persuasione occulta e ricerca di senso

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persuasione occulta e ricerca di senso
PERSUASIONE OCCULTA E RICERCA DI SENSO
Giovanni Cucci
in: La Civiltà Cattolica 2013 II 118-128 – Quaderno 3908 (20 aprile 2013)
La dimensione manipolativa del potere
Le caratteristiche paradossali dell’approccio alla vita proprio della cosiddetta «cultura terapeutica», presentate in un precedente articolo 1, non mancano di avere un influsso potente anche a livello
politico, sociale e morale. Quando viene preso in considerazione un problema di importanza pubblica, si nota sempre più la tendenza a uno «scivolamento» dal piano dei contenuti a quello della
suggestione, accentuando la dimensione emotiva e manipolativa: l’importante non diventa più la
verità o la profondità dei contenuti e delle proposte (che richiedono tempo, fatica e competenza),
ma la persuasione: si cerca di convincere utilizzando messaggi brevi e ad effetto, evitando il più
possibile di entrare in merito alla complessità delle problematiche in gioco.
Sappiamo quanto la persuasione sia una tecnica potente, che, se ben padroneggiata e applicata,
consente di portare le persone dove vuole l’interlocutore: pensiamo a cosa è stata la propaganda di
massa durante i totalitarismi del secolo scorso, pur avendo a disposizione mezzi molto più grezzi e
imprecisi di oggi.
Questa disciplina è oggi molto studiata in sede di psicologia
sociale. Anna Oliverio Ferraris, dell’Università La Sapienza di
Roma, nel suo libro Chi manipola la tua mente? riporta una serie di esperimenti in cui le persone vengono indotte non soltanto
a cambiare idea, ma a tradurla in scelte e decisioni mediante tecniche di tipo emotivo 2. Si tratta di meccanismi strani, persino illogici se visti dal di fuori, ma che tuttavia, qualora vengano applicati correttamente, funzionano e convincono: «Il modo in cui
si presenta la questione è determinante [...]. Pochi sanno che un
timbro di voce grave aumenta la credibilità dell’oratore, che la
scena di apertura di un telegiornale su cui domina il colore blu
produce un effetto rilassante sullo spettatore, che il parlare veloce, senza pause, in televisione rende il discorso più credibile. In
quest’ultimo caso, la valutazione istintiva dello spettatore è la seguente: “Se parla velocemente, vuol dire che non ha esitazioni,
che conosce ciò di cui parla”, con la conseguenza che per tenere i
ritmi televisivi molti finiscono per dire ovvietà, frasi standard
buone per ogni occasione» 3.
La dimensione globale di gran parte dei problemi di politica internazionale diventa essa stessa
un potente meccanismo di persuasione, perché trasmette al cittadino il messaggio che egli si trova
1
Cfr G. CUCCI, «Capitalismo e globalizzazione: aspetti psicologici. I. La cultura terapeutica», in Civ. Catt. 2013 II
23-36.
2
Cfr A. OLIVERIO FERRARIS, Chi manipola la tua mente? Vecchi e nuovi persuasori: riconoscerli per difendersi,
Firenze, Giunti, 2010,19 s.
3
Ivi, 48.37. Cfr W. APPLE - L. A. STREETER - R. M. KRAUSS, «Effects of pitch and speech rate on personal attributions», in Journal of Personalitv and Social Psvchology 37 (1979) 715-727; G. GORN ET AL., «Waiting for the web:
how screen color affects time perception», in Journal of Marketing Research 41 (2004) 215-225; D. B. DULLER ET AL.,
«Social perceptions as mediators of the effect of speech rate. Similarity on compliance», in Human Communication Research 19 (1992) 286-311.
1
all’interno di una situazione più grande di lui, e di fronte alla quale la buona volontà o la velleità
degli ideali contano ben poco, chiudendo con facilità la questione: «Le teorie della globalizzazione
sottolineano l’impotenza dei popoli e delle nazioni di fronte a forze che sono al di là del loro controllo [...]. Senza scelte e senza prospettive, l’umanità è costretta ad accettare una visione del mondo che Margaret Thatcher ha opportunamente definito TNA - There Is No Alternative» 4.
È a questa logica che dobbiamo decisioni catastrofiche, purtroppo mai (ri)messe in discussione,
di cui la collettività si trova in seguito a doversi far carico: si pensi alla campagna di persuasione
messa in atto per giustificare interventi militari (emblematico è il caso della seconda guerra in
Iraq), basata su argomenti rivelatisi falsi ma efficaci, al punto che non sono stati revocati una volta
accertata la loro inattendibilità. Si pensi ancora all’attuale crisi economica, che ha precisi responsabili, frutto di investimenti e programmi spregiudicati, compiuti da persone che hanno
nomi e cognomi, o a esperimenti biologici assurdi (come la mucca pazza e il vino al metanolo),
o ancora a disastri ecologici e ambientali presto relegati nell’oblio (chi parla più del latte alla diossina? Del disastro della centrale di Fukushima? Delle navi piene di scorie tossiche affondate nel
mare Mediterraneo?), ma anche a una serie di malattie nuove che sembrano la conseguenza di esperimenti batteriologici finiti male e portati avanti senza fornire garanzie di alcun genere, ma soltanto
in nome di slogans generici e demagogici: «progresso», «libertà di ricerca», «nelle società più sviluppate si fa così».
Ma ciò che risulta più inquietante, in tutti questi episodi, non è soltanto il fatto che siano potuti
accadere, ma che nessuno abbia pagato per le loro conseguenze: anzi, i veri responsabili hanno
per lo più ricavato profitti considerevoli da tali disastri. L’impunità e l’assenza di responsabilità
sono la conseguenza della politica TNA. E se anche ci si trova qualcosa di strano, non si ha né la
forza, né la volontà di metterlo in discussione.
Anche la maniera di affrontare le problematiche di tipo etico presenta la medesima dinamica
strumentale e manipolativa.
Nel 2004 è uscita in Francia una ricerca del sociologo L. Boltanski (allievo di P. Bourdieu e
docente all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi), che rilegge 30 anni di pratica
abortiva in quella nazione, in un libro dal titolo significativo La condizione fetale. L’analisi del
contesto culturale, la testimonianza di medici, infermieri e di decine di donne che hanno abortito
rivelano anzitutto strani cambiamenti nel linguaggio, che cerca di presentare il problema in modo
volutamente asettico e neutrale: «l’aborto» diventa una sigla, ivg (interruzione volontaria di gravidanza), un’operazione chirurgica che rimuove qualcosa di non ben definito (chiamato, a seconda
dei casi, «bambino», «embrione», «pre-embrione», «feto autentico», «feto tumorale»).
Quando si rivolgevano a una donna che intendeva partorire, i medici nell’ecografia lo chiamavano «il suo bambino», mostrando le immagini delle mani, dei piedi, del cuore, dei polmoni. Nel
caso invece in cui la donna sceglieva di abortire, il feto, pur presentando il medesimo numero di
settimane, non veniva neppure nominato: lo si indicava con espressioni neutre come «quella cosa
lì», non facendo alcuna allusione a un possibile essere umano e invitando la donna a non guardare
neppure le immagini dell’ecografia 5.
Eppure, nonostante i tentativi di fornire un aspetto linguistico e medico accettabile, l’aborto porta con sé ferite e traumi irrisolti. Le donne intervistate ammettevano il grande disagio e dolore provati, anche a distanza di molti anni, un aspetto del problema, questo, tuttora poco studiato: era come
se alla morte del bambino si accompagnasse la morte di una parte della loro persona. Nessuna di loro giustificava questa decisione dal punto di vista morale; esse parlavano per di più di una situazione di costrizione in cui si erano trovate: non potevano farci nulla, perché «non avevano altra scelta». Questo disagio era presente anche nel personale ospedaliero addetto all’eliminazione dei feti,
4
F. FUREDI, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, 70.
Cfr L. BOLTANSKI, La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Milano, Feltrinelli,
2007, 149-153.
5
2
che chiedeva con insistenza che l’assegnazione a questo incarico venisse diradata il più possibile, a
motivo dello stress e del disagio che comportava 6.
Ma le conseguenze più importanti vengono rilevate da Boltanski a livello giuridico e culturale:
l’interruzione volontaria della gravidanza rimette in discussione l’idea stessa di generazione e di
appartenenza al genere umano, ponendo una differenza tra gli «esseri umani della carne» e gli «esseri umani della parola». Sono questi ultimi a vivere e a decidere della vita di altri, riproponendo su
altra scala l’antica distinzione tra uomini e schiavi, una distinzione che non trova alcuna base giuridica 7.
La conclusione di Boltanski (che non intende prendere le difese di nessuno schieramento morale, politico o religioso) è che «la condizione fetale è la condizione umana», e il suo mancato riconoscimento mette in crisi la stessa cultura dei diritti, per sanzionare un puro atto di forza privo di giustificazioni legali: «Gli esseri umani hanno sicuramente il potere di operare questa selezione e si
può prevedere che tale potere sia destinato ad aumentare; resta però da capire con quale autorità la
operino, vale a dire quale istanza dia loro l’autorità di esercitare questo potere» 8.
Di fronte a questi gravi dilemmi irrisolti, la strategia per lo più seguita è di ignorarli semplicemente, rimuovendoli dall’immaginario collettivo: «Siccome il male [...] resta comunque un male, le
persone avranno la tendenza a evitare di considerarlo troppo a lungo e a chiudere gli occhi. Nel farlo, avranno una buona scusa: che non possono farci niente» 9.
Anche se tradotto due anni più tardi, il libro suscitò fin dalla sua apparizione un forte interesse
anche in Italia: recensendolo sulla pagina culturale di un quotidiano italiano, l’autrice dell’articolo
terminava con un’osservazione che è molto in linea con il discorso fin qui svolto circa la cultura
delle emozioni e il TNA. Di fronte a questi dati, ella esprimeva il senso di impotenza di fronte a
una situazione che, pur ingiusta, rimane comunque già decisa e non più contrattabile: «Dovremmo
ridiscutere la legalizzazione dell’aborto, ma tutti - a cominciare da chi scrive - siamo convinti che
sia meglio non rimetterla in discussione» 10.
Esattamente come per le decisioni in campo di politica ed economia internazionale viste
sopra, sbagliate ma comunque praticate, siamo giunti a un punto di non ritorno: non è più
possibile tornare indietro.
Rivedere il modello cartesiano di «salute mentale»
Le osservazioni e gli esempi riportati mostrano come la concezione occidentale della salute
mentale non sia per nulla asettica e neutrale, ma sia ispirata a una precisa antropologia, gravida di
conseguenze a livello globale: è il modello cartesiano (con le sue tipiche dicotomie: anima/corpo,
conscio/inconscio, individuo/comunità, sacro/profano, scienza/opinione), in cui l’essere umano viene presentato come una macchina che reagisce a stimoli chimici, soprattutto farmacologici.
L’approccio manipolativo ai problemi ricorda anche la tematica, acutamente analizzata da M.
Horkheimer e Th. Adorno, dell’uso strumentale della ragione 11, proprio della società tecnologi6
Cfr ivi, 108-145; T. CANTELMI - C. CACACE - E. PITTINO, Maternità interrotte. Le conseguenze psichiche dell’ interruzione volontaria di gravidanza, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2011.
7
Cfr ivi, 49-55; 286 s.
8
Ivi, 285.
9
Ivi, 274 s; corsivo nel testo.
10
L. SCARAFFIA, «Se l’aborto mette in crisi i diritti dell’individuo», in Corriere della Sera, 10 gennaio 2006, 41.
11
«Un tempo l’individuo vedeva nella ragione solo uno strumento dell’io; ora si trova davanti al rovesciamento di questa deificazione dell’io. La macchina ha gettato a terra il conducente, e corre cieca nello spazio. Al
culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida. Il tema del nostro tempo è
quello della conservazione dell’io, mentre non v’è più nessun io da conservare» (M. HORKHEIMER, Eclisse della
ragione, Torino, Einaudi, 1969, 113); cfr M. HORKHEIMER - TH. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, ivi, 1966, soprattutto 11-50.
3
ca: «Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell’economia
borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori, senza riguardo alla loro
origine» 12. La domanda sui fini, sui valori, sul significato morale di quanto si sta realizzando
viene considerata superflua: ciò che conta è predisporne la realizzazione tecnica.
Se si può parlare di «scopo», esso è piuttosto quello di ottenere il consenso, a tutti i costi, «una
forma di “consenso”, che in realtà - come già denunciava Arendt, tra gli altri - nasconde il pericolo
della manipolazione e della violenza. Si tratta di un consenso apparente, forzato, che sottostà alla
legge del più forte, del più abile, e che nasconde una crisi più profonda, la crisi di una comune visione dei valori»13.
Gli effetti della globalizzazione sono evidenti anche dal punto di vista psicologico. Di fatto
l’Occidente esporta e impone a tutto il mondo le sue patologie. Molte culture e terapie tradizionali
stanno gradualmente scomparendo per lasciare il posto a un approccio «scientifico», di tipo farmacologico, dimenticando la dimensione culturale e sociale del disagio psichico: «I sintomi della malattia mentale sono una sorta di bagliore che illumina lo spirito del tempo, il prodotto della cultura e
delle credenze in un dato luogo e in un dato tempo. Il fatto che a metà dell’Ottocento migliaia di
donne delle classi agiate soffrissero di una forma di paralisi temporanea isterica alle gambe, che
impediva loro di scendere dal letto, ci offre una comprensione profonda dei limiti entro cui erano
costretti i ruoli sociali femminili dell’epoca. Ma con la crescente velocità della globalizzazione
qualcosa è cambiato, la notevole differenza di un tempo tra le concezioni della follia nelle diverse
culture sta rapidamente scomparendo. Alcuni disturbi mentali individuati e resi popolari negli
USA - come la depressione, il disturbo da stress post-traumatico e l’anoressia - sembrano ormai diffondersi nel mondo, al di là delle frontiere culturali, con la stessa velocità delle malattie contagiose» 14. Grazie a questi parametri, generazione dopo generazione, ci stiamo scoprendo
con sorpresa molto più fragili e malati dei nostri progenitori.
Le gravi e complesse difficoltà, sopra mostrate, a portare chiarezza sui termini basilari della
«salute psichica» dicono invece che essa non è affatto riducibile a una mera questione di ormoni e
reazioni chimiche, ma che è strettamente legata a un’ermeneutica, una cultura, una filosofia, una
più generale concezione della società e della vita. Questo legame va riconosciuto con onestà di
fronte a disturbi che presentano un carattere non organico, ma psicosomatico.
Sul versante europeo, M. Benasayag e G. Schmit, riflettendo sull’aumento preoccupante di richieste di aiuto psicologico da parte di giovani e giovanissimi in Francia negli ultimi anni, ne rilevano la gravità, proprio perché si tratta di forme di sofferenza che riflettono «il disagio della nostra
civiltà», un disagio profondo e complesso che non può essere risolto da una tecnica: «La medicalizzazione, che tende oggi a monopolizzare la risposta clinica, va proprio in questa direzione. State
male? soffrite? I laboratori farmaceutici propongono di occuparsi in primo luogo del disordine molecolare. Dopo tutto, che cos’è l’essere umano se non un assemblaggio più o meno riuscito di molecole?»15.
Secondo le ricerche, in Francia si registrano ogni anno 14.000 suicidi, e circa 3 milioni di francesi sono affetti da una forma di depressione profonda, che nei prossimi anni riguarderà almeno il
19% della popolazione16.
12
Ivi, 12.
M. MATTEINI, MacIntyre e la rifondazione dell’etica. La crisi delle ideologie e della morale e il recupero del finalismo etico come «bene comune», Roma, Città Nuova, 1995, 37.
14
E. WATTERS, Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, Milano, Bruno Mondadori, 2010, 3.
15
M. BENASAYAG - G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2005, 11.
16
Cfr A. ANATRELLA, Non à la société dépressive, Paris, Champs - Flammarion, 1993, 249; J. L. ANDRÉÏ
L’Express, 1/3/2001, 27.
13
4
Pur guardandosi dal rischio di ridurre il fenomeno del disagio psichico a una mera modalità di
causa-effetto (malessere = mancanza di valori), non si può non rilevare l’incremento impressionante di ciò che qualcuno ha chiamato «i luoghi della disperazione» 17. I dati in proposito non possono
non suscitare interrogativi e preoccupazioni circa una più generale disgregazione degli orizzonti di
senso.
Situazione non diversa appare da una ricerca condotta negli Stati Uniti da trentatré studiosi, di
discipline differenti, sulla condizione giovanile: «Lo studio presenta un quadro preoccupante dei
giovani d’oggi [l’A. scrive nel 2006], evidenziando un allarmante aumento della depressione e dell’
ansia, dell’uso di sostanze stupefacenti, dell’abuso di alcool e dell’attività sessuale. Anche se negli
ultimi tempi queste tendenze si sono in parte attenuate, lo studio mostra nondimeno come rimangano peggiori dei dati relativi al 1975» 18.
L’incapacità di offrire una cura a questo sempre più diffuso disagio è la smentita della riduzione dell’essere umano a un ammasso di molecole, tendenza sempre più accentuata anche dall’uso
(anch’esso emotivo e manipolativo) che riviste e quotidiani fanno di presunti «dati» delle neuroscienze, esasperandoli fino al ridicolo. È comunque significativo constatare che in questi contributi
la tendenza a una «lettura biochimica» della morale e dell’agire umano vada sostanzialmente
nella stessa direzione dell’approccio farmacologico alla salute mentale, tipico della società capitalista 19.
I farmaci hanno la loro utilità e importanza, ma non sono in grado di dare una risposta alla domanda di senso, che si annida dietro la sofferenza psichica. Per essa si richiedono proprio
quei saperi che la cultura tecnologica vorrebbe eliminare perché ritenuti inutili, sorpassati o non
quantificabili, senza rendersi conto che nel fare ciò essa decreta la sua fine, come aveva riconosciuto con acutezza Husserl: «L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del
mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con
cui si lasciò abbagliare dalla “prosperity” che ne derivava, significò un allontanamento generale da
quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Nella miseria della nostra vita - si sente dire - questa scienza non ha niente da dirci.
Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’ esistenza umana nel suo complesso» 20.
Contrariamente a quanto affermato dalla cultura terapeutica, le conseguenze di un trauma dipendono in gran parte da come una persona lo legge, cioè dal mondo valoriale di riferimento, e soprattutto se essa si trova sola a farlo o se ha qualcuno accanto a sé in grado di aiutarla 21. Si tratta di
17
L’espressione è di P. Crepet, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano, Feltrinelli, 1993, 34.
D. S. BROWNING, Etica cristiana e psicologie morali, Bologna, Edb, 2009, 8; la ricerca cui si fa riferimento è
Hardwired to Connect: The New Scientific Case for Authoritative Communities, New York, Institute for American Values, 2003; cfr C. WALLACE, «Kids These Days: The Changing State of Childhood», in The Christian Century 122
(2005) n. 6, 26-40; G. CUCCI, «Narrazione e senso della vita», in Civ. Catt. 2010 IV 162-172.
19
I titoli di alcuni articoli e pubblicazioni in ambito di neuroscienze sono di per sé significativi: E. DUSI, «I
vizi capitali possono aiutare “Scopri la gioia del peccato”», in la Repubblica Scienze, 27 febbraio 2012; R. SCRUTON,
«Il DNA della morale», in la Repubblica, 26 febbraio 2012, 46; M. PATTELLI PALMARINI, «Siamo pronti alla pillola della moralità? Se si cancella il libero arbitrio», in Corriere della Sera, 31 gennaio 2012, 29. Secondo la filosofa P. S.
Churchland, autrice del recente saggio Neurobiologia della morale (Milano, Raffaello Cortina, 2012), la morale sarebbe riconducibile a un ormone, l’ossitocina (cfr S. MODEO, «L’etica è questione di ormoni», in Corriere della Sera
Lettura, 15 aprile 2012).
20
E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1983, 35;
cfr anche L. WITTGENSTEIN: «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche
hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda
alcuna; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse
per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva
questo senso?)» (Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1964, 81).
21
Cfr G. CUCCI, La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, Adp, 20112, 218-240.
18
5
una discriminante fondamentale, che trova conferma nelle ricerche compiute in comunità sconvolte
da guerre e cataclismi; il supporto della comunità, con i valori e le tradizioni in essa presenti, fa da
cassa di risonanza fondamentale per poterlo rileggere e affrontare, smentendo il postulato individualistico dell’uomo che si fa da sé: «La disintegrazione sociale accresce lo stress provocato da un
trauma, mentre un forte senso della comunità, al pari dell’impegno politico, accresce la capacità di
reagire di fronte ai pericoli»22.
Conclusioni simili giungono da D. Summerfield: «I fattori culturali, e in particolare il sistema
di significato predominante, hanno un’influenza cruciale sul modo in cui si affronta la sofferenza.
Gli effetti della violenza e della devastazione non dipendono esclusivamente dall’intensità dell’ evento [...]. Il trauma psicologico è diverso dal trauma fisico: gli individui non registrano passivamente l’impatto di una forza esterna (per esempio, una pallottola che colpisce una gamba), ma si
impegnano in modo attivo, cercando una soluzione, “la sofferenza nasce e si risolve in un contesto
sociale” [...]. Con la cultura terapeutica l’idea di un soggetto attivo ha lasciato il posto a un’ immagine di sostanziale passività» 23.
Finché il sapere «sapienziale» in genere (la fiaba, il mito, il simbolo e la metafora, quello che il
filosofo P. Ricoeur chiamava parola prima, base indispensabile per la filosofia intesa come parola
seconda, perché in grado di parlare dei massimi problemi dell’essere solo riprendendo e tematizzando il patrimo nio presente nella parola prima), così come la stessa problematica religiosa, verranno svalutati come saperi di «serie B», l’homo tecnologicus non potrà recuperare la sua dimensione di homo sapiens, cadendo preda delle «passioni tristi».
Le risposte agli interrogativi fondamentali dell’
esistenza giungono dalle forme di sapere proprie
dell’universo sapienziale, interessato cioè a riconoscere che cosa dia sapore alla vita, il suo significato ultimo, fornendogli forza e motivazione di
fronte alle difficoltà e ai problemi dell’esistenza,
perché lo introduce in un orizzonte di significato:
«Dietro la speculazione noi troviamo i miti. Si intenderà per mito ciò che la storia delle religioni
oggi vi riconosce: non una falsa spiegazione attraverso immagini e favole, ma un racconto tradizionale, che riguarda avvenimenti accaduti all’origine
dei tempi, destinato a fornire le basi dell’azione rituale degli uomini di oggi e, in senso generale, ad
istituire tutte le forme di azione e di pensiero per mezzo delle quali l’uomo comprende se stesso nel
suo mondo» 24.
Era la verità dell’affermazione di Nietzsche: «Se si possiede il nostro perché della vita, si va
d’accordo quasi con ogni domanda sul come»; un aforisma, questo, che V. Frankl riprende significativamente come elemento fondamentale per la sopravvivenza nell’esperienza autobiografica descritta nel libro Uno psicologo nei lager 25. Frankl aveva notato che la possibilità di sopravvivere
22
V. PUPAVAC, «Traumatising children: War and trauma risk management», conferenza tenuta al 52° Incontro
della Society for The Study of Social Problema (Chicago, 2002).
23
F. FUREDI, Il nuovo conformismo..., cit., 158; cfr D. SUMMERFIELD, The Impact of War and Atrocity on Civilian Populations: Basic Principies for NGO Interventions and a Critique of Psychosocial Trauma Projects, London,
ODI, 1996, 25.
24
P. RICOEUR, Finitudine e colpa. II. La simbolica del male, Bologna, il Mulino, 1970, 249. Per un approfondimento, cfr G. CUCCI, La maturità dell’esperienza di fede, Leumann (To) - Roma, Elledici - La Civiltà Cattolica, 2010,
149-184.
25
Cfr V. FRANKL, Uno psicologo nei lager, Milano, Ares, 1975, 129; F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli,
Milano, Adelphi, 1983, nn. 12, 26.
6
nelle «situazioni estreme» non era data in primo luogo dalla costituzione fisica, dalla robustezza o
dalle forze a disposizione, ma dalla capacità «sapienziale» di poter trovare un significato in ciò che
si stava vivendo. Ciò forniva forza e motivazione per affrontare le prove più terribili.
L’insegnamento ricavato dall’esperienza del lager ha trovato per Frankl una conferma di fronte
ai problemi e alle difficoltà della vita ordinaria, al punto da elaborare una proposta psicologica che
si è ben presto largamente diffusa e praticata nel mondo, la logoterapia: la vera pietra angolare
della salute mentale è «l’antico ed eterno bisogno metafisico, ossia l’esigenza dell’individuo di
dare un senso alla propria esistenza»26.
Quando non trova un significato per la propria vita, l’uomo, anche se in buona salute, finisce
per scegliere volontariamente la morte, come si può notare dall’impressionante rilevanza della tematica del «fine vita» nell’odierno contesto culturale27.
“Ho trovato il senso della mia vita
nell’aiutare gli altri a trovare,
nella loro vita, un significato.
26
V. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia, Morcelliana, 2001, 128; cfr ID., La sofferenza di una
vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, Leumann (To), Elledici, 1992.
27
Sul tema del senso in relazione al vivere, e più in particolare nell’ambito della ricerca psicologica, cfr G. CUCCI,
«Aspetti psicologici della speranza», in Civ. Catt. 2008 IV 31-40; ID., «Psicologia e religione. Un rapporto complesso
ma necessario», ivi, 2011 III 226-239; ID., «Psicologia e religione: un invito a “pensare di più e altrimenti”», ivi, 2012
III 363-373.
7