon e Jori). Le paure portano però i cittadini ad assumere atteggiamenti radicali come il favore crescente verso la pena di morte. In realtà l’immigrazione è problematica
solo nelle sue forme devianti, in particolare l’immigrazione clandestina (Bisogno). E, soprattutto, bisogna
ricordare che l’ingresso non regolare di stranieri è favorito dall’impiego in lavori non regolari. Fermare il
lavoro nero significa di fatto fermare l’arrivo dei clandestini e l’inserimento dei regolari dovrebbe essere
incentivato da processi più semplici di assegnazione della cittadinanza italiana.
Il mercato del lavoro del Nord Est soffre la mancanza di un’area metropolitana forte. Anche se può contare su un’area economicamente molto dinamica e flessibile (Gambuzza e Rasera). L’occupazione è ancora
in crescita e colloca il Nord Est ai primi posti d’Europa. Il tasso di occupazione continua a crescere a buon
ritmo soprattutto grazie all’aumento dell’occupazione femminile. Anche il reddito pro capite è tra i più alti
d’Europa, ma l’economia del Nord Est non offre più le performance di un tempo. L’Italia ha affrontato l’avvento dell’Euro risanata, ma non più competitiva e il Nord Est, nonostante si trovi in una situazione di vantaggio rispetto al resto d’Italia, cresce sempre meno in termini di PIL (Anastasia e Corò). Il modello di sviluppo locale è tale per cui la crescita può essere garantita solo dall’aumento del lavoro e delle infrastrutture. Condizioni attualmente irrealizzabili, perché la forza lavoro è un bene sempre più scarso e le infrastrutture sono al collasso. In assenza di queste condizioni si deve tentare di aumentare il valore unitario
dei prodotti o puntare sull’innovazione tecnologica e sulla crescita delle capacità organizzative (tecnologie,
design, marketing, informatica, finanza, progettazione, etc.). L’inadeguatezza delle infrastrutture, in particolare quelle viarie, poste alla base delle catene di fornitura, è un problema spinoso (Possamai). La congestione di strade e autostrade è ormai insostenibile e la tangenziale di Mestre è stata ribattezzata “valico di
Mestre”. Vanno incentivate forme di utilizzo della rete ferroviaria e dei porti. Qualche risultato c’è stato,
come il rilancio del porto di Venezia e le buone performance del porto di Trieste, ma non basta. I progetti sono tanti, ma i soldi scarseggiano e servono nuove forme di integrazione tra fondi pubblici e privati. Il
Nord Est è un crocevia strategico verso nord e verso est, ma se non si attrezza rischia il tracollo. Per quanto riguarda, invece, l’innovazione, il Nord Est un tempo è sembrato disinteressato alle nuove tecnologie
nel campo dell’informatica e delle comunicazioni. Le piccole e medie imprese sembravano investire di più
sulle relazioni sociali e sul territorio (Chiarvesio e Micelli). Il quadro è in rapido mutamento e le stesse
imprese oggi sono interessate alle nuove tecnologie di rete tanto sul fronte della gestione delle informazioni d’azienda che sul fronte della comunicazione (posta, sito web, etc.). Non sembrano attirate, invece,
dal commercio elettronico perché è ritenuto inadatto rispetto ai prodotti e ai processi d’impresa.
Il Nord Est raccontato dai giornali è un’isola dai confini non definiti, descritta sempre con le stesse meta-
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fore: quelle dell’impresa guidata dall’imprenditore di successo e quella della base politica forte (ex DC) che
non c’è più (Fava). Nella rappresentazione dei media non si distingue cosa sia struttura e cosa religione,
politica, cultura, etc. In pratica manca la rappresentazione di una società che pur esiste, e non è solo un
insieme di uomini con il DNA del perfetto imprenditore. Per i media il Nord Est non ha cittadini, non ha
lavoratori, non ha conflitti, non ha un volto umano. A dire il vero il lavoro in proprio è ancora il posto più
ambito e l’imprenditore resta una figura di riferimento. Basti pensare che il 30% della popolazione attiva
del Nord Est è imprenditore. Non si tratta di una figura monolitica però, perché si va dalla piccola parrucchiera di paese, al grande industriale, passando per il piccolo e medio artigiano (Marini). I più numerosi e
diffusi sul territorio sono i piccoli imprenditori. Prevalgono nettamente i maschi, ma le donne sono in crescita e sono molto numerose tra i giovani e in Friuli Venezia-Giulia. Molti lavorano in mercati internazionali e hanno produzioni delocalizzate all’estero.
Il distretto industriale si sta evolvendo e si osservano nuovi percorsi nelle politiche (Grandinetti): i vecchi
consorzi attivati dai soggetti pubblici per favorire promozione/vendita di beni/servizi sono in crisi e vengono superati da nuove forme di cooperazione, promosse da imprese, che condividono un progetto commerciale in una società-consorzio. La novità è che non si occupano solo di promozione/vendita di beni/servizi, ma anche di innovazione tecnologica, ottimizzazione della logistica, approvvigionamento, etc. Le
imprese che hanno delocalizzato alcune subforniture all’estero hanno tenuto nel distretto le più qualificate. Questo significa che i partner di distretto sono diventati meno facilmente sostituibili. Le imprese del
distretto oggi generano soprattutto conoscenza per il vantaggio competitivo. La delocalizzazione di parte
della produzione delle imprese del distretto è entrata in una nuova fase: le imprese non si limitano a delocalizzare, ma cominciano a ricollocarsi a pieno titolo nelle realtà economiche dei paesi dove installano gli
impianti (Turato). Non si tratta più di operazioni “mordi e fuggi”, ma di tentativi di integrazione.
Inizialmente si delocalizzano le produzioni meno complesse e meno tecnologiche; oggi molti cominciano
a spostare l’intera azienda. Gli imprenditori sono consapevoli di trasferire all’estero un modello di sviluppo molto prezioso per queste economie nascenti e, in questa fase delicata, soffrono l’assenza di riferimenti
istituzionali a cui appoggiarsi in patria e fuori.
Se per un italiano è difficile tracciare i confini del Nord Est, per un abitante di un altro Paese europeo è
praticamente impossibile (Lazar) e spesso si identifica il Nord Est con la turistica città di Venezia. Gli studiosi europei sanno, invece, molto bene dov’è il Nord Est e, da un lato, lo guardano con ammirazione per
essere riuscito a trasformarsi da zona poverissima e arretrata a potenza economica europea e, dall’altro, lo
guardano con sospetto per i fenomeni politici delle leghe e le rivendicazioni secessioniste. Le elezioni del
2001 hanno, però, mostrato chiaramente (Diamanti) che questi territori si stanno normalizzando. Il sistema a tre poli affermatosi nel 1996 è diventato bipolare e la componente leghista si è notevolmente ridimensionata. A Nord Est non sono più né bianchi né leghisti. Forse sono diventati un po’ più italiani e un
po più normali? O è solo uno stato di calma apparente? Un tempo nel condominio Nord Est c’era frastuono e protesta. Oggi c’è un silenzio ancora più inquietante dello schiamazzo, perché il disagio che si percepisce è più forte che mai (Bordignon e Jori). Roma è lontana e L’Europa non è vicina. Mancano i riferimenti politici in grado di riprendere in mano seriamente i processi di regolazione sociale e si respira aria
di disincanto. Il Nord Est forse non si è normalizzato, si è smarrito.
Questo secondo rapporto promosso dalla Fondazione Nord Est comincia con una premessa molto ambiziosa: aprirsi ai temi dell’Europa dopo aver costruito, grazie al rapporto precedente, un linguaggio comune. In realtà, solo alcuni saggi affrontano i temi dell’Europa e non tutti i saggi parlano specificatamente del
Nord Est. Persino il termine Nord Est viene usato in modo ambiguo: nei saggi si fa indifferentemente riferimento al Veneto, al Veneto con il Friuli Venezia-Giulia o alle Tre Venezie.
Le incongruenze presenti nel testo sono tante. Sono molto interessanti quando si configurano nella forma
del confronto tra opinioni diverse (come nel caso di Diamanti, che descrive il Nordest come area in fase di
normalizzazione, e Bordignon e Jori che, invece, parlano di uno stato di ebollizione spostato a un livello
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più profondo e meno visibile). Invece, il lettore resta perplesso quando le contraddizioni riguardano dati
oggettivi: da un lato Castiglioni e Dalla Zuanna affermano che la carenza di forza lavoro è attribuibile al prolungamento degli studi, dall’altro Bernardi li smentisce presentando i dati sul calo di iscrizioni universitarie; da un lato Grandinetti dichiara che le imprese arrancano a fatica nel mondo delle tecnologie informatiche di rete, dall’altro Chiarvesio e Micelli affermano che si stanno buttando a capofitto in questo settore;
sempre Grandinetti dice che le imprese delocalizzano solo le produzioni a scarso contenuto tecnologico,
mentre Turato sostiene che gli imprenditori cominciano a spostare l’intera azienda. Probabilmente non si
tratta di dare ragione o torto a uno o all’altro autore, ma solo di capire se si tratta di condizioni diverse perché diverso è il riferimento temporale. In altre parole, considerata la rapidità con cui si evolvono i fenomeni e si susseguono gli avvenimenti in quest’area, è chiaro che la ricerca con i dati più aggiornati possa
presentare una situazione totalmente mutata.
L’idea del rapporto annuale è molto apprezzabile, soprattutto nell’ottica di raccogliere dati e materiali
omogenei da destinare alla consultazione futura. Forse i curatori dovrebbero chiarire un po’ meglio la
genesi di questo rapporto perché il nome farebbe pensare a una serie di ricerche commissionate e coordinate da un unico gruppo di ricerca e, invece, si configura come una sommatoria di contributi individuali. Inoltre, nella pubblicazione si alternano saggi di ottima rilevanza scientifica (basati anche su ricerche di
un certo peso) a pezzi non altrettanto fondamentali e, forse, bisognerebbe trovare una veste per dare un
diverso peso ai contributi. Sempre nell’ottica di utilizzare questa raccolta come compendio e memoria storica, bisogna dire che è molto apprezzabile lo sforzo, intrapreso dalla maggioranza degli autori, di tirare le
fila del discorso affrontato nel saggio in un paragrafo dedicato alle conclusioni; utile per tutti i lettori interessati ad alcuni argomenti ma non interessati a una lettura cover-to-cover del volume.
(Arjuna Tuzzi)
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FIORENZA BELUSSI (A CURA DI), Tacchi a spillo, Padova, Cleup, 2001.
Tacchi a Spillo è un interessante insieme di saggi che analizzano in modo puntuale la realtà produttiva del
distretto della calzatura nella Riviera del Brenta. A coordinare tutte le ricerche presentate in questo testo è
Fiorenza Belussi, che apre gli scritti con una approfondita analisi della storia del distretto e delle dinamiche evolutive delle aziende in esso presenti.
La prima parte del libro narra delle origini del distretto per poi passare ad analizzare le dinamiche che vi
hanno avuto luogo, al fine di rispondere efficacemente alle “minacce” ed alle sfide che la globalizzazione,
e con essa l’internazionalizzazione dei mercati, sollevano. Ampio spazio viene inoltre dedicato, attraverso
i saggi di Belussi, Fullin e Toffanin, allo studio sulla condizione dei lavoratori del calzaturiero brentano.
La seconda parte si articola invece attraverso l’analisi delle politiche di cui l’area necessita e che si intende
porre in essere nel distretto, in particolare, quella del Patto Territoriale “Città del Brenta”.
Quest’area produttiva a cavallo tra due Province (Venezia e Padova) coinvolge circa 9000 occupati in 800
imprese dedite alla produzione calzaturiera e stanziate nei comuni di Strà, Fiesso D’Artico, Fossò,
Vigonovo, Vigonza e Noventa.
La monocultura produttiva vanta origini antiche che risalgono sia ai callegheri veneziani che agli scarpari
del padovano. La prima industrializzazione avviene nel 1898 con la ditta Voltan che introduce, in una realtà produttiva totalmente artigianale, strategie e macchinari fordisti. Attraverso processi di emulazione, si
viene in breve a creare il primo nucleo di imprenditoria locale che riesce a coniugare conoscenze tecnologiche e di mercato specifiche, con il nucleo di conoscenze localizzate. All’interno di flussi di beni, capitali e informazioni sempre maggiori tra le diverse nazioni, “il distretto della Riviera del Brenta può allora
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essere descritto come un network sociale dove gli scambi economici sono stati governati da relazioni sociali stabili che hanno favorito lo sviluppo economico e le capacità imprenditoriali locali” (p.24). A prova di
ciò viene valutata l’entità del capitale sociale appartenente all’area indagata: il 70% delle imprese campione studiate sono nate sulla base del finanziamento familiare; esiste una rete informale di trasmissione delle
informazioni; esistono strumenti sanzionatori contro comportamenti opportunistici; esistono una specifica e comune cultura produttiva ed un forte associazionismo di categoria.
All’interno di questo contesto sociale si sono articolate le fasi evolutive del distretto, riassumibili nelle
seguenti tappe:
1. lenta genesi
2. rapido processo di take-off e di espansione
3. stabilizzazione e lento declino quantitativo del numero delle imprese che si collega ad una nuova morfologia del distretto con un processo di selezione quantitativa (p.41/42).
Al trend negativo individuato al punto 3 si è tentato di dare delle risposte improntando la produzione
all’export e innalzando il livello qualitativo del prodotto.
Il grande vantaggio della Riviera del Brenta é stato l’essersi sviluppata attraverso una divisione del lavoro
inter-impresa che ne ha aumentato l’efficienza competitiva e che ha consentito di concentrare le competenze calzaturiere sulle scarpe di lusso; il che non ha impedito che, con il tempo, emergessero punti deboli come la mancanza di utilizzatori guida di nuova tecnologie.
Il distretto del Brenta si distingue infatti dall’altrettanto famoso distretto veneto della calzatura, quello di
Montebelluna, proprio per la mancanza di innovazione tecnologica e quindi per la scarsa ricerca di nuovi
prodotti. “Si fanno bene le scarpe ma non si entra nella dimensione complessa del fare impresa coprendo
tutta la filiera produttiva, innovativa, organizzativa e di vendita” (p.73). Questo rischia di causare un pericoloso calo di competitività del distretto nel suo complesso.
Per affrontare le difficoltà cogenti si è tentato, dapprima, di ridurre i costi del lavoro avvalendosi dell’appoggio di aziende subfornitrici, nonché mediante il supporto di lavoratori a domicilio.
Il lavoro a domicilio viene disciplinato dalla legge 877/73 secondo la quale le aziende e i lavoratori vanno
iscritti in un apposito registro provinciale, tuttavia i dati ufficiali differiscono per difetto con i dati raccolti
dall’Associazione calzaturiera della Riviera del Brenta. I lavoratori presenti nell’area sono generalmente
donne che hanno ricevuto una bassa scolarizzazione e le cui competenze professionali sono state tramandate perlopiù dalla famiglia di origine durante la giovinezza. Molto spesso queste donne hanno lavorato
anche in fabbrica ma il sopraggiungere di un figlio le ha poi spinte a ritirarsi e a proseguire la loro attività
a casa per meglio far fronte agli oneri di riproduzione del nucleo familiare.
Gli aspetti positivi di questa attività risiedono nella flessibilità dell’orario e nella sua conciliabilità con gli
impegni familiari, oltre che nella gratificazione personale per le proprie doti lavorative; infatti, molto raramente coloro che lavorano in fabbrica posseggono gli stessi requisiti e la stessa capacità di realizzare autonomamente fasi differenziate di lavoro. I lati negativi invece risiedono nello scarso potere contrattuale
dovuto alla frammentazione della forza lavoro stessa, nella bassissima considerazione sociale che la “non
visibilità” implica, e nell’isolamento che a volte può diventare alienante.
Il mancato riconoscimento della professionalità delle lavoratrici a domicilio, unito alla delocalizzazione, e
la conseguente diminuzione della mole di lavoro, hanno indotto molte di loro ad abbandonarlo definitivamente. La precarizzazione a cui questo lavoro va incontro rischia di fare perdere il patrimonio di conoscenze di cui solamente queste professionalità sono in possesso.
L’indebolimento del ruolo della famiglia che per il passato ha sostenuto la riproduzione e la formazione
della manodopera, e la maggiore scolarizzazione, uniti ad un maggior benessere, portano ad una crescita
delle aspirazioni dei giovani locali difficilmente attratti da un settore poco remunerativo.
Il distretto della Riviera del Brenta è stato protagonista negli ultimi anni di una apertura verso l’esterno che
si è manifestata sia attraverso la delocalizzazione produttiva che attraverso l’attività di aziende che offrono
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la loro subfornitura ad aziende esterne al distretto (si apre in quest’ultimo caso il pericolo della concorrenza). La più recente strategia distrettuale per mantenere bassi i costi di produzione consiste nella delocalizzazione delle fasi di lavorazione nei Paesi dell’Est Europeo. Essa però, seppure ampiamente diffusa in
tutte le realtà produttive venete, non appare soddisfacente per le produzioni calzaturiere di altissimo livello. Le “conoscenze contestuali” non possono essere esportate perché appartengono alla cultura locale; si
possono esportare le fasi di lavorazioni più facili e quelle comunque intermedie, anche se complesse, a
patto di mantenere le fasi finali (di controllo) in Italia.
Attualmente esiste il serio pericolo che questo capitale sociale si perda nel caso in cui le relazioni del network sociale si deteriorino attraverso la costruzione di reti lunghe di subfornitura, che tagliano fuori il network sociale locale, oppure se nel distretto s’instaura una forte gerarchizzazione aziendale capace di concentrare le attività produttive in poche grandi aziende lasciando fuori quelle minori.
Uno degli strumenti di delocalizzazione più sfruttati è il TPP (Traffico di Perfezionamento Passivo) che ha
avuto un indubbio exploit negli ultimi anni; esso prevede il trasferimento del semilavorato (che rimane in
proprietà dell’azienda italiana) verso un altro Paese dove verrà rifinito. Il vantaggio risiede nel pagamento
dei dazi doganali sul solo valore aggiunto alla merce (la lavorazione) proveniente dal paese straniero scelto. Alla lunga è emerso come il ricorso a tale strategia economica non sia stato risolutivo dei problemi economici in cui si trovano oggi le realtà produttive del distretto, bensì abbia solamente tamponato le difficoltà date da una congiuntura negativa e comunque non possa costituire una risoluzione definitiva.
L’internazionalizzazione dei mercati e la sottocapitalizzazione delle imprese, insieme con il marcato individualismo che caratterizza gli imprenditori locali, minano ogni potenzialità di sviluppo del territorio.
La globalizzazione e le sue sfide non hanno fatto altro che sottolineare le difficoltà di cui risentono le realtà produttive italiane a causa della mancanza di un intervento regolativo della politica locale e regionale. La
sola riduzione del costo del lavoro non basta per combattere le turbolenze del mercato, c’è bisogno di più
collaborazione e di decisioni concertate fra le parti (pubblico e privato), capaci di promuovere lo sviluppo
tecnologico e infrastrutturale dell’area, di trovare nuove vie di finanziamento, di diffondere la “cultura”
della certificazione di qualità, di potenziare i servizi e le reti viarie del territorio in vista dello sviluppo economico e di migliorare il territorio inteso anche come ambiente di vita.
Il Patto Territoriale “Città del Brenta” (del quale non si riesce a desumere lo stato di avanzamento dei lavori e del finanziamento) punta proprio a realizzare tutto ciò attraverso il più ampio coinvolgimento di attori locali. In sostanza, esso sottolinea il bisogno di:
– creare sistemi di qualità in tutte le aziende
– potenziare una rete informatica di distretto
– accrescere la formazione delle maestranze
– integrare il sistema delle infrastrutture.
Naturalmente per fare tutto ciò è indispensabile ottenere la massima flessibilità e attenzione da parte del
sistema pubblico nell’erogazione dei servizi di sua competenza.
La cooperazione all’interno del distretto coniugata con la sua apertura verso l’esterno può creare una serie
di opportunità nuove e vantaggiose, a patto che la cultura produttiva locale e chi ne è portatore ricevano
un adeguato riconoscimento che ne garantisca la trasmissione continua tra le generazioni.
(Roberta Boggian)
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ALESSANDRO CAVALLI, Incontro con la sociologia, Bologna, Il Mulino, 2001.
Questo libro è piccolo, ma ambizioso” esordisce consapevolmente l’autore nella prefazione. “Non è scritto per gli specialisti”, continua, “ma vuole raccontare la sociologia a chi non si è mai ancora accostato a
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questa disciplina” (pag. 7). Attraverso lo slogan “siamo tutti sociologi, anche senza saperlo” giunge al lettore il messaggio che ogni individuo ha numerose competenze in materia sociale, perché, nel proprio agire
quotidiano, è costantemente chiamato a formulare valutazioni della società in cui è immerso e a verificarne il funzionamento. Naturalmente, il sociologo che è in ciascuno di noi conosce solo una piccolissima
parte delle nozioni necessarie alla comprensione di tutti gli aspetti sociali, quella che è patrimonio (o
senso) comune. In poche pagine, Cavalli cerca di introdurre il lettore “al resto”, cioè al sapere cumulato
attraverso la ricerca, la curiosità, la dedizione e il lavoro intellettuale di tutti coloro che hanno contribuito
alla costruzione dei fondamenti scientifici della sociologia moderna.
La sociologia è una scienza anomala e complessa. Definire l’oggetto di studio o il confine delle aree di interesse sono considerate imprese impossibili persino dagli stessi sociologi. La sociologia è, inoltre, una
scienza molto giovane in cui non si sono mai affermati paradigmi in maniera schiacciante e non si è ancora imposto un vero e proprio linguaggio comune. Tutte caratteristiche che dovrebbero mettere a disagio
il principiante e disincentivarlo alla lettura. Invece, mantenendo sempre un occhio alle teorie sociologiche
e un occhio alle ricerche sul campo, il lettore viene accompagnato lungo le diverse strade maturando la
consapevolezza che la varietà di approcci e di opinioni rappresentino più una ricchezza che un limite del
sapere sociologico. Non solo, il lettore può sempre trovare un il filo che collega i diversi approcci e che li
rende più spesso integrabili fra loro che incompatibili (nonostante siano chiare anche le profonde differenze che caratterizzano le diverse scuole di pensiero).
Senza lasciarsi prendere dalla frenesia di affrontare in poche battute tutti gli autori classici della disciplina,
l’autore ha scelto consapevolmente di presentare solo i principali esponenti. E, a conti fatti, questa scelta
risulta un buon modo di snellire il programma mantenendo alto il livello dei contenuti. La presentazione
delle basi storiche e teoriche si chiude con una veloce carrellata dei metodi utilizzati dalla ricerca empirica.
In tutte le scienze esiste una distinzione tra ricerca teorica e ricerca applicata. Questa divisione di competenze tra scienziati diventa un aspetto certamente negativo se teoria e applicazione non comunicano, mentre assume una connotazione positiva quando la teoria è in condizione di elaborare concetti da sottoporre con umiltà alla verifica empirica. La ricerca in ambito sociale per propria natura patisce evidenti limiti di
verifica sperimentale. Pertanto, ha particolarmente bisogno di attivare un circolo virtuoso tra teoria e ricerca empirica, in cui la teoria suggerisce e prepara il terreno delle ricerche empiriche e, dalla ricerca empirica, ottiene nuove e più pregnanti ipotesi da sottoporre alla riflessione collettiva degli studiosi. In sociologia, come in tante altre scienze, “vale la regola che la teoria senza ricerca empirica è vuota, e la ricerca senza
teoria è cieca” (pag. 76).
Nell’affrontare lo spinoso problema dell’analisi dei dati (soprattutto nel senso di elaborazione statistica
delle informazioni raccolte), Cavalli riconosce alla ricerca empirica il possesso di una dotazione invidiabile
di strumenti tecnici per l’analisi, ma ci tiene a sottolineare che i risultati dipendono più dalla qualità del
materiale a disposizione che dalla raffinatezza delle metodologie impiegate. E questa affermazione è molto
importante se si pensa alle tante situazioni in cui le carenze informative vengono nascoste dietro altisonanti formule matematiche.
Pur avendo come scopo dichiarato il desiderio di soddisfare le curiosità della gente comune, questo libro
riesce a mantenere un livello di ragionamento e un rigore formale piuttosto elevati. Il lettore viene introdotto ai concetti attraverso spiegazioni ed esempi molto semplici, ma senza scivolare nell’ovvio o nel banale. Per la snellezza e la semplicità di esposizione questo testo rappresenta un valido compendio per chi non
se la sente di affrontare un poderoso manuale, ma ha voglia di accostarsi alla materia in modo serio e rigoroso. A questo proposito, bisogna sottolineare che è particolarmente apprezzabile trovare alla fine del testo
una piccola bibliografia ragionata in cui l’autore segnala una dozzina di letture indispensabili a chi, dopo
questo primo assaggio, desideri approfondire lo studio della materia.
(Arjuna Tuzzi)
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STEIN ROKKAN, Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp.501.
Il volume di cui sto proponendo la recensione meriterebbe di essere presentato nella rubrica Mayday
Mayday (Un libro da salvare) perché ormai molti lo conoscono solo per le sintesi che si trovano in manuali o altri testi. Nel caso di Rokkan, questo costituisce un problema perché egli ha raramente inteso dare un
carattere di definitività e completezza alle proprie analisi. Rokkan era convinto che nessuno studioso potesse, da solo, risolvere i grandi quesiti della ricerca politica e sociale. Per questo, spesso, quello che egli scrive ha un andamento progressivo, segue più l’evolversi del suo pensiero che la sistematica presentazione
delle sue conclusioni. Lo stile è spesso quasi dimesso, come se trattasse argomenti di secondaria importanza o come se le sue interpretazioni fossero solo prime approssimazioni. In altri termini, la sensazione è
di leggere uno studioso che non intende chiudere la semiosi, non singolarmente almeno, in quanto intende contribuire ad aprirla e a rimandarla agli studiosi successivi.
Questo stile di esposizione è particolarmente evidente nella presentazione della sua teoria dei cleavage,
per la quale è giustamente famoso (e che costituisce la parte centrale e più rilevante di questo volume).
Seguendo in questo l’impostazione paradigmatica di Parsons (l’interpretazione funzionale dei sistemi di
azione detto AGIL, pur con lievi modifiche) e il metodo di Parsons nella produzione di teorie (utilizzare le
ricerche empiriche precedenti per verificare o falsificare i propri schemi interpretativi), Rokkan comincia
con l’individuare quattro cleavage che attribuisce a due rivoluzioni:
la Rivoluzione Nazionale da cui si sarebbero originate, in ciascun Paese, le fratture Centro/Periferia e
Stato/Chiesa;
la Rivoluzione Industriale da cui si sarebbero originate le fratture Agricoltura/Industria e
Proprietari/Operai. Quindi chiarisce che “Molta della storia d’Europa, a partire dal diciannovesimo secolo,
può essere descritta nei termini dell’interazione tra questi due processi di cambiamento rivoluzionario:
uno scoppiato in Francia e l’altro originatesi in Gran Bretagna” (p. 176). Inoltre, egli chiarisce che il proprio obiettivo non è quello “di spiegare il sorgere dei singoli partiti ma di analizzare i processi di formazione dell’alleanza che conducono allo sviluppo di stabili sistemi di organizzazioni politiche in tutti i paesi”
(p. 191).
Le prime tre fratture Centro/Periferia, Stato/Chiesa e Agricoltura/Industria sono servite “a provocare degli
sviluppi nazionali in direzioni divergenti mentre la frattura Proprietari/Operai rese i sistemi partiti più simili l’uno con l’altro nella loro struttura di fondo” (p. 191). Questa affermazione - che serve soprattutto per
permettere a Rokkan di evidenziare, secondo l’approccio di Parsons, le tipicità e ridimensionare, per quanto possibile, le specificità - trova il proprio completamento nella scelta di parlare di una più generale frattura Proprietari/Operai, al posto della più specifica frattura Capitale/Lavoro (quest’ultima da attribuire più
alla Rivoluzione Bolscevica che a quella industriale). Inoltre, la similitudine tra sistemi partiti modellati sulla
frattura Proprietari/Operai viene presentata come la conseguenza del punto di vista da egli stesso adottato e, quindi, contestabile da punti di vista diversi o alternativi. Rokkan chiarisce, infatti, che “Il nostro punto
di vista è che i fattori che danno origine a queste differenze nella sinistra sono secondari” (p. 192).
Talmente secondari che, nella tabella 3.7 (pp. 217-8), Rokkan evidenzia queste differenze, mettendole in
un risalto che le parificano alle altre che sono principali. Infatti, nella prima parte della tabella, egli presenta
le prime tre fratture (Centro/Periferia, Stato/Chiesa e Agricoltura/Industria) e le attribuisce a tre diverse
giunture critiche: Riforma/Controriforma: XVI-XVII secolo; Rivoluzione democratica: 1789 e successivi;
Rivoluzione industriale: XIX secolo. Nella parte conclusiva della tabella, Rokkan presenta la frattura
Proprietari/Lavoratori e la attribuisce alla Rivoluzione russa: 1917 e seguenti (p. 218).
Fin qui la parte più rilevante del terzo capitolo dell’opera di Rokkan, mentre il primo capitolo è sulla partecipazione politica, il secondo sui processi di costruzione della nazione, il quarto e i seguenti sostanzialmente sulle elezioni (sistemi elettorali, partecipazione elettorale, opinione pubblica, preferenza partitica,
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etc.). Va da sé che il terzo capitolo di quest’opera è la parte più interessante e che più ha fatto discutere.
Inoltre, è certamente la parte per la quale Rokkan sarà ricordato più a lungo. Questo terzo capitolo è, inoltre, la sintesi di due scritti precedenti: uno scritto in collaborazione con Lipset (Cleavage Structure, Party
Systems, and Voter Allignments: An Introduction); l’altro scritto da solo (The Structuring of Mass Politics
in the Smaller European Democracies) e dedicato, come indica lo stesso titolo, all’analisi dei seguenti
undici (più piccoli) paesi democratici europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Islanda,
Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Svezia e Svizzera. Dal momento che vi sono delle differenze tra i tre saggi
e che, per motivi di sintesi, molti argomenti dei primi due saggi sono stati esclusi da questo terzo capitolo, una presentazione esaustiva del lavoro di Rokkan può avvenire solo con un’analisi critica dei tre diversi saggi.
Personalmente non sento l’esigenza di questa edizione critica in quanto servirebbe solo a fissare, una volta
per tutte, il pensiero di Rokkan mentre, come per molti altri classici, l’aspetto più interessante delle teorie
di Rokkan è proprio la possibilità, cui sono ricorsi molti studiosi, di attingere con forzature al suo pensiero. Nel caso del piccolo ambiente della rivista Foedus, tuttavia, è successo che queste forzature si siano presentate in versioni tali da essere tra loro incompatibili. Per questo, la presentazione libera delle teorie di
Rokkan può costituire un problema e questo problema intendo, appunto, affrontare nel resto di questa
recensione.
Tra gli scienziati della politica, promotori o redattori di questa rivista, le due versioni libere delle teorie di
Rokkan possono così essere sintetizzate:
quella maggioritaria individua ben sei giunture critiche: 1) Riforma e Controriforma responsabili della frattura Centro e Periferia; 2) Rivoluzioni nazionali responsabili della frattura Chiesa e Stato; 3) Rivoluzione
industriale responsabile di due fratture: città e campagna e Proprietari e Operai; 4) Rivoluzione internazionale proletaria (bolscevica) come fattore che fa precipitare all’interno del movimento operaio la frattura tra rivoluzionari (comunisti) e riformisti (socialisti) sull’alternativa: sostegno al movimento rivoluzionario internazionale o integrazione dei ceti subalterni negli Stati nazionali; 5) il ’68 e la contestazione che prefigurerebbero una quinta giuntura critica che starebbe provocando una nuova frattura sulla questione ecologica; 6) la frattura che starebbe provocando la new politics come prodotto della crescita economica
incontrollata;
quella minoritaria considera i partiti politici moderni come articolati su quattro grandi cleavage nazionali
originati dalle tre grandi rivoluzioni: la rivoluzione industriale inglese che ha strutturato l’offerta politica
sulla contrapposizione interessi industriali/agrari; la rivoluzione francese che ha ristrutturato l’offerta politica nelle contrapposizioni Stato/Chiesa e centro/periferia; la rivoluzione sovietica che ha ristrutturato l’offerta politica sulla contrapposizione capitale/lavoro.
Vi sono varie differenze/innovazioni tra le precedenti interpretazioni e le teorie di Rokkan. In riferimento
alla prima, è evidente che, anche volendo ignorare la quinta e la sesta frattura, che sarebbero un tentativo
di aggiornamento delle teorie di Rokkan, persino la quarta giuntura critica appare innovativa rispetto alla
presentazione di Rokkan. Infatti, quest’ultimo considera le giunture come fenomeni che si manifestano
nella società civile e si ripercuotono sul sistema politico rimodellando il sistema partiti. Invece, questa
quarta frattura, tra rivoluzionari e riformisti, è presentata come se avesse la sua genesi all’interno del sistema politico. In riferimento alla seconda interpretazione del gruppo padovano, va considerato che Rokkan
definisce cleavage anche fratture che non si sono attivate, che egli considera rivoluzionari tutti i processi
di costruzione dello stato nazionale e che non si pronuncia sul se nuovi cleavage possono produrre nuovi
sistemi partiti. Le innovazioni della seconda interpretazione consistono nel fatto che sono considerate
cleavage solo le fratture che si sono attivate (definendo quelle non attivate come “questioni”) e che il processo di costruzione della nazione italiana non viene considerato una rivoluzione (dal momento che il
Risorgimento non è stato una rivoluzione come quella francese e proprio per questa differenza dal caso
francese, si è spesso parlato di rivoluzione mancata). Le due interpretazioni padovane di Rokkan, inoltre,
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sono incompatibili tra loro perché, mentre la prima sostiene che sia possibile che nuove giunture critiche
siano realizzate dai vecchi cleavage, la seconda ipotizza che i quattro cleavage siano stati dominanti per
oltre un secolo e mezzo, ma che saranno, probabilmente, sempre meno rilevanti nel futuro. Inoltre, mentre la prima interpretazione fa cominciare con il 1968, l’inizio di una nuova giuntura critica attribuibile a un
cleavage, la seconda interpretazione tende a presentare il 1968 come la data a partire dalla quale il sistema politico tende a strutturarsi sulla base di “questioni” pragmatiche e non di posizioni ideologiche (cioè
di cleavage).
Su questi ed eventuali altri punti di differenza tra la teoria di Rokkan e le interpretazioni che la presentino
al pubblico di studenti e ricercatori padovani, per chiunque dei redattori e dei promotori della rivista lo
desideri, la discussione è aperta.
(Giuseppe Gangemi)
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[email protected]