Marco Dardi (*) 1. Unico fra i “padri” del marginalismo, Marshall è

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Marco Dardi (*) 1. Unico fra i “padri” del marginalismo, Marshall è
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 1
Marco Dardi (*)
ALFRED MARSHALL, LA MATEMATICA E LA STATISTICA
1.
Unico fra i “padri” del marginalismo, Marshall è diventato quasi un’icona
per chi, oggi, vede l’economia troppo spinta sulla via della matematizzazione.
Notissima1 una sua lettera a Bowley del 27 febbraio 1906 (ora in Whitaker, 1996,
III, 130-1), che riceve tanta più considerazione in quanto proviente da un “second
wrangler” del Mathematical Tripos di Cambridge, oltreché da un economista che
qualche contributo all’economia matematica lo ha dato, anche se la sua
reputazione non riposa principalmente su questo.
Il famoso passo della lettera a Bowley in cui Marshall enuncia le proprie
regole di uso della matematica in economia sarà il nostro punto di partenza. Lo
riportiamo qui per comodità del lettore:
I had a growing feeling in the later years of my work at the subject [of mathematical economics]
that a good mathematical theorem dealing with economic hypotheses was very unlikely to be good
economics: and I went more and more on the rules — (1) Use mathematics as a shorthand
language, rather than as an engine of inquiry. (2) Keep to them till you have done. (3) Translate
into English. (4) Then illustrate by examples that are important in real life. (5) Burn the
mathematics. (6) If you can’t succeed in 4, burn 3. This last I did often. (Whitaker 1996, III, p. 130)
A ben guardare, la più incisiva delle sei regole è la prima: usa la matematica
non come un’euristica ma come un linguaggio di comodo, quasi una stenografia. Il
sottinteso è che la matematica una sua euristica ce l’ha, ma affidarsi a questa, per
un economista, è pericoloso. Le successive regole 3 e 4, di tornare “quando hai
fatto” al linguaggio naturale e illustrare con casi rilevanti, appaiono facilmente
comprensibili, così come la 2 e la 6 (benché, come vedremo, qualche problema lo
*
Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Firenze, tel. ++39-055-4374574, e-mail
[email protected]. Ricerca condotta nell’ambito del programma “La matematica nella storia
dell’economia” cofinanziato dal MIUR, 2002-04. Testo provvisorio, non citabile. Presentato a
Torino, Fondazione Einaudi, workshop del 16-17 ottobre 2003.
1
Pubblicata per la prima volta in Pigou (1925), pp. 427-8; citata da Coase (1975), e molti
altri. Implicitamente richiamata anche in una denuncia dell’eccesso di matematica in economia
contenuta nella lettera di un gruppo di economisti italiani al quotidiano “La Repubblica” del 30
settembre 1988.
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 2
pongano). Meno chiaro invece è il perché della regola 5, che prescrive di cancellare
sempre ogni traccia di un detour matematico, anche quando questo abbia avuto
successo.
Il primo interrogativo che ci poniamo è: quanto è attendibile questo testo
come indicatore della “vera” posizione di Marshall sull’uso della matematica in
economia? Dove per “vera” intendiamo la posizione che si manifesta attraverso la
sua pratica di economista matematico, e attraverso quelle sue enunciazioni di
principio che riflettono o qualificano tale pratica anziché contraddirla e
implicitamente condannarla. In secondo luogo ci domandiamo: quale che sia la
“vera” posizione di Marshall sul tema, fino a che punto può servirci da guida o da
punto di riferimento nel valutare il percorso dell’economia di oggi fra matematica
e non?
In tre asciutte paginette, Brems (1975) argomenta che le raccomandazioni
marshalliane del 1906 sono inaccettabili se non addirittura contrarie all’etica della
ricerca, tanto da ritenere provvidenziale che siano rimaste per lo più disattese2.
Senza entrare nel merito dei giudizi di Brems, a noi basta quanto osserva Dimand
(1990), e cioè che il primo a violare le regole è proprio lo stesso Marshall. Dimand
argomenta con esclusivo riferimento a una parte dell’appendice matematica dei
Principles che contraddice sia la raccomandazione di uso solamente stenografico
della matematica che quella di bruciare la matematica sempre e comunque. Ma la
sua tesi si rafforza notevolmente se prendiamo in considerazione anche gli inediti
di carattere economico-matematico pubblicati da Whitaker nel 1975, e i capitoli su
“Foreign Trade and Domestic Values”pubblicati per la prima volta da Sidgwick
nel 1879, e in versione un po’ rielaborata nell’ appendice di Money Credit and
Commerce del 1923.
2
Fatto peraltro non sorprendente, trattandosi di raccomandazioni contenute in una
corrispondenza privata. E’ chiaro dal tono generale della corrispondenza che il Marshall scrittore
di lettere è tutt’altra cosa dal Marshall scrittore per pubblicazione: e conta qualcosa che le regole
siano enunciate a esclusivo beneficio di Bowley, allievo dalle spiccate preferenze analitiche, ma non
vengano mai enunciate in forma così netta in scritti destinati al pubblico. Su questo punto
torneremo più avanti.
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Queste considerazioni, che approfondiamo nel paragrafo 2, ci portano a
concludere che la lettera a Bowley non riflette molto fedelmente la “vera”
posizione di Marshall sull’uso della matematica in economia. Sempre preoccupato
di mantenere un equilibrio fra la componente analitica e la componente che
chiama “realistica” dell’economia, Marshall spesso si sbilancia a favore dell’una o
dell’altra a seconda dell’occasione e in funzione dell’interlocutore del momento.3
Si tratta di prese di posizione strumentali alle quali secondo noi non va dato il
valore di autointerpretazioni “autentiche”.
Nel paragrafo 3, rimettendo insieme la pratica matematica di Marshall e le
raccomandazioni ad essa conformi, sosteniamo che la sua “vera” posizione si
sostanzia nel riconoscimento di un’affinità imperfetta fra matematica ed economia,
un’affinità di grado inferiore di quella che corre fra matematica e scienze fisiche
ma pur sempre sufficiente a distinguere l’economia dalle altre “scienze morali”.
L’affinità si fonda sull’idea che l’economia sia l’unica scienza morale capace di
assegnare una misura — attraverso il “metro monetario” — alle forze che agiscono
sul comportamento umano, e quindi in grado di applicare all’indagine sulla
società gli schemi concettuali e le routines analitiche della meccanica razionale.
Significativamente, sono proprio questi schemi e routines che costituiscono
l’essenza della matematica newtoniana e della geometria euclidea in cui Marshall
si è formato negli anni della preparazione al Mathematical Tripos.
L’affinità fra economia e matematica è però, per Marshall, imperfetta: da un
lato perché le forze che agiscono sulla società, a differenza di quelle della
meccanica classica, sono misurabili solo parzialmente e approssimativamente;
dall’altro, perché l’evoluzione sociale è un processo che non può essere
completamente compreso mediante schemi ispirati alla sola meccanica delle forze.
Come tutti i fenomeni della vita, l’evoluzione sociale ha per Marshall sia
3
Per esempio, con Foxwell l’accento cade sul “’ratiocinatory’ [side of economics]” in
contrapposizione al “realistic & statistical” (lettera del 27 novembre 1875, in Whitaker 1996, II p.
140). E con John Neville Keynes ammette: “Perhaps I have unwittingly led people to suppose I
attached less importance to analysis & deduction than I really do” (lettera del 30 gennaio 1902, ivi,
p. 350).
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componenti meccaniche o riducibili alla meccanica, sia componenti puramente
biologiche, irriducibili alle prime e pertanto, nella sua concezione della
matematica da “wrangler” del 1865, non trattabili matematicamente.
Nella sua posizione dominano quindi due componenti: quella storicobiografica di una formazione che non permette di vedere possibilità di
applicazione della matematica al di fuori di contesti quantitativi e deterministici; e
una concezione non riduzionista, anzi decisamente vitalistica, dell’evoluzione
sociale. La prima componente allontana Marshall da noi e rende le sue riserve
sull’economia matematica oggi poco utilizzabili. Le questioni sottostanti alla
seconda componente sono invece tuttora aperte, anzi, nella letteratura
contemporanea abbondano i segnali di recupero di posizioni sostanzialmente antiriduzioniste. Potendo disporre di una matematica ben più flessibile di quella di
Marshall, tuttavia, l’antiriduzionismo di oggi non entra necessariamente in rotta di
collisione con un’economia matematicamente fondata. E’ singolare che un’autorità
“pontificale” dell’economia matematica come Debreu condivida molte delle
riserve di Marshall, e tuttavia da premesse simili tragga conclusioni esattamente
opposte. Mentre Debreu non vede possibilità per l’economia di sottrarsi
all’abbraccio della matematica, che supplisce alla debolezza delle sue basi
sperimentali con la forza della necessità logica; Marshall al contrario pensa che
l’economia possa trovare la forza in se stessa, attraverso l’ampliamento della
conoscenza diretta dei casi, per quanto questa sia inevitabilmente soggettiva ed
episodica.
Il confronto fra l’ottimismo di Marshall e il pessimismo di Debreu sulla
possibilità di avvicinarsi al “vero” in campo economico-sociale, ci consente nel
paragrafo 4 di collegare la posizione di Marshall sulla matematica a quella relativa
a una disciplina vicina all’economia, e che ha subìto un analogo destino di
matematizzazione, quale la statistica. L’opinione di Marshall sui nuovi metodi
statistici che prendono forma fra ottocento e novecento è tendenzialmente scettica
ma anche, per sua esplicita ammissione, da “outsider” poco informato. La sua
diffidenza per la “legge dell’errore” si basa su ragioni simili a quelle che fanno dei
metodi matematici strumenti imperfetti di analisi economica: in entrambi i casi il
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problema è l’impossibilità di trasferire la clausola di caeteris paribus dagli esercizi
teorici all’analisi della realtà. Ma mentre gli statistici suoi contemporanei
riconoscono il problema e si danno da fare per risolverlo attraverso l’affinamento
degli strumenti, Marshall sceglie la via —rinunciataria, dal punto di vista statistico
— di affidarsi interamente all’”istinto pratico”, esercitato in “esperimenti” del
tutto incontrollabili come viaggi e conversazioni casuali. Emerge quindi un
sostanziale parallelismo nell’evolversi degli atteggiamenti marshalliani nei
confronti delle applicazioni della matematica e della statistica all’economia. Da un
lato, lo scarso interesse per l’evoluzione delle due discipline dal punto di vista
puramente tecnico, dall’altro un misto di vitalismo e forse di “overconfidence”
nelle proprie capacità istintive (da cui anche, in età matura, una certa propensione
al “sapienzialismo”), lo spingono in controtendenza rispetto a quelle esigenze di
controllo interpersonale e oggettivo che nel corso del novecento si sono imposte
nelle scienze naturali, e di riflesso nelle scienze sociali.
2.
Cominciamo
con
l’esaminare
la
pratica
del
Marshall
economista
matematico, ignorando per ora tutte le sue affermazioni di principio su come si
dovrebbe usare la matematica in economia.
Prima di tutto un chiarimento: parlando di “matematica” d’ora in poi ci
riferiremo, estensivamente, tanto all’analisi e al calcolo quanto alla geometria. E’
noto (vedi il classico libro di Richards 1988) che la geometria ha nell’educazione
dell’Inghilterra vittoriana un posto di riguardo, superiore a quello della
matematica in senso stretto per la sua capacità di far saltare agli occhi le verità
necessarie. Ed è evidente anche a chi conosca Marshall solo dai Principles quanto
questo privilegio accordato alla geometria corrisponda alle sue convinzioni. Pur
riconoscendo al calcolo una potenza analitica superiore a quella della geometria,
Marshall ritiene che ove possibile sia meglio utilizzare l’esposizione geometrica
per la sua capacità di “interpreting to the eye the processes by which the methods
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 6
of mathematical analysis obtain their results” (Whitaker 1975, II, p. 133)4. In un
manoscritto filosofico probabilmente dei primi anni ’70, “The Duty of the
Logician” (ora in Raffaelli 1994a, pp. 133 segg.), Marshall riporta il doppio punto
di vista in base al quale la geometria è sia “a science of quantity” che “the science
of position”; sotto il primo aspetto la geometria partecipa degli assiomi
fondamentali della matematica, mentre sotto il secondo presenta il pregio (di
carattere non “scientifico” ma “psicologico”, ivi p. 140) di poter essere costruita a
partire dai soli dati dell’esperienza sensibile, “consciousness combined with the
sensations of touch […] motions […] sight” (ivi, p. 137)5. In questo Marshall è
consapevole continuatore di una tradizione specifica di Cambridge, risalente ai
Principia Mathematica di Newton e consolidata nel corso del XIX secolo da
Whewell: tanto che ancora nel 1906, proprio nella famosa lettera a Bowley, può
scrivere: “I believe in Newton’s Principia Methods, because they carry so much of
the ordinary mind with them”6.
4
Vedi anche ivi, p. 162; la recensione della Theory di Jevons (1872), in Pigou (1925) p. 99; la
lettera a Edgeworth del 28 marzo 1880, in Whitaker (1996), I, p. 125, etc. Nei Principles l’ordine di
preferenza fra geometria e analisi si riflette in una precisa scelta editoriale: la geometria sta nel
testo, sia pure in note a piè di pagina, mentre la matematica va in appendice, “lest they
[Mathematics] shd deter the general reader” (Whitaker 1996, I, p. 237).
5
Di prove geometriche con un tale carattere “sensistico” Marshall stesso ci dà un esempio
nella dimostrazione della simmetria delle curve del commercio internazionale (vedi Whitaker 1975,
II, p. 138).
6
Whitaker (1996) III, p.130. Stranamente, Whitaker trova “oscura” questa allusione a
Newton; eppure una caratteristica del metodo dei Principia è proprio il presentare in forma
geometrica teoremi che potevano esser dimostrati per via puramente analitica. Del resto,
un’analoga allusione al metodo di Newton si trova nella nota XXIIIbis dell’appendice matematica
dei Principles, con riferimento all’analisi geometrica del monopolio. Sul ruolo di Whewell nel
modellare l’educazione matematica di Cambridge vedi <Richards ?> Fisch (xxxx). Incidentalmente,
osserviamo come l’apparato newtoniano-euclideo che è alla base della formazione di Marshall non
appaia minimamente scalfito dalla scoperta delle geometrie non euclidee, nonostante Marshall ne
sia avvertito e si renda conto delle conseguenze filosofiche che ne discendono (vedi Butler 1991, pp.
280-2; Raffaelli 1994a, p. 76).
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Nella corrispondenza, Marshall si riferisce ripetutamente ai suoi studi
economici giovanili come tentativi di “tradurre” in matematica Stuart Mill; e la
metafora matematica/linguaggio è una delle più frequenti in tutti gli scritti. Ma se
guardiamo ciò che egli effettivamente fa nei lavori giovanili raccolti in Whitaker
(1975) e nei Principles, ci rendiamo conto immediatamente di quanto la metafora
sia inappropriata7. Marshall, come farebbe qualunque economista matematico di
oggi, procede costruendo modelli (analitici o geometrici) di situazioni economiche,
di cui poi esplora le proprietà con i metodi appropriati al dominio (analitico o
geometrico) di rappresentazione scelto. Il senso dell’operazione, come spiega nella
“Pure Theory of Foreign Trade” (vedi Whitaker 1975 II, pp.132-3) sta nel mettere
in campo le “most powerful engines” disponibili per trattare relazioni fra quantità,
“engines” capaci di assolvere compiti inaccessibili agli “ordinary processes of
general reasoning”. Non si tratta di formulare in un altro linguaggio un problema
che si può anche raccontare a parole, ma di costruire una replica artificiale del
problema per lavorarci sopra con la certezza di scoprire (“security that [the
investigator] will discover”, ivi p. 132) ciò che rileva per la soluzione. La regola 1
7
La metafora è sviante anche da un altro punto di vista; potrebbe far pensare, infatti, a una
concezione logico-sintattica della matematica come linguaggio simbolico del tutto astratto,
concezione che sarebbe in contrasto con l’indirizzo impresso da Whewell all’insegnamento della
matematica a Cambridge. Questo poneva l’enfasi su una concezione della matematica come
“scienza della quantità”, ovvero, nella terminologia messa in auge da Hamilton, come teoria e non
come filologia (Fisch 1994). Di fatto Marshall sembra perfettamente allineato a Whewell nel
considerare la matematica come “science of numbers” (Whitaker 1996, II, p. 256). Notiamo
comunque che negli scritti pubblicati Marshall usa la metafora in modo più articolato che nelle
lettere. Nella recensione della Theory di Jevons, per esempio, distingue fra “linguaggio” e “methods
of reasoning” della matematica (Pigou 1925, p. 98); in “Graphical method of Statistics” riferisce i
secondi alla matematica come teoria delle quantità (ivi, pp. 180-1); mentre nei Principles distingue
fra “linguaggio” e “habits of thought”, attribuendo ai soli secondi una qualche utilità
nell’applicazione economica (Marshall 1961, I, p. 84).
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della lettera del 1906 è esattamente capovolta: la matematica è usata come “engine
of inquiry” e non come “shorthand language”8.
Prendiamo ad esempio i capitoli sulla teoria pura del commercio estero.
Ispirandosi a un esempio numerico tratto dal cap. XVIII del III libro dei Principles
of Political Economy di Stuart Mill, Marshall costruisce una struttura geometrica (e
implicitamente analitica) interpretabile come un modello delle possibilità di
scambio fra due nazioni con struttura industriale perfettamente competitiva. Il
modello apre tutta una problematica relativa alla molteplicità e stabilità degli
assetti di equilibrio in relazione all’andamento dei costi di produzione,
problematica che a Mill era quasi completamente sfuggita; tanto che, con insolita
assenza di sfumature, Marshall può asserire che la trattazione di Mill è “certainly
inadequate” (ivi p. 143)9. Il risultato è un arricchimento sostanziale della teoria
ricardo-milliana dello scambio internazionale, il suo inserimento in un quadro
concettuale del tutto nuovo che con ogni probabilità non sarebbe stato nemmeno
concepibile senza l’aiuto dell’euristica geometrico-matematica.
Analogo il caso della costruzione del sistema di equazioni di equilibrio che
culmina nella nota XXI dell’appendice matematica dei Principles, un testo in cui
Marshall vede concentrata la “struttura portante” (“the whole skeleton”) della
propria teoria del valore e distribuzione10. Anche qui il punto di partenza è Mill, e
in particolare una sua mancanza che a un economista non matematico non sarebbe
saltata all’occhio: “[Mill] did not seem to have a sufficient responsibility —I know
I am talking to a mathematician — for keeping the number of his equations equal
to the number of his variables” (Whitaker 1996, III, p. 227). La “conta” delle
equazioni e delle incognite è dichiaratamente un modo indiretto e di basso profilo
8
Per apprezzare meglio la differenza, si possono menzionare casi in cui invece Marshall
non va oltre un uso puramente “stenografico” della matematica. Uno di questi è certamente il caso
dei manoscritti sulla teoria della crescita riprodotti in Whitaker (1975) II, pp. 309-16.
9
Più affilato ancora, in una lettera a Foxwell del 8 agosto 1883: “Mill […] is literary: and
therefore full of error” (Whitaker 1996, I, p. 168; corsivo aggiunto).
10
Vedi la lettera a Colson del 1909, in Whitaker 1996, III, p. 228; e anche, di tenore analogo,
la lettera a J.B.Clark del 24 marzo 1908, ivi, pp. 183-4.
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per affrontare il grande tema dell’interdipendenza generale delle grandezze
economiche: Marshall ritiene che una trattazione adeguata dovrebbe essere
dinamica ma richiederebbe un sistema matematico, sul tipo di quelli usati per
descrivere sistemi planetari, di complessità ingestibile11. In mancanza di meglio,
l’impostazione puramente statica dei Principles serve a verificare che il sistema
delle interdipendenze fra i mercati che compongono l’economia sia abbastanza
vincolato da garantire “enough, and only enough, premisses for conclusions”
(Marshall 1961, I, p. x). Per quanto questo modo di indagare i requisiti strutturali
di un sistema di mercati oggi possa apparire rudimentale12, il fatto stesso che il
modello matematico obblighi a occuparsi della struttura d’insieme generata dal
ragionare in termini di domanda e offerta è comunque un passo avanti. Si tratta, di
nuovo, di un caso di uso decisamente euristico della matematica, in violazione
della regola 1 del 1906.
Se la regola 1 è violata, che ne è delle altre? Di esempi “importanti nella vita
reale” (regola 4) ce ne sono, ma non tutte le trattazioni matematiche ne sono
corredate. E nel modo in cui Marshall le sviluppa non si riscontra quella
alternanza di linguaggi, il matematico e l’inglese, a cui farebbero pensare le regole
2 e 3. Non accade mai che, come nella metafora del treno di Whewell (1845: citato
11
Questo punto è ribadito a più riprese; nel 1872 (Pigou 1925, pp. 94-5), 1885 (ivi, pp. 161-
2), 1898 (Marshall 1898, pp. 38-9) e nei Principles (Marshall 1961, I, p. 818). La teoria del valore è
concepita da Marshall non come teoria dell’imputazione del valore a una o più cause, ma come
teoria dell’interdipendenza fra cause.
12
Che la condizione di uguaglianza fra equazioni e incognite, senza altre qualificazioni, sia
insufficiente, è un appunto che è stato sollevato molte volte a questo modo di affrontare l’equilibrio
generale (vedi fra gli altri Dimand 1990, e Mirowski 1990). Marshall è, in questo, uomo del suo
tempo, proprio come Walras. Del resto, una piena comprensione del problema diventa di dominio
comune, secondo la ricostruzione di Weintraub (2002), solo dopo gli anni cinquanta del novecento.
Si può anche osservare che ciò che Marshall vuol dimostrare nella nota XXI non è propriamente
l’esistenza dell’equilibrio, che egli dà sempre per scontata senza nemmeno porsi il problema, così
come dà sempre per scontato (lo mostrano innumerevoli esempi grafici) che gli equilibri possano
essere molteplici. Il punto della nota XXI sembra piuttosto la verifica della possibilità di applicare
l’approccio per domande e offerte congiunte qualunque sia la complessità del sistema di
interdipendenze economiche che si vuol rappresentare.
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in Weintraub 2002, p. 274 n.5), la logica interna della matematica trascini in modo
obbligato da un passo all’altro del ragionamento senza possibilità di scelta lungo il
percorso — salvo ritradurre tutto in inglese, e solo alla fine, per capire che cosa si è
fatto. Di ogni passo dell’analisi viene contestualmente discussa la giustificazione
economica, e anche quando un passo non è motivato da un sottostante problema
economico ma solo da esigenze di completezza formale, c’è il tentativo di
giustificarlo almeno in termini di ricadute economiche possibili13. Nell’utilizzare
l’euristica matematica Marshall non si affida ciecamente all’automaticità
dell’algoritmo,
ma
procede
sempre
con
l’occhio
rivolto
alle
possibili
interpretazioni di ogni operazione.
C’è infine la “scandalosa” (almeno per Brems 1975) regola 5. In realtà,
Marshall non brucia la sua matematica, al più la chiude in un cassetto; da dove
però qualche pezzo importante riemerge e finisce col venir pubblicato. Persino la
teoria pura del commercio, la cui prima pubblicazione nel 1879 fu in realtà
“estorta” da Sidgwick, torna in circolazione quasi mezzo secolo dopo e questa
volta per libera scelta di Marshall (v. sopra, n. 13). Non è quindi una regola fissa
ma una considerazione di opportunità che spinge Marshall a nascondere o esibire
le sue elaborazioni matematiche in funzione delle circostanze di pubblicazione e
dei lettori verso cui si orienta. E’ noto che da un certo punto in poi il suo lettore
ideale è il businessman, un tipo di lettore che vuol vedere le prove di ogni
13
Un esempio importante è la trattazione del caso di costi marginali decrescenti nella teoria
pura del commercio internazionale (Whitaker 1975, II, pp. 144 segg.). Non essendo a conoscenza di
casi reali che rientrino in questa classe di situazioni, Marshall si giustifica invocando i meriti della
ricerca che oggi chiamiamo “fondamentale” (“History shows that the practical applications of the
work of pure science have in general been discovered after, and not before, that work was done”,
ivi, p. 144); argomento impeccabile, ma in conflitto con la regola 6 del 1906. Il dubbio se il caso dei
costi decrescenti abbia o no riferimenti reali sembra la ragione principale che lo trattiene dal
pubblicare i manoscritti. Tuttavia, quando finalmente si risolve a inserirne una versione compattata
nell’appendice J di Money Credit and Commerce, quel caso rimane, pur qualificato come ipotesi che
“has never happened, and apparently […] can never happen” (Marshall, 1923, p. 351).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 11
affermazione ma che sarebbe respinto da un’esposizione matematica14. Ma anche
quando Marshall si rivolge a lettori suoi “pari”, cioè agli economisti professionali,
va tenuto presente che all’epoca la familiarità degli economisti con la matematica è
rara e assai limitata. Un’altra attenuante all’applicazione della regola 5 si può
trovare in un’osservazione (che troviamo senz’altro condivisibile) contenuta nella
prefazione alla prima edizione dei Principles: “It seems doubtful whether any one
spends his time well in reading lengthy translations of economic doctrines into
mathematics, that have not been made by himself” (Marshall 1961, I, p. xi; corsivo
aggiunto). E infine, si può aggiungere a tutto questo un inevitabile fattore di gusto
personale, un ideale di eleganza e souplesse stilistica che impone a Marshall di non
mettere mai in vetrina i materiali utilizzati, siano questi ragionamenti matematici
o raccolte di fatti empirici15. Tutto considerato, l’indignazione di Brems è forse
fuori luogo: la regola 5 non è tassativa, e l’averla formulata ha le sue attenuanti.
In conclusione, le regole del 1906 disegnano una figura di economista
matematico riduttiva e improbabile, quasi una caricatura, per niente somigliante al
Marshall economista matematico. La sua pratica, quale possiamo ricostruire dai
lavori fino al 1890, appare abbastanza “normale” anche agli occhi di oggi, solo un
po’ più reticente nel dispiego dell’apparato formale16. Dopo il 1890, d’altro lato,
14
Come spiega articolatamente, con riferimento a dimostrazioni non necessariamente
matematiche, in una lettera a Macmillan del periodo in cui sta componendo Industry and Trade (5
marzo 1910): “I think [men of affairs] dislike being told that a thing can be proved. They may
happen to want to form an independent opinion on the validity of the proof […] But on the other
hand very few men of affairs want to read many intricate proofs. Therefore I have relegated to
Appendices every piece of complex analysis or hard reasoning that I can” (Whitaker 1996, III, p.
240).
15
C’è infatti un parallelismo fra le critiche di Marshall a Jevons, che esibisce un apparato
matematico pesante e che a mala pena riesce a controllare (vedi la recensione del 1872 e il postscriptum riprodotti in Pigou 1925), e quelle a T.E.C. Leslie, che esagera nel mettere in mostra una
quantità di fatti ridondante rispetto all’argomentazione (lettera a J.N. Keynes del 1889 in Whitaker,
1996, I, pp. 294-5). Per contro, modelli di stile positivi sono Ricardo e von Thünen, che non
esibiscono ma s’imbattono come per caso in quello che serve al problema, analisi o fatti (loc. cit.).
16
A questo proposito Whitaker, echeggiando un noto giudizio di Keynes, parla di un
Marshall “awkward and hesitant” nell’uso della matematica (Whitaker 1975, I, p. 5).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 12
Marshall riduce gradualmente l’impiego della matematica fino a sopprimerlo del
tutto, cosicché, all’epoca della lettera a Bowley, le sue sono ormai ricette concepite
per gli altri, non per sé stesso. “I never read mathematics now: in fact I have
forgotten even how to integrate a good many things” (Whitaker 1996, III, p. 130).
Non è nelle regole formulate a beneficio di Bowley, quindi, che vanno cercate le
peculiarità dell’atteggiamento di Marshall sul rapporto fra economia e
matematica: dobbiamo guardare più in profondità.
3.
La parabola che vede Marshall farsi sempre meno matematico e sempre più
economista nel corso degli anni riproduce un modello non infrequente nelle
biografie degli economisti. Da questo punto di vista, il “minor das Alfred Marshall
problem” di cui parla Weintraub (2002, p. 24) non sembra proprio esistere. E’ vero,
come osserva ancora Weintraub, che nel passaggio fra XIX e XX secolo si verifica
una profonda trasformazione della matematica da cui Marshall è completamente
tagliato fuori; ma questa è una conseguenza del suo disinteresse a tenersi
aggiornato (un disinteresse che, a ogni evidenza, risale a subito dopo il
superamento del Tripos), non una spiegazione della sua caduta d’interesse. Se
cerchiamo una spiegazione, possiamo forse trovarne una traccia nella stessa idea
marshalliana (vedi la lettera al Times del 7 febbraio 1905, in Whitaker 1996, III, pp.
104 segg.) della vita dell’individuo come un processo di evoluzione per stadi,
ognuno caratterizzato dall’eccellenza di un particolare gruppo di facoltà, che
preparano la strada all’emergere delle facoltà proprie dello stadio successivo. In
questa teoria, le facoltà messe in moto dall’apprendimento della matematica e
delle scienze sono quelle proprie della prima maturità dell’uomo. E nel 1910
Marshall non può far altro che constatare che quello stadio, per lui, è ormai alle
spalle: “The analytical part [contrapposta alla “realistic part” del lavoro di
preparazione della VI edizione dei Principles] is as difficult to my mental muscles
as is a steep mountain slope to my feet, though as a young man I could climb it
without conscious effort” (Whitaker 1996, III, p.240).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 13
Anche dopo aver smesso di produrre economia matematica, tuttavia,
Marshall non rinnega mai i risultati raggiunti attraverso di essa. I “mathematical
instincts” acquisiti grazie all’allenamento giovanile continuano ad esser esibiti con
orgoglio: gli stessi istinti hanno fatto di Ricardo, unico economista a possederli per
virtù naturale, senza aver ricevuto un’educazione matematica, uno dei suoi “eroi”
(Pigou 1925, pp. 99-100; vedi anche Whitaker 1996, II, p. 307; III, pp. 228, 269-70). E
al nipote Guillebaud, predicando la superiorità di un’educazione basata su
matematica e filosofia anziché sui classici, scrive nel 1904: “I have forgotten my
mathematics and philosophy […] but I am intensely grateful to them” (Whitaker
1996, III, p. 91). Anche le raccomandazioni per separare un curriculum economico
nel Moral Science Tripos fanno spesso perno sulla necessità, appunto, dei “true
mathematical instincts”, o come anche dice “scientific spontaneity”, per la
formazione degli economisti (vedi il “Plea” del 1903 in Marshall 1961, II; la
corrispondenza preparatoria e successiva; Whitaker 1996, III, pp. 105-6).
Ma qual è l’idea di matematica che sta dietro tutte queste raccomandazioni?
Marshall vede nella matematica un assortimento di strumenti di grande potenza,
una “stored up force” (Pigou 1925, p. 172) che applicata ai problemi che vi si
prestano dà risultati certi con la massima economia di energia intellettuale. I
paragoni impiegati rimandano a macchine (Whitaker 1975, II, p. 133) e ingranaggi
(“cog-wheels of […] mathematical machinery”, Whitaker 1996, II, pp. 305, 30717),
all’esercizio scolasticamente esatto preparatorio alle prove della vita (Whitaker
1975, II, pp. 118-19), alle “scale al pianoforte” (Whitaker 1996, II, p. 307). Tutte
immagini che convogliano l’idea di un sistema di routines o automatismi, oggi
diremmo di “scatole nere”, che svolgono una gran mole di lavoro codificato in
modo tale da farlo diventare inconscio. Come per altri aspetti dell’opera di
Marshall, il prototipo di riferimento sembra il modello della mente umana
schizzato nel manoscritto filosofico giovanile “Ye machine” (Raffaelli 1994a e
2003). L’automa del modello è dotato di un apparato di routines capace di risolvere
17
Nella misura in cui la matematica rientra nel “systematic scientific reasoning”, l’analogia
fra matematica e macchine industriali è esplicita in Marshall 1961, I, p. 779.
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 14
qualunque problema a condizione che non presenti elementi di novità rispetto
all’esperienza cumulata di problemi risolti in passato; e capace di crescere su se
stesso nella misura in cui, al presentarsi di problemi nuovi, i percorsi attivati per la
ricerca della soluzione si consolidano in nuove routines che vanno ad arricchire
l’apparato preesistente. E’ un’idea di matematica che calza perfettamente con la
preparazione richiesta dal Tripos di Cambridge, tutta centrata sulla capacità di
risolvere rapidamente problemi “of considerable mechanical difficulty”, ma senza
nessun riguardo per il lato costruttivo e creativo della matematica: “unfortunately
[the questions] did not give the candidate any opportunity to show mathematical
imagination or insight or any quality that a creative mathematician needs”18.
Pur così limitata, quest’idea della matematica si combina in modo ideale
con una visione della teoria economica la cui “philosophic raison d’être”, come
Marshall la definisce in uno dei suoi testi più meditati19, sta nella misurabilità delle
forze che regolano il comportamento degli uomini in società. “Value measures
human motive” (Pigou 1925, p. 157), nel senso che un sistema di mercati tenuti
insieme dalla circolazione di un unico mezzo di scambio funziona come livellatore
o equilibratore di tutte le motivazioni che spingono gli individui a entrare in
rapporto fra di loro, sintetizzando nei prezzi e nei loro movimenti i mutevoli
rapporti di forza. Questa, secondo Marshall, è la grande scoperta di Smith che ha
staccato l’economia da tutte le altre scienze morali — unica a potersi avvalere dello
schema meccanico della composizione delle forze, con tutti gli annessi metodi di
analisi quantitativa: “an engine for the discovery of concrete truth, similar to, say,
the theory of mechanics” (ivi, p. 159).
Sull’affinità fra questo nucleo della teoria economica e la meccanica
razionale Marshall basa il legame fra la teoria economica e la matematica. La fisica
è infatti (all’epoca di Marshall come nella nostra) il modello idealmente perfetto di
18
C.P. Snow citato in Newman 1987, p. 88. Su Marshall e il Tripos del 1865 vedi anche
Groenewegen 1995, pp. 80 e segg.
19
Si tratta della lezione inaugurale del 1885 “The present position of economics”,
ripubblicata in Pigou 1925. Le idee fondamentali si trovano già nel saggio su Mill del 1876 (ivi) e
tornano frequentemente nei Principles e nella corrispondenza.
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 15
matematica applicata o matematica “mista”. Nei Principles, la differenza fra
economia e fisica è solo di grado: “the measurement of motive […] is not indeed
perfectly accurate; for if it were, economics would rank with the most advanced of
the physical sciences; and not, as it actually does, with the least advanced”
(Marshall 1961, I, p. 26). La posizione dell’economia è in realtà intermedia fra la
fisica da un lato e la “mental science” dall’altro; cosicché l’economia può
trasmettere alla seconda una parte della forza che le deriva dalla prima. Scrive
infatti a Foxwell nel 1902, difendendo il mantenimento di economia nel Moral
Science Tripos anche dopo la separazione del curriculum di economia:
“[Economics] is stronger on its legs than Mental Science; & can afford to that some
of the same benefit which it might itself derive from association with physical
science” (Whitaker 1996, II, p. 358; vedi anche ivi, p. 348).
Se nell’affinità con la fisica sta il fondamento del legame fra economia e
matematica, qui sta però anche il suo limite. Retrospettivamente, Marshall torna
più volte sulla facilità con cui, negli anni giovanili, ha potuto raggiungere risultati
di rilievo — correggere niente di meno che Ricardo e Mill — con solo un po’ di
destrezza matematica, senza sapere praticamente nulla della realtà della vita
economica (vedi le lettere a J.B. Clark e a Colson del 1908-9, in Whitaker 1996, III,
pp. 183 e 227-8). Su questo sfondo, pare naturale che a un certo punto abbia sentito
l’esigenza di “riempire di realtà” le sue equazioni. Comincia a parlarne già in una
lettera a Jevons del 1879 (Whitaker 1996, I, p. 110); prosegue con i “vagabondaggi
fra le fabbriche” indotti dalla paradossalità delle conclusioni a cui porta la
matematica di Cournot (lettera a Flux del 1898, ivi, II, pp. 227-8); e con quello che
nel 1908 indica come il compito principale di gran parte della sua attività,
“presenting in realistic form as much as I can of my Note XXI” (lettera a J.B. Clark,
ivi, III, p. 184). Per quanto accomodata possa essere la ricostruzione
autobiografica, la regola che Marshall si è imposta è chiara: tutte le proposizioni
economiche
che
hanno
come
unico
fondamento
la
consequenzialità
e
autosufficienza di una struttura matematica devono essere accolte con sospetto.
Sui limiti della congruenza fra i metodi “meccanici” e i processi sociali di
cui si occupa l’economia troviamo in Marshall due tipi di argomenti. C’è in primo
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 16
luogo l’osservazione, già ricordata, secondo cui non tutti i fattori rilevanti di
natura quantitativa possono effettivamente esser misurati con esattezza a costi
sopportabili; a cui va aggiunto che non tutti i fattori rilevanti sono di natura
quantitativa; cosicché le misure utilizzabili nell’analisi quantitativa di un problema
incorporano, imperfettamente, solo una parte dell’informazione rilevante20.
Risultati esatti su basi parziali possono essere resi formalmente ineccepibili dalla
clausola del caeteris paribus, ma non saranno mai ineccepibili riguardo al mondo
reale in cui, di regola, quella clausola non è operante (ivi, II, p. 301; III, p. 296).
A livello più profondo, poi, entra in gioco l’evoluzionismo economico di
Marshall, la sua visione della dinamica economica come evoluzione di forme
viventi nella quale entrano inseparabilmente fattori non riducibili a forza
meccanica e non concepibilmente misurabili. Nel mondo morale, che è lo spazio
proprio dell’economia, le “forze” e i “materiali” su cui queste operano non hanno
la stessa definitezza e permanenza che nel mondo inanimato della meccanica21.
Non è questo il luogo per addentrarsi nelle peculiarità e ramificazioni
dell’evoluzionismo di Marshall22. Basti richiamare la distinzione fra i due tipi
fondamentali di cambiamento compresenti nella sua visione della dinamica
economica: il cambiamento inerziale, senza contenuto di novità, che è puro
dispiegamento delle routines incorporate nelle strutture economico-sociali esistenti
a un dato momento; e quello indotto dall’emergenza, non necessariamente casuale
ma spesso imprevedibile, di “variazioni” che comportano adattamento delle
strutture, e conseguentemente del parco routines esistenti. All’opposto del primo
20
Vedi lettere a Bowley del 1901, in Whitaker 1996 II p. 306, e del 1906, ivi III, pp. 145, 146,
e lettere a Edgeworth e a H.L. Moore del 1912, ivi pp. 291 e 296.
21
Citiamo solo un passo del 1876 (in Whitaker 1975, II, p. 163), ripreso alla lettera in
Marshall (1923) p. 351, e nella sostanza in Marshall (1961), I, pp. 761-2: “The forces that act on a
pendulum in any position are not to any appreciable extent dependent on the oscillations that the
pendulum has already made […] But every movement that takes place in the moral world alters
the magnitude if not the character of the forces that govern succeeding movements. And economic
forces belong to the moral world in so far as they depend upon human habits and affections, upon
man’s knowledge and industrial skill”.
22
Si veda l’originale e approfondita ricostruzione di Raffaelli (2003).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 17
tipo di cambiamento, caratteristiche del secondo sono l’irreversibilità e il modo di
operare caso per caso e non secondo legge. E’ qui, secondo Marshall, che i metodi
esatti dell’analisi meccanica non bastano più. Questi infatti danno il meglio di sé
nell’analisi delle dinamiche interne a un dato stadio del processo evolutivo, ma
colgono solo una parte di quello che succede quando sono all’opera anche fattori
di transizione fra stadi evolutivi successivi. A partire dalla lezione inaugurale del
1885, e con maggior precisione in Marshall (1898), questa è la problematica
sottostante all’opposizione-integrazione fra le due modalità d’interpretazione dei
processi economici che Marshall identifica con le “metafore meccaniche” e quelle
“biologiche”.
Inapplicabilità del caeteris paribus e emergenza di novità evolutive
espongono le applicazioni economiche della matematica a due possibili tipi di
“bias”. La tendenza a selezionare i problemi in funzione della trattabilità analitica
anziché della rilevanza; e, nell’analisi di un dato problema, la tendenza a
sottovalutare i fattori non misurabili, quantitativi o qualitativi che siano, a favore
di quelli misurabili. Dalla prima, il rischio di “elegant toying” fine a se stesso;
dalla seconda, quello di perdita del “senso delle proporzioni reali”23. Qualunque
inferenza si voglia trarre da esercizi del genere, sarà pertanto poco raccomandabile
come “guide in life” (Whitaker 1996, III, p. 145). E l’esattezza stessa dei metodi
quantitativi “may do far more mischief” (ivi, p.130) in ragione dell’apparente
definitezza dei risultati.
Resta quindi solo un corridoio abbastanza stretto fra, da un lato,
l’inevitabilità, dall’altro l’inaffidabilità dell’uso della matematica in economia.
Marshall cerca di indicare qualche regola di salvaguardia, ma non va al di là di
genericità, come la raccomandazione delle “catene deduttive brevi” nell’analisi e,
23
Sulla nota coppia marshalliana “toyshop/workshop” vedi per esempio Whitaker (1996)
II, pp. 277, 280, 393 etc. Il tema del “sense of proportion” è anch’esso ricorrente (per esempio, ivi, I,
p. 314; II, pp. 353, 397; III, p.345; Marshall 1961, I, p. 850). Sembra un più che meritato contrappasso
il fatto che sia Neville Keynes che Foxwell, indipendentemente l’uno dall’altro, annotino come
tratto saliente del carattere di Marshall proprio un difetto di senso delle proporzioni (Whitaker
1996 I, p. 268 n. 1; II, p. 197 n. 4).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 18
nelle trattazioni geometriche, di limitarsi alle sole conclusioni consentite dalle
proprietà locali, e non globali, delle curve24. Insomma, mai avventurarsi in
congetture non sostenute da una ragionevole fiducia di alti livelli di caeteris
paribus. Ma sono tutte indicazioni che tipicamente dicono e non dicono: quand’è
che una catena deduttiva è “breve”, che un intorno è abbastanza piccolo da poter
considerare “locale” una proprietà valida al suo interno? Non esistono criteri a
priori, sta alla discrezionalità dell’analista valutare caso per caso i costi e i benefici
che ci si possono attendere dal fermarsi o dallo spingere l’analisi un passo oltre
(così in Whitaker 1975, II, pp. 162-3 e n.4, 266). L’unico insegnamento generale che
se ne trae è: qualunque modello matematico, se completamente sviluppato, finirà
col far dire sempre di più di quanto sia giustificato dire.
In sintesi, nella posizione di Marshall si combinano due fattori: (a) Il limite
della sua preparazione matematica, di alto livello per l’epoca, ma al tempo stesso
ristretta dall’esclusiva finalizzazione alle scienze fisiche; e (b) la sua visione non
riduzionista dell’evoluzione sociale come processo in cui si combinano regolarità
meccanica e cambiamento irregolare e irreversibile. Da (a), l’assimilazione della
matematica a un “meccanismo”; da (b), l’idea che qualunque meccanismo, come
troviamo scritto nelle note della lezione del 1901 su “Machinery and life” (Raffaelli
1994b), è al tempo stesso strumento e ingombro della vita. L’ambivalenza di
Marshall sull’economia matematica si gioca tutta qui: è il “kernel”, la parte che
“commands and gives access” a tutto il resto, ma anche “a very small part”, su cui
non vale la pena spendere troppo tempo25.
24
Sul primo punto, vedi Marshall (1961) I, pp. 771-3, 781 etc. Sul secondo, ivi pp. 114, 133,
384 n.; Whitaker (1975) I, p. 137; II, pp. 135-6, 191; lettera a Nicholson del 1899 in Whitaker (1996) II,
p. 262.
25
Lettera a Edgeworth del 1902, in Whitaker (1996) II, p. 393. Sull’immagine del “kernel” (e
quella, equivalente, del “backbone”) vedi anche Marshall (1961) I, p. 324; Marshall (1898) p. 52; e la
lettera a Colson del 1909, in Whitaker (1996) III, p. 228. In “The old generation of economists and
the new” del 1897 aggiunge che, quanto più piccolo è il nucleo, tanto maggiore è la sua “real
authority” (Pigou 1925, p. 297).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 19
Pur con tutte le differenze fra la matematica di Cambridge e quella
continentale, la preparazione di Marshall era certamente più che competitiva
rispetto a quella degli economisti matematici del suo tempo. Se ci appare, e lui
stesso si sentiva, diverso da tutti gli altri, non è certamente per il fattore al punto
(a) ma semmai per l’altro, la filosofia sociale in cui la sua matematica si inserisce.
Questo forse spiega il suo atteggiamento, mai solidale, verso gli economisti
matematici. Si alternano condiscendenza (il dilettantismo di Jevons; Böhm Bawerk
che fa errori da scolaretto; Walras e Wicksteed giudicati inferiori, dal punto di
vista matematico, a Pantaleoni26) e indifferenza venata di fastidio (ancora Böhm
Bawerk; Walras ignorato; e Pareto, “un-real & cranky”27). L’unico contemporaneo
verso cui mostra riguardo è Edgeworth, con cui ha un lungo rapporto punteggiato
di occasionali incomprensioni ma caratterizzato da una stima di fondo:
“[Edgeworth] enters into the spirit of the thing” (Whitaker 1996, I, p. 132)28.
Reciprocamente, Edgeworth sembra accogliere in pieno alcune delle riserve di
Marshall sull’economia matematica. Nella prolusione del 1889 ritroviamo
l’assimilazione dell’economia a una fisica “very immature and imperfect”
(Edgeworth 1889, p. 498), e l’argomento “catene brevi”, viste però più come una
necessità che una virtù (“Scarcely has the powerful engine of symbolic language
been applied when the train of reasoning comes to a stop”, ivi p. 500). La
matematica di Edgeworth appare però meno rigida, più immaginativa, di quella
26
Su Jevons, vedi sopra n. 15; su Böhm Bawerk, la lettera a Wicksell del 19 dicembre 1904,
in Whitaker (1996) III, p.99; su Walras, Wicksteed e Pantaleoni, la lettera del 1889 a J.N. Keynes, ivi,
I, p. 283.
27
“The Austrians, and especially Böhm Bawerk, annoy me”, lettera a Colson del 1909
(Whitaker 1996, III, p. 228). Il giudizio su Pareto si trova in una lettera a Foxwell del 1903, ivi, p. 42.
28
In almeno due occasioni Marshall, pur senza rinunciare a polemizzare, si fa trascinare
da Edgeworth a esplorare costruzioni matematiche per il puro fascino del problema: la funzione di
benessere sociale, con cui si cimenta in manoscritti dei primi anni ’80 (Whitaker 1975 II, pp. 317 e
ss.); e la curva dei contratti, uno strumento di cui non ha nessun bisogno ma che non resiste a
inserire nell’appendice matematica dei Principles (vedi la lettera a Edgeworth del 1891, a proposito
della nota matematica XIIbis, in Whitaker 1996, II, p. 26). Più in generale, sul rapporto fra Marshall
e Edgeworth vedi anche Newman (1987), e Creedy (1990).
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 20
di Marshall; e la minor inibizione a usarla crea fra i due una differenza, che è causa
di bonarie ironie da parte di Marshall, e per noi della percezione di Edgeworth
come il più audace e moderno dei due.
4.
Delle due componenti che abbiamo messo in evidenza nella posizione di
Marshall sulla matematica (paragrafo 3), la prima, il limite storico della sua
formazione, lo allontana da noi e rende i suoi argomenti un po’ obsoleti. Nel corso
del novecento, la scoperta di nuove strutture ha permesso all’economia
matematica di produrre idee ad alcune delle quali forse anche Marshall avrebbe
riconosciuto un carattere di “costruttività” o “architettonicità”. La seconda
componente, l’evoluzionismo sociale e l’antiriduzionismo, conserva invece ancora
oggi la sua attrattiva. Ma l’evoluzionismo attuale si misura con una matematica
più ricca e flessibile di quella di Marshall. Oggi anche la biologia ha i suoi modelli,
e non è più dato per scontato che ciò che non è riducibile a meccanica non sia
matematizzabile.
Possiamo valutare meglio questa vicinanza-lontananza confrontando
Marshall con Debreu, un caso interessante di premesse comuni che portano a
conclusioni opposte. Debreu, forse senza saperlo, condivide molte delle riserve di
Marshall. Vede anche lui i “bias” di un orientamento esclusivamente matematico
della ricerca economica, sia nella selezione dei problemi sia (la questione non si era
ancora posta ai tempi di Marshall) nella selezione dei ricercatori (Debreu 1991, pp.
5-6). Diffida, forse anche più radicalmente di Marshall, della “troppo facile”
affinità fra dinamica economica e meccanica classica (vedi l’intervista di
Weintraub a Debreu del 1992, in Weintraub 2002, p. 146). Riconosce che l’affinità
fra economia e matematica è più debole rispetto a quella fra fisica e matematica.
Ma è proprio a questo punto che le strade di Marshall e Debreu si separano:
perché il primo, come abbiamo visto, ne trae la conclusione che non ci si può
fidare della sola matematica, il secondo invece che è solo della matematica che ci si
può fidare. La fisica può concedersi il lusso di “violare consapevolmente i canoni
della
deduzione
matematica”
sulla
spinta
di
osservazioni
sperimentali
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 21
incontrovertibili: l’economia no. “Being denied a sufficiently secure experimental
base, economic theory has to adhere to the rules of logical discourse and must
renounce the facility of internal inconsistency” (Debreu 1991, p. 2).
La posizione di Debreu deriva da una concezione dell’economia empirica
certamente più scettica e diffidente di quella di Marshall. Mentre Debreu liquida
gli esperimenti dell’economia come “excessively frugal” (ivi), Marshall è
profondamente convinto che “specific experience […] ceaseless study of new facts
[…] search for new inductions” possano funzionare da correttivi e integrazioni
della deduzione (Marshall 1961, I, p. 771). Tuttavia, anche per Marshall il richiamo
ai “fatti” non è senza problemi. Riguardo ai fatti dell’esperienza, “the first duty of
every student is to be diffident” (Marshall 1919, p. 679); e abbiamo già ricordato la
sua sottolineatura della maggior variabilità del “materiale” dell’economia rispetto
a quello delle scienze naturali (v. sopra, n. 21, e anche 1961, I, p. 772). La prima
osservazione si riferisce alla lacunosità dell’esperienza diretta e indiretta che ci si
può formare della vita economica, e al fatto che in essa i fatti veri e propri, quelli
significativi per l’analisi, si mescolano a episodi inessenziali e impressioni
personali; la seconda, all’assenza, in economia, di quelle condizioni di ripetibilità
controllata (ancora, il caeteris paribus) che invece caratterizzano l’esperimento delle
scienze naturali.
Il problema della qualità dell’evidenza empirica ci porta a prendere in
esame il rapporto di Marshall con la statistica, rapporto che segue un percorso
molto simile a quello con la matematica. Una costante di Marshall è l’idea della
statistica come uno strumento che assiste la ragione nell’individuare le possibili
connessioni di causa-effetto che legano fra di loro i fenomeni economici29. Lo
spazio della statistica è l’induzione, più precisamente quel metodo dell’induzione
che, dalla Logica di Stuart Mill30, viene chiamato il metodo delle “concomitant
29
Vedi il paper per il giubileo della Royal Statistical Society, “The graphic method of
statictics” del 1885, in Pigou (1925) pp. 175 e segg.; e anche la lettera a H.L. Moore del 15 dicembre
1921, in Whitaker (1996), III, p. 380.
30
Dalla ricostruzione della carriera scolastica di Marshall in Groenewegen (1975), pp. 62-3,
la Logica di Mill emerge come uno dei suoi testi formativi.
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 22
variations”: identificare l’esistenza di nessi di causalità attraverso confronti fra
serie storiche in assenza e in presenza di altri fatti che potrebbero anch’essi
esercitare un’influenza causale31. Ma non è scontato che l’evidenza statistica
rappresenti ciò che Marshall intende per fatti, anzi: “economists know that nearly
all their ‘statistics’ are mere aggregates of guesses” (Whitaker 1996, III, p. 258). I
fatti economici rilevanti, i “big facts” (ivi, II, p. 353), non si presentano
necessariamente in forma tabulabile, e possono provenire dalle fonti più disparate:
“You read the Economist & the Statist &c: & so are realistic” (ivi). La sua regola
personale riguardo all’uso dell’evidenza statistica si trova enunciata in una lettera
a Bowley del 1906 (Whitaker 1996, III, p. 145):
The statistical side must never be separated even for an instant from the non-statistical […] [S]ince
many of the chief […] causes have either no statistical side at all, or no statistical side that is
accessible practically for common use, therefore the statistical element must be kept subordinate to
general considerations.
La regola si concretizza nel famoso “red book”, una specie di sinossi di serie ed
eventi storici, da percorrere in lungo e largo alla ricerca di possibili nessi di
causalità, che Marshall si porta appresso per tutto l’arco della vita32.
Dal punto di vista metodologico Marshall non va mai al di là di questi usi
un po’ artigianali della statistica. Tuttavia la questione merita un esame un po’ più
attento, in vista dello stretto collegamento che esiste fra la ricerca statistica del suo
tempo e le sue nozioni teoriche fondamentali di equilibrio “normale” (e in genere,
di configurazioni normali dell’economia33) e di impresa rappresentativa. Saper
distinguere fra il caso particolare osservato e quello (magari del tutto virtuale) che
sarebbe normale o tipico nel contesto dell’osservazione, è infatti, per Marshall, un
preliminare necessario dell’analisi: l’economia non si occupa di individui in
31
Vedi Mill CW VII; Pigou (1925) pp. 176-80, e la lettera a J.N. Keynes del 1890 in Whitaker
(1996) I, pp. 340-1. Il riferimento alle concomitant variations si ritrova ancora nella lettera a Moore
del 1921 citata in nota 29.
32
Mary Marshall ne colloca la prima compilazione nel 1875; e Marshall lo menziona ancora
nel 1921, nella lettera a Moore citata nelle note precedenti. Groenewegen lo paragona a "a cross [...]
between a statistical year book and a boy’s own annual” (Groenewegen 1995, p. 163).
33
Nel senso del capitolo III del I libro dei Principles.
Marshall, la matematica e la statistica - Torino, ottobre 2003 - 23
quanto tali ma in quanto rappresentativi di tendenze di gruppi, classi o situazioni
(vedi per es. Marshall 1961, I, pp. 25-6). Ma come si arriva a identificare i tipi
rappresentativi? Benché conceda che su un gran numero di osservazioni le
peculiarità individuali tendono a compensarsi, Marshall non è affatto convinto che
il modo migliore di far emergere la norma sottostante consista nel trattare grandi
masse di dati con metodi statistici che scontano la casualità delle differenze.
“Normale” non coincide con “medio” se non per caso (ivi, p. 372), così come la
medietà dell’impresa rappresentativa non è risultato di un calcolo standardizzato
ma dell’applicazione volta per volta di meditato discernimento (“to the best of our
judgement”, ivi, p. 318)34. La varietà che sempre si riscontra nei fenomeni sociali
non è la stessa cosa della varianza dei risultati di misurazioni diverse di una stessa
grandezza ignota. L’immagine del tiratore che, dalla piattaforma riparata, non si
accorge del vento che sistematicamente devia i colpi riassume le obiezioni di
Marshall alle applicazioni della “legge dell’errore”, e di conseguenza del metodo
dei minimi quadrati, in campo economico: la rosa dei colpi non si distribuisce
casualmente intorno al bersaglio, ma il tiratore non può saperlo se non esce dal
riparo
35.
Fuor di metafora, la possibilità che siano all’opera fattori non rilevati
rende sospetto qualunque metodo che tratti gli scarti come se fossero errori
casuali.
Il rifiuto di Marshall di accogliere in economia la “sintesi di GaussLaplace”, affermatasi fin dall’inizio del secolo in astronomia e in geodesia, non è
strana per l’epoca. Stephen Stigler (1986, capitoli 4 e 5) identifica l’ostacolo
principale alla diffusione della statistica matematica nelle scienze sociali nel corso
34
Vedi anche il passo dei Principles (1961, I, p. 116) dove raccomanda come “the best
[method] of all” lo studio “intensivo” di pochi casi scelti con attenzione, purché però il ricercatore
sia dotato di “a rare combination of judgement in selecting cases, and of insight and sympathy in
interpreting them”; e solo come second best, difettando queste doti, il metodo “estensivo” di
studiare le medie statistiche su grandi raccolte di casi.
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Vedi la lettera a Bowley del 21 febbraio 1901, in Whitaker 1996, II, p. 301, e la lettera a
J.M. Keynes del 1910, ivi, III, p. 265, dove Marshall fa risalire la sua critica, indietro nel tempo, a
una discussione con Todhunter intorno al 1866. Quella del tiratore al bersaglio è comunque
un’immagine convenzionale nella letteratura di statistica probabilistica.
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dell’800 proprio nella difficoltà di pensare una raccolta di dati, riferiti a unità
disperse nel tempo, nello spazio e nel corpo sociale, come se fossero osservazioni
diverse di un unico fenomeno. La legge dell’errore, che può essere tranquillamente
invocata nel secondo caso, appare del tutto arbitraria nel primo: “a fear of
unimagined causes makes the [social] scientist reluctant to jump far ahead” (ivi p.
192). Il fatto singolare è che l’argomento usato da Marshall a questo proposito è
anche uno di quelli su cui si basa la sua tesi (vedi paragrafo 3) dell’affinità
imperfetta fra matematica ed economia: in generale, i fattori causali misurabili non
si presentano uno alla volta o in gruppi omogenei ben identificabili, ma
inviluppati con un numero imprecisabile di altri fattori, anche non misurabili o
addirittura ignoti. Questo, nel caso di un’analisi economico-matematica sganciata
da riscontri di fatto, può portare facilmente a false inferenze; e nel caso di una
stima quantitativa affidata interamente ai metodi statistici, a risultati che “in
reference to the real world may have errors not of .5 or .7 per cent, but of 50 or 70
per cent” (Whitaker 1996, III, p. 291). Matematica e statistica applicate
all’economia sono accomunate, per Marshall, da una stessa difficoltà, che deriva
dalla tacita accettazione di clausole di caeteris paribus generalmente non operanti
nel mondo reale. Per entrambe si pone l’esigenza di cercare riscontri reali, che
evidentemente vanno al di là anche degli stessi riscontri statistici. La statistica,
come la matematica, è quindi da un lato irrinunciabile ma dall’altro insufficiente a
garantire l’economia dal punto di vista della sua aderenza alla realtà.
Se nell’atteggiamento di Marshall sulla statistica si può vedere un riflesso
del clima di una parte del XIX secolo, è anche vero che il lavoro svolto da Galton,
Edgeworth e Pearson nell’ultimo quarto del secolo per uscire dalla impasse del
caeteris paribus non sembra suscitare da parte sua nessun particolare interesse.
Quattro righe di apprezzamento, anonimo e generico, per i “great services in the
hands of master mathematicians to the study of statistical averages and
probabilities” (Marshall 1961, I, pp. 781-2), sono tutto ciò che si può trovare nei
Principles sull’argomento. In una lettera a Bowley del 1901 (Whitaker 1996, II, pp.
305-7) c’è una debole ammissione d’interesse per i metodi di analisi della
correlazione; ma nella stessa lettera mette in chiaro che non è Edgeworth che ha in
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mente come modello (ivi, p. 307), né tanto meno il lavoro che si viene facendo alla
London School of Economics, dove si esaltano i metodi esatti e meccanici ma non
ci si preoccupa di studiarne i fondamenti (ivi, pp. 305-6). Come al solito, la strada
che Marshall addita a Bowley e ai “Cambridge men” va in tutt’altra direzione,
verso la composizione della “scienza” con l’“istinto”, questa volta non l’”istinto
matematico” (vedi sopra, paragrafo 3) ma il “practical instinct” del ricercatore, la
capacità di arrivare a “know roughly, without calculation” (ivi, pp. 301, 306-7; e
anche Pigou 1925, p. 180). Come dice nel passo dei Principles menzionato sopra
(nota 34), lavorare con grandi masse di dati in forma statistica va bene per le
“ordinary hands”; ma ai pochi che hanno qualità di vero ricercatore bastano pochi
dati ben scelti. Sul trade-off fra strumentazione professionale e doti personali, è
chiaro dove stiano le preferenze di Marshall.
Con il passare del tempo la fiducia di Marshall nei propri istinti assume un
peso preponderante. “I rely more on my ‘field work’ […] and my conversations
[…] than I do on Statistics” (a Bowley, 1906, Whitaker 1996, III, p. 146). Secondo
un’antica abitudine, risalente al viaggio in America del 1875, l’unica evidenza di
cui davvero si fida incondizionatamente è quella de visu, acquisita attraverso il
contatto personale diretto con i luoghi e le persone, disegnata con quella
combinazione di programmazione e casualità, di metodo e fortuna, che
caratterizzano appunto l’esperienza del viaggio. Alla fine, in una lettera al biologo
William Bateson del 1908 (Whitaker 1996, III, p. 202), si spinge fino ad ammettere
che, nel suo caso, l’istinto è tutto e la statistica solo una perdita di tempo a cui si
assoggetta per la necessità di convincere gli altri:
That which offers the best guidance to me, is too subjective for external use: so I have to waste time
on analysing statistics for other peoples benefit […] Such work […] has taught me not to try to
interpret statistics, unless in a matter as to wh I know what the statistics will be like before I read
them
Questa soluzione del tutto personale del problema delle basi empiriche,
quasi interamente affidata all’esperienza concreta del “turista intelligente”, sfocia
talvolta in una certa sapienzialità, nel lasciar cadere come verità rivelate generalità
per le quali non ha vere e proprie evidenze. Nei casi migliori, come per le analisi
fattuali di Industry and Trade, i risultati sono effettivamente di una penetrazione e
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lucidità che nessuna indagine puramente statistica avrebbe potuto eguagliare. Ma
qualche volta, e uno di questi casi ci sembra la famosa controversia con Pearson
del 1910 sull’influenza dell’alcoolismo dei genitori sulla progenie36, il “trained
instinct” appare irreparabilmente contaminato da pregiudizio. Nell’occasione
l’intervento di Marshall tocca solo marginalmente questioni di metodologia
statistica, sulle quali preferisce mandare allo scoperto Keynes e Pigou. Ma nella
vicenda si può vedere una premonizione di quella che sarà una tendenza
caratteristica della scuola di Cambridge del ‘900: la preferenza per la coltivazione
delle doti istintive rispetto al raffinamento delle tecniche manipolative, la cui
evoluzione si è svolta infatti prevalentemente altrove. L’eredità dell’atteggiamento
marshalliano verso la matematica e la statistica ha forse pesato sulla storia
successiva di Cambridge più di quanto abbia pesato la sua eredità teoricoeconomica.
Per tornare all’inizio, qui coglie forse un po’ nel segno la critica di Brems
(1975): se è vero che uno dei tratti caratteristici dell’evoluzione delle scienze nel
XX secolo è l’esigenza di assoggettare ogni proposizione a un controllo
interpersonale e oggettivo, allora l’atteggiamento di Marshall si qualifica, non
diciamo come anti-scientifico, ma certamente come legato a una visione romantica
e individualistica della pratica scientifica. E questo nonostante la sua visione della
scienza sociale fosse vicina alla visione standard di oggi, in quanto naturalistica,
centrata sullo studio dei meccanismi di causa-effetto, e cumulativa, senza nessuna
connotazione di tipo, per così dire, “post-moderno”. Oggi la principale
giustificazione del massiccio ricorso a modelli, magari poco realistici nelle ipotesi,
ma trasparenti nella struttura, testabili e utilizzabili per simulazioni, sta nel
consentire una totale spersonalizzazione delle tesi, mettendo in grado chiunque di
valutarne le pezze d’appoggio, e quindi tendenzialmente abolendo il principio di
autorità. Tutte finalità che Marshall condivideva, così come condivideva la
massima di diffidenza sistematica che ne è evidentemente alla base. Ma la sua
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La vicenda è ricostruita in varie biografie di Keynes e, per quanto riguarda Marshall, in
Groenewegen (1995) pp 479 e segg. Vedi anche Stigler (1999), cap. I.
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pratica, specialmente nell’età matura, non andava nella stessa direzione. Come
forse è proprio dei grandi maestri, si fidava così completamente dei propri istinti
che non lo sfiorava l’idea che qualcun altro potesse non avere la stessa fiducia.
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