Lo sfruttamento lavorativo dei e delle migranti in campania (2014)

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Lo sfruttamento lavorativo dei e delle migranti in campania (2014)
APPROFONDIMENTO TEMATICO
LO SFRUTTAMENTO LAVORATIVO
DEI E DELLE MIGRANTI IN CAMPANIA
INDICE
pag.3
Premessa
pag.5
Problemi di definizione.
Tratta, lavoro coatto, lavoro sfruttato: l'inquadramento
socio-giuridico dello sfruttamento lavorativo dei/delle
migranti.
pag.12
Ricattabili. Questioni generali e trasversali in tema di
sfruttamento del lavoro migrante.
pag.16
Lo sfruttamento della forza lavoro migrante in Campania.
pag.18
La terra dei dannati. Lo sfruttamento in agricoltura e negli
allevamenti.
pag.34
Il mercato delle braccia. La manovalanza a giornata in
edilizia ma non solo.
pag.40
Lo sfruttamento dei lavoratori immigrati nel settore tessilemanifatturiero.
pag.48
Segregazione da lavoro.
Il lavoro domestico e le gravi forme di sfruttamento.
pag.54
Lo sfruttamento nelle attività di ristorazione.
Alcuni casi conclamati di tratta.
pag.58
Lavoratori truffati: i raggiri ai danni dei e delle migranti.
pag.63
Ai margini del lavoro.
Lo sfruttamento nell'accattonaggio e nelle attività illegali.
pag.67
Conclusioni.
Gli interventi sulla tratta e lo sfruttamento lavorativo, tra
complessità e sommerso. Problemi aperti e indicazioni di
policy.
pag.74
Allegato - Gli indicatori della tratta e dello sfruttamento sui
luoghi di lavoro
pag.82
Bibliografia di riferimento
2
Premessa
Il presente rapporto ha come finalità quella di indagare le differenti
modalità e le forme con cui a Napoli e in Campania si manifesta lo
sfruttamento del lavoro degli immigrati e delle immigrate. Uno sfruttamento
che assume densità differenti, a volte con caratteristiche simili a quelle di
migliaia di lavoratori italiani, soprattutto in agricoltura ed edilizia, altre volte
con condizioni ed elementi specifici, in alcuni casi così aspri e duri da rendere
possibile la definizione di “lavoro gravemente sfruttato” e “lavoro paraschiavistico”
Ma in ogni caso, e indipendentemente dai livelli e dalle condizioni, sono
situazioni quasi sempre confuse e sommerse perché fanno parte di un mercato
del lavoro diffusamente caratterizzato non solo da forme di lavoro nero o
irregolare ma anche da condizioni di elevato sfruttamento e scarse possibilità
contrattuali per l'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Una condizione che
gli effetti della crisi hanno ulteriormente inasprito, affollando a dismisura gli
ambiti lavorativi più precari e rendendo difficile definire con precisione le
intensità e i differenti gradi dello sfruttamento.
A partire da tali aspetti e criticità l'approfondimento che qui si propone
risiede nella convinzione che investire nei servizi di prossimità e nel lavoro
della rete regionale di mediazione culturale, rappresenta una tappa
fondamentale per facilitare l'emersione delle situazioni di sfruttamento
lavorativo dei migranti nella nostra regione. Questo perché la prossimità
realizzata attraverso i servizi, infatti, può rappresentare un ottimo antidoto
all'isolamento che scontano molti lavoratori migranti, difficilmente
raggiungibili soprattutto nei casi di grave sfruttamento.
Per quanto attiene le forme di esposizione del presente rapporto, abbiamo
privilegiato una modalità prettamente qualitativa che parte da un'analisi dei
principali settori d’impiego dei lavoratori migranti, con particolare attenzione
a quelle sacche di lavoro a maggiore rischio di sfruttamento. Il rapporto
combina l'uso della letteratura esistente in materia di sfruttamento lavorativo
nel territorio di riferimento, con l'esposizione di alcuni studi di caso
riguardanti donne e uomini migranti coinvolti in forme di grave sfruttamento.
Si tratta di racconti e storie di persone entrate in contatto, nel corso degli
ultimi anni, con i servizi territoriali preposti all'accoglienza, alla protezione e
alla tutela delle vittime di sfruttamento lavorativo.
In sintesi, quello che proponiamo, è un approccio orientato ad un
intervento che tenga conto delle diverse questioni ancora aperte circa il
fenomeno del grave sfruttamento lavorativo e delle possibili indicazioni di
policy che emergono dall'analisi del fenomeno. L'attenzione sarà concentrata
in modo specifico sugli elementi che rendono l'emersione delle situazioni di
sfruttamento problematica e piena di ostacoli ma anche sulle condizioni e
sugli intereventi che possono facilitare la realizzazione di percorsi di
emancipazione.
Il rapporto si articola in tre parti. Nella prima viene messa a fuoco la
cornice teorica, passando in rassegna definizioni e normative nazionali e
comunitarie relative alla tratta e allo sfruttamento dei migranti sui luoghi di
lavoro. Nella seconda si passa alla definizione del contesto territoriale e
quindi all'analisi dei principali elementi che caratterizzano il lavoro migrante
in Campania, con una specifica attenzione ai settori del mercato del lavoro in
cui tale presenza è più consistente, alle forme e alle modalità di sfruttamento,
3
alla descrizione delle principali violazioni, sia per quanto riguarda le tutele e
le norme del lavoro, sia per quel che concerne i diritti umani e sociali.
Infine, nella terza parte si procede per focus tematici, suddivisi per i principali
ambiti di lavoro che accolgono manodopera migrante e per i quali si ha
notizia di importanti dinamiche di sfruttamento. Infine, nelle conclusioni sono
presi in considerazione i problemi aperti e le possibili indicazioni di policy in
materia.
4
1.
Problemi di definizione.
L' inquadramento socio-giuridico dello sfruttamento lavorativo dei/delle
migranti.
Va subito messo in evidenza come in materia di sfruttamento lavorativo
sembra mancare una definizione chiara, univoca e condivisa. Ad esempio,
lavoro servile, servitù da debito, lavoro coatto, lavoro forzato, paraschiavistico, tratta, lavoro gravemente sfruttato, sono solo alcuni dei termini
ricorrenti utilizzati per descrivere le violazioni riguardanti i diritti umani e
sociali dei lavoratori migranti 1. Le frequenti sovrapposizioni di tali condizioni
(spesso caratterizzate da passaggi repentini da una condizione ad un'altra, a
volte anche sulla spinta di piccolissimi fattori o elementi di casualità),
comportano una complessità che richiama la necessità di adottare
atteggiamenti cauti, evitando di rimanere in superficie o di cedere alla
tentazione di descrivere il reale servendosi di schemi preconfezionati; quindi,
un primo problema che si pone, è quello di definire adeguati strumenti di
lettura, e più nello specifico, indicatori che supportino chi deve operare nel
settore, onde evitare interventi scorretti, confusi e scarsamente efficaci. In
altre parole, senza indicatori, senza uno sforzo di definizione, si corre il
rischio di avere un approccio superficiale che tende a leggere tutta
l’irregolarità e tutto il sommerso come tratta o come lavoro gravemente
sfruttato e/o para-schiavistico.
La varietà terminologica, spesso associata a situazioni mutevoli, si riflette
anche nelle diverse definizioni socio-giuridiche rinvenibili sia nel panorama
nazionale che in quello internazionale. Provando a orientarci nel complesso
quadro normativo di riferimento, la prima definizione utile che richiamiamo
in questa sede è quella di "lavoro forzato", fornita dall'Organizzazione
Internazionale del Lavoro:
“Il termine lavoro forzato o obbligatorio indica ogni lavoro o servizio estorto
a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona
non si sia offerta spontaneamente”. 2
Questa definizione si focalizza sulle reali capacità e le concrete possibilità
del lavoratore di auto-determinare la propria condizione e, in qualche modo,
rappresenta una condizione limite. Elemento cruciale è l'assoggettamento
quasi totale e la "minaccia di una punizione", riferita a molteplici forme di
coercizione, quali violenze, sequestro dei documenti d’identità, reclusione o
mancato pagamento del salario. Nel caso di un lavoratore che
"spontaneamente" accetta un rapporto di lavoro, possiamo escludere la
presenza di lavoro forzato se il consenso libero e informato rimane tale per
tutta la durata del rapporto lavorativo e se non vi è ricorso a inganno da parte
del reclutatore o del datore di lavoro. Confrontando le definizioni appena
richiamate con i risultati di una recente indagine sullo sfruttamento del lavoro
migrante in agricoltura commissionata dalla Fondazione Soros e diretta da
Enrico Pugliese 3, è facile evidenziare diffuse violazioni, talvolta gravi, che si
1
Per un approfondimento si veda Carchedi, Mottura, Pugliese, Lavoro servile e le
nuove schiavitù. 2003;
2
Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sul Lavoro Forzato n.
29 (C. 29) del 1930; articolo 2, comma 1.
3
Aa.Vv., Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell'agricoltura del
Mezzogiorno. Ediesse, 2013
5
sommano ad una condizione generalizzata di ricattabilità; tuttavia, spesso ma
non sempre non si riscontrano palesi forme di coercizione, minacce, inganno
ai danni dei lavoratori.
Per queste ragioni, un'attenzione particolare sarà riservata a quelle
situazioni che, di fatto, pur non rientrando nello schema tradizionale della
schiavitù, determinano situazioni di elevato asservimento della persona; si
tratta di un rilievo già presente nella Convenzione Supplementare di Ginevra
del 1956. Ritroviamo il riferimento a pratiche di riduzione allo stato “servile”
che ancora oggi hanno riscontri sul piano della ricerca empirica4, quali ad
esempio il “debt bondage” cioè lo status o la condizione in ragione del quale
un debitore s’impegna a fornire, a garanzia del proprio debito, prestazioni
lavorative proprie o di una persona su cui esercita un controllo, nel caso in cui
il valore di tale prestazione risulti sproporzionato rispetto al valore del debito
o qualora la durata dei servizi sia illimitata ovvero il loro contenuto sia
indefinito.
Immaginando un continuum in cui ad un estremo troviamo la possibilità
sancita e codificata di concordare le condizioni del proprio lavoro da parte del
lavoratore, il lavoro forzato, quello coatto, quello para-schiavistico, le servitù
da debito, fanno riferimento a condizioni che si collocano all'estremo opposto,
dal momento che il lavoratore in questi casi sconta l’impossibilità non solo di
contrattare le condizioni del proprio rapporto di lavoro, ma anche quelle di
ingresso e di uscita dallo stesso.
Tra i due poli del continuum appena delineato, potremmo porre tutti quei
rapporti lavorativi comunque asimmetrici e segnati da una marcata
dipendenza del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, ma da cui si ha la
possibilità di fuoriuscire.
Queste premesse sono necessarie poiché, ad esempio, nell'ordinamento
giuridico italiano non sembra trovare riscontro una definizione di lavoro
forzato nei termini indicati dalla Convenzione OIL - ovvero con riferimento
agli elementi della coercizione e dell’assenza del consenso a prestare un
determinato servizio – soprattutto se si esclude l'ambito dello sfruttamento
sessuale. Invece, sempre più diffusi appaiono quei casi che si possono far
rientrare nella categoria di "grave sfruttamento lavorativo" di migranti
irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; sfruttamento che
costituisce – come il lavoro forzato – una violazione dei diritti fondamentali
dell’individuo.
Viene definito grave sfruttamento lavorativo la sottrazione ai danni del
lavoratore “di una consistente parte della retribuzione a cui questo ha diritto
in base alle prestazioni effettuate. È necessario che ciò sia conseguenza di
una (consapevole) imposizione, ossia di una procurata e significativa
diminuzione della capacità di autodeterminazione del lavoratore (tenendo in
considerazione tutti i fattori di vulnerabilità del soggetto). Tra lo sfruttamento
lavorativo e il lavoro forzato, è ravvisabile una distinzione sia in base
all’entità della procurata diminuzione della libertà di autodeterminazione
della vittima, sia in base ai mezzi di coercizione utilizzati a tale scopo”. 5.
4
Si veda l'importanza del legame contratto con il debito nella casistica relativa al
grave sfruttamento e alla tratta delle persone; Aa.Vv., Punto e a capo sulla tratta,
Caritas, Cnca, 2013
5
Il lavoro forzato e la tratta di esseri umani. Manuale per gli Ispettori del Lavoro.
Organizzazione Internazionale del Lavoro, Dipartimento per le Pari Opportunità,
Roma 2010.
6
Lo sfruttamento lavorativo trova espressione nel nostro ordinamento all'art.
603 bis del codice penale, che sanziona chiunque svolga un'attività
organizzata d’intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone
l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, servendosi di violenza,
minacce o intimidazioni, approfittando dello stato di bisogno o di necessità
dei lavoratori. Costituiscono indici di sfruttamento la sussistenza di una o più
delle seguenti circostanze: 1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in
modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque
sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la
sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo
settimanale, ecc.; 3) le violazioni della normativa in materia di sicurezza e
igiene nei luoghi di lavoro tale da esporre a pericoli i lavoratori; 4) la
sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o
situazioni alloggiative particolarmente degradanti. Costituiscono aggravanti
specifiche, che innalzano la pena per chi sfrutta, il fatto che il numero dei
lavoratori reclutati sia superiore a tre, che tra i lavoratori reclutati ci siano
minori in età non lavorativa, che i lavoratori siano esposti a grave pericolo.
A livello europeo bisogna far riferimento alla Direttiva 2009/52/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio che introduce norme minime relative a
sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano
cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. La direttiva definisce le
“condizioni lavorative di particolare sfruttamento” quali “condizioni
lavorative, incluse quelle risultanti da discriminazione di genere e di altro
tipo, in cui vi è una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego
dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla
sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana".
Tuttavia, il recepimento in Italia di questa direttiva è stato lento e parziale.
Infatti, le norme adottate con il Decreto legislativo 109/2012 (art. 22 commi
12 bis e 12 quater T.U. Immigrazione), pongono una serie di questioni
interpretative che dimostrano la volontà di limitare il campo di applicazione
della direttiva. Emerge chiaramente l'adozione di una nozione molto ristretta
di sfruttamento, lontana dalla definizione contenuta nella direttiva europea e
parziale rispetto agli indici relativi al grave sfruttamento, contenuti nell'art.
603 c.p. visto in precedenza. Ancora, nel DLgs 109/2012 non c'è traccia del
riferimento alle discriminazioni di genere o di altro tipo contenute nella
direttiva europea. Inoltre, risultano molto scarse le possibilità di rilascio del
permesso di soggiorno per motivi umanitari, in quanto le circostanze richieste
sono le seguenti: a) impiego da parte dello stesso datore di lavoro di più di tre
lavoratori privi di permesso di soggiorno idoneo all'attività lavorativa; b)
impiego di minori in età lavorativa; c) esposizione dei lavoratori a situazioni
di pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale. Abbiamo
dunque un’ampia gamma di situazioni di sfruttamento lavorativo che, pur
rientrando nella definizione comunitaria di "particolare sfruttamento", non
sono incluse nel campo di applicazione del permesso di soggiorno di cui al
comma 12 quater dell'art. 22 T.U. Imm., in quanto non ricomprese nella ben
più limitata casistica definita dal comma 12 bis dello stesso articolo 6. Nella
parte conclusiva di questo approfondimento, prenderemo in esame le
conseguenze concrete di queste scelte del legislatore ai fini dell'emersione del
lavoro gravemente sfruttato.
6
Si veda M.Paggi, La tutela degli immigrati irregolari vittime di grave sfruttamento
in ambito lavorativo:un percorso ad ostacoli per l'effettivo recepimento della
direttiva 52/2009. In Diritto, immigrazione e cittadinanza XIV 4, 2012.
7
Dalle definizioni e nozioni finora riportate, non emerge e non trova
definizione un altro fenomeno di rilievo in tema di sfruttamento e gravi
violazione dei diritti dei/delle migranti, quello della tratta degli esseri umani.
Il lavoro forzato, alla pari del lavoro che potremmo definire para-schiavistico
e delle forme di grave sfruttamento lavorativo, può essere conseguenza della
tratta di esseri umani, ma non tutti i casi di sfruttamento sono associati a tale
fenomeno. Generalmente, la tratta di esseri umani implica lo spostamento di
una persona attraverso le frontiere nazionali di uno o più Stati, al fine di
sfruttarla; tuttavia, una persona può diventare vittima di sfruttamento (in tutte
le sue forme e gradi) successivamente al suo arrivo, libero e volontario, in un
determinato paese, senza che ciò preveda lo sfruttamento e l’assoggettamento
nelle fasi del reclutamento nel paese di origine, del trasporto e del
trasferimento da uno stato all’altro, o da una zona all’altra all’interno di uno
stesso stato.
La tratta di esseri umani trova definizione nel Protocollo di Palermo 7,
che distingue la tratta (trafficking) dal traffico di migranti, letteralmente
“contrabbando” (smuggling):
“La tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento,
l'ospitare o accogliere persone, tramite l'impiego o la minaccia di impiego
della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno,
abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere
somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha
autorità su un'altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende lo
sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale,
il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe,
l'asservimento o il prelievo di organi" (Protocollo di Palermo).
La definizione di tratta di persone nel sistema normativo italiano, si ricava
dal combinato disposto degli artt. 600 e 601 del codice penale, come
modificati dalla Legge 228/2003 “Misure contro la tratta di persone”, la
quale ha recepito i contenuti del Protocollo di Palermo sulla tratta. Gli articoli
sopracitati del codice penale definiscono le due fattispecie della riduzione in
schiavitù e della tratta:
“La riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è l’esercizio su una
persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero la
riduzione o il mantenimento di una persona in uno stato di soggezione
continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero
all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo
sfruttamento. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha
luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno,
abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o
psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione
di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona”.
“La tratta di persone è l’induzione o costrizione a fare ingresso o a
soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno,
di una persona che si trova in condizioni di riduzione o mantenimento in
schiavitù o in servitù, al fine di costringerla a prestazioni che ne comportino
lo sfruttamento. Tale induzione o costrizione può avvenire mediante inganno,
violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di
7
Art.3, Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la
criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di
persone, in particolare di donne e bambini (Sottoscritto nel corso della conferenza di
Palermo 12 - 15 dicembre 2000).
8
inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante
promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che
ha autorità sulla persona vittima dei fatti. Entrambe le fattispecie prevedono
un aggravante della pena da un terzo alla metà se i reati sono commessi in
danno di minore degli anni diciotto”.
E' importante notare che, la mancanza di alternative economiche che
obbliga le persone a subire un rapporto di lavoro in cui sono sfruttate, anche
se non costituisce di per sé lavoro forzato, secondo il Protocollo di Palermo
può rientrare nella casistica della tratta di persone in quanto si concretizza
come una posizione di vulnerabilità.
In Italia, la tratta di persone è una realtà consolidata e strutturale nei
sistemi di sfruttamento sessuale, lavorativo e a fini di accattonaggio e, in
misura minore, in attività illegali come lo spaccio di sostanze stupefacenti,
borseggi o furti in appartamento 8. In altre parole, il fenomeno della tratta di
persone nelle sue molteplici articolazioni, interessa ambiti assai differenti tra
loro, pur sempre allo scopo di trarre profitto dallo sfruttamento della vittima.
La Legge 228/2003 all’art. 1 prevede la costrizione a svolgere prestazioni
lavorative quale possibile finalità di sfruttamento delle vittime di tratta; la
stessa legge, all’art. 13 istituisce uno speciale programma di assistenza per le
vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale. Per
usufruire dell'assistenza prevista dalla legge, non è necessario aver già subito
lo sfruttamento, basta l'intenzione, contestualmente all'esistenza di uno stato
di soggezione della vittima (una forte subordinazione psicologica). Il
programma, che ha una durata massima di sei mesi, risponde ai bisogni
primari della persona: alloggio, vitto e assistenza sanitaria. I programmi di
assistenza art. 13 non prevedono il rilascio di un permesso di soggiorno e,
dunque, non attribuiscono alcun titolo per rimanere in Italia alla loro
conclusione. Tuttavia, la vittima che entra in un programma art. 13, se
sussistono i requisiti, successivamente può essere presa in carico in un
programma di protezione sociale ai sensi dell’art. 18 DLgs 286/98, che
assicura una tutela più articolata e che ha rappresentato uno strumento
all'avanguardia nel nostro ordinamento rispetto al panorama internazionale.
Per l'accesso ai programmi di protezione sociale previsti dall'art. 18,
occorre trovarsi in una situazione di violenza o grave sfruttamento,
contestualmente ad una condizione di pericolo per la vittima che intende
sottrarsi a tale situazione (condizioni non richieste per l'accesso ad un
programma art.13). Inoltre, se vi è un’azione investigativa in corso o un
procedimento giudiziario avviato, è necessario che la vittima sporga denuncia
contro i suoi sfruttatori (c.d. Percorso giudiziario), ma fuori da questi casi non
è necessario sporgere denuncia (c.d. Percorso sociale). Oltre a contemplare
bisogni non primari dei destinatari (ad es. la possibilità di accedere a corsi di
scolarizzazione, formazione, orientamento e ad altri strumenti finalizzati al reinserimento lavorativo), l'attivazione di questi programmi permette di
richiedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari (della durata di 6
mesi e rinnovabile per un anno), convertibile, alla scadenza, in un permesso di
soggiorno per motivi di studio o lavoro.
I programmi di prima assistenza (“progetti art. 13”) e quelli di assistenza e
integrazione sociale (“progetti art. 18”), finanziati dal Dipartimento per le Pari
Opportunità e realizzati da enti locali e organismi accreditati del terzo settore,
sono attivi su tutto il territorio nazionale, seppure con livelli differenti di
strutturazione. Secondo i dati ufficiali disponibili, dal 2000 al 2012, oltre
8
Dipartimento per le Pari Opportunità, 2013, in www.pariopportunita.gov.it
9
65.000 persone hanno ricevuto una qualche forma di supporto (informazioni,
consulenza psicologica, consulenza legale, accompagnamenti socio-sanitari)
dai progetti di protezione sociale, 21.378 hanno seguito un programma di
protezione sociale.
Dalla lettura dei dati sugli accessi ai programmi ex art. 13 e art. 18, risulta
evidente la sovra-rappresentazione delle persone vittime di sfruttamento in un
ambito specifico, quello sessuale della prostituzione. Così come emergono
ambiti minoritari di sfruttamento che non ricadono né in quello sessuale né in
quello lavorativo, quali lo sfruttamento nell'accattonaggio o in attività
variamente definite “illegali”, ecc.9.
Tuttavia, occorre sollevare un rilievo critico in merito a questa sottorappresentazione dell'ambito lavorativo nella composizione interna delle
vittime accertate di tratta e grave sfruttamento; infatti, andrebbero presi in
considerazione i tanti fattori che rendono difficile l'emersione dei casi di grave
sfruttamento lavorativo e quindi gli accessi ai programmi di assistenza e
integrazione sociale previsti dagli artt.13 e 18 (si rimanda ad una disamina di
questi aspetti nelle conclusioni del presente rapporto, quando prenderemo in
considerazione alcune indicazioni di policy).
Senza dubbio, occorre costatare la diversa e minore esperienza che nel
nostro Paese si è maturata nei confronti dell’analisi e dell’intervento sulla
tratta a fini di grave sfruttamento lavorativo rispetto a quella, più forte e
condivisa, strutturata sul tema del traffico finalizzato all’inserimento coatto
nei circuiti di prostituzione. Per altro, tra i due fenomeni ci sono alcune
importanti differenze. Infatti, se guardiamo alla composizione interna delle
persone coinvolte, rispetto all'ambito dello sfruttamento sessuale, il grave
sfruttamento lavorativo fa registrare un maggior equilibrio tra donne e uomini
(che in alcuni ambiti lavorativi si trasforma in netta maggioranza della
componente maschile), età decisamente più elevate e una maggiore
eterogeneità delle nazionalità coinvolte nel fenomeno, anche se poi esistono
delle specifiche "etniche" rispetto ai diversi settori del mercato del lavoro.
Inoltre, lo sfruttamento dei lavoratori migranti appare un fenomeno
decisamente meno evidente di quello legato al mercato del sesso. Non solo
perché le persone sfruttate sono meno visibili delle donne che "vendono"
sesso in strada, ma anche perché lo sfruttamento lavorativo sembra un
fenomeno più accettato socialmente, ritenuto meno grave in quanto, la
destrutturazione del mercato del lavoro e del sistema di norme e garanzie che
tutelavano i diritti dei lavoratori, fa considerare lo sfruttamento “normale” in
molti contesti territoriali anche per gli autoctoni, soprattutto nelle regioni
meridionali.
Tuttavia, come rimarcato dal recente rapporto della Caritas e del Cnca
sulla tratta e il grave sfruttamento nel nostro paese, pur rimanendo la
prostituzione forzata in strada la tipologia di tratta più visibile e conosciuta,
nel corso dell’ultimo decennio è progressivamente aumentato il numero di
casi identificati di persone trafficate e sfruttate negli ambiti economicoproduttivi, in particolare in agricoltura, pastorizia, edilizia, nel reparto
manifatturiero e nel lavoro di cura (e qui andrebbe valutato il ruolo dell'attuale
crisi economica nel determinare l'aumento di situazioni di coinvolgimento in
sistemi di grave sfruttamento e tratta). Inoltre, sempre nel sopramenzionato
rapporto si legge che nel corso degli ultimi anni sono state registrate non solo
“nuove” forme di tratta finalizzate all’accattonaggio forzato e ad attività
9
Caritas, Cnca, Punto e a capo sulla Tratta. I°Rapporto di ricerca sulla tratta e il
grave sfruttamento. 2013
10
illegali coercitive, ma anche casi di vittime soggette a sfruttamento multiplo
(es. donne costrette a prostituirsi e a spacciare; uomini obbligati a vendere
merce al dettaglio, ad elemosinare e a spacciare o prostituirsi).
11
2.
Ricattabili.
Questioni generali e trasversali in tema di sfruttamento del lavoro
migrante.
Nell'analisi delle dinamiche che spingono verso situazioni di tratta e/o
grave sfruttamento, non si possono trascurare i principali fattori, aggravati
dalla perdurante crisi economica globale, che spingono le persone a migrare;
la povertà, la disoccupazione, le discriminazioni di genere ed etniche, le
inadeguate politiche di sviluppo, le fallimentari o assenti politiche migratorie,
i conflitti regionali ma anche il desiderio di emancipazione economica, sociale
e culturale. Nella maggior parte dei casi, il percorso migratorio inizia con la
scelta volontaria della persona migrante di lasciare il proprio paese, raramente
la partenza è frutto di un atto coercitivo. Tuttavia, andrebbe valutato con
attenzione il ruolo del debito contratto con terzi per avere la possibilità di
lasciare il proprio paese; infatti, esso rappresenta un fattore di vulnerabilità
decisivo per chi emigra. La necessità di restituire quanto prima il denaro preso
in prestito, insieme alle concrete possibilità di avere relazioni slegate
dall'ambito lavorativo, facilita la caduta in situazioni di grave sfruttamento.
Queste dinamiche rendono molto difficile cogliere le distinzioni, ma anche le
correlazioni che esistono tra traffico di migranti (smuggling) e tratta di
persone (traffking): si fa molta confusione al riguardo e spesso si trascura il
fatto che, un percorso iniziato come migrazione irregolare, può trasformarsi in
sfruttamento e riduzione in schiavitù una volta che la persona è giunta nel
paese di destinazione e la condizione di vulnerabilità la spinge a cadere in
circuiti di assoggettamento.
Le difficoltà esistenti circa una corretta definizione della casistica in
materia di sfruttamento, sono ulteriormente complicate in un contesto come
quello del Mezzogiorno, dove il mercato del lavoro locale è ampiamente
caratterizzato da consolidate situazioni di sommerso, sfruttamento e
irregolarità e, quindi, i casi di lavoro gravemente sfruttato, cosi come quelli di
tratta a fini di sfruttamento lavorativo, risultano assai difficili da individuare e
da fare emergere. Infatti, tra le situazioni di “lavoro regolare” e quelle
caratterizzate da “tratta” o "lavoro gravemente sfruttato", vi è un continuum
lungo il quale, più ci si allontana dalla “regola”, più aumenta la precarietà, la
condizione di ricattabilità e lo sfruttamento, mentre si affievoliscono
progressivamente i diritti, le tutele e le capacità di autodeterminazione dei
lavoratori e delle lavoratrici.
Per i migranti, la già elevata precarietà e ricattabilità, che ormai
caratterizzano le condizioni di lavoro di tutta la mano d’opera, compresa
quella italiana, sono ulteriormente esasperate dalla normativa in materia di
immigrazione in vigore nel nostro Paese. Infatti, la condizione di regolarità
rispetto al soggiorno, è collegata alla possibilità di avere un rapporto
lavorativo continuativo e regolare; fatta salva l’agricoltura dove viene presa in
considerazione la stagionalità del lavoro, per lavorare regolarmente in Italia
sono richiesti requisiti che nemmeno tanti lavoratori autoctoni possiedono,
almeno dagli anni della crisi del modello “fordista”. Gli elevati livelli di
precarietà che caratterizzano il lavoro migrante, così come quello autoctono,
rappresentano terreno fertile per forme sempre nuove di asservimento ai datori
di lavoro. Peraltro, la legislazione italiana fa sì che i/le migranti dipendano dal
datore di lavoro non solo per lavorare e avere un reddito, ma anche per esigere
i propri diritti. Tendenzialmente, s’instaura una forte asimmetria di potere tra
datore di lavoro e lavoratore, basata non tanto sul piano economico, quanto
12
sull'appartenenza dei lavoratori migranti ad una sorta di "cittadinanza
inferiore". Per assurdo, dal rapporto di lavoro dipende la stessa possibilità di
essere visibile, di essere riconosciuto come persona e non come mera forza
lavoro. Come facilmente intuibile, è una condizione di dipendenza assoluta
che, soprattutto quando le persone vivono un forte isolamento sociale e
culturale, porta la ricattabilità a livelli altissimi e rende più facile scivolare in
situazioni di grave sfruttamento.
L'assoggettamento al datore di lavoro, fa si che talvolta si verifichino
episodi di grave sfruttamento lavorativo, anche nei casi di presenza regolare
sul territorio nazionale e di regolare contratto di lavoro; risulta evidente come
in questi casi, piuttosto diffusi nella letteratura in materia, le definizioni di
lavoro gravemente sfruttato viste nel paragrafo precedente presentano una
problematica e non facile applicazione. Ad esempio, la presenza di un
regolare contratto di lavoro non impedisce al datore di lavoro di richiedere
prestazioni lavorative che esulano dalle normali mansioni sancite dal suddetto
contratto (si pensi al prolungamento smoderato degli orari di lavoro, al
mancato rispetto del contenuto formale del contratto, oppure ai casi più
estremi in cui vengono richieste prestazioni sessuali o si ricorre al sequestro
del passaporto o all'uso di violenza fisica e psicologica sul luogo di lavoro
come strumento di disciplina e sorveglianza).
Quindi, il rischio di cadere in situazioni di grave sfruttamento, non
riguarda solo i migranti senza permesso di soggiorno, ma risulta essere una
condizione del lavoro migrante in generale. Tuttavia, se è ipotizzabile che
occorrono particolari condizioni di fragilità affinché un lavoratore o una
lavoratrice migrante siano vittime di episodi reiterati di grave sfruttamento (ad
es., le specifiche situazioni lavorative, l'isolamento, l'assoggettamento
psicologico, uno stato di condizionamento o bisogno tale che rende quasi
impossibile lasciare il posto di lavoro), chi si trova in situazioni di irregolarità
rispetto al soggiorno è nei fatti maggiormente esposto ai rischi di grave
sfruttamento. Questo soprattutto perché sussistono diversi elementi (oltre
all’elevata ricattabilità), che rendono complicato il contatto e la relazione con
le vittime di tratta e grave sfruttamento lavorativo e di conseguenza
l’emersione di tali situazioni. Brevemente, tali elementi possono essere così
descritti. In primis, va sottolineato come in molte situazioni i migranti siano
abbastanza diffidenti nell’attivare relazioni con le nostre istituzioni e il nostro
sistema dei servizi. Una diffidenza che, in alcuni casi è motivata dalla
condizione d’irregolarità che vive il migrante, ma in altri è dovuta alla rigidità
della normativa e al prevalere di logiche securitarie e repressive negli
interventi sull’immigrazione. Una situazione che è andata ulteriormente
aggravandosi, non solo per l’emanazione di norme specifiche (come ad
esempio l’introduzione del reato di clandestinità), ma anche per i linguaggi
utilizzati da gran parte della politica e dei media, che hanno continuato ad
alimentare atteggiamenti allarmistici e discriminatori nei confronti dei
migranti.
La diffidenza può nascere anche da motivazioni più particolari e legate a
gruppi specifici di migranti; ad esempio, nella relazione tra lavoratori stranieri
dell’Est Europa e organizzazioni sindacali italiane, occorre tener presente la
storia dei paesi di provenienza, dove i lavoratori rifiutano di avere rapporti
con i sindacati per il ruolo colluso e collaborativo che gli stessi avevano con i
governi nel periodo dei regimi comunisti. Ci sono, poi, fattori di rischio più
generali che riguardano la maggioranza dei/delle migranti e che possono
essere messi in relazione al tempo di permanenza nel paese di immigrazione,
13
ad esempio l’ignoranza della lingua e delle leggi del nuovo contesto in cui
sono inseriti, l'assenza di reti adeguate di supporto e protezione.
Un altro elemento di particolare rilievo nell'analisi dello sfruttamento sui
luoghi di lavoro subito da molti migranti, è la scarsa consapevolezza che i
lavoratori hanno rispetto alla loro condizione di sfruttamento. Una mancata
percezione dello sfruttamento subito, che sembra essere determinata da una
molteplicità di fattori, ad esempio l'assenza di tutele sul lavoro, nonché le
condizioni specifiche del lavoro (particolarmente duro e mal retribuito) nei
paesi di provenienza, ma anche la totale mancanza di tutele e regole nel
contesto lavorativo in cui si è inseriti nel paese di immigrazione. Sono
elementi che, per molti lavoratori, contribuiscono a far percepire come
normali le condizioni di lavoro imposte e come naturali le condizioni di vita
cui si è costretti.
Se si guarda all'ambito dello sfruttamento lavorativo nel Mezzogiorno
italiano, appare ancora più evidente come vi siano fattori generali, quali
l’aumento della povertà e la sempre più grave crisi occupazionale, che nei
fatti allargano a dismisura il potenziale serbatoio di lavoratori esposti al
rischio di cadere in situazioni di grave sfruttamento. Se ci soffermiamo su
alcuni settori del mercato del lavoro, ad esempio quello agricolo, risulta
evidente che alcuni dei principali indicatori utilizzati dagli esperti di settore
per circoscrivere e mettere in evidenza la presenza di grave sfruttamento
lavorativo e tratta, appaiono invece come condizioni generali che vivono la
maggioranza dei lavoratori migranti. Infatti, ritroviamo quasi sempre salari al
di sotto della soglia di povertà, orari di lavoro decisamente superiori alle 8 ore
giornaliere, l’impossibilità di accedere ai servizi e a condizioni di vita e di
abitazione salubri, scarsissime o nulle potenzialità contrattuali. Queste
condizioni sembrano essere la normalità che scandisce la giornata lavorativa,
indipendentemente dal fatto che l’inserimento in tale attività sia stato dovuto
all’inganno, al ricatto o all’utilizzo di forme di violenza fisica o psicologica.
In altre parole, molte situazioni di lavoro gravemente sfruttato, non
appaiono determinate da forme di coercizione, ma piuttosto rappresentano un
elemento inevitabile per poter lavorare in un contesto che non offre
alternative. Una situazione che si aggrava sempre più con l'attuale crisi
economica e che trova riscontro nella disponibilità da parte di tanti lavoratori
verso qualsiasi condizione di lavoro, pur di accedere a qualche forma di
occupazione e di reddito. Il lavoro, in tale situazione, viene vissuto spesso
come una sorta di dono da accettare senza obiezioni. Come già accennato, in
un contesto di tale natura la stessa percezione dello sfruttamento tende a
confondersi con la sensazione di normalità rispetto alla propria condizione.
Lavorare tanto, mal pagati, in modo precario e con atteggiamento di
sudditanza nei confronti del datore di lavoro, diventa la norma piuttosto che
l’eccezione; la "normalità" dello sfruttamento sembra essere talmente diffusa
nell'immaginario popolare da diventare difficilmente denunciabile.
Infine, si consideri che la crisi sta facendo tornare nel Sud Italia e nelle sue
sacche di lavoro nero, precario e non garantito, migliaia di migranti che
avevano visto i loro progetti migratori realizzarsi con successo nel Centro e
nel Nord Italia; in poco tempo, per gli effetti della crisi che ha investito anche
i principali distretti industriali del Nord del Paese, molti migranti hanno perso
il lavoro e il loro progetto migratorio risulta compromesso. Sono persone sole,
che spesso hanno rimandato la famiglia nei paesi di provenienza, disposte ad
accettare qualsiasi cosa pur di mettere da parte un po’ di soldi da inviare a
casa. Spesso, sono persone svuotate dell’energia e della forza necessarie ad
immaginare un nuovo progetto. Anzi, in molti casi, vivono il sommerso, il
14
ghetto, lo sfruttamento quasi come condizione accettabile, un po’ perché
l’unica a consentire una forma di guadagno, un po’ perché alimentata da un
apparato normativo ostico e repressivo da cui, specie in condizione di
precarietà e illegalità, preferiscono tenersi alla larga.
In definitiva, appare evidente come l’isolamento di molti lavoratori
rispetto al territorio e l’impossibilità di avere relazioni slegate dall’ambito
lavorativo, la paura di perdere il lavoro e quindi di scivolare in situazioni
d’irregolarità, sono fattori che non solo spingono molti migranti anche quando
non c’è coercizione fisica o psicologica in condizioni definibili di grave
sfruttamento, ma rendono quasi normale considerare tali condizioni come
fisiologicamente caratterizzanti il lavoro migrante.
Come accennato in precedenza, un altro fattore di vulnerabilità che
sicuramente favorisce lo sfruttamento è l’indebitamento. L’indebitamento si
presenta nella maggior parte dei casi come condizione necessaria per
intraprendere il percorso migratorio. In genere, si tratta di somme abbastanza
rilevanti e accade che i rapporti di lavoro in presenza del debito si distorcano,
diventano asimmetrici a scapito del lavoratore; la necessità impellente di
acquisire reddito - in funzione dell’estinzione del debito – infatti, spinge il
lavoratore a soggiacere a regole stabilite in modo unilaterale dal datore di
lavoro.
15
3.
Lo sfruttamento della forza lavoro migrante in Campania.
Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro in Italia, ma non solo,
i settori produttivi dove è più alto il fattore di rischio relativo allo sfruttamento
sono quelli in cui risulta maggiore il processo di de-regolamentazione, ovvero
l'ambito agricolo, quello edile, quello domestico e di cura ed in misura minore
il settore turistico-alberghiero e quello manifatturiero, in particolare per la
produzione del tessile. Nell’ambito dei suddetti comparti produttivi lo
sfruttamento, e nei casi più gravi l’assoggettamento del lavoratore può
perpetrarsi in diversi modi. Le modalità di sfruttamento più ricorrenti, come
già accennato, sono il lungo orario lavorativo senza la possibilità di fare delle
pause, l’impossibilità di contrattare le condizioni di lavoro e la paga, una
retribuzione inferiore a quanto inizialmente pattuito. Per quanto riguarda poi i
metodi utilizzati per tenere i lavoratori in uno stato di assoggettamento, quelli
maggiormente riscontrati sono: la mancata sottoscrizione del contratto di
lavoro, la mancata richiesta o consegna del permesso di soggiorno, il
trattenimento del salario e le minacce da parte dei datori/caporali, infine, il
sequestro dei documenti di identità del lavoratore.
Sempre secondo l'Oil, la scelta di emigrare è nella maggior parte dei casi
volontaria, anche se può essere la conseguenza di un raggiro; solo in
pochissimi casi l’emigrazione risulta essere il frutto di una vera e propria
coercizione. Invece, una volta raggiunto il paese di destinazione aumentano i
casi di assoggettamento coercitivo e di raggiro/inganno. Emerge quindi
chiaramente, la residualità delle situazioni di vera e propria tratta, ovvero
un’operazione criminosa che prende avvio con il reclutamento nel paese di
origine delle persone da destinare allo sfruttamento lavorativo in Italia.
Per quanto riguarda la Campania, la forza lavoro immigrata riesce ad
inserirsi in un contesto territoriale che produce una domanda di lavoro che, se
da un lato non è in grado di assorbire l’alto tasso di disoccupazione locale,
dall’altro rimane insoddisfatta per alcuni settori e mansioni e che per questo
rappresentano un’opportunità di occupazione per i lavoratori immigrati. Se le
modalità di inserimento dei lavoratori immigrati possono variare a seconda
del settore produttivo in cui si collocano, le stesse sembrano accumunate da
due caratteristiche principali: la prima riguarda l’alta incidenza di lavoratori
immigrati impiegati in modo irregolare; la seconda è relativa all’accesso
facilitato alle mansioni più dequalificate, pesanti, male retribuite, di natura
precaria e altamente esposte a pericoli per la sicurezza personale. Fatta questa
prima premessa si propone un breve approfondimento sui settori in cui
principalmente si inserisce la manodopera migrante.
Da questo punto di vista, nel mercato del lavoro campano possiamo
rintracciare almeno due modelli; il primo è rappresentato dalle realtà urbane e
metropolitane, dove importante la presenza di lavoratori immigrati nel settore
dei servizi e dell'edilizia; il secondo modello riguarda le aree a maggiore
vocazione rurale della regione, dove gli immigrati trovano occupazione
prevalentemente nel settore agricolo. Vi è poi l’ambito, diffuso, variegato e
trasversale, della cosiddetta economia informale, che assorbe una quota
rilevante della forza lavoro immigrata, con valori che diventano decisamente
significativi per quegli immigrati che si trovano all'inizio del loro percorso
migratorio. Occorre tenere in considerazione che la Campania ha sempre
rappresentato sia un luogo di transito che di insediamento lavorativo stabile
per immigrati di diverse nazionalità.
16
Associando il settore di inserimento lavorativo alle aree geografiche di
provenienza dei lavoratori che vi partecipano 10, possiamo rilevare che
l’immigrazione nord africana, a composizione tipicamente maschile e dal
carattere prevalentemente temporaneo, è presente in maniera alquanto diffusa
su tutto il territorio regionale, con una certa preferenza per le zone periferiche
dei grossi centri urbani. Essa soddisfa una domanda di lavoro concentrata
soprattutto nell’edilizia e nell’agricoltura ma non mancano quote significative
anche nel commercio. Negli ultimi anni però la struttura occupazionale di
queste nazionalità sta mostrando un progressivo passaggio dalle occupazioni
nel commercio a quello più propriamente industriale. Ciò potrebbe essere
interpretato come un segnale di stabilizzazione per una crescente quota di
questa parte di immigrazione.
L’immigrazione proveniente dall’Africa sub-sahariana, invece, si presenta
più polarizzata, sia dal punto di vista della composizione di genere che della
diffusione geografica. Le nazionalità con una maggiore presenza femminile,
come quelle di Capo Verde, Eritrea, Etiopia e Somalia, risultano più
concentrate nella città di Napoli, mentre gli immigrati provenienti dalla Costa
d’Avorio, seppure ugualmente concentrati in città, sono a maggioranza
maschile. Gli immigrati provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dal Ghana,
invece, sono per lo più maschi e prediligono insediarsi nelle province di
Napoli e Caserta. Nel caso delle nazionalità a prevalente composizione
femminile, la forte domanda di lavoro presso le famiglie (sia come colf sia
nelle attività di cura alla persona) che caratterizza gli ambienti urbani, ha
svolto un forte ruolo di attrazione. Negli altri casi, assume maggiore rilievo la
domanda di lavoro della piccola e media impresa nel settore industriale più
diffusa nella provincia di Napoli e Caserta. Discorso a parte va fatto per gli
immigrati provenienti dal Senegal la cui vocazione per il commercio li vede
stabilirsi particolarmente nei grandi centri urbani della regione. Ma anche per
tale nazionalità, visto che negli ultimi tempi inizia a segnalarsi una
progressiva tendenza ad inserirsi nel settore industriale, si può ipotizzare il
verificarsi di una mobilità intersettoriale espressione di una certa
stabilizzazione lavorativa.
Gli immigrati provenienti dal continente asiatico si concentrano nel settore del
lavoro domestico (Filippine e Sri Lanka) e in quello dell’industria, in
particolar modo del tessile (Bangladesh, Cina e Pakistan). Una quota
importante di impiegati è riscontrabile anche nel commercio e nel settore
alberghiero e della ristorazione.
I lavoratori originari dell’Europa centro orientale rappresentano gran parte
della popolazione immigrata in Campania. Il settore d’inserimento prevalente
è quello dei lavori domestici dove sono più presenti le nazionalità polacche ed
ucraine, mentre nel settore edile sono per lo più impiegati lavoratori albanesi e
rumeni. Come per l’ambito del lavoro domestico, i settori del commercio e del
turismo, con particolare riferimento all’alberghiero, vedono una significativa
quota di lavoratrici.
Infine, il modello di inserimento lavorativo delle nazionalità provenienti
dall’America latina presenta diverse similitudini con quello dei cittadini
provenienti dall’Europa orientale. Unica differenza riscontrabile riguarda la
scarsa incidenza dei lavoratori provenienti da quest’area geografica nel campo
dell’edilizia.
10
Si veda il rapporto di ricerca sul grave sfruttamento lavorativo in Campania, in
Freed. Azione transnazionale ed intersettoriale per il contrasto della tratta di persone
a scopo di sfruttamento lavorativo. 2009
17
Di seguito approfondiremo separatamente alcuni ambiti in cui è possibile
rilevare forme di grave sfruttamento e/o tratta che interessano i/le migranti
nella nostra regione, attingendo alla letteratura in materia e all'esperienza delle
associazioni e degli enti che sul territorio impattano il fenomeno dello
sfruttamento dei migranti. Contestualmente, presenteremo anche alcune storie
di grave sfruttamento che si sono consumate negli ultimi anni sul nostro
territorio; si tratta di storie raccolte presso i servizi territoriali di presa in
carico delle vittime di tratta e grave sfruttamento. In qualche modo esse
rappresentano la punta dell'iceberg, nel senso che sono la parte visibile dei
molteplici circuiti di sfruttamento che interessano i migranti, violazioni anche
gravi che rimangono perlopiù sommerse.
3.1
Lo sfruttamento lavorativo in agricoltura e negli allevamenti
in Campania.
L'insediamento dei lavoratori immigrati nelle aree a forte vocazione
agricola.
L'agricoltura in Campania rappresenta uno degli sbocchi lavorativi
privilegiati verso cui si orienta una parte rilevante della forza lavoro
immigrata. Le province di Salerno e di Caserta (in particolare l’Agro
Aversano, il litorale Domitio e la Piana del Sele) sono aree in cui le occasioni
di lavoro in agricoltura hanno fatto storicamente da calamita per la
manodopera appena immigrata, soprattutto grazie a una domanda di lavoro
stagionale legata alle raccolte. Tradizionalmente, la manodopera in questo
settore è stata sempre costituita da giovani maschi provenienti dai paesi
africani (sia dal Maghreb che dall'Africa sub-sahariana). Con l'aumento dei
flussi provenienti dall'Europa dell'Est è andata aumentando la percentuale
delle donne impiegate in ambito agricolo e si è assistito ad una maggiore
diversificazione delle nazionalità dei lavoratori coinvolti (nello specifico,
negli ultimi anni nell'ambito del lavoro agricolo sono aumentati i lavoratori
rumeni, bulgari ed ucraini).
Questo trend è facilmente riscontrabile nella provincia di Caserta, da
sempre la provincia più “africana” della Campania; ai Ghanesi, che già
arrivarono a metà degli anni Settanta, e ai maghrebini, si sono poi aggiunti
immigrati provenienti dalla Nigeria, dal Camerun, dal Togo, dal Benin, dalla
Costa d’Avorio, dal Burkina Faso, ecc.. Il peso di tali comunità sul totale
degli immigrati presenti è diminuito a scapito di una maggiore presenza
nell'ambito del lavoro agricolo di lavoratori provenienti dalla Romania, dalla
Bulgaria e dall'Ucraina (oltre gli albanesi, specializzati nel tabacco e giunti sul
territorio già a partire dalla fine degli anni '90, e i lavoratori indiani e pakistani
impiegati prevalentemente nel settore degli allevamenti).
Migranti attratti in primo luogo dalle possibilità di lavoro nei campi, ma
anche dalla grande disponibilità nella zona di soluzioni abitative accessibili.
Negli anni, l'immigrazione sul territorio ha conosciuto una visibilità
esasperata dalle tante emergenze, dagli episodi di razzismo e dall’eccessiva
concentrazione di persone in condizione di irregolarità e in condizioni di
18
marginalità. Allo stesso tempo, il territorio ha continuato ad attirare quote
consistenti di immigrati di recente arrivo. Inoltre, la provincia di Caserta,
rappresenta un’importante territorio di riferimento per molti di quei lavoratori
stagionali che ritroviamo coinvolti nel lavoro agricolo in Puglia, Calabria e
Basilicata. Quando le opportunità di lavoro stagionali si esauriscono nelle
altre regioni si fa ritorno in Campania, in attesa della prossima “stagione”
agricola o nella speranza di trovare impieghi saltuari sul territorio. Quindi,
alla presenza più o meno stanziale di alcuni gruppi si sovrappone sempre una
presenza transumante, stagionale, di passaggio, quando non estremamente
precaria; questa “confusione” sembra caratterizzare la provincia di Caserta ed
alcune sue aree in particolare. Non si tratta solo dei lavoratori stagionali che
trovano collocazione nelle tappe e nelle stazioni dell’agricoltura meridionale,
ma anche ad esempio di quei lavoratori disoccupati che dal Nord Italia
ripiegano verso luoghi più “accoglienti” e tolleranti dal punto di vista dei
controlli. Ancora, occorre segnalare tra le fila dei lavoratori che alimentano i
serbatoi della manodopera agricola, la presenza dei tanti richiedenti asilo, in
attesa del giudizio della Commissione o respinti, oppure di coloro che hanno
avuto il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Le condizioni di lavoro negli anni non sono sostanzialmente cambiate,
addirittura sembrano peggiorare in termini di paghe e ricattabilità dei
lavoratori (ciò per i continui afflussi sul territorio di nuovi migranti, nuova
manodopera disponibile, ma anche per via della normativa sull'immigrazione
che si è fatta sempre più restrittiva). Se talune trasformazioni hanno
interessato la produzione agricola e casearia del territorio, determinando
l'aumento in agricoltura di una domanda di lavoro stabile e continuativa, i
lavoratori continuano a subire forme di grave sfruttamento lavorativo.
Sfruttamento sempre giocato sulla ricattabilità del lavoratore basata sulla sua
condizione di clandestinità oppure per la necessità di disporre di un contratto
di lavoro come condizione indispensabile per mantenere il permesso di
soggiorno
Differentemente, nella Piana del Sele non ci si trova di fronte ad
un’agricoltura prettamente stagionale; il contesto agricolo offre anche
possibilità di lavoro durante tutto l’arco dell’anno proprio in ragione della
diversificazione produttiva e del sistema di produzione indoor (le produzioni
della cosiddetta "quarta gamma", prevalentemente realizzate in serre).
Tuttavia, durante la primavera (aprile e maggio) persistono dei picchi
produttivi che aumentano le occasioni occupazionali per lavoratori stagionali
e che producono il riversarsi sul territorio di importanti masse di lavoratori
(così come in altri periodi, molti lavoratori si spostano in altre regioni
meridionali alla ricerca di occasioni di lavoro).
La presenza degli immigrati nella Piana del Sele è stimata in circa 6-7 mila
persone stanziali impiegate come braccianti agricoli. La nazionalità più
consiste tra i braccianti è rappresentata dai marocchini presenti stabilmente da
20 e alcuni anche da 30 anni. Da 5-7 anni si rileva la presenza di romeni
anch’essi impiegati in agricoltura; inoltre, risulta importante la presenza di
donne ucraine (ma anche romene) impegnate nei lavori agricoli. Come nel
casertano, il lavoro negli allevamenti risulta ad appannaggio dei lavoratori
indiani e pakistani, di cui è comunque difficile fornire una stima precisa
perché sono lavoratori resi “invisibili” dall'isolamento del lavoro negli
allevamenti.
Quindi, se la stagionalità, caratteristica strutturale in agricoltura, continua
ad attrarre importanti flussi di lavoratori immigrati in determinati periodi
dell’anno e in determinate aree, sempre per quanto riguarda i lavoratori
19
impiegati in agricoltura, si riscontra la forte presenza sia di gruppi stanziali,
dalla permanenza sul territorio più o meno lunga, che di altri gruppi e soggetti
meno stabili e spesso più precari, ma comunque presenti per periodi mediolunghi sul territorio. Allo stesso modo, i lavoratori impiegati in particolari
comparti, come ad esempio quello della zootecnia, sono obbligati ad essere
stanziali per via delle mansioni in cui si viene impiegati.
Questi fattori suggeriscono la presenza di una manodopera immigrata che
attiva percorsi improntati alla stanzialità; tuttavia, non sono gli unici elementi
che possono contribuire a favorire l’insediamento stanziale dei gruppi di
lavoratori impiegati in agricoltura. Fattori molto importanti sono
rappresentati, come anticipato, dalle possibilità di trovare alloggio o dalle
opportunità lavorative presenti in settori altri rispetto a quello agricolo;
oppure, altra circostanza che favorisce lo stanziamento sul territorio è il
richiamo di parenti e amici, la possibilità di fare affidamento a reti solidali
presenti. Va rilevato che i gruppi che tendono ad essere stanziali finiscono per
essere punto di riferimento per altri lavoratori, quasi sempre connazionali, che
non risiedono sul territorio, ma che vi si riversano nei momenti in cui è
maggiore la richiesta di manodopera nelle campagne. Dalla possibilità di
attivare queste reti a proprio vantaggio dipendono buona parte delle
caratteristiche e della qualità dell’insediamento. Spesso, sono proprio i più
giovani e tendenzialmente gli ultimi arrivati che si adattano alle condizioni
più estreme, confidando nella loro buona salute per resistere a lunghi periodi
di tempo senza un'abitazione dignitosa. Si verificano anche casi in cui le
persone non riescono a coprire i costi minimi dell'affitto e vivono quindi in
strutture abbandonate e occupate, oppure per strada o nei campi. In molte
delle strutture abusivamente occupate dai migranti per avere un riparo per la
notte, in realtà, sono attive delle forme estorsive applicate da persone del
luogo che fanno pagare piccole somme di denaro agli occupanti.
A Villa Literno (Ce) esistono alcuni “ghetti”, degli accampamenti di
fortuna, che si infoltiscono di lavoratori africani di passaggio nella stagione
estiva durante le raccolte dei pomodori e di altri ortaggi; un altro caso
emblematico è il Ghetto di Parete. Si tratta di una situazione che si ripete da
20 anni, più volte denunciata, senza che si sia arrivati ad approntare sistemi di
accoglienza adeguati per i lavoratori stagionali. Nel Ghetto di Parete si
ritrovano ogni anno un centinaio di lavoratori nordafricani, spesso molto
giovani, che trovano sistemazione in piccoli insediamenti disseminati nelle
campagne. I più fortunati dormono sotto delle tende improvvisate, fatte di teli
di plastica che consentono all’acqua di defluire in caso di pioggia; gli altri si
riparano con cartoni o coperte. Le baracche sono spesso costruite con i
materiali residui delle serre, amianto e nel migliore dei casi con lamiere;
inoltre, solitamente l’acqua, finanche quella da bere, viene prelevata dai pozzi
circostanti. In molti casi si tratta di vere e proprie forme di autoorganizzazione, tanto da escludere che ci sia chi ne tragga profitto: esistono
forme evidenti di collaborazione tra questi lavoratori anche per riuscire a
mantenere una convivenza “civile” e dignitosa negli insediamenti.
Una situazione analoga era presente sul versante salernitano della Piana
del Sele; stiamo facendo riferimento a quello che solitamente veniva definito
il "getto di San Nicola Varco". Vi trovavano accoglienza un elevato numero
di lavoratori agricoli (non meno di 700 persone), tutti provenienti dal Nord
Africa. Paradossalmente, molti di questi lavoratori erano stanziali sul
territorio da diversi anni, rispondendo al fabbisogno delle numerose aziende
agricole del territorio, ma le loro condizioni di lavoro, e quelle relative alle
20
condizioni di degrado assoluto dell'insediamento 11, non sono migliorate negli
anni. Inoltre, lo sgombero di tale insediamento di certo non ha migliorato le
condizioni di vita dei lavoratori che vi trovavano dimora.
Non è detto che ad una presenza stanziale corrispondano necessariamente
condizioni insediative migliori; ciò risulta evidente prendendo in
considerazione il caso degli indiani e dei pakistani, già impiegati da diversi
anni nel settore zootecnico. Le mansioni cui sono addetti questi lavoratori
presentano la caratteristica della continuità temporale, quindi si richiede una
forte sedentarietà alle persone impiegate. Ciò nonostante, molti lavoratori
continuano ad abitare in baracche di alluminio e container, oppure in alcuni
ruderi, sempre situati vicino alle stalle, sia d'estate che di inverno e molte
volte senza acqua e riscaldamento.
Il mondo agricolo, le condizioni di lavoro, le violazioni
Il mercato del lavoro locale continua a basarsi in primo luogo su un
sistema di reclutamento che ha luogo nelle "rotonde" delle strade provinciali,
nelle piazze o nei bar; il mercato delle braccia offre quotidianamente lavori
precari e non garantiti, spesso alla giornata e pagati a cottimo, anche (ma non
esclusivamente) lavori mediati dai caporali.
Dall’analisi delle condizioni di lavoro degli immigrati impiegati in
agricoltura, emerge una casistica alquanto eterogenea; tuttavia possiamo
evidenziare alcuni elementi che caratterizzano le condizioni di tutto il lavoro
nell'agricoltura meridionale: paghe non adeguate al lavoro prestato, orari
lunghi e faticosi (Ferrara, Mussino, Strozza, 2010), nessuna cura per la
sicurezza sui luoghi di lavoro né per i potenziali rischi per la salute dei
lavoratori (Medici Senza Frontiere, 2008); anche quando non si è in presenza
di lavoro al nero, si osservano vistose deroghe alle norme contrattuali o
addirittura un uso del tutto improprio degli strumenti di contrattualizzazione.
Infine, emerge anche una certa casistica di pesanti abusi e situazioni di grave
sfruttamento del lavoro.
Uno dei primi elementi che vogliamo evidenziare riguarda i differenziali
esistenti nelle paghe dei lavoratori. Se le paghe sono sempre inadeguate
rispetto al lavoro prestato, spesso i lavoratori non vengono pagati allo stesso
modo. Può anche accadere che lavoratori di differenti nazionalità ma
impiegati nello stesso momento, sullo stesso terreno e con la stessa mansione,
ricevano un trattamento differente, in termini di paga ma non solo. Addirittura
sarebbe possibile tracciare una sorta di scala sulla quale collocare differenti
gruppi di lavoratori, identificabili secondo il criterio della provenienza e
dell’appartenenza nazionale; ad esempio, i lavoratori impiegati in agricoltura
e pagati di meno sarebbero gli ultimi arrivati, ovvero i cittadini bulgari e
romeni.
Come vedremo, l’esperienza, la conoscenza del territorio e della lingua,
disporre di contatti e relazioni con i datori di lavoro, oltre a particolari
competenze per specifiche lavorazioni sono tutti elementi che fanno ottenere
una collocazione migliore su questa scala. Ma ci sono anche altri fattori che
possono determinare tali differenziali retributivi: l'impiego cui si è destinati, la
presenza di caporali ed intermediari per il collocamento al lavoro, la
disponibilità ad accettare paghe più basse pur di lavorare ed una maggiore
11
Per un approfondimento delle condizioni di vita e di lavoro dei migranti marocchini
nel ghetto di San Nicola Varco si veda Botte A., Mannaggia la miseria. Storie di
braccianti stranieri e caporali nella piana del sele. 2009
21
propensione all'auto-sfruttamento, la necessità o meno di disporre di un
permesso di soggiorno.
Un secondo elemento che vogliamo porre in evidenza è il cosiddetto
metodo di retribuzione "a cottimo" del lavoro. Ad esempio, prendendo come
esempio la coltura del pomodoro, si osserva che mentre per le operazioni di
semina i lavoratori sono pagati a giornata (25 euro giornalieri), nella fase della
raccolta si viene pagati a cassone raccolto (mediamente 3,50 euro per cassone
raccolto) e generalmente i lavoratori riescono a spuntare una retribuzione
giornaliera mediamente più alta rispetto alla fase della semina. Tuttavia,
questo paradosso che fa apparire il "cottimo" un sistema conveniente, in realtà
nasconde un livello assai elevato di auto-sfruttamento del lavoratore che
sottopone il suo corpo a duri ed intensi ritmi di lavoro per ottenere di più in
termini di paga. Il cottimo appare diffuso sia nella raccolta dei finocchi e delle
patate, ritenuta al pari del pomodoro una delle raccolte più faticose, che in
quella del tabacco, anche se con qualche peculiarità.
La durezza del lavoro relativo ad alcune colture come il pomodoro
determina la preferenza per i lavoratori provenienti dall’africa Sub-Sahariana
per via dell’alto rendimento delle prestazioni lavorative offerte e per la loro
inclinazione ad un maggiore livello di auto-sfruttamento. Nella fase della
raccolta, i lavoratori ascoltati preferiscono sottoporsi ad un ritmo intenso e,
dunque, concentrare tutto il lavoro nelle prime ore di luce, dalle 6.00 alle
13.00, per evitare le ore più calde della giornata. Per il periodo della semina,
invece, si arriva sui campi tra le 7.00 e le 8.00 e la giornata terminerà tra le
16.00 e le 17.00 (sfruttando, praticamente, tutte le ore di luce). Molti di questi
lavoratori provengono da Mali, Burkina Faso, Ghana, Senegal, e possono
essere definiti transumanti; arrivano da febbraio nel casertano per la semina
del pomodoro, permanendo sul territorio fino al periodo della raccolta, per poi
spostarsi nel foggiano sempre per la raccolta del pomodoro, tardiva rispetto a
quella che avviene sul casertano; infine, sarà la volta della piana di Gioia
Tauro per la raccolta invernale delle arance. Nel casertano, oltre che nei
pomodori, questi lavoratori trovano occasionalmente impiego, ad esempio,
nella raccolta della frutta (settore considerato più redditizio rispetto agli altri),
e nella raccolta di ortaggi sotto serra, dove generalmente si viene pagati 30
euro per 8-10 ore di lavoro.
Sia nella provincia di Caserta che nel salernitano, una delle più importanti
raccolte frutticole che avviene sotto serra è quella delle fragole che si
concentra tra aprile e maggio e vede impiegati molti lavoratori nord africani e
dell'est Europa, soprattutto romeni, tra cui anche molte donne. Nelle fragole si
lavora mediamente dalle 6.00 alle 13.00 per 25-30 euro, tuttavia, in alcuni casi
gli orari si prolungano e si legano al “doppio turno”, ovvero si richiede di
lavorare fino alle 17.00, anche oltre, per 10-15 euro in più. Rinunciare al
doppio turno può significare rinunciare all’intera giornata di lavoro. Il lavoro
di raccolta delle fragole risulta sottoposto a pressioni e stretti controlli da parte
del caposquadra, che in alcuni casi può essere anche italiano. Inoltre, dal
momento che questo tipo di raccolta si protrae per alcune settimane, il
pagamento del lavoro può avvenire anche dopo 1 o 2 settimane, a seconda
delle aziende.
Risulta importante valutare alcuni avvicendamenti relativi alla presenza di
determinate comunità in colture specifiche; ad esempio, nell’agro-aversano
per lungo tempo il comparto ortofrutticolo è stato ad appannaggio dei
lavoratori provenienti dalla Tunisia; di questi, oggi continuano a lavorare in
agricoltura solo coloro i quali hanno costruito e mantenuto negli anni un
rapporto privilegiato con i propri datori di lavoro, mentre buona parte di
22
questi lavoratori, ancora presenti sul territorio, ricercano opportunità in altri
settori, come l’edilizia. Infatti, negli anni si è fatto sempre più consistente
l’ingresso nel comparto ortofrutticolo di manodopera proveniente dall’Europa
dell’Est, soprattutto dalla Romania, nonché di altri lavoratori Nord-Africani,
gli egiziani, i quali, ad esempio, risultano massicciamente impiegati nella
raccolta delle fragole di Parete. Secondo alcuni osservatori, la presenza degli
egiziani ha cominciato ad essere visibile solo con l’emersione del 2009,
perché prima di allora erano tutti privi di permesso di soggiorno. In molti casi
si tratta di persone che hanno vissuto vicende simili prima di giungere nel
casertano, solitamente dal Nord Italia. Il responsabile della comunità islamica
di San Marcellino (Ce) ritiene che molti di questi lavoratori, reclutati
direttamente in Egitto, siano stati condotti in Italia per lavorare nei cantieri
edili, sempre attraverso l’intermediazione di soggetti di nazionalità egiziana
che hanno procurato loro una collocazione lavorativa e un alloggio. Una volta
sul territorio italiano, molti di loro sono stati truffati, non pagati per il lavoro
prestato o duramente sfruttati; di volta in volta, appena questi lavoratori
maturavano la volontà di sottrarsi a tali situazioni di sfruttamento per
migliorare le proprie condizioni, venivano allontanati dai caporali, perdendo
così non solo il lavoro ma anche un posto dove dormire. Quindi, molti hanno
cercato riparo altrove, disperdendosi nel Sud del paese dove i controlli sono
meno intensi e dove è più facile procurarsi rifugi di fortuna nei campi e vivere
di “nascosto".
Nella Piana del Sele, invece, si continua a riscontrare la forte e tradizionale
prevalenza di lavoratori magrebini, soprattutto marocchini, stanziati tra il
territorio di Eboli e Battipaglia; va anche sottolineato che per alcune linee di
produzione vi è una certa richiesta di manodopera stabile ed esperta e i gruppi
di lavoratori marocchini sono quelli che maggiormente soddisfano questa
richiesta, anche perché stanziali sul territorio da diversi anni. La paga si aggira
tra i 30 e i 40 euro al giorno e si lavora a cottimo, con orari di lavoro siano
assai variabili; la manodopera marocchina presente da anni nella Piana del
Sele risulta impiegata anche in colture che avvengono sotto serra, dove si
guadagna di meno e si osserva una grossa incidenza di lavoratori e lavoratrici
provenienti dall'Est Europa. Come vedremo, il sistema di reclutamento dei
lavoratori magrebini è affidato all'operato dei caporali, sempre marocchini.
Come già anticipato, in ambito agricolo acquisisce una sempre maggiore
consistenza la partecipazione dei gruppi di lavoratori rumeni e bulgari al
lavoro agricolo. Una delle raccolte che vede impiegata una manodopera in
prevalenza (anche se non in maniera esclusiva) rumena, oltre a quella già
menzionata delle fragole, è quella invernale dei broccoli. Il prodotto viene
riversato rapidamente e a ritmi frenetici sul mercato e il lavoro è sovente
esposto, senza pause, a condizioni atmosferiche avverse e sotto il rigido
controllo dei caporali: secondo alcune testimonianze raccolte, gli orari si
prolungano oltremodo, da un minimo di 10 fino a 12-13 ore al giorno, anche
grazie all’ausilio dell’illuminazione artificiale fornita mediante i fanali delle
auto e dei furgoni; la retribuzione giornaliera non supera i 30 euro, ma può
essere anche inferiore soprattutto per i lavoratori rumeni e per le donne. A tal
proposito, una circostanza che si verifica spesso vede i lavoratori e le
lavoratrici rumene pagati separatamente e diversamente rispetto agli altri
lavoratori presenti sul campo. Come vedremo, in riferimento ai braccianti
rumeni nel corso della nostra ricerca di campo è stato possibile constatare il
peso dell’operato dei caporali. Ma se il caporalato ha un ruolo, ci sono anche
altri elementi che possono spiegare la maggiore disponibilità dei braccianti
rumeni ad accettare paghe più basse rispetto agli altri lavoratori; ad esempio,
23
un fattore determinante in alcuni casi è la presenza al lavoro dell’interno
nucleo familiare. Quindi, più che porsi come individui sul mercato delle
braccia, essi si presentano sul lavoro formando delle squadre e, spesso, le
squadre sono tenute insieme da vincoli parentali.
Sempre in riferimento alla comunità rumena, occorre prestare attenzione
alla crescente partecipazione femminile al lavoro agricolo, in quanto le donne
sono spesso impiegate insieme a tutto il nucleo familiare presente sul
territorio. Il lavoro nei campi tende a femminilizzarsi con la partecipazione di
molte donne provenienti dal’est Europeo e le donne al lavoro sui campi ci
appaiono in una situazione di maggiore vulnerabilità. Determinate attenzioni
verso il datore di lavoro, se non esplicite richieste di prestazioni sessuali,
possono rappresentare una sorta di compensazione della prestazione
lavorativa o un sistema per avere una paga più decente.
Come anticipato, sono riscontrabili colture in cui la composizione della
manodopera impiegata appare piuttosto omogenea, per via del persistere di
alcune specializzazioni lavorative, ovvero settori e lavorazioni ad
appannaggio di determinati gruppi di lavoratori. È il caso degli albanesi
impiegati per la raccolta del tabacco che ha luogo nei comuni casertani di
Portico di Caserta, Macerata Campana, Marcianise, San Tammaro. Anche nel
caso del tabacco, le operazioni che riguardano la semina vengono pagate a
giornata, mentre nella fase della raccolta si lavora a “cottimo”. La fase più
redditizia per i lavoratori è quella della raccolta, quando si lavora mediamente
12 ore al giorno, senza pause settimanali e a condizioni atmosferiche che
mettono a dura prova l'integrità fisica dei lavoratori; nel periodo della raccolta
si può lavorare anche per due-tre settimane di seguito senza avere un solo
giorno di riposo e ciò va messo in relazione ai tempi di maturazione delle
foglie di tabacco. Infatti, una volta giunte a maturazione le foglie rischiano di
bruciarsi sulle piante, ed eventuali danni al raccolto vengono spesso riversati
sui lavoratori. A tal riguardo, occorre soffermarsi sulla modalità dell’ingaggio
dei lavoratori in uso per questa specifica coltura. Al momento della raccolta, i
proprietari dei fondi appaltano il lavoro da eseguire, scaricandone anche le
responsabilità, rivolgendosi generalmente a dei capo-squadra o in alcuni casi a
veri e propri caporali. I capo-squadra saranno i responsabili del reclutamento e
della gestione della manodopera necessaria, nonché del corretto svolgimento
delle operazioni di raccolta, del rispetto dei tempi di maturazione e degli
eventuali danni al prodotto. Secondo i lavoratori albanesi intervistati, un
moggio di tabacco viene pagato circa mille euro (1.500 se oltre alla raccolta la
squadra di lavoratori deve provvedere anche alle operazioni per
l'essiccazione); occorre considerare che sullo stesso moggio le operazioni di
raccolta si ripetono almeno quattro volte. Anche se il caposquadra
generalmente guadagna qualcosa in più degli altri lavoratori, un lavoratore
impiegato nella raccolta del tabacco può guadagnare tra i 40 e i 50 euro al
giorno. Come nell’esempio dei lavoratori africani impiegati nella raccolta dei
pomodori, la retribuzione a cottimo del lavoro, collegandosi ad una
propensione all’auto-sfruttamento perpetrato dai lavoratori stessi, fa apparire
tale sistema redditizio, a patto ovviamente di lavorare al limite della
sopportazione fisica. Oggi sembra essersi esaurita l’intensità di quei flussi
stagionali che portavano manodopera dall’Albania per il solo periodo della
raccolta. Ma non ci sono solo i cali della produzione e della richiesta di
manodopera, ma anche i tentativi da parte dei datori di lavoro di provare a
risparmiare sul costo del raccolto, pagando sempre meno e cercando
alternative nell’ingresso di lavoratori dell’est Europa. Questi ultimi si
offrirebbero sul mercato, sempre formando una squadra, per una retribuzione
24
giornaliera di 25-30 euro a persona, venendo a rappresentare un notevole
risparmio per i proprietari del tabacco.
Sempre a proposito di comparti lavorativi ad appannaggio di determinati
gruppi di lavoratori, veniamo al caso degli indiani e dei pakistani addetti alla
zootecnia. In provincia di Caserta, nelle aree di Grazzanise, Marcianise, Santa
Maria La Fossa, Castel Volturno, Cancello Arnone, ritroviamo soprattutto
lavoratori provenienti da aree rurali del subcontinente indiano ed impiegati
presso gli allevamenti di bufale. Generalmente, per 100 bufale si necessita
solitamente del lavoro di 3 operai, anche se è possibile riscontrare diverse
posizioni di lavoratori impiegati da soli in presenza del medesimo quantitativo
di animali. Inoltre, può capitare che gli ultimi arrivati sul territorio prestino
lavoro gratuito in cambio dell’accoglienza che ricevono presso i loro
connazionali, già impiegati presso le aziende del settore, al fine di alleggerire
il pesante carico di lavoro quotidiano.
I tempi di lavoro, all’incirca 13-14 ore distribuite in due turni
(approssimativamente dalle 4.00 alle 10.00 e dalle 13.00 alle 20.00), lasciano
poco spazio per i contatti e le relazioni che restano limitate ai colleghi
connazionali e ai datori di lavoro e le loro famiglie; l’unica pausa settimanale
loro concessa è la domenica mattina. Dunque, la vita di questi lavoratori resta
confinata nei luoghi di lavoro, che nella maggior parte dei casi coincidono con
i luoghi delle abitazioni. Ragion per cui queste persone finiscono per vivere in
un isolamento quotidiano e la loro presenza sul territorio rimane poco visibile.
Difficilmente percepiscono lo sfruttamento cui sono sottoposti e ciò non solo
per ragioni culturali radicate nei luoghi di provenienza, ma soprattutto per via
di quest'’isolamento che vivono sul territorio
Nel periodo estivo accade che gli orari di lavoro possano prolungarsi
ulteriormente; infatti, spesso, si viene destinati anche ad altri lavori, come ad
esempio la raccolta ortofrutticola, sempre per lo stesso imprenditore. In questi
casi, tuttavia, la paga non subisce variazioni per il lavoro extra. Un lavoratore
indiano impiegato nella zootecnia guadagna 600, al massimo 800 euro al
mese; se in alcuni casi la retribuzione ricevuta può raggiungere i 1000 euro
mensili, spesso tale circostanza coincide con il fatto che sono i lavoratori a
pagarsi i contributi. Più in generale, raramente la busta paga coincide con la
retribuzione effettivamente resa ai lavoratori.
Molti hanno una conoscenza approssimativa della lingua italiana, anche se
residenti da diversi anni sul territorio e tutto ciò si riflette nella mancanza di
consapevolezze, strumenti e punti di riferimento affidabili, che facilitino
l’esigibilità dei diritti minimi di lavoratori e non solo. Negli anni, dopo gli
intensi controlli che hanno riguardato le aziende in questo settore, molti
imprenditori sono stati indotti a mettere in regola i lavoratori, o almeno una
parte di essi; tuttavia, si tratta pur sempre di contratti part-time per situazioni
lavorative a tempo pieno. Nonostante ciò, grazie all’emersione di molti di
questi lavoratori, le prospettive sembrano leggermente cambiate ma, in molti
casi, i lavoratori rimangono poco informati circa le procedure, le leggi, i
rispettivi diritti e doveri, che regolano la vita lavorativa. Inoltre, diffusa è la
consuetudine ad affidarsi ai datori di lavoro o a consulenti dell’azienda per
tutta una serie di pratiche che vanno dalla domanda di disoccupazione
agricola, al rinnovo del permesso di soggiorno. Ovviamente, questa
consuetudine ha dei costi che si scaricano sui lavoratori stessi e non si tratta
solo delle parcelle dei consulenti, ma spesso di veri e propri raggiri.
Come si è appena visto nel caso degli indiani adoperati nella zootecnia,
quando non siamo in presenza di “lavoro nero”, si osservano vistose deroghe
alle norme contrattuali o addirittura un vero e proprio uso improprio degli
25
strumenti di contrattualizzazione. Ad esempio, circostanza diffusa è quella in
cui il datore di lavoro dichiara i suoi dipendenti e versa i contributi (quando,
come abbiamo visto, non è direttamente il lavoratore a versare i contributi),
poi li sottrae direttamente ed in maniera illegittima dalla paga del lavoratore.
In molti casi, l’accordo prevede che verranno dichiarate solo un certo numero
di giornate rispetto al lavoro effettivamente prestato, appena sufficienti per il
lavoratore per rinnovare il permesso di soggiorno o per far domanda per
l'assegno di sostegno al nucleo familiare o per aver diritto alla disoccupazione
agricola (che spesso sulla base degli accordi informali presi con il datore di
lavoro vanno comunque a compensare la retribuzione del lavoro prestato).
Paradossalmente, questo tipo di situazioni finiscono per rappresentare un
privilegio, considerate migliori rispetto a quelle in cui versano tanti altri
migranti il cui rapporto lavorativo è completamente a nero; siccome ogni
lavoratore conosce qualcuno che sta peggio di lui, tanti non si lamentano della
propria condizione che comunque è segnata da ripetute violazioni dei diritti.
Uno sguardo incrociato ai dati sulle giornate di lavoro agricolo
regolarmente dichiarate all’Inps e ai vari gruppi etnico/nazionali
effettivamente impiegati nel lavoro sui campi ci consentirebbe di
comprendere meglio l’eterogeneità delle posizioni: laddove ci sono maggiori
incongruenze tra la produzione territoriale e le giornate effettivamente
dichiarate dai braccianti impiegati e plausibile che si insinui maggiore lavoro
nero e sfruttamento. Questo sembra essere il caso della comunità burkinabè
presente a Casal di Principe, prevalentemente impiegata in agricoltura ma fa
registrare un esiguo numero di giornate regolarmente dichiarate.
L’incertezza sembra essere un tratto costante della quotidianità dei
lavoratori immigrati impegnati in agricoltura; dalla saltuarietà del lavoro,
perché se lavori oggi non è detto che lavori pure domani, all'incertezza
relativa alle retribuzioni che si spera di ottenere; in alcuni casi, non solo c’è
differenza tra ciò che viene pattuito e ciò che poi effettivamente si ottiene in
termini di retribuzione ma l’incertezza si estende anche ai tempi di
pagamento, fino ad arrivare alla circostanza in cui non si viene pagati affatto
per il lavoro prestato.
Senza dubbio chi non è in possesso di un permesso di soggiorno occupa
una posizione più debole; ma c’è un altro elemento da tenere in
considerazione, ovvero l’inesperienza che espone molti lavoratori a maggiori
rischi di sfruttamento. I “novizi”, ad esempio gli ultimi arrivati dall’Africa sub
Sahariana, spesso con un bassissimo livello di istruzione e con un enorme gap
linguistico che di certo non aiuta, possono facilmente ritrovarsi in balia degli
imprenditori o dei caporali, sono più a rischio degli altri di finire truffati,
sottopagati e sfruttati. Ma ci sono anche altre circostanze che spingono i
lavoratori agricoli verso prestazioni sottopagate, rendendoli inclini ad
accettare qualsiasi condizione di lavoro, persino la più sfruttante; prima tra
tutte, va considerata la pressione esercitata dai lunghi periodi di
disoccupazione. La disoccupazione sembra collegarsi ad un altro tema, quello
della forte concorrenza che esiste tra lavoratori di differenti nazionalità (una
concorrenza che ritroviamo espressa anche nei differenziali che riguardano le
retribuzioni).
L'attuale crisi economica da un lato sembra responsabile dei cali di
produzione, e quindi della manodopera necessaria, dall’altro pare spingere
sempre più giù i costi del lavoro. Ma la crisi nel settore può anche declinarsi
diversamente; infatti, se le difficoltà delle imprese spingono gli imprenditori a
ridurre l’organico dei lavoratori, può accadere che un maggiore carico di
lavoro graviti su quei pochi che continuano ad essere assunti. Anche in questo
26
caso gli effetti della crisi si scaricano sulle spalle dei lavoratori, sempre più
sfruttati.
Per concludere questa rassegna e prima di passare ad un problema che
sembra caratterizzare negativamente da sempre le campagne meridionali, il
caporalato, si ritiene opportuno accennare ai rischi per la salute dei lavoratori
agricoli, strettamente connessi allo sfruttamento subito. Infatti, il mancato
rispetto degli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro e i potenziali rischi per
la salute dei lavoratori, rappresentano ulteriori elementi utili a qualificare le
dure condizioni di lavoro sperimentate in agricoltura. I datori di lavoro
generalmente si disinteressano della salute dei propri lavoratori e le
conseguenze di tale inosservanza delle norme minime per la salvaguardia
della salute dei lavoratori sono ampiamente riportate in letteratura12. L'assenza
di acqua potabile sui luoghi di lavoro, l'esposizione alle più avverse
condizioni meteorologiche e la sottoposizione a duri e intensi turni di lavoro,
ecc., sono solo alcuni dei fattori che complicano le condizioni di salute di
questi lavoratori. Inoltre, per quanto riguarda l'uso di fitosanitari, fitofarmaci o
agro farmaci (impiegati in agricoltura per combattere le principali avversità
delle piante), dal momento che si tratta di operazioni ad alto rischio per la
salute, dove risultano vitali la consapevolezza del rischio stesso, nonché
l’esperienza e la conoscenza dei prodotti utilizzati e delle corrette procedure
di applicazione, va da sé che lavoratori inesperti, circostanza niente affatto
remota, finiscono per essere maggiormente esposti ai rischi del caso. Ma ci
sono anche altri elementi che complicano ed elevano i rischi per la salute dei
lavoratori coinvolti nella nostra agricoltura; l’indigenza, l’indisponibilità di un
alloggio decente e l’assenza di servizi minimi in cui versano alcuni gruppi di
lavoratori stagionali costretti a riparare nelle campagne, tra tende
improvvisate o stabili diroccati, sono tutti fattori che hanno un peso
importante. In queste condizioni diventa difficile prestare sufficiente
attenzione ad alcune norme di prevenzione che consentono di ridurre i rischi
specifici del contatto con eventuali agenti tossici - banalmente, la possibilità
di lavarsi e di cambiare, nonché lavare, gli indumenti di lavoro dopo la
giornata nei campi e nelle serre.
Altro caso emblematico che presenta rischi specifici e connessi con le
mansioni lavorative assegnate è quello degli allevatori indiani impegnati nella
cura degli animali da latte per l'industria casearia. I nostri informatori ci hanno
segnalato diversi casi di scabbia e patologie epidermiche dovuti
probabilmente al contatto continuo con gli animali da allevamento. La scarsa
attenzione per i dispositivi di sicurezza, a partire dall’assenza di dotazioni di
protezione individuale, espone i lavoratori della zootecnia sia a rischi di tipo
chimico che biologico; infatti, oltre al possibile contatto con agenti chimici,
prodotti disinfestanti o farmaci veterinari che talvolta si rendono necessari, c’è
il rischio di malattie trasmesse all’uomo direttamente dagli animali o
dall’ambiente in cui si opera. Anche per questi lavoratori, ad incidere
ulteriormente sui rischi per la salute e l’emergere di specifiche patologie,
possono contribuire condizioni abitative ugualmente fatiscenti, come in quei
casi in cui i lavoratori alloggiano in prossimità delle stalle, in container o
baracche prive di servizi.
12
Si veda il rapporto di Medici senza Frontiere, "Una stagione all'inferno. Rapporto
sulle condizioni degli immigrati in agricoltura nelle regioni del Sud Italia". 2008. Si
veda anche il precedente rapporto di MSF, "I frutti dell'ipocrisia. Storie di chi
l'agricoltura la fa. Di nascosto".2005.
27
Un problema specifico, l'intermediazione di manodopera in agricoltura
Sul territorio, il minimo comune denominatore del sistema di reclutamento
dei lavoratori stranieri (in agricoltura, ma non solo) è costituito da quei luoghi
deputati all’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro a giornata. Si tratta di
piazze e rotonde, quotidianamente frequentate fin dalle prime ore del mattino
da lavoratori e lavoratrici, intermediari, caporali e datori di lavoro. Ma
l’intermediazione di manodopera e il caporalato sembrano essere fenomeni
che riguardano in misure e forme differenti le diverse nazionalità di lavoratori
stranieri. Oggi, sul territorio preso in considerazione, e soprattutto in
riferimento al casertano, le lavorazioni che richiedono grosse quantità di
manodopera per la raccolta (come nel caso dei pomodori) tendono a
ridimensionarsi; le imprese sono sempre più medio-piccole, quindi si
riducono le occasioni in cui è necessario organizzare un grosso reclutamento
di manodopera e si ridimensiona lo spazio per l’azione dei caporali. Il
caporalato è un fenomeno da mettere in relazione soprattutto con le
dimensioni medio-grandi delle aziende agricole. In alcuni casi è la specifica
organizzazione del lavoro che riguarda determinate colture a rendere
superfluo l’intervento di un caporale (ad esempio, quando occorrono
lavoratori stabili e non occasionali). Frequenti sono i casi in cui gli
imprenditori agricoli si servono di lavoratori di fiducia con i quali
intrattengono rapporti diretti, stabili e duraturi nel tempo; sono questi stessi
operai che, all’occorrenza, facilitano l’incontro della manodopera disponibile
con il datore di lavoro, diffondendo la voce tra amici e conoscenti; inoltre,
talvolta svolgono anche funzioni di controllo e direzione della manodopera. In
questi casi non siamo in presenza di caporalato, almeno nell’accezione
classica data al fenomeno. Piuttosto, si tratta di veterani, lavoratori stanziali
da lungo tempo sul territorio, punti di riferimento molto importanti per gli
altri lavoratori immigrati, quelli più giovani, inesperti e giunti di recente,
oppure per i lavoratori transumanti, che necessariamente dovranno avvalersi
di un qualche intermediario per avere una collocazione lavorativa.
Molti lavoratori, soprattutto quelli ormai stanziali da anni, hanno
interiorizzato il rifiuto del caporalato, anche perché molti hanno conosciuto e
sperimentato il duro sfruttamento operato dai caporali già nel corso degli anni
Novanta. Tuttavia, nella Piana del Sele, il fenomeno del caporalato sembra
coinvolgere ancora i numerosi lavoratori marocchini presenti. Alcuni caporali
assolverebbero anche a funzioni legate all’ingresso e al soggiorno dei
lavoratori tramite il decreto flussi per lavoro stagionale, richiedendo al
lavoratore una somma che va dai 7 ai 10.000 euro come prezzo per un visto di
ingresso. Il rapporto di conoscenza con il caporale garantisce per molti
lavoratori la continuità occupazionale; inoltre, tra i gruppi di lavoratori
marocchini l’intermediario può svolgere diverse funzioni che possono
riguardare altri ambiti della vita del lavoratore, come i contatti con i medici,
gli avvocati, le strutture sanitarie e burocratiche. In virtù di questi servizi,
questo tipo di caporali si configurano come una risorsa molto utile nella
quotidianità, ben oltre il lavoro, e ciò contribuisce a rendere indispensabile la
sua figure presso i lavoratori. Ma i caporali svolgono anche e soprattutto
funzioni di controllo sui luoghi di lavoro, misurando le prestazioni dei
braccianti e le loro retribuzioni, stabilendo ingresso e uscita dai campi,
evitando di selezionare coloro che lavorano poco o che creano problemi, e
così via.
Come abbiamo anticipato, anche nella coltivazione del tabacco, dove
predominante risulta essere la manodopera albanese, il lavoro è organizzato in
squadre. Il capo squadra in questo caso assume su di sé la responsabilità di
28
condurre il lavoro, date le specificità precedentemente descritte. Ma se molti
capi formano le squadre rivolgendosi a parenti o amici, comunque persone
fidate, servendosi di una sorta di piccola impresa familiare per condurre la
raccolta e stare dentro il rispetto dei tempi, altri, cioè quelli che prendono le
commesse più grandi, hanno bisogno di un maggior numero di lavoratori e
quindi si servono delle rotonde per reclutare le braccia necessarie. In questi
casi, l’intermediario assume le caratteristiche del caporale, non è direttamente
coinvolto nel lavoro e i suoi guadagni sono consistenti, così come aumenta lo
sfruttamento ai danni dei lavoratori reclutati.
Per quanto riguarda le nuove comunità rumene e bulgare, le ultime arrivate
sul territorio, esse sembrano aver rivoluzionato un sistema di garanzie che le
comunità di più vecchio insediamento erano riuscite ad ottenere, rispetto, ad
esempio, alle ore lavorate e alla paga giornaliera; contrattando direttamente
con gli imprenditori agricoli, questi lavoratori riuscivano a bypassare l’azione
dei caporali. Invece, il sistema del caporalato è sorto a nuova vita con l’arrivo
dei cittadini rumeni e bulgari, il cui lavoro nei campi è completamente gestito
da caporali, anch’essi di nazionalità rumena o bulgara. In riferimento a queste
comunità, si può anche ipotizzare l’esistenza di un sistema di reclutamento,
trasporto e collocamento al lavoro che inizia nel paese di origine, gestito
sempre dai caporali.
Prendendo come esempio il lavoro dei braccianti rumeni stanziati a Villa
Literno, il caporale, generalmente, si rivolge agli imprenditori, contratta il
prezzo del lavoro per poi reclutare i lavoratori che riterrà necessari; sarà
sempre il caporale a gestire la paga e decidere quanto pagare i lavoratori e
quanto trattenere per sé. Inoltre, solitamente al caporale viene pagato il
trasporto, dai 3 ai 5 euro, mentre sono meno diffusi i casi in cui i caporali
vendono anche acqua e panini ai braccianti. Seguendo questo schema, al netto
dell’intermediazione del caporale, un lavoratore rumeno percepisce
mediamente 20 euro per una giornata di lavoro. Il caporale, invece, secondo i
pareri raccolti sul campo, guadagna mediamente dai 10 ai 15 euro per ogni
lavoratore reclutato. Allo stesso tempo, sembra raro riscontrare sentimenti di
indignazione, tanto meno insubordinazione, tra i rumeni rispetto al ruolo del
caporale; in parte ciò sarebbe imputabile ai modi meno violenti e coercitivi,
ad un certa “modalità più sottile” che consente al caporale di rendersi
indispensabile, quindi accettato dai lavoratori. Nella maggior parte dei casi il
caporale viene semplicemente percepito come una figura necessaria per poter
lavorare, soprattutto quando il luogo di lavoro è distante da quello di
residenza.
Riassumendo, il caporalato resta un fenomeno che si propaga nei “vuoti”,
sempre presente laddove c’è necessità immediata di una certa massa di
lavoratori da reclutare e trasportare sui campi. Ma spesso la funzione del
caporale non si esaurisce una volta sui campi; una delle peculiarità del
caporale è proprio rappresentata dal controllo del lavoro, soprattutto quando
questo viene pagato a cottimo ed è necessario accertarsi delle quantità
effettive raccolte. L’imprenditore non entra nel merito della relazione tra il
caporale e i lavoratori, anche perché l’intervento di un caporale è richiesto
proprio per evitare di affrontare il rapporto diretto con un consistente numero
di braccianti. Dunque, i caporali sono l’anello di congiunzione tra il datore di
lavoro e la manodopera, governano ed organizzano i lavoratori, dettando i
tempi, disciplinando e disponendo ordini, ovviamente senza partecipare alle
attività lavorative: l’insubordinazione al caporale viene pagata a caro prezzo
in quanto si finisce letteralmente fuori dal mercato locale del lavoro.
29
La storia di Antony.
Antony ha 39 anni e viene dalla capitale del Burkina Faso,
Ouagadougou. Ha lasciato il suo paese nel 2007 pagando una somma di
3.000 euro ad un suo connazionale che ha organizzato il viaggio,
provvedendo all’acquisto del biglietto aereo e al rilascio di un visto di
ingresso. Giunge nel casertano, a Casal di Principe, spinto dal richiamo di
alcuni suoi amici e dalle opportunità di lavoro in agricoltura. Sono tanti i
suoi connazionali che risiedono a Casal di Principe e in alcuni comuni
limitrofi.
Le sue esperienze di lavoro sul territorio casertano si limitano principalmente
all’impiego nelle colture del pomodoro e delle pesca. Per trovare lavoro,
Antony si reca quotidianamente presso le piazze e le rotonde della zona
deputate alle attività di reclutamento dei lavoratori; solitamente è
l’imprenditore che si reca direttamente sulle rotonde a prelevare la
manodopera necessaria, anche se ci sono alcuni caporali nord africani che si
recano alle rotonde a reclutare lavoratori. Nonostante sia a conoscenza
dell'operato dei caporali, nella sua esperienza Antony afferma di aver
lavorato sempre con piccoli proprietari terrieri, con i quali il rapporto è
diretto e senza intermediazioni, sia al momento dell'ingaggio che in quello del
pagamento delle prestazioni.
Antony è uno di quei lavoratori agricoli che potremmo definire transumanti,
ovvero che si spostano continuamente tra un luogo e l'altro del Mezzogiorno
italiano, transitando per le diverse tappe delle stagioni agricole. Per far
fronte ai lunghi periodi di disoccupazione nel casertano ogni anno raggiunge
la Piana di Gioia Tauro per la raccolta delle arance; per una giornata di
lavoro nella raccolta delle arance Antony non guadagna più di 20 euro, da
cui vanno sottratti i soldi necessari a pagarsi una fatiscente dimora per la
notte, condivisa con altri sei suoi connazionali. in quell'area. Qui, il sistema
di reclutamento e collocamento al lavoro ha le stesse modalità che si
riscontrano nel casertano. Il pagamento per la prestazione lavorativa viene
pattuito al momento dell’ingaggio e nella maggior parte dei casi c’è il
rispetto del patto tra datore di lavoro e lavoratore; tuttavia, può capitare di
non essere pagati, ragion per cui è "meglio tenere d’occhio i datori di lavoro,
ma se non ti pagano cosa puoi fare?”. A lui è capitato di non essere pagato,
oppure di lavorare per 5 giorni consecutivi, 12 ore al giorno, per lo stesso
imprenditore agricolo, ricevendo al termine del lavoro solo 100 euro; poi ha
imparato come evitare che ciò accada. L'inesperienza espone molti lavoratori
a questo tipo di rischio ma, racconta, non essere pagati o non ricevere quanto
pattuito è un pericolo sempre dietro l'angolo. Ad esempio, un suo amico
recentemente non è stato pagato per il lavoro di una settimana e, quando ha
protestato con il datore di lavoro, si è visto respingere brutalmente e
minacciato di essere sparato.
Antony non ha mai visto un controllo nei campi in sette anni di lavoro; ha
sempre lavorato a nero, senza un contratto, fatta eccezione per una breve
parentesi a Bergamo, regolarmente occupato come badante. Una volta perso
quel lavoro è ritornato a Casal di Principe e al lavoro a nero in agricoltura.
Molti suoi connazionali (ma non solo loro)
Il lavoro in agricoltura lascia disoccupato Antony e molti suoi
connazionali per lunghi periodi; inoltre, è molto raro lavorare in maniera
continuativa anche nei periodi e nelle stagioni di maggiore richiesta di
manodopera. Ad esempio, le attività legate alla preparazione dei terreni e
alla semina del pomodoro sul territorio si protrarranno per circa un mese e
la previsione di Antony è di lavorare non meno 3 giorni alla settimana, per 25
30
o 30 euro al giorno. Sulla base dell’esperienza dell’anno precedente, Antony
si recherà alle rotonde del reclutamento già dalle 4 del mattino, per arrivare
al lavoro sui campi tra le 7 e le 8; Antony raggiunge il luogo di lavoro con la
sua bici, seguendo l’imprenditore che gli indica le terre sulle quali lavorare.
La giornata terminerà tra le 16 e le 17, praticamente sfruttando tutte le ore
di luce. Non sono previste pause per le operazioni della semina e i lavoratori
pranzeranno solo a fine giornata. Generalmente, il datore assume i lavoratori
per una singola giornata e nella sua esperienza è molto frequente che sui
campi rimangono solo i lavoratori nel corso delle attività. Inoltre, gli
imprenditori non si preoccupano nemmeno di fornire acqua potabile ai
lavoratori, tanto che di frequente si servono dell’acqua dei pozzi che si
possono trovare sui campi; acqua chiaramente non potabile che produce
ripetuti episodi di dissenteria.
Le operazioni di semina, così come tutte le situazioni di lavoro che
vengono ritenute improduttive perché non prevedono la raccolta e quindi il
collocamento dei prodotti sul mercato, rappresentano talvolta l’occasione per
pagare meno i lavoratori. Oltre che nella semina, Antony lavora ogni
stagione nella raccolta dei pomodori. La fase della raccolta presenta delle
sue peculiarità; in primo luogo, mentre la semina viene pagata a “giornata”,
la raccolta si paga a “cottimo”, 3,50 o 4 euro al cassone. Antony arriva a
raccogliere anche 15 cassoni al giorno e per farlo non utilizza tutta la
giornata ma lavora solo dalle 6 alle 13 circa al fine di evitare le ore calde
della giornata. Stando alle sue parole, la raccolta dei pomodori è tra le
attività lavorative più dure e faticose, soprattutto per l’esposizione a
temperature molto elevate. Le retribuzioni a cottimo, nonché le circostanze
che non offrono garanzie di continuità lavorativa, ovvero la possibilità di
lavorare anche il giorno dopo, spingono i lavoratori agli estremi della
sopportazione fisica; quindi a fronte di uno sfruttamento auto-imposto ad
elevatissimi livelli, logorante e rischioso per la salute dei lavoratori stessi, si
ha la possibilità di trarre da una giornata di lavoro una retribuzione
mediamente più alta del solito. Questo "surplus" garantirà ai lavoratori la
sopravvivenza nelle fasi in cui le richieste di manodopera calano. In ogni
caso, mediamente la retribuzione mensile di questi lavoratori non supera i
500 euro al mese (ovviamente, per i mesi in cui si lavora di più).
Quando finisce la raccolta dei pomodori a Villa Literno e Casale, si ha
ancora il tempo di raggiungere il foggiano, sempre per la raccolta del
pomodoro (tardivo rispetto a quello campano). Antony raggiunge quel
territorio insieme ai suoi connazionali, ma non solo, e trovano sistemazione
in alcuni ruderi abbandonati. Sempre sul casertano, Antony lavora
frequentemente anche nella raccolta delle pesche, settore in cui si viene
solitamente pagati di più, 30 euro al giorno, ma la giornata è mediamente più
lunga. Non ha mai lavorato nella raccolta delle fragole e in quella dei
broccoli, raccolte solitamente ad appannaggio dei caporali rumeni, bulgari e
nordafricani. In quelle poche occasioni in cui si è ritrovato sui campi di
lavoro insieme a lavoratori rumeni o bulgari, ha avuto modo di notare i
differenziali esistenti nelle paghe anche quando i lavoratori sono impiegati
nelle medesime mansioni.
Antony racconta che i casi di escoriazioni alle mani sono molto diffusi,
anche per via del fatto che i guanti, anche quando necessari, insieme agli
altri dispositivi individuali per la sicurezza sui luoghi di lavoro, non sono mai
forniti dai datori di lavoro. Come frequenti sono i casi di malesseri ed
intossicazioni per l’inalazione o il contatto con antiparassitari e fitofarmaci.
Riporta di aver vissuto in prima persona uno di questi malori, ma di non
31
essersi rivolto ad un medico e di non essersi recati in ospedale, perché ne può
fare a meno e anche perché episodi del genere, dice, sono frequenti;
quotidianamente accusa dolori che ritiene, questa volta, collegati
all’affaticamento per il lavoro intenso. Antony mette in relazione tali episodi
al fatto che la grossa mole di lavoro si concentra in 4, al massimo 5 mesi,
sempre gli stessi, male distribuiti, che si ripetono ogni anno. Inoltre, Antony
ha avuto modo di constatare che nei casi in cui i lavoratori accusano
malesseri, riportano traumi o sono vittime di incidenti sul lavoro, il datore si
disinteressa completamente delle loro condizioni di salute.
Oltre che in agricoltura, quando possibile A. prende le “giornate” in
edilizia e ciò è reso possibile anche dal fatto che le “rotonde” del
reclutamento sono le stesse, le squadre di lavoratori, siano essi edili o
agricoli, si fanno sulle stesse piazze. Al momento attuale ritiene critiche le
prospettive di lavoro, tanto che molti suoi connazionali hanno intrapreso il
ritorno in Burkina Faso. Da parte sua, anche se non vede la sua famiglia,
moglie e tre figli, da quando ha lasciato il suo paese nel 2007, allo stesso
tempo, afferma di non aver i soldi per tornare. Le sue aspettative appaiono
deluse, il suo progetto migratorio fallito.
La storia di Ram
Ram è un uomo indiano di 46 anni, ma ne dimostra almeno venti di più. È
nato nel distretto di Jaipur in India dove attualmente vivono la moglie e 6
figli. In India Ram lavorava come meccanico alla manutenzione dei treni ma
lo stipendio non bastava mai. Così, nel 2002, parlando con un amico che da
tempo lavorava a Milano, viene a sapere della possibilità di andare a
lavorare in Italia. Anzi, costui gli dice di sbrigarsi a farsi fare il visto di
ingresso perché in Italia sta per essere emanata una legge che da il permesso
di soggiorno a tutti quelli che si trovano nel Paese (si riferisce alla sanatoria
prevista dal Decreto Legge n. 195 del 9 settembre 2002).
Ram si fa prestare soldi per il viaggio, circa seimila euro, da parenti e
amici ma non fa in tempo per la sanatoria e arriva in Italia solo nel giugno
del 2003. Si reca a casa del connazionale che lavora a Milano che però non
può ospitarlo e gli consiglia di recarsi a Napoli dove vive una coesa comunità
indiana, dandogli una serie di indirizzi.
Da quel momento, Ram cambierà spesso alloggio, vivendo dell’ospitalità
dei connazionali e di lavori precari che gli stessi gli procuravano nella
provincia napoletana; a stento riusciva a mandare dei soldi a casa. Lavorerà
per lo più in agricoltura, ma sempre per pochi giorni, come bracciante o
tuttofare; solo nell’estate del 2008 è riuscito a lavorare due mesi di fila
presso un’azienda agricola di Capua.
Finalmente, grazie ai contatti di un connazionale, trova un lavoro stabile
presso un’azienda di allevamento di ovini e produzione di olio, ma fuori
regione, in Puglia. Il suo compito iniziale era quello di occuparsi dell’oliveto
dell’azienda, lavoro che ha svolto per due mesi, fino alla fine di agosto. In
seguito, è passato al lavoro con le bestie, occupandosi di tutto, dalla
mungitura al loro nutrimento fino alla pulizia. Con il datore di lavoro
avevano pattuito 650 Euro mensili più l’alloggio, ricavato al piano terra
della palazzina dove abitavano i figli e consistente un un’unica stanza con
bagno separato che condivideva con altri due connazionali lavoratori nella
stessa azienda. Il datore di lavoro, inoltre gli aveva assicurato che avrebbe
anche provveduto alla spesa del necessario (alimentari e altro) e ad una
ricarica mensile del telefonino, per le telefonate a casa.
32
Il lavoro di Ram era molto duro, lavorava dalle 5 del mattino fino alle 7 di
sera a stretto contatto con gli animali, l’odore era nauseante. Trascorso il
primo mese non gli viene consegnato lo stipendio; quando Ram chiede
spiegazioni, il datore di lavoro promette che lo stipendio gli verrà corrisposto
il mese seguente. Trascorre anche il secondo mese ma della paga nemmeno
l’ombra, il datore accampa delle scuse e gli promette che lo pagherà presto.
Nel frattempo Ram vive con i generi alimentari messi a disposizione dal
datore di lavoro, spesso si trattava di cibo in scatola scaduto e di bassa
qualità; non ha un soldo in tasca e non manda niente a casa da tempo.
Trascorso il terzo mese, il datore di lavoro lo paga ma gli da solo mille euro
(secondo quanto pattuito avrebbe dovuto percepire 1.450 euro); Ram prende i
soldi e li manda tutti a casa, non trattenendo niente per sé.
Da un po’ Ram ha dei problemi di salute, vomita spesso, l’odore delle
bestie gli diviene insopportabile. Nemmeno il posto in cui dimora è salubre,
non è ben arieggiato, gli odori ristagnano. Comincia a perdere peso, il datore
di lavoro gli dice che lo accompagnerà dal medico ma questo non avviene
mai. Nel frattempo gli dice di prendere un medicinale che lui stesso gli
procura ma Ram non migliora. Trascorrono altri due mesi e Ram riceve altri
mille euro (complessivamente, rispetto ai patti Ram deve ancora ricevere 750
euro). Stavolta però Ram trattiene 100 Euro per sé, ha deciso di lasciare il
suo impiego.
La situazione di Ram è diventata insostenibile, la sua salute peggiora, sta
sempre più male, non riesce nemmeno più a mangiare. Chiede al datore di
lavoro tutti i soldi che gli deve, ma egli gli risponde che gli darà solo altri
500 euro per la mensilità corrente; inoltre, Ram viene minacciato, se insiste
con le sue rimostranze sarebbe stato mandato via. Ram prende i suoi soldi e
va via, sta malissimo, il figlio del datore di lavoro lo accompagna la centro
del paese e lo lascia lì, senza preoccuparsi minimamente della sua
condizione. In un bar del paese, Ram conosce un vecchio indiano che lo
accompagna al pronto soccorso dell’ospedale locale. Qui gli diagnosticano
una epigastralgia, gli assegnano la terapia apposita e lo dimettono,
noncuranti delle sue condizioni fisiche e senza preoccuparsi di dove avrebbe
alloggiato. Il giorno dopo rincontra il vecchio indiano che lo aveva
accompagnato all’ospedale; l'uomo gli procura ospitalità presso altri
connazionali e un po’ di soldi per comprarsi da mangiare. Lo indirizza anche
al locale ambulatorio medico gestito dalla Caritas per procurarsi le medicine
prescritte in ospedale. Nel frattempo incontra un pakistano a cui racconta la
sua storia e che lo indirizza al sindacato (UGL) per denunciare l’accaduto.
Ram vi si reca ma non ottiene molte speranze e rassicurazioni circa il
recupero del maltolto, gli dicono che ci vogliono anni e lui va via.
Successivamente, grazie all'aiuto di un'associazione locale Ram contatta
la cooperativa Dedalus e durante il primo colloquio egli racconta tutta la sua
storia, riferisce con concitazione le condizioni di vita e lavoro che ha dovuto
patire in questi mesi e la preoccupazione di un padre che deve assicurare il
futuro alle proprie figlie. Nel frattempo, Nandu vive a Cancello Arnone, non
lavora e gode dalla solidarietà dei suoi connazionali che lavorano nel
comparto dell’allevamento della zona e lo ospitano a turno negli alloggi di
fortuna da loro procurati dai rispettivi datori di lavoro. Dopo gli
approfondimenti di rito, la cooperativa Dedalus ritiene di poter effettuare la
presa in carico ai sensi dell’art. 13 della Legge 228/2003 e sulla base degli
elementi emersi: orari di lavoro prolungati, dure condizioni di lavoro, salario
pattuito e non elargito nella sua totalità e alle scadenze previste, indifferenza
totale per le condizioni di salute del lavoratore e obbligo a continuare a
33
prestare lavoro nonostante tutto, condizioni alloggiative disumane, minacce
di licenziamento.
Ospitato presso il centro di prima accoglienza “La Tenda” di Napoli e
viene indirizzato alle attività del “Binario della Solidarietà”, una struttura
del circuito Caritas che frequenta durante il giorno. Nel frattempo, la
cooperativa si attiva per l’invio in rete e contatta l’associazione On the road
di Pescara che si mostra disponibile ad accogliere Ram e dà buone speranze
circa le sue possibilità di cominciare un percorso di protezione sociale come
vittima di grave sfruttamento lavorativo.
Un giorno Ram mentre si reca al centro di accoglienza si sente male per
strada, viene immediatamente soccorso dai passanti che chiamano
l’ambulanza. Al P.O. Ascalesi di Napoli gli riscontrano una perforazione
gastrica e lo operano urgentemente. La perforazione può essere conseguenza
di una ulcera mal curata ed è strettamente connessa alle condizioni di vita
esperite nel suo "soggiorno" di lavoro in Puglia, tra grave sfruttamento
lavorativo e maltrattamenti.
3.2
Il mercato delle braccia. La manovalanza a giornata in edilizia e in
altri ambiti.
Risulta evidente che molti lavoratori agricoli, per via dell'elevata
disoccupazione che caratterizza il settore, soprattutto nelle stagioni
"improduttive", si riversano su altri impieghi disponibili. Quando possibile, si
prendono le “giornate” in edilizia o in mansioni affini e ciò è reso possibile
anche dal fatto che le “rotonde” del reclutamento sono le stesse; le squadre di
lavoratori, siano esse per il lavoro in edilizia o in agricoltura, si fanno sulle
stesse piazze. Ma le presenze sulle rotonde e le piazze del reclutamento sono
aumentate nel corso del tempo, sempre in relazione alla crisi che ha espulso
molti lavoratori immigrati dal Nord Italia. Per far fronte alla concorrenza, i
lavoratori si dividono e si disperdono sul territorio, raggiungono differenti
luoghi deputati all’offerta di braccia, per avere più possibilità, o addirittura
per racimolare piccole somme di denaro grazie per qualche ora di lavoro
assolutamente non qualificato. In questo contesto, la ricerca delle giornate di
lavoro risulta particolarmente complicata e ciò crea le condizioni che rendono
possibile una particolare forma di compravendita che ha per oggetto le
informazioni relative alle opportunità di lavoro. Molti lavoratori contattati
lamentano di tornare spesso a mani vuote dalle rotonde e le loro prospettive di
una certa continuità lavorativa appaiono assai critiche, tanto che secondo
alcuni lavoratori africani, molti connazionali prospettano il ritorno nei paesi di
origine. Ma, nonostante il fallimento del progetto migratorio, spesso, mancano
i mezzi economici per programmare il ritorno in patria.
Per quanto riguarda il lavoro alle dipendenze nell’edilizia, esso appare
diffuso su tutto il territorio regionale e coinvolge molte comunità nazionali
presenti. L’impiego in edilizia rappresenta un’alternativa a cui ricorrere in
34
periodi di mancanza di altre opportunità lavorative e costituisce un’attività
che, soprattutto nelle aree interne, viene alternata a quella del commercio
ambulante e a quella svolta in agricoltura e nel terziario dequalificato. In
generale, il settore è caratterizzato da un’elevata incidenza di irregolarità e
rapporti di lavoro al nero sia per gli italiani sia per gli stranieri (che siano in
possesso del permesso di soggiorno o meno) e questo è uno dei motivi che
spesso porta le statistiche ufficiali a sottostimare la presenza di lavoratori
immigrati; infatti, la realtà dimostra che l’impiego in tale settore non è
irrilevante ed è sicuramente multiproblematico.
Nell'edilizia sono meno frequenti i casi estremi di sfruttamento (prossimi
alle forme para-schiavistiche), dal momento che le imprese edili ed i cantieri
sono maggiormente a rischio di controlli da parte degli ispettori del lavoro e,
in una certa misura, perché gli operai edili (almeno quelli più qualificati)
hanno un maggiore potere contrattuale e sono meno esposti alla concorrenza
di altri lavoratori.
Ad un’elevata presenza di lavoratori stranieri nel settore non
corrispondono qualificazione e specializzazione, le attività sono
prevalentemente caratterizzate da lavoro dequalificato e di manovalanza
comune e gli stranieri continuano a svolgere i lavori più pesanti e meno
qualificati, che solo in casi veramente eccezionali si trasformano in lavori
connotati da maggiore professionalità. Di conseguenza, anche per quanto
riguarda le retribuzioni, difficilmente le norme contrattuali vengono rispettate:
a fronte di una paga che dovrebbe aggirarsi attorno ai 900 euro, le situazioni
rilevate sono le più disparate. Persino gli stranieri che dispongono di un
regolare contratto di lavoro percepiscono solo in pochi casi la retribuzione che
effettivamente gli spetta, nella maggior parte dei casi invece ad una busta
paga formalmente corretta corrisponde uno stipendio inferiore che, nella
migliore delle ipotesi si aggira intorno ai 750 - 800 euro mensili. Inoltre, come
per il settore agricolo, la pratica del caporalato riveste un ruolo non marginale
nell’intermediazione di manodopera straniera anche in questo settore, dove i
datori di lavoro preferiscono “appaltare” il reclutamento illegale di
manodopera e qualsiasi altra questione inerente alla gestione del personale a
figure esterne che, spesso, risulta essere un connazionale passato dal ruolo di
lavoratore al rango di caporale.
Il caporalato in edilizia assume forme diverse anche per l’articolazione che
il sistema edilizio ha assunto negli anni. Infatti la forma più classica di
caporalato che recluta e organizza i lavoratori in vece del datore di lavoro, in
maniera da annullare qualsiasi forma di contrattazione e di diritti, è sostituita
da forme di ingaggio sempre contraddistinte da estrema temporaneità, dove
però è lo stesso datore di lavoro, in genere proprietario di una piccola impresa
che rappresenta l’ultimo anello di una catena di subappalti, che contatta il
lavoratore “a giornata”. A questa formula, tuttavia, se ne è affiancata una
nuova che prevede che il lavoratore o i lavoratori diventino soggetti autonomi
sotto forma di impresa fittizia sulla quale poi cadranno tutte le responsabilità
di eventuali controlli in maniera di sicurezza e di previdenza sociale. È ovvio
che in questa ultima forma il legame tra lavoratori e datore di lavoro è più
coercitivo in quanto il datore di lavoro regge l’amministrazione delle ditta
fittizia, i cui titolari diventano più esposti a ricatti.
In generale nella forma che definiamo “classica” di lavoro a giornata in
edilizia i salari vanno dai 20/25 euro per un manovale non specializzato, fino
ai 35 per un operaio specializzato, per un orario non inferiore alle dieci ore al
giorno; la paga oraria varia dai 2 ai 3 euro. Simili, sono le paghe per chi è
diventato “autonomo”, con particolari vessazioni riguardanti decrementi di
35
salario giustificati dai costi aziendali. Possiamo rintracciare anche un’altra
forma di violazione delle norme riguardanti il lavoro ossia l’impiego del
cottimo, vietato in Italia per legge e frequente soprattutto per le
ristrutturazioni di interni. Anche la violenza, verbale e fisica sembra frequente
in questo settore, cos' come il rischio di non venire pagati a lavoro ultimato.
Come per gli altri settori che "assorbono" il lavoro migrante, anche in
edilizia si rileva una netta divergenza tra salario effettivamente percepito e
quello previsto dal contratto collettivo nazionale. Ma nel comparto edilizio,
come molti testimoni privilegiati affermano, lo sfruttamento si traduce, quasi
sempre, nell’elusione delle norme in merito alla sicurezza sul lavoro che
spesso provocano danni ben più gravi dei soprusi in materia salariale. Per le
condizioni di estrema irregolarità in cui tale lavoro viene svolto, esso risulta
essere ad alto rischio di infortuni, condizione comune tanto al lavoratore
immigrato che al lavoratore locale. Questi lavoratori, soprattutto se privi di
permesso di soggiorno e dunque della possibilità di godere di un regolare
contratto di lavoro e delle assicurazioni Inail, vedono ledere in maniera grave
i propri diritti soprattutto per ciò che riguarda la sicurezza sul luogo di lavoro.
Le statistiche ufficiali riportano un livello di infortuni che interessa i
lavoratori stranieri in Campania che sicuramente non riesce a rendere
l’effettiva entità del fenomeno, in quanto non rileva tutti quegli incidenti
occorsi e non denunciati, sia per coprire la mancata applicazione delle norme
sulla sicurezza sia per via dell’impiego di lavoratori in nero.
Per quanto riguarda, invece, quelle mansioni occasionali e trasversali a
diversi settori, nella città di Napoli è stata registrata anche la presenza di
uomini che appartengono soprattutto ad alcune nazionalità - guineani,
ivoriani, burkinabé, senegalesi - che svolgono attività trasversali, saltuarie e
spesso svolte a giornata, che riguardano le pulizie di giardini, il facchinaggio,
il trasporto delle merci acquistate dai commercianti stranieri nella zona di
piazza Garibaldi e dintorni. In altri casi questi facchini vengono impiegati per
aiutare i commercianti a caricare i container delle merci ed inviati in altri
paesi europei o nel paese di origine. Anche molti uomini provenienti dall’est
Europa così come quelli provenienti dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana
svolgono lavori precari e saltuari, talvolta a giornata. Vengono impiegati per
pulire i giardini, o negli autolavaggi, come guardiani notturni dei garage, per
effettuare traslochi, ecc. La paga è molto variabile e dipende dalla mansione
ed è a discrezione del momentaneo datore di lavoro; in genere non supera i
20/30 euro al giorno. Inoltre, molto diffuso tra gli ivoriani è l’impiego presso
distributori di carburante. In genere è un lavoro che viene svolto di notte ai
distributori self service, in questo caso il reddito è costituito esclusivamente
dalle mance che i clienti del distributore danno al ragazzo per l’assistenza
fornita durante il rifornimento, per cui il datore di lavoro si esonera da
qualsiasi tipo di pagamento contributivo. Nei fatti, il ragazzo straniero svolge
una funzione di sorveglianza, per evitare che qualcuno possa danneggiare
l’erogatore o trovare il sistema per entrare illecitamente in possesso della
benzina distribuita; funzione che però non viene in alcun modo né
riconosciuta né retribuita dal datore di lavoro, o nelle migliori delle ipotesi
compensata con salari davvero irrisori.
Infine, il commercio in forma ambulante è un altro ambito che per alcuni
aspetti può essere assimilato ai precedenti e che vede la presenza di molti
migranti appartenenti a differenti comunità. Non si tratta di attività
particolarmente esposte a forme gravi di sfruttamento, tuttavia in alcuni casi si
accede a queste mansioni solo per interconcessione di un connazionale che
36
fornisce la merce e indica i luoghi di lavoro; per alcune comunità, si pensi ai
cittadini provenienti dal Bangladesh presenti nel capoluogo partenopeo, il
ricorso ad attività di ambulantato (generalmente poco redditizie) si presenta
come tappa iniziale del proprio progetto migratorio, fase in cui spesso si è
ancora costretti alla restituzione del denaro occorso per il viaggio in Europa;
in questi casi, lo sfruttamento (o l'auto-sfruttamento) imposto a questi
migranti può significare passare senza pause da un'attività all'altra (dalla
vendita ambulante di ombrelli o fiori alla mansione di lavavetri ai semafori)
nel corso della lunghissima giornata lavorativa che si aggira intorno alle 16
ore. Non è raro ritrovare coinvolti in questo tipo di attività anche minori
stranieri non accompagnati.
La storia di Kim.
Quella che riportiamo ora è la storia di un giovane ghanese, simile a tante
altre storie di sfruttamento che interessano i migranti nel nostro paese. Kim,
insieme a numerosi cittadini stranieri che hanno subìto uno sfruttamento
simile dal medesimo datore di lavoro, ha sporto denuncia e avuto accesso al
programma di protezione sociale art. 18 e quindi al rilascio del permesso per
motivi umanitari.
Kim ha 24 anni ed ha frequentato la scuola fino all’età di tredici anni,
successivamente ha imparato a fare il meccanico di automobili in un’officina
senza essere retribuito. Nel 2007 è scappato per motivi politici dal Ghana ed
è giunto in Burkina Faso, successivamente in Niger e poi in autobus ha
raggiunto i confini con la Libia. Da qui si è spostato a Saba, dove ha vissuto
per cinque mesi svolgendo diversi lavori saltuari e vivendo in una connection
house. Da Saba si è recato a Tripoli dove ha vissuto quattro mesi facendo il
muratore, per poi decidere di venire in Italia. Ha pagato milleduecento
dollari ad un connection man (trasportatore) e si è imbarcato su una nave
con molte altre persone di diverse nazionalità, comprese donne incinte e
bambini; hanno viaggiato per quattro giorni e sono sbarcati a Lampedusa. In
Italia è stato accolto in un CARA di Roma, dove ha vissuto per un mese, poi
in un albergo (sempre a Roma) per altri 11 mesi. Successivamente, la sua
domanda di asilo è stata rigettata e lui e stato allontanato dal centro.
Alcune settimane dopo, Kim raggiunge la Campania e viene ospitato dalla
Caritas di Castel Volturno, dove rimarrà per sei mesi. In questo periodo si è
procurato dei lavori saltuari recandosi alla rotonda di Varcaturo,
guadagnando circa 20/25 € al giorno quando riusciva a trovare lavoro.
Dopo alcuni mesi, ha pagato 200 € ad un connazionale che gli ha procurato
lavoro presso la Tec. Lot. Italia Srl, una ditta spagnola che si occupava di
costruzione e montaggio di pannelli solari in Puglia.
Ha lavorato per Tec. Lot. per circa 4 mesi. Il lavoro era molto duro,
lavorava dal lunedì al venerdì dalle 7.00 alle 19.00, il sabato dalle 7.00 alle
17.00 e la domenica dalle 7.00 alle 14.00, senza avere un giorno di riposo.
Alcune volte doveva lavorare anche di notte, secondo precise disposizioni che
i capi squadra ricevevano dai responsabili della ditta; adducendo
l'argomentazione relativa alle esigenze improrogabili di completamento
dell’impianto fotovoltaico entro una determinata data, i capi-squadra
minacciavano che, in caso di rifiuto a sottostare agli interminabili orari
lavorativi, i lavoratori sarebbero stati immediatamente licenziati. Durante
tutto il periodo che ha lavorato per la Tec. Lot. , Kim ha girato vari cantieri,
dove si recava ogni mattina insieme ad altri connazionali. In ogni cantiere, i
lavoratori venivano assegnati ad un capo squadra che impartiva loro gli
ordini relativamente al lavoro da svolgere, sempre molto faticoso e senza che
37
fosse prevista alcuna interruzione, neppure in presenza di condizioni
atmosferiche sfavorevoli quali freddo, vento e pioggia.
Le condizioni lavorative erano in pratica disumane, i turni di lavoro
massacranti, sempre sotto la minaccia dell’immediato licenziamento. A Kim è
stato pagato solo il mese di dicembre, mentre nulla gli è stato corrisposto per
i mesi di gennaio, febbraio e marzo. A fine marzo, i lavoratori, stanchi di non
essere pagati, hanno organizzato una protesta, interrompendo l’attività
lavorativa, anche in ragione del fatto che correva voce che i proprietari della
ditta fossero andati via dall’Italia. I lavoratori si sono così rivolti alla Polizia
che, intervenuta, ha chiuso tutti i cantieri della Tec. Lot. e raccolto le denunce
dei lavoratori. Ai lavoratori è stata data contestualmente la possibilità di
entrare in un programma di protezione ex art. 18 T.U.Immigrazione e
successivamente è stato loro rilasciato il correlato permesso per motivi
umanitari.
La storia di Samuel.
La storia di Samuel ci parla di come lo sfruttamento possa avvenire in
differenti ambiti o settori lavorativi, anche riguardando la stessa persona;
questa storia conferma che per molti migranti lo sfruttamento sui luoghi di
lavoro è difficilmente evitabile e, spesso, ci si sottrae ad una situazione
sfruttante o a un lavoro malpagato, ma non si hanno alternative valide e si
finisce semplicemente per essere sfruttato da un altro datore di lavoro.
S. oggi ha 27 anni ed è stato costretto a lasciare il suo paese, il Ghana, nel
2003 per via di un cruento conflitto politico ed etnico che insanguina
soprattutto il distretto di provenienza dell’intervistato. Per attraversare la
frontiera tra Ghana e Burkina Faso racconta di essersi servito di uno dei
grandi autocarri che trasportano merci dal Burkina Faso ad Accra in Ghana,
caricando persone per il viaggio di ritorno in Burkina Faso e oltre, verso il
Niger. S. sostiene di non aver pagato i conducenti del camion quando gli
hanno chiesto i soldi del viaggio, convincendoli del suo stato di necessità.
Arrivato in Burkina Faso, S. non riesce a trovare lavoro ed è costretto a
dormire per strada; rimane due mesi in queste condizioni fin quando non
riesce a procurarsi i soldi per continuare il suo viaggio verso la Libia. A
questo punto si serve di uno dei camion diretti in Niger, questa volta pagando
il tragitto, per poi cominciare la traversata di 3 settimane del Sahara per
giungere in Libia.
Giunto in Libia comincia senza successo a cercare lavoro; scoraggiato,
chiama i propri familiari in Ghana che però gli consigliano fermamente di
non fare ritorno a casa. Temendo per la sua vita nel paese libico, appena può
S. paga una persona per poter essere imbarcato per l'Italia; il prezzo
richiesto per il viaggio è di 1000 dollari, ma S. fornisce solo il denaro di cui è
in possesso. Dopo tre giorni viene chiamato per la partenza; la barca è molto
grande e trasporta 212 persone. Il viaggio dura 5 giorni, senza acqua, senza
niente. È il 24 giugno del 2008 quando giunge insieme agli altri migranti a
Lampedusa.
S. non conosceva nessuno in Italia, dichiara di esservi arrivato solo per
trovare un posto dove stare tranquillo, al sicuro delle minacce subite nel suo
paese e in Libia. S. I primi 8 mesi li trascorre in un campo di accoglienza
dove risiedono altri 150 richiedenti asilo. Avvia la sua pratica per la richiesta
di asilo politico e viene smistato verso la Commissione di Caserta, dove
racconta tutta la sua storia; ma la sua richiesta per lo status di rifugiato
viene respinta, così come il successivo ricorso.
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S. si rassegna e decide di stanziarsi in Campania tra Napoli e Caserta, a
Castel Volturno, dove dorme presso la Caritas e comincia a cercare lavoro.
Ogni mattina si svegliava e su suggerimento dei suoi conoscenti prendeva un
autobus di linea per recarsi alle rotonde, le Kalifoo Ground come vengono
chiamate dai suoi connazionali, nel casertano o nella zona di Pianura per
cercare lavoro. Ma non era facile trovare lavoro e molti erano le giornate in
cui S. rimaneva suo malgrado a braccia conserte.
Alcuni suoi conoscenti gli suggeriscono allora di provare a fare
l’ambulante e vendere mercanzie per strada; ma questo tipo di lavoro
presentava dei rischi, in quanto presumibilmente lo esponeva maggiormente
ai controlli sull’immigrazione clandestina. In ogni caso, la sua necessità era
quella di guadagnare per poter far fronte ai bisogni primari, mangiare,
vestirsi, affittare un posto letto in una casa. La sua prima esperienza di
lavoro, come pittore, ovviamente a nero, gli frutta 150 euro per una settimana
di lavoro, almeno 8 ore al giorno. La frequentazione delle Kalifoo Ground
pare finalmente dare i suoi frutti quando incontro un uomo italiano che gli
offre un lavoro come muratore. Verrà pagato 40 euro al giorno per 8, 9 ore di
lavoro; lavorerà per questa persona per un periodo di due mesi, in una casa a
Napoli. Sul cantiere conosce altre persone, in particolare un elettricista al
quale lascia il suo numero di telefono per essere ri-contattato
successivamente per altri lavori.
Ritorna a Castel Volturno e rimane in attesa di altri lavori. Puntuale,
arriva la chiamata dell’uomo che aveva conosciuto nel cantiere a Napoli;
tuttavia, il suo nuovo datore di lavoro si comporterà diversamente rispetto
alla persona per la quale aveva lavorato precedentemente. Innanzitutto si
trattava di un lavoro discontinuo. Poi, anche se la paga era la stessa (40 euro
al giorno) a volte veniva pagato a volte no. Una volta gli è capitato di
lavorare per questa persona per un periodo superiore ad un settimana, con la
promessa di essere pagato al termine del lavoro. Ma quando il lavoro è finito
non ha ricevuto nessun pagamento. Riconosce che questa dinamica è assai
frequente, ragion per cui molti lavoratori africani preferiscono essere pagati
al termine della giornata.
In seguito, sempre in piazza, viene reclutato per un altro lavoro, stavolta
in un panificio di Napoli, dove gli viene proposto di lavorare dall’una di notte
alle undici del mattino per una paga di 20 € giornaliere, senza giorni liberi;
gli viene anche comunicato che potrà dormire in uno sgabuzzino del
panificio. S. accetta ma dopo il primo mese si rende conto della fatica del
lavoro e pensa anche di non farcela da solo. La macchina su cui lavora S.,
una impastatrice, dà problemi, va troppo veloce. S., temendo per la propria
sicurezza, la spegne ogni volta che deve controllarla e pulirla ma il datore di
lavoro gli dice di non farlo, altrimenti il lavoro si sarebbe rallentato. S. si
lamenta, fa presente che è pericoloso ma il datore di lavoro non vuole sentir
ragioni. Un giorno, pulendo la macchina senza spegnerla, S. perde due dita
della mano destra, recise dall'impastatrice. Viene accompagnato all’ospedale
ma prima il datore di lavoro lo avverte di non riferire niente su come si sia
fatto male. All’ospedale gli chiedono i documenti, lui ha solo il codice fiscale,
gli fanno domande sull’incidente ma S. non parla. Il datore di lavoro va a
fargli visita solo dopo 5 giorni dall’intervento, vuole assicurarsi che S. non
abbia parlato. Alle dimissioni, gli propone di continuare a dormire nel
panificio, gli compra le medicine che gli servono ma non gli dà da mangiare.
Il datore di lavoro gli propone di occuparsi di una altra mansione mentre è in
convalescenza, piegare i cartoni per le pizze. Difficile, con una mano
invalidata. A questo punto, S. riferisce di aver cominciato ad aver paura a
39
rimanere nel panificio; non si fida più del datore, teme che possa fargli
qualcosa mentre dorme, per non farlo parlare. Allora scappa e si rivolge ad
alcune associazioni operanti nel casertano di supporto ai richiedenti asilo.
3.3
Lo sfruttamento dei lavoratori immigrati nel settore tessilemanifatturiero.
Nel settore tessile-manifatturiero va affermandosi sempre di più il
fenomeno dell’ethnic business (imprenditorialità etnica), cioè quelle attività
soprattutto che sono completamente gestite da comunità immigrate e che
utilizzano esclusivamente manodopera immigrata. Tali attività, nella nostra
regione, sono prevalentemente legate alla ristorazione e alla produzione e
commercializzazione di prodotti di abbigliamento e accessori e sono quasi
esclusivamente connesse alle comunità nazionali provenienti dal continente
asiatico (soprattutto Cina, ma anche Bangladesh, Sri Lanka, India, Pakistan).
La capacità di crescita e penetrazione nel settore della produzione soprattutto
tessile, oltre che della vendita, manifestata dalla comunità cinese è stata infatti
particolarmente significativa nel corso di questi ultimi dieci anni,
rappresentando anzi uno degli elementi di maggiore novità nel quadro
dell’immigrazione della nostra regione. La comunità cinese, infatti, basandosi
sia sulla enorme capacità di contenere i costi, soprattutto quelli legati alla
manodopera, sia sugli elevati ritmi di lavoro rappresenta oggi una delle
comunità immigrate che ha manifestato la maggiore intraprendenza
imprenditoriale e produttiva, raggiungendo, in particolare nell’area dei
comuni di San Giuseppe Vesuviano (Na), Terzigno (Na) e Ottaviano (Na),
una consistenza notevole. Queste nuove forme di impiego hanno fatto
incrementare in regione la presenza di immigrati alle dipendenze nel settore
industriale, seppure si è ancora decisamente lontani dall’entità che il
fenomeno assume in altre regioni nel nord del paese. Va detto comunque che
gli ingressi nelle fabbriche non riguardano solo quelle gestite da connazionali,
o da stranieri in genere, poiché un certo numero di immigrati lavora anche in
aziende di proprietà di autoctoni. In generale, però, vale la regola di
condizioni di lavoro negative, di impiego al nero, in ambienti insalubri e per
paghe decisamente al di sotto dei livelli contrattuali.
Lo sfruttamento dei lavoratori cinesi nel settore industriale va letto tenendo
in considerazione due aspetti: il primo riguarda l’aspetto etnico intendendo
con esso lo sfruttamento perpetrato a danno di questi lavoratori da datori di
lavoro appartenenti alla stessa comunità; il secondo aspetto si riferisce
all’anzianità della presenza in Italia.
Secondo quanto riscontrato, la forte asimmetria contrattuale è
particolarmente visibile soprattutto nel momento in cui il lavoratore si trova
per la prima volta in Italia. Generalmente, dalla Cina si contrae un debito per
“comprare” il permesso di soggiorno (quando non solo il "viaggio" dalla Cina
all'Italia), nel senso che si ottiene un contratto in una fabbrica in Italia gestita
da connazionali e per il primo anno, o per i primi due anni, i lavoratori si autoimpongono uno sfruttamento sfrenato per recuperare i soldi che devono
restituire alle organizzazioni che li hanno condotti in Italia. Non esiste regola
40
se non quella di arrivare alla massima produzione possibile, dal momento che
in molte fabbriche cinesi si lavora a cottimo). Solo dopo aver saldato il debito
questi lavoratori sperimentano maggiore libertà dal lavoro. In questo periodo
di tempo è frequente che i lavoratori dimorano presso la fabbrica dove
lavorano, quindi tutti i loro contatti e le loro relazioni sono strettamente
limitati all'ambiente di lavoro. Le fabbriche, per tacito accordo, forniscono
vitto e alloggio per tutto il periodo necessario, durante il quale il lavoratore
non è libero di recidere il contratto e cercarsi un nuovo lavoro altrove. Nei
casi in cui si è appena giunti in Italia e non si dispone di permesso di
soggiorno, i lavoratori coinvolti corrono il rischio di non percepire affatto uno
stipendio al fine di ottenere la regolarità del soggiorno.
Non si può parlare, secondo alcuni rappresentanti delle locali associazioni
cinesi, di un traffico internazionale di lavoratori cinesi. Esiste piuttosto un
sistema che i cinesi che vogliono venire in Italia conoscono benissimo, delle
persone a cui rivolgersi che organizzano il viaggio fino alla fabbrica, dove
essere costretti a rimanere fino all’estinzione del debito, dopo di che si è liberi
di andare altrove. Alcuni scelgono di dirigersi in fabbriche dove il salario è
maggiore, altri riescono ad avviare attività in proprio, altri ancora si
impiegano in imprese gestite da italiani, dove la paga è più alta e si lavora di
meno.
Per analizzare lo sfruttamento nelle fabbriche cinesi in Italia, potrebbe
essere utile volgere lo sguardo alle condizioni che i lavoratori cinesi
sperimentano in patria. In Cina non esiste una normativa in materia di diritti
del lavoro, né tanto meno un codice a cui appellarsi per definire se il
lavoratore è in condizioni di sfruttamento o meno. È un concetto che viene
assimilato sul nostro territorio soprattutto dalle nuove generazioni, i figli degli
immigrati, e da coloro che scelgono di fare un percorso diverso, basato sullo
studio della lingua e del territorio che li ospita. Di conseguenza, non c’è
bisogno di ricorrere ad aggressioni verbali o psicologiche, se non addirittura
fisiche, per costringere un lavoratore cinese a lavorare secondo ritmi
assolutamente disumani. Inoltre, questo atteggiamento fornisce anche
all’imprenditore autoctono una buona occasione per commissionare merce che
riuscirà ad avere in tempi record e a basso costo (occorre tenere presente che
nelle fabbriche cinesi spesso si lavora a ciclo continuo, anche di notte, quindi
c’è una squadra che monta e una che stacca), per cui anche nel caso della
comunità cinese si può parlare di sfruttamento della manodopera straniera da
parte dell’imprenditoria locale, seppure in maniera indiretta. Si tratta sia di
copiare griffe esistenti o anche di ricevere commesse, per interposte persone,
anche da grandi firme. Un po’ quello che succede a Prato, dove c’è una forte
immigrazione cinese con attività prevalente il confezionamento di questi capi.
Dal punto di vista della localizzazione territoriale, questi fenomeni sono
particolarmente visibili nell’area del napoletano (Poggiomarino, San
Giuseppe, Terzigno) e in provincia di Avellino. Anche nella zona di Scafati
esiste un consistente insediamento di imprese manifatturiere cinesi, dove si
ritrovano le stesse condizioni di vita e di lavoro di connazionali insediatisi
altrove. Si tratta di fabbriche di proprietà di altri cinesi, che in genere
prendono commesse da imprese italiane più grosse e per il 70% hanno
regolare licenza ed iscrizione alla Camera di Commercio.
Le condizioni estreme di sfruttamento non si realizzano solo nel lungo orario
lavorativo ma anche nelle condizioni materiali di vita che nei casi estremi
prevedono la coabitazione di 10-15 lavoratori nello stesso laboratorio; in
genere i laboratori sono costituiti da un capannone (quelli più sommersi si
sono serviti anche di sottoscala o di edifici in costruzione) nel quale vengono
41
ricavate delle stanzette divise tra loro con pareti di compensato ed arredate
solo con una branda e una coperta per accogliere i lavoratori e spesso interi
nuclei familiari.
Gli operai di questi opifici sono in eguale misura uomini e donne, mentre i
capi sono in maggioranza uomini. Nelle famiglie di operai cinesi a volte sono
presenti anche minori che però non partecipano alla produzione.
La storia di Jen.
Jen vive in Italia da 8 anni ed è arrivato nel nostro paese con un regolare
contratto di lavoro stagionale in agricoltura. J. si è procurato il contratto
pagando i "servizi" di un'agenzia di intermediazione operante tra la Cina e
l'Italia; semplicemente, J. ha contattato tale organizzazione, fornendo il suo
passaporto, ed è stato convocato per la partenza 3 mesi dopo. L'agenzia si è
occupata di tutto il necessario per la partenza (documentazione e viaggio).
Ha raggiunto l'Italia con un volo di linea per Milano, insieme ad altri 3
connazionali che avevano la stessa destinazione. Giunti all'aeroporto sono
stati prelevati da un'altro connazionale in compagnia di un uomo italiano e
condotto nei pressi di Novara per lavorare in un'azienda viticola. Qui ha
lavorato per 6 mesi, fino alla scadenza del contratto, dimorando in
un'abitazione presso i campi fornita dal datore di lavoro italiano. Al termine
del contratto, J. non fa ritorno in Cina ma si dirige a Milano dove, grazie alla
comunità cinese stanziata nella città, ottiene informazioni circa
un'opportunità di impiego in una fabbrica presso Treviso che si occupa di
accessori e rifiniture per capi di abbigliamento. J. lavorerà circa 3 anni a
nero presso questa fabbrica, gestita da connazionali; veniva pagato ad ore e
una giornata lavorativa non era mai inferiore alle 10 ore, anzi, spesso si
prolungava per esigenze produttive. L'azienda forniva, secondo una modalità
consolidata presso le comunità cinesi, vitto e alloggio nei pressi della
fabbrica. Secondo il parere di J. la paga che riceveva era soddisfacente.
Tuttavia, dopo aver riportato dei problemi osteo-articolari e muscolari, J. si
vede costretto ad interrompere il rapporto di lavoro per seguire le cure del
caso.
In seguito, sempre a Milano presso la comunità cinese trova un'altra
informazione per un lavoro, sempre in una fabbrica gestita da connazionali,
in prossimità di Legnano. Se il settore di produzione era praticamente lo
stesso, così come le condizioni del lavoro, J. veniva pagato di meno rispetto
al precedente impiego. Tuttavia, doveva accontentarsi perché, nel frattempo,
le occasioni di impiego si erano drasticamente ridotte rispetto al periodo
relativo al suo arrivo in Italia. J. lavorerà in questa fabbrica per quasi 3 anni,
fin quando, mosso dall'intenzione di trovare un lavoro meglio retribuito,
lascia l'impiego e fa ritorno a Milano. Sempre grazie alle informazioni che
circolano tra le reti comunitarie, nel 2011 J. si dirige a Terzigno (Na), dove
trova impiego sempre presso connazionali, sempre in una fabbrica di
accessori per abbigliamento. Le condizioni del lavoro erano sostanzialmente
peggiori rispetto a tutti gli impieghi che finora aveva trovato in Italia; infatti,
riceveva una retribuzione decisamente inferiore e poi la paga veniva
calcolata a cottimo, cioè sulla base dei pezzi lavorati. Anche in questo caso il
datore di lavoro metteva a disposizione vitto e alloggio; J. dimorava nei
pressi della fabbrica, insieme ai suoi colleghi di lavoro, condividendo piccole
e logore stanze. Afferma che le condizioni dell'alloggio erano pessime. Ha
lavorato per quasi un anno e a nero presso questa azienda, poi, per via dei
problemi alla schiena, accentuati dalle modalità di lavoro che costringono a
42
stare per lunghi periodi seduti, nella stessa posizione, J. è stato costretto a
lasciare il lavoro.
Nel frattempo, nel 2012, J. riesce a regolarizzare la propria presenza sul
territorio, rientrando nella sanatoria grazie ad un contratto come domestico
presso un datore di lavoro italiano e residente in provincia di Caserta. La sua
pratica risulta bloccata in Questura. Chiaramente si tratta di un contratto
fittizio, pagato profumatamente e finalizzato all'ottenimento di un permesso di
soggiorno. Infatti, J. non lavorerà mai come domestico. Accedere alla
sanatoria è anche una delle ragioni principali che hanno spinto J. a
prolungare la sua permanenza sul territorio regionale. Infatti, sostiene che in
Campania il livello delle retribuzioni sia drasticamente inferiore rispetto alle
opportunità di impiego che i migranti cinesi possono reperire nel centro-nord
del paese. Anche il lavoro risulta più duro e faticoso.
Attualmente, J. ha ripreso a lavorare sempre a nero presso un'attività
commerciale gestita da connazionali; in una giornata lavora anche più di 10
ore, ma la retribuzione è ancora più bassa che in fabbrica. Nel frattempo si è
fatto raggiungere dalla moglie, giunta in Italia con un contratto di lavoro.
La storia di Yan
La storia di Y è molto simile alla precedente. Come affermato dai
lavoratori intervistati, le storie dei migranti cinesi si somigliano tutte. Tale
constatazione va ricondotta all'esistenza di meccanismi collaudati e
consolidati per far giungere i lavoratori cinesi in Italia e per collocarli al
lavoro presso le attività produttive messe in piedi dai connazionali. Ciò
nonostante, la storia di Y. evidenzia una modalità di ingresso diversa nel
nostro paese; infatti, Y. arriva in Italia con un visto turistico e afferma di aver
organizzato tutto da solo, senza l'intermediazione di nessuna organizzazione.
Invece, una volta sul territorio, le modalità di cui Y. si serve per trovare
lavoro sono identiche a quelle viste prima; infatti, Y. reperirà informazioni a
Milano, sempre nei luoghi della comunità cinese. In questo modo trova un
impiego a nero in una fabbrica gestita da connazionali in provincia di
Milano; le condizioni di lavoro e le retribuzioni sono le stesse viste nel caso
precedente.
Nel 2011, mosso dall'intenzione di regolarizzare la propria situazione, sulla
base delle informazioni e delle indicazioni fornite dai suoi connazionali, si
dirige a Terzigno (Na) con l'obiettivo di rientrare nella sanatoria del 2012,
grazie ad un contratto fittizio per lavoro domestico ottenuto presso un
cittadino napoletano. Dopo aver pagato per il servizio reso, Y. comincia a
lavorare, ma sempre a nero, presso una delle numerose fabbriche del
territorio.
Stando alla sua esperienza di lavoro nelle fabbriche cinesi del tessile,
generalmente è più facile trovare un impiego e allo stesso tempo ricevere una
retribuzione più soddisfacente se si hanno competenze specifiche nel processo
produttivo.
Alloggiare in fabbrica o in sistemazioni nei pressi delle stesse risulta un
aspetto ricorrente per i lavoratori cinesi impiegati nel settore tessilemanifatturiero, tanto da essere considerato la normalità dei rapporti di
lavoro nelle aziende gestite da imprenditori cinesi; l'alloggio fa parte del
"pacchetto", tanto che i lavoratori intervistati sostengono che all'atto della
ricerca di un impiego in fabbrica, valutano con attenzione le condizioni degli
alloggi in cui dovranno dimorare. Questo perché talvolta le condizioni di tali
alloggi sono pessime, tuttavia, spesso non si hanno molte alternative.
43
Y. afferma che ci sono consapevolezze diffuse presso i lavoratori suoi
connazionali circa le dure condizioni di lavoro esperite, anche se c'è
soddisfazione per i salari percepiti, più alti che in Cina. Tuttavia, Y. sostiene
anche che spesso il giudizio dei lavoratori cinesi sulle condizioni del proprio
lavoro risulta positivo perché non si hanno termini di paragone con le
condizioni esperite dai lavoratori italiani, negli stessi settori produttivi;
semplicemente, non c'è nessun tipo di confronto con i lavoratori italiani.
Come Y., in tanti preferirebbero lavorare nel Centro-Nord del paese, dove
le condizioni di lavoro e le paghe sono migliori. Meglio ancora, sostiene,
sarebbe lavorare alle dipendenze di imprenditori italiani, che generalmente
pagano di più dei propri connazionali. In questi casi però, vanno affrontate
alcune difficoltà che possono rivelarsi insuperabili; non ci sono solo i
problemi legati all'irregolarità rispetto ai documenti di soggiorno, ma
soprattutto le complicazioni legate all'incomprensione della lingua. In un
passaggio, Y. afferma che nonostante ci sia la consapevolezza che
apprendendo la lingua italiana si potrebbero migliorare le proprie condizioni
di vita e lavoro, la stragrande maggioranza dei lavoratori cinesi non hanno la
possibilità e il tempo materiale per ampliare le proprie capacità linguistiche,
ad esempio accedendo ai corsi gratuiti di perfezionamento linguistico per
stranieri (i tempi di lavoro non lasciano momenti liberi e inducono
all'isolamento molti di questi lavoratori, che intratterranno rapporti solo con
i connazionali).
Secondo l'impressione dei lavoratori intervistati, oggi i cittadini cinesi
che dispongono di un permesso di soggiorno e risultano impiegati nelle
fabbriche sono aumentati (anche grazie alle due sanatorie del 2009 e del
2012). Tuttavia, le condizioni di lavoro e le paghe non sono migliorate, al
contrario, per effetto della crisi, i salari risultano ulteriormente contratti e
diminuiscono le possibilità di cambiare impiego.
Infine, va sottolineato un aspetto che ha caratterizzato le interviste
realizzate; infatti, i lavoratori ascoltati non hanno voluto in nessun caso
riportare le paghe ottenute in relazione ai lavori svolti. Andrebbero meglio
comprese le ragioni di questa diffidenza, ma si potrebbe ipotizzare che i
timori siano dovuti al potere e alla larga influenza che i datori di lavoro hanno
nella comunità cinese.
Ma lo sfruttamento nel settore tessile-manifatturiero sul territorio di
riferimento non riguarda solo la comunità cinese. Una situazione
recentemente emersa e riportata anche dai media locali e nazionali riguarda la
gravità delle condizioni lavorative tra la comunità bengalese nella provincia di
Napoli, ed in particolare nel comune di Sant'Antimo e nei comuni limitrofi. Si
tratta di centinaia di lavoratori, molti dei quali in una situazione di
clandestinità o irregolarità rispetto alla presenza sul territorio, alle dipendenze
di datori sia italiani che bengalesi.
Dalle denunce di questi lavoratori, raccolte dall'Associazione 3Febbraio e
dai referenti locali dell'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione,
risultano evidenti condizioni diffuse di grave sfruttamento lavorativo. Infatti,
si riscontrano turni massacranti di lavoro che raggiungono anche le 14 ore
giornaliere e senza riposo settimanale; la paga è di 3 euro all’ora e i lavoratori
in questione, spesso, vivono in alloggi messi a disposizione dagli stessi
proprietari delle fabbriche (che trattengono, così, il pagamento mensile per
l'alloggio dalla paga del lavoratore).
44
Altrettanto frequenti sembrano essere quei casi in cui i lavoratori accettano
di lavorare gratis, anche per mesi, dietro la promessa di essere pagati,
affidandosi ai loro connazionali che spesso risultano essere i proprietari delle
fabbriche. Infine, gli stessi lavoratori denunciano la pericolosa e totale
inosservanza delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Queste circostanze collocano i lavoratori bengalesi in questione in uno
stato di necessità e debolezza che li espone a ricatti di ogni sorta, oltre a
configurare l’ipotesi di grave sfruttamento lavorativo, così come previsto
dall’art. 603. c.p, nonché la fattispecie del più grave reato di riduzione in
schiavitù così come stabilito dall’art. 600 c.p..
La storia di Adan
Adan vive da due anni in Italia e attualmente ha 26 anni. E' arrivato da
clandestino, attraverso un lungo viaggio via terra dal Bangladesh. Il viaggio
è durato circa 7 mesi ed è costato 11 mila euro. Per pagare tale somma
all'organizzazione che provvede al traffico di migranti, A. ha dovuto vendere
una terra di famiglia e contrarre un debito per la parte rimanente. A. in
Bangladesh viveva con la madre e le sorelle, il padre è morto, per cui lui deve
provvedere al mantenimento economico della famiglia.
Giunto in Italia, in provincia di Napoli, comincia subito a lavorare come
ambulante, commerciando fiori ed ombrelli, fin quando non trova un impiego
a nero presso una fabbrica tessile gestita da un suo connazionale. La
mansione che gli viene assegnata è la stiratura dei capi, lavorando circa
dalle 10 alle 12 ore al giorno per una paga che si aggira intorno ad 1,80 euro
all'ora. Il lavoro risulterà duro e faticoso, tanto che a distanza di pochi mesi
A. comincia ad avvertire dei problemi fisici, direttamente collegabili
all'attività lavorativa che lo costringe a rimanere in piedi per svariate ore a
stirare capi. Nello specifico, A. riporterà dolorosi gonfiori ad entrambi i piedi
e altri svariati dolori osteo-muscolari.
Quando supera la soglia di sopportazione del dolore, A. decide di
rivolgersi ad un mediatore culturale bengalese e grazie al suo supporto entra
in possesso di una tessera sanitaria per Stranieri Temporaneamente Presenti.
Recatosi in ospedale, la diagnosi prevede un periodo di risposo superiore alle
2 settimane. Una pausa dal lavoro che A. non può permettersi, non solo
perché rimarrebbe senza paga, ma anche perché perderebbe il lavoro.
Infatti, il datore di lavoro di A. applica particolari sanzioni nel momento
in cui ci si assenta dal lavoro; ad esempio, quando A. si reca in ospedale,
assentandosi dal lavoro, non solo perde la paga della giornata, ma perderà
anche la paga relativa alle prime 4 ore di lavoro del giorno successivo. Si
tratta di una vera e propria sanzione per esseri assentato dal lavoro,
presumibilmente applicata ogni volta che i lavoratori si ritrovano
impossibilitati a lavorare, magari perché contraggono una malattia. A.
racconta che il suo datore di lavoro motiva questo tipo di sanzione con il fatto
che ha dovuto assumere in sostituzione un altro lavoratore, a cui ha dovuto
spiegare il lavoro, con una perdita di tempo nel processo produttivo che si
scarica tutta sul lavoratore che si è assentato. Se vuole assentarsi ancora dal
lavoro, A. dovrà lavorare gratis almeno per 4 ore se vuole rientrare in
possesso del suo posto di lavoro.
Al momento, A. non ha ancora risolto i suoi problemi fisici e continua a
lavorare per lo stesso datore di lavoro; non ha rispettato il periodo di riposo
e cura che gli avevano indicato in ospedale. Inoltre, spesso A. riceve minacce
dal suo datore di lavoro, avvertimenti che fanno tutti leva sulla denuncia alle
autorità della sua posizione di clandestinità.
45
La storia di Gopal
Gopal ha 47 anni ed è giunto in Italia nel 2006, dopo un lungo e atipico
viaggio. Infatti, G. lascia il Bangladesh 10 anni prima di giungere nel nostro
paese. La povertà che attanagliava la sua famiglia lo ha spinto oltre i confini
del suo paese, prima in Pakistan, poi in Iran, in Turchia, in Grecia ed infine
in Campania. Il suo obiettivo iniziale non era quello di venire in Italia, ma
solo uscire dal suo paese; solo in Pakistan comincerà a maturare la decisione
di raggiungere l'Italia, paese in cui realizzare il suo sogno e dove, pensava
fiducioso, poter lavorare dignitosamente grazie alle sue capacità sartoriali. Il
Pakistan è il paese dove è rimasto più a lungo, soprattutto perché lavorando
anche duramente riusciva a guadagnare molto poco (non più di 1 euro al
giorno); con il passare del tempo, G. riesce a pagare il proseguimento del suo
viaggio e il passaggio della successiva frontiera con l'Iran. Per ogni frontiera
che attraverserà, G. sarà costretto a pagare soggetti specializzati
nell'introduzione illegale di migranti. Ogni volta che raggiunge un nuovo
paese, immediatamente si mette a lavorare duramente per reperire il denaro
necessario al proseguimento del suo viaggio.
Una volta raggiunte le coste italiane dalla Grecia, G. si dirige
direttamente nel napoletano, dove comincerà a lavorare fin da subito nelle
fabbriche tessili del territorio (a Casandrino, a Sant'Antimo, ma anche a
Palma Campania), impiegato sempre nelle mansioni di cucitura.
Nella sua esperienza di lavoro sul territorio, G. afferma che per la sua
mansione le paghe si aggirano mediamente intorno ai 3,50 all'ora, circa 30
euro per una giornata di 8-10 ore lavorative. Ma questa, secondo le
ammissioni dello stesso lavoratore, è la paga elargita a quei lavoratori in
possesso di elevata esperienza e competenze specifiche; meno competenze,
esperienza e conoscenza della lingua si hanno, meno si è pagati. Infatti, la
paga degli ultimi arrivati o di quelli che potremmo definire operai generici si
aggira intorno ai 2 euro all'ora. Inoltre, questi ultimi sarebbero i lavoratori
maggiormente esposti al rischio di sfruttamento e gravi violazioni dei diritti,
non solo perché più vulnerabili (quasi sempre irregolari, non conoscono il
contesto, la lingua, le leggi, e si ritrovano in balia dei datori di lavoro) ma
anche perché risultano meno indispensabili al processo produttivo.
G. racconta di aver lavorato sia per datori di lavoro italiani che bengalesi
e che, spesso, anche quando la fabbrica era gestita da un connazionale, il
vero proprietario era italiano. Ha cambiato spesso fabbrica (fatta eccezione
per la sua prima esperienza a Casandrino, durata quasi 3 anni) perché quasi
sempre capitava che le fabbriche presso le quali lavorava, dopo un periodo di
attività, chiudevano improvvisamente. Inoltre, é sempre stato pagato anche se
i ritardi sono la regola, tranne che in un caso. Infatti, riporta di una fabbrica
a San Bartolomeo in Galdo (Bn) che non gli ha elargito la paga di 3 mesi di
lavoro; i lavoratori coinvolti erano 9, tutti connazionali. La fabbrica era di
proprietà di un cittadino italiano, ma i lavoratori bengalesi avevano rapporti
solo con un proprio connazionale che aveva la funzione di controllo del
lavoro e quella dell'elargizione delle paghe (3 euro all'ora per 10 ore circa di
lavoro in una giornata). Secondo G., il controllore suo connazionale
tratteneva per sé una parte delle paghe. Il paradosso è che per questo lavoro,
G. sostiene di aver firmato anche quello che sembrava un regolare contratto,
tuttavia, sostiene di non aver mai visto una busta paga e di non conoscere il
contenuto formale del contratto (che comunque risultava giunto a termine
molti mesi prima dell'allontanamento dei lavoratori). E' accaduto che dopo
quella che doveva essere una pausa per ferie di 2 settimane (ovviamente non
46
pagate) nel mese di Agosto, l'azienda non ha più ri-aperto i cancelli e i
lavoratori hanno perso 3 mesi di paga. Quando si sono rivolti al
connazionale che per conto del proprietario dell'azienda controllava le
attività lavorative (e presumibilmente aveva anche reclutato i lavoratori), si
sono visti rispondere che se il padrone non pagava lui non avrebbe potuto
pagare loro.
Per comprendere meglio questa vicenda, occorre fare riferimento ad una
pratica molto diffusa nel sistema di collocamento al lavoro della manodopera
bengalese nelle fabbriche tessili del territorio. Infatti, nel colloquio con G. è
emerso che i primi 2-3 mesi di lavoro presso tali aziende non si viene pagati;
i datori di lavoro, o chi per loro, trattengono queste paghe come forma di
garanzia e per disciplinare e vincolare il lavoratore all'azienda. Questi soldi
verranno elargiti solo a fine rapporto, per cui non sei libero di andare a
lavorare altrove, non sei libero di protestare se non vuoi essere cacciato. Per
molti lavoratori il rischio di non vedere mai questi soldi è molto elevato e,
quando ciò avviene, si ha paura di denunciare l'accaduto perché si ritiene che
da irregolari non si hanno diritti e si corre il rischio di essere espulsi. Per le
stesse ragioni, G. e i suoi colleghi non hanno denunciato il mancato
pagamento da parte dell'azienda di San Bartolomeo.
Attualmente, G. lavora presso una fabbrica di Sant'Antimo e riceve 28
euro al giorno per 8-9 ore di lavoro. Anche in questo caso, G. ha lavorato
gratis i primi due mesi; se tutto va bene, avrà questi soldi solo a fine
rapporto. Lavora a nero, anche se ha ottenuto un permesso di soggiorno,
pagandosi i contributi come lavoratore autonomo (venditore ambulante).
G. ci parla anche delle recenti denunce dei lavoratori bengalesi di
Sant'Antimo circa il grave sfruttamento subito nelle fabbriche tessili del
territorio. Afferma che in seguito al clamore suscitato dalle cronache locali e
nazionali, molti lavoratori hanno ricevuto avvertimenti ed intimidazioni in
fabbrica affinché non parlassero con i giornalisti delle condizioni del proprio
lavoro; ancora una volta, gli argomenti usati per intimidire questi lavoratori
fanno riferimento al rischio di espulsione in quanto irregolari rispetto alla
presenza sul territorio. G. ritiene anche che, nonostante in molti casi le
aziende sembrano gestite da connazionali, in realtà i veri proprietari sono
autoctoni che spesso dispongono di importanti capitali da investire. Inoltre,
sembra che le peggiori forme di sfruttamento dei lavoratori siano messe in
opera da parte di imprenditori bengalesi giunti solo negli ultimi due anni in
Italia e prima stanziati in Grecia.
Infine, sempre in riferimento alle fabbriche tessili, G. afferma che spesso,
per eludere i controlli ispettivi sui luoghi di lavoro, le aziende in questione
aprono solo dopo le 14.00, perché i controlli si concentrano sempre dalle 8
del mattino alle 14.00.
47
3.4
Segregazione da lavoro.
Il lavoro domestico e le gravi forme di sfruttamento.
Il settore del lavoro domestico, storicamente rappresentativo
dell’inserimento della forza lavoro immigrata nel mercato del lavoro campano
(forse insieme all'agricoltura), costituisce tuttora uno dei principali sbocchi
occupazionali, soprattutto per le donne. L’invecchiamento della popolazione,
ma in misura maggiore un sistema di welfare carente e in dismissione, oltre
che le trasformazioni della struttura familiare classica che era stata un tempo
capace di farsi carico di tali oneri, ha determinato un forte incremento della
domanda di assistenza e cura a malati, disabili o anziani. Tale domanda,
proveniente non solo dai ceti alti della società, ma anche da quelli medio
bassi, ha di fatto incontrato, soprattutto a partire dalla metà degli anni
Novanta, una crescente offerta di lavoro costituita dalle ondate di donne
provenienti dall’Est Europa.
Le lavoratrici che si impiegano in tale settore sono connotate da una bassa
professionalità acquisita più per esperienza pratica che per formazione. La
maggior parte di esse, infatti svolge generiche mansioni. Eppure, sono
frequentissimi i casi in cui gli addetti di questo settore svolgono attività
plurime che, talvolta, richiederebbero una preparazione professionale
apposita, come l’accudimento di minori e l’assistenza geriatrica (mansioni per
le quali non viene corrisposto il dovuto compenso).
Le modalità di svolgimento delle attività tipiche del lavoro domestico
vanno dal lavoro a tempo pieno presso un’unica famiglia, a quello ad ore
svolto presso più famiglie e, in misura meno frequente, il lavoro a giornata, di
tipo occasionale, per il quale viene corrisposta una paga forfetaria per le ore di
lavoro prestate. A volte le tre modalità si fondono, come nei casi in cui le
collaboratrici domestiche giorno e notte impiegano i momenti di libertà per
lavorare ad ore o a giornata presso altre persone. Ma a prevalere sono ancora
le forme del lavoro a tempo pieno presso un’unica famiglia oppure quella del
lavoro ad ore presso più nuclei familiari In generale, tale tipologia di attività
domestica rappresenta un passaggio quasi obbligato del percorso migratorio
che coinvolge la quasi totalità delle donne migranti, soprattutto nelle fasi
dell’arrivo e dei periodi immediatamente successivi all’arrivo stesso.
Concorrono a questa scelta, in primo luogo, la scarsa conoscenza del
territorio e della lingua e la coabitazione con il datore di lavoro che può
rappresentare per queste donne un fattore di sicurezza e protezione (anche se
paradossale), soprattutto per coloro le quali sono prive del permesso di
soggiorno. Inoltre, la coabitazione con il datore di lavoro consente di
risparmiare sui costi per il vitto e l’alloggio. Generalmente, il passaggio da
questa modalità al lavoro domestico svolto ad ore o a quello di cura dei minori
avviene solo dopo l’acquisizione di un regolare permesso di soggiorno e
rappresenta naturalmente una forma di emancipazione, poiché consente
maggiore autonomia nella vita privata e relazionale, oltre che per
l’accudimento dei propri figli, pur presentando maggiori oneri come quelli
della ricerca e del mantenimento dell’abitazione. Le retribuzioni sono
piuttosto omogenee andando dai 5-6 euro per ora ai 500-700 euro (come
vedremo, nei casi di maggiore sfruttamento anche meno di 500 euro al mese)
per un lavoro svolto notte e giorno.
In genere, il lavoro domestico non viene considerato come particolarmente
predisposto al verificarsi di condizioni di lavoro dei suoi addetti al limite del
paraschiavismo; tuttavia, i rapporti di lavoro che vi si instaurano possono
essere fortemente asimmetrici e connotati da inganno, minaccia e aggressione
48
verbale, nonché da vere e proprie forme di segregazione fisica. Anche nei casi
all’apparenza meno estremi è possibile riscontrare un misto di tutti questi
fattori di assoggettamento, presenti in forme più subdole e velate ma non per
questo meno coartanti per il lavoratore o la lavoratrice che vi incorre.
Questo problema riguarda in misura predominante le lavoratrici
provenienti dai paesi dell’est Europa, giunte da poco nel nostro paese e che
sono impiegate notte e giorno presso un’unica famiglia. Non ne sono esenti
tuttavia altre nazionalità, come quelle dell’Africa sub sahariana.
La violazione dei diritti delle lavoratrici si manifesta in vari modi, ad esempio
attraverso richieste eccessive di prestazioni lavorative, sottrazione dei
documenti da parte delle famiglie, fino alla richiesta di prestazioni sessuali. In
altri casi limite è stata riscontrata la coesistenza di più fattori di
paraschiavismo. È il caso questo di una collaboratrice domestica polacca,
giunta per la prima volta in Italia direttamente a casa del datore di lavoro,
costretta a collaborare anche nella gestione dell’azienda di zootecnia di
proprietà di quest’ultimo; come vedremo in seguito, alla donna era di fatto
impossibile allontanarsi dal luogo di lavoro senza la compagnia del datore che
spesso la sottoponeva alle sue attenzioni sessuali.
L’abuso sessuale dei propri dipendenti è molto diffuso nei confronti delle
collaboratrici domestiche, ma non esclude casi, sebbene rarissimi, di
aggressione sessuale nei confronti di un maschio. Ciò ad ulteriore conferma
della tendenza di alcuni datori di lavoro a negare ai propri dipendenti
immigrati dignità di persona ed a considerarli alla stregua di “oggetti”
comprati e pagati, da impiegare a proprio piacimento.
Il mancato rispetto dei diritti delle lavoratrici immigrate può passare
attraverso strategie diversificate, come nel caso riferito di una donna ucraina
“comprata” dal suo datore di lavoro per sposarla ed assicurarsi gratuitamente
accudimento personale e della casa e prestazioni sessuali, senza permetterle di
lavorare fuori casa. In questo caso il connotato di paraschiavismo emerge
anche dal fatto che i primi tentativi di questa donna di far valere i propri diritti
di persona hanno scatenato la reazione minacciosa del "marito-padrone".
Rispetto alle modalità di arrivo e di reclutamento, anche per questa
tipologia di lavoro si può parlare di un sistema simile a quello riscontrabile
per il lavoro agricolo che associa la frode del viaggio verso il nulla ad un
percorso più organizzato che aggancia il lavoratore appena arrivato, lo mette
in contatto con il datore di lavoro e, per assicurarsi la totale restituzione delle
spese sostenute, provvede al sequestro dei documenti.
Di per sé, la natura privata dell’impiego come domestica rende la
lavoratrice poco visibile in termini di controlli sul lavoro con conseguente
agevolazione del datore di lavoro nell’espressione della sua predominanza.
Inoltre, l’arrivo recente, la mancanza di informazioni e cognizioni riguardo il
territorio, il carattere irregolare della presenza, la convivenza, rendono la
posizione della lavoratrice particolarmente vulnerabile e esposta a ricatti di
varia natura. Diversi datori di lavoro, approfittando di questa vulnerabilità,
riescono a tenere sotto controllo la lavoratrice, costringendola a orari
prolungati di lavoro e mansioni non stabilite all’atto dell’instaurazione del
rapporto di lavoro, utilizzando lo strumento della minaccia che, nella maggior
parte dei casi riguarda la denuncia della clandestinità alle forze dell’ordine,
ma molto spesso arriva a toccare gli affetti della lavoratrice. Inoltre, la
limitazione della libertà personale e, di conseguenza, l’impossibilità di
condividere all’esterno della famiglia per la quale si lavora, le condizioni di
sfruttamento, rende di fatto difficile qualsiasi forma di emancipazione da
questa condizione che, quindi può anche prolungarsi nel tempo.
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La storia di Sofia
Sofia è una donna quarantottenne proveniente dalla Bulgaria. E’ sposata,
ha due figli maschi ed è giunta in Italia nel 2004. Il marito è autista in
Bulgaria in un’azienda di trasporti, ma guadagna molto poco, mentre lei era
senza lavoro. S. decide di partire per l’Italia, seguendo la cugina, partita
qualche mese prima e ben inserita come badante.
Acquista in Bulgaria il biglietto del viaggio per l’Italia, dove avrebbe
trovato dei connazionali che l’avrebbero aiutata a cercare un lavoro. Parte
con un pulmino dal suo paese e all’arrivo in Italia, a Napoli, trova
immediatamente i suoi connazionali ad attenderla alla stazione; le dicono di
aver un lavoro per lei, ma come prima cosa le sottraggono il passaporto e le
impongono di pagare 250 € per l’intermediazione lavorativa. Solo dopo aver
pagato questa soldi riavrà i suoi documenti.
Viene sin da subito accompagnata dai questi uomini a Giugliano, presso
un uomo sessantenne che vive da solo. Dovrà svolgere un lavoro di
collaboratrice domestica, notte e giorno, per 400 € al mese.
Sofia, giunta nella casa del suo datore di lavoro, percepisce sin da subito
una strana sensazione. Le prime settimane trascorrono tranquillamente: deve
solo occuparsi delle pulizie di casa, può uscire a fare la spesa, ha giorni
liberi, il lavoro non risulta particolarmente faticoso; ma è una tranquillità
che non la convince. Infatti, le cose cambiano dopo il primo mese.
La donna inizia a subire dall’uomo pressioni e richieste di tipo sessuale. Con
il passare dei giorni l’uomo diviene sempre più insistente e violento. Sofia
viene letteralmente segregata in casa e subisce ricatti ed intimidazioni;
l'uomo minaccia di non pagarla se non avesse soddisfatto le sue richieste.
Senza soldi Sofia non avrebbe potuto pagare i suoi connazionali per
l’intermediazione lavorativa e riavere i documenti che le sono stati sottratti.
Il suo datore di lavoro, inoltre, la convince di essere un uomo potente ed
influente, un malavitoso locale, e che senza il suo consenso i connazionali
bulgari non le avrebbero mai restituito i documenti.
La donna è tormentata, vive momenti di profonda inquietudine. Per lei è
umiliante cedere alle richieste dell’uomo, quindi, prova a ribellarsi, ma
l'uomo diviene sempre più aggressivo. Le vieta anche di mangiare,
concedendole del cibo solo quando cederà ai suoi ricatti sessuali.
La donna è terrorizzata all’idea che quell’uomo, potente, malvivente, legato
agli intermediari bulgari potesse convincere questi ultimi a non restituirle il
passaporto. Si sente impotente, disorientata: potrebbe contattare una sua
cugina che vive a Mugnano, ma è troppo impaurita di eventuali ritorsioni.
Cede al ricatto del datore di lavoro, vivendo giorni di profonda umiliazione e
vergogna.
Ricevuto il primo stipendio, contatta, attraverso il datore di lavoro, i
connazionali che le avevano sottratto i documenti e recupera, consegnando i
250 € pattuiti, il passaporto, che però le viene immediatamente sottratto con
violenza dal suo datore di lavoro. L'uomo le impedisce di uscire di casa e
minaccia di denunciarla, poiché clandestina, se non avesse obbedito alle sue
richieste. Trascorrono due mesi in cui Sofia subisce violenze ed umiliazioni;
la donna prova a convincere l’uomo a lasciarla libera, ma questo continua a
minacciarla di morte per dissuaderne la fuga.
Sofia non ha più la forza di continuare a tollerare questa situazione, ma sa di
non poter scappare, in quanto il suo "aguzzino" è ancora in possesso dei suoi
documenti. Si rende conto che, data la situazione, l’unico modo per riaverli è
mostrarsi accondiscendente e disponibile con lui. Trascorre all’incirca un
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mese, in cui la donna è completamente sottomessa all’uomo. Non si ribella,
non si lamenta, non chiede di essere lasciata libera, cerca di acquisire fiducia
da parte dell’uomo. Quest’ultimo inizia pian piano ad attenuare
l’aggressività nei suoi confronti e a controllarla di meno, pensa ormai di
averla in pugno.
Una mattina Sofia, approfittando dell'assenza dell'uomo, recupera il
passaporto nascosto in casa e, scappa dalla finestra. Si mette in contatto
telefonico con la cugina, che l’accoglie presso la sua abitazione a Mugnano.
Sofia non confida alla cugina le violenze subite; ha ancora molta paura e
soprattutto molta vergogna per ciò che ha vissuto. Sofferente ed angosciata,
Sofia vive momenti di depressione e si chiude in sé stessa. Allo stesso tempo
riceve alcune telefonate dal suo ex datore di lavoro. La cugina, preoccupata
per la salute di Sofia, insospettita dalle strane telefonate che la donna riceve,
si rivolge all’ambulatorio medico per immigrati di Mugnano e chiede aiuto
alla mediatrice culturale ucraina. Ma Sofia rimane chiusa a riccio, molto
diffidente, timorosa, non una parola sulle violenze subite e sulla segregazione
che le è stata imposta per diversi mesi. Con l’aiuto del medico
dell’ambulatorio dedicato di Mugnano, si riesce a mettere la donna in
contatto col servizio psichiatrico dell’Asl del territorio, che dopo i primi
incontri ritiene opportuno prenderla in carico. Sorge il sospetto che le sia
successo qualcosa di grave. Durante gli incontri con lo psichiatra,
continuano intanto a giungere alla donna telefonate di minacce da parte
dell’ex datore di lavoro.
Dopo un primo periodo di diffidenza, la donna riesce gradualmente a
sbloccarsi e a raccontare ciò che ha vissuto, rivelando di aver molta paura
perché continua ad essere minacciata telefonicamente da quell'uomo che le
intima di ritornare da lui. Le viene spiegato e prospettato il percorso di
protezione sociale.
Sofia cambia scheda telefonica, ma è troppo impaurita per sporgere
denuncia: decide di non denunciare l’uomo che l’ha segregata e sottoposta a
violenze, ha paura soprattutto perché è un camorrista. Vuole solo
allontanarsi da quel territorio e dimenticare tutto. Viene accolta a Pozzuoli
presso un struttura di accoglienza della Caritas e dopo una breve periodo di
permanenza presso tale struttura, le viene offerto un lavoro come badante
notte e giorno nella provincia di Napoli. La donna dopo un breve periodo di
prova, viene assunta con regolare contratto di lavoro, ottiene il permesso di
soggiorno e, nonostante sia ancora oggi segnata dalla dolorosa esperienza
vissuta, ha riacquisito un proprio equilibrio psicofisico.
La storia di Katia
Katia è una donna bulgara di 57 anni. Nel suo paese lavorava come
pittrice e restauratrice, ma si trattava pur sempre di lavori precari. Nel 2006,
dopo la morte dei genitori (turchi), Katia decide di partire per l’Italia in
cerca di un lavoro lasciando in Bulgaria il figlio di 16 anni. Giunta in Italia,
la donna trova un posto di lavoro dopo appena un paio di giorni. Lavora per
circa 8 mesi a 450,00 € mensili, facendo la badante ad una anziana e
collaborando con la figlia nel suo piccolo ristorante.
Nel 2007 Katia decide di spostarsi a Milano perché ha sentito che in quella
città si guadagna di più. In effetti, i primi due impieghi che si procura le
rendono bene, ma si tratta solo di brevi sostituzioni, dopo di che lavora per
un mese come collaboratrice domestica presso una famiglia benestante che la
51
sfrutta facendola lavorare tantissimo con una paga di appena 450,00 €
mensili.
Attraverso le pubblicità affisse presso la Caritas, Katia viene a conoscenza
dell’esistenza del Numero Verde contro la tratta, con il quale entra in
contatto. Tuttavia, dal colloquio di approfondimento della sua storia sembra
non emergano i requisiti per una presa in carico e per l’attivazione di un
percorso ex art. 18.
La donna, non riuscendo a trovare lavoro, rimane nelle strutture di
accoglienza per senza dimora della Caritas. Fino a quando una sua
conoscente la invita a Napoli per un lavoro. La donna la mette in contatto con
un loro connazionale che procura posti di lavoro. Allora, Katia chiama
quest'uomo per capire meglio di che tipo di lavoro si tratta. Ricevute le
assicurazioni del caso, Katia prende il treno per Napoli e alla Stazione
Centrale viene a prenderla il suo connazionale intermediario in compagnia di
un uomo italiano di nome Gianni. I due la portano in un paese vicino Napoli,
Boscotrecase presso una vecchia abitazione dove la donna incontra alcuni
suoi connazionali. Rimane in questa abitazione per circa una settimana
vivendo in condizioni precarie.
Durante la permanenza nella casa Katia si rende conto che Gianni pretende
dai suoi connazionali (uomini e donne) il pagamento di una somma per
l’intermediazione lavorativa e viene a conoscenza del fatto che, a molti di
loro, l’uomo ha anche sequestrato i documenti. In breve tempo anche lei si
trova nella stesse condizioni; le sequestrano il passaporto e le dicono che le
verrà restituito solo dopo il pagamento di una somma di danaro guadagnata
con il lavoro che le è stato procurato.
Katia inizia a lavorare in una casa dove svolge sia le mansioni di badante
che di collaboratrice domestica. Le viene promesso uno stipendio di 600 €
mensili, soldi che non vedrà mai. La donna da accudire ha 64 anni, è
parzialmente autonoma, paralizzata al braccio e alla gamba destra.
L’anziana ha una carattere aggressivo, arrogante e prepotente e sin da subito
impone la sua autorità alla donna. Con l’anziana vive uno dei due figli,
quarantatrenne, alcolizzato. Il clima in casa è molto teso: tra il figlio e la
madre è una continua guerra, poiché l’uomo le chiede continuamente soldi,
aggredendola anche fisicamente. Katia lavora duramente tutto il giorno: al
mattino presto si occupa della cura dell’anziana, poi inizia con le pulizie
della casa, peraltro molto grande, poi deve preparare il pranzo e seguire nel
dettaglio tutti gli ordini dell'anziana signora che pretende tantissimo da lei ed
arriva anche ad assumere un atteggiamento aggressivo e violento.
Di notte, poi, per Katia è impossibile dormire; si appoggia su un lettino da
campeggio in camera con l’anziana. Ogni notte il figlio della donna rientrava
completamente ubriaco, forse drogato, urlando contro la madre e cercando
soldi. Anche Katia diventa oggetto delle aggressioni fisiche e verbali
dell'uomo e quando prova a difendersi le viene detto di non reagire, di stare
zitta, l’unica cosa da fare è subire e lavorare, perché è solo una schiava.
L'uomo non perderà mai l'occasione per offendere e deridere la donna
bulgara al servizio della madre.
Quando Katia, esausta, inizia ad avere dolori alla schiena per il gran
carico di lavoro, chiede alla signora di riposarsi un po’, ma l’anziana
l’aggredisce con una stampella, ripetendole che è lì per lavorare, non per
riposare. Le viene impedito di uscire di casa, tanto che della spesa si occupa
una vicina di casa. Le è consentito di uscire solo la domenica pomeriggio,
fino alle 18, ma prima deve aver sistemato tutto; nella pratica non è mai
riuscita ad uscire.
52
Katia comincia a maturare la decisione di andar via, non regge più questa
situazione di violenza e sfruttamento, ma riceve continue intimidazioni da
parte degli intermediari che sono in possesso dei suoi documenti; inoltre i
due (Gianni, l'uomo italiano, e l'altro intermediario bulgaro) la controllano
continuamente, recandosi periodicamente in casa dove la donna lavora.
Gianni le ordina di rimanere lì per guadagnare soldi e pagargli le 250 €
per l’intermediazione lavorativa, minacciandola di stracciarle il passaporto
qualora si fosse ribellata a quella situazione o avesse provato a scappare.
Minaccia inoltre la donna di ritorsioni contro il figlio rimasto solo in
Bulgaria. Katia è terrorizzata, ma riesce a resistere in quella casa solo per 27
giorni. Non hai mai ricevuto lo stipendio per il lavoro prestato.
Resasi conto di essere finita in una rete di sfruttamento, Katia decide di
rivolgersi nuovamente al Numero Verde contro la tratta. Chiama la
postazione centrale e viene messa in contatto con la postazione di Napoli. In
una prima telefonata denuncia la sua condizione e chiede aiuto. L’operatrice
le propone di venire a Napoli per un colloquio, ma la donna dichiara di
essere spaventata e di non avere nemmeno i soldi per prendere un treno.
Quando capisce che sarebbe stato impossibile sottrarsi allo sfruttamento, la
donna scappa e si rivolge al Numero Verde, per poi essere accolta in una
struttura dedicata.
La storia di Mariola
Mariola è una donna polacca di 35 anni con tre figli. Arrivata in
Campania 10 anni fa, ha vissuto tra Salerno e Caserta. Prima di arrivare in
Italia non lavorava e la sua partenza è motivata dall'intenzione di mantenere i
figli. Era stata la sorella, già nel nostro paese, a trovargli un lavoro. Mariola
parte dalla Polonia facendosi prestare i soldi per il biglietto e le piccole spese
da amici e parenti (che ha restituito senza problemi). Non è sola, ma viaggia
insieme al suo nuovo compagno (il marito, invece, rimane in Polonia ad
occuparsi dei figli).
La sua prima esperienza di lavoro è stata in provincia di Salerno presso
un allevatore; si occupava principalmente delle faccende domestiche, ma
anche di aiutare il suo compagno che si occupava esclusivamente
dell'allevamento del bestiame. Lavorava molte ore al giorno, non poteva
godersi le ore libere, non aveva giorni liberi. Il suo datore di lavoro la
molestava sessualmente giungendo anche ad atti violenti. Poteva uscire solo
se accompagnata dal datore di lavoro ed in occasione di queste uscite l'uomo
provava ripetutamente ad abusare di lei. Spesso, accadeva che sia lei che il
suo compagno venivano mandati presso terzi a svolgere lavoro non pagato
(in pratica il loro datore di lavoro li "prestava" ad altre aziende della
zootecnia per lavorare gratuitamente). Inoltre, i due erano costretti a
nascondersi quando il datore di lavoro riceveva visite.
Per tutto il periodo che è stata lì, oltre due anni, è riuscita a tornare in
Polonia solo due volte. Durante uno di questi viaggi conosce un’operatrice
sociale con la quale fa amicizia e si confida. Per la prima volta racconta le
condizioni del proprio lavoro. La paga era bassa ed inoltre lei prendeva
meno del suo compagno. Dormiva in una struttura di fianco alle stalle e
veniva maltrattata da tutti i membri della famiglia del datore di lavoro. Anche
quando stava male, le dicevano che se non lavorava un giorno, non
l’avrebbero pagata per tutto il mese.
Quando rimane incinta, lo dice al datore di lavoro perché vuole abortire
ma l'uomo non l’accompagna in ospedale e le dà delle pillole per abortire. La
donna accusa dei malori, ma non si reca in ospedale per paura della polizia.
53
Allora fa ritorno in Polonia dove subito viene ricoverata perché in gravi
condizioni. Resta lì un mese e torna di nuovo dal datore di lavoro ma è già
consapevole che deve uscire da quella situazione grazie alle conversazioni
con l’operatrice sociale e il confronto con altre connazionali che certamente
non lavorano in quelle condizioni.
Vuole trovare un altro impiego, ma non è facile; nel frattempo, il marito
rimasto in Polonia diventa sempre più esigente, adducendo l'esigenza di
mantenere i figli. Allo stesso tempo, il datore di lavoro comincia a
minacciarla che la denuncerà in caso di fuga; le minacce riguarderanno
anche ai figli rimasti in paese. Ciò nonostante, sia lei che il suo compagno,
approfittando di un ritorno in Polonia, decidono di scappare. Contattano
l’operatrice che li raggiunge, trova loro una sistemazione, per poi
predisporre la presa in carico in un programma di accoglienza e protezione.
Lei trova sistemazione presso casa Rut, lui da un amico conosciuto poco
prima. Nel frattempo scatta la denuncia verso il datore di lavoro e ottengono
il permesso di soggiorno per protezione sociale (6 mesi). Ma 3 anni più tardi
ritireranno la denuncia perché Mariola viene rintracciata dal suo vecchio
datore di lavoro che la minaccia pesantemente. Attualmente lavora
regolarmente a Caserta ma è pressata economicamente dal marito che
continua a chiederle molti soldi per i figli.
3.5
Lo sfruttamento nelle attività di ristorazione. Alcuni casi
conclamati di "tratta".
Tra i vari ambiti di lavoro che assorbono personale straniero c'è anche
quello legato al settore turistico-alberghiero e alle attività di ristorazione. Per
quanto il numero di migranti collocati in questi ambiti lavorativi sia ancora
modesto, essi rappresentano una tipologia di lavoratori destinata ad aumentare
nel contesto regionale. In particolare, negli ultimi anni è aumentato in modo
rilevante l’impiego di personale femminile straniero, soprattutto di donne
provenienti dall’est europeo, nei ristoranti, nei bar, negli alberghi.
Si tratta di impieghi che presentano un tasso di regolarizzazione del
rapporto di lavoro molto elevato, in quanto le aziende, a differenza di altri
settori, sono estremamente visibili e controllate. Quindi, il settore turisticoalberghiero è in genere meno esposta a rischio di trasgressioni estreme dei
diritti dei lavoratori a causa del suo carattere eminentemente “pubblico”.
Tuttavia, non è esente da infrazioni ai diritti dei lavoratori, in merito
soprattutto all’orario di lavoro che si prolunga spesso fino a notte inoltrata (gli
orari sono varabili, si va da una media di 10 ore a punte anche di 12/14 ore in
una giornata); inoltre, i salari corrisposti rimangono nella maggior parte dei
casi lontani dai minimi salariali. Le comunità coinvolte sono lo stesse che
lavorano nel settore domestico e non è raro il caso di un intreccio tra questi
due settori (in alcuni casi rilevati, le lavoratrici erano chiamate a svolgere un
doppio servizio, presso il ristorante e in casa del datore di lavoro, pena la
perdita del contratto, ovviamente senza nessuna integrazione del salario).
54
Coercizione, ricatto e sfruttamento sono presenti anche presso alcuni ristoranti
etnici, dove lo sfruttamento è tra connazionali e si manifesta soprattutto con
orari prolungati di lavoro, violenza verbale e psicologica contro chi tenta di
ribellarsi, unita ad un forte controllo sociale all’interno della comunità.
Sempre in tali ambiti, nonostante questo settore sia sottoposto a numerosi
controlli ispettivi, sono rintracciabili anche forme e casi di lavoro gravemente
sfruttato prossimi alla riduzione in schiavitù, nonché situazioni che possono
configurarsi come "tratta". Di seguito, riportiamo alcuni casi raccolti e seguiti
dalla cooperativa sociale Dedalus; essi dimostrano che episodi di grave
sfruttamento possono verificarsi in qualsiasi settore caratterizzato da elevata
informalità dei rapporti lavorativi. D'altronde, la lettura di queste storie
rivelano come lo sfruttamento, anche riguardando le stesse persone, può
avvenire in differenti ambiti lavorativi (dalla ristorazione al lavoro domestico,
il fine degli sfruttatori e dei reclutatori è sempre quello di trarre profitto dallo
sfruttamento dei malcapitati). Inoltre, dei casi che seguono risulta interessante
la nazionalità delle vittime coinvolte (infatti, si tratta di cittadini russi) e il
fatto che lo sfruttamento da loro subito si collega al fenomeno della tratta di
esseri umani, più precisamente al reclutamento con inganno di migranti con lo
scopo di sfruttarli in ambito lavorativo nel nostro paese.
Il primo episodio di grave sfruttamento che riportiamo vede coinvolti tre
cittadini russi, legati da un vincolo di parentela, le sorelle Livia (nata in
Russia nel 1960) ed Eva (nata in Russia nel 1952) e Goran (nato in Russia nel
1992 e rispettivamente figlio e nipote di Livia ed Eva).
La storia di Livia, Eva e Goran ha inizio quando rispondono all’annuncio
pubblicato da un'agenzia di viaggi. Quest’ultima, in collaborazione con
l’altra agenzia viaggi e servizi di Mosca ha offerto loro un pacchetto
comprensivo di viaggio di andata e ritorno per l’UE, ma con la promessa di
stipula di un contratto di lavoro in Italia a tempo determinato. I tre hanno
dunque accettato la proposta, stipulato un contratto e pagato la cifra di 3.645
euro. L’agenzia ha fornito i biglietti del treno fino a Mosca, i biglietti
dell’autobus per la tratta Mosca-Minsk-Milano-Napoli, i visti di ingresso per
l’area Schengen, e soprattutto il contatto telefonico di Franca, una signora di
nazionalità Ucraina che vive a Napoli e che rappresenterà per loro una sorta
di tutor per tutto il tempo della permanenza in Italia; questa donna avrebbe
dovuto condurle sul luogo di lavoro e procurare loro un alloggio.
Il loro viaggio è iniziato ad agosto 2011 e sono arrivati a Napoli pochi
giorni dopo, durante il tragitto hanno contattato la sig.ra Franca, che è
andata a prenderli alla stazione Garibaldi di Napoli, per condurli in
automobile a casa sua a Napoli. Appena giunti nella sua abitazione, i tre
cittadini russi hanno pagato alla sig.ra Franca la somma di euro 1000 per
portare a termine i suoi compiti di ospitalità e per avviare i contatti con i
futuri datori di lavoro.
Dopo poche ore, sono stati prelevati da un uomo italiano che, in auto, li
ha condotti presso una struttura turistica (un campeggio) in provincia di
Foggia. Qui è stato loro chiesto di depositare i passaporti, ma i tre si sono
sottratti a tale richiesta, adducendo delle scuse. Immediatamente dopo, gli è
stato spiegato che sarebbe stato loro compito assolvere a una complessa serie
di mansioni di pulizia e manutenzione del campeggio (cucina, spiaggia,
stanze, etc.), che il loro orario lavorativo sarebbe andato dalle 8 del mattino
fino alle 2/3 di notte con una unica pausa dalle 15 e alle 17: il tutto in cambio
di uno stipendio pari a 500 euro mensili. Inizialmente si sono sentiti costretti
ad accettare, a causa della loro condizione di estrema vulnerabilità,
determinata dalla mancanza di denaro, dalla non conoscenza dei luoghi,
55
delle persone e della lingua, dall’isolamento personale amplificato da quello
del luogo di lavoro, collocato lontano dai centri abitati. Tuttavia, hanno
tempestivamente contattato la sig.ra Franca, lamentandosi delle terribili
condizioni di lavoro, ma quest’ultima si è limitata a chiedere loro di resistere.
I tre cittadini russi hanno dunque iniziato a protestare contro il gestore, ma
senza alcun successo. Dopo due settimane, tuttavia, a fronte delle loro
continue lamentele sono stati licenziati e pagati per l’intera attività lavorativa
di 15 giorni solo 175 euro a testa.
Allontanati dal campeggio, hanno telefonato alla sig.ra Franca e si sono
successivamente recati a Battipaglia. Giunti lì, sono stati condotti dalla
donna Ucraina a casa di una cittadina italiana e hanno dovuto consegnare 20
euro a testa per la procurata ospitalità. In questa abitazione sono rimasti 1
giorno, dopodiché la sig.ra Franca ha condotto Goran e Livia a casa di un
anziano signore italiano dove sono rimasti per un mese. In questo arco di
tempo, Livia ha lavorato a tempo pieno come badante, per poi essere
licenziata (a causa del ritorno della precedente badante) con una retribuzione
di appena 350 euro. Su indicazione di Franca, sono allora ritornati a
Battipaglia, dove hanno continuato a pagare 10 euro a testa al giorno,
attendendo nuove disposizioni da parte della donna ucraina.
Nel frattempo, la sig.ra Eva, su indicazione di Francasi ritrova a lavorare
come badante presso un uomo italiano che immediatamente le ha fatto delle
forti pressioni per avere dei rapporti sessuali. A fronte del suo rifiuto, Franca
le ha detto di raggiungerla in una abitazione a Battipaglia. Qui è stata
costretta a pagare 10 euro a notte più un rimborso di 60 euro per il viaggio.
Qualche giorno dopo, la sig.ra Eva è stata inviata da Franca a lavorare
presso un ristorante in provincia di Salerno; qui Eva ha lavorato per 32
giorni dalle 8.30 del mattino fino alle 2/3 di notte con una sola pausa di 2 ore
e senza alcun giorno di riposo. Dormiva in un container con il tetto
danneggiato, senza lenzuola, né coperte. Inoltre, anche qui subisce forti
pressioni da parte del proprietario del ristorante che esige delle prestazioni
sessuali in favore suo e di altri clienti. A tal fine, un altro dipendente (un
ragazzo ucraino) è stato incaricato di spiegarle quello che avrebbe dovuto
fare e che non era possibile sottrarsi, data la pericolosità del proprietario del
ristorante. La sig.ra Eva ha così chiamato la Franca e dopo aver dovuto
firmare una scrittura privata in italiano (probabilmente una quietanza di
pagamento), ha ricevuto 150 euro (come corrispettivo dei 32 giorni di lavoro)
ha fatto ritorno con Franca a Battipaglia. Quando Livia, Eva e Goran si sono
ritrovati insieme a casa della sig.ra Franca, avendo ormai compreso il
sistema di sfruttamento posto in essere dalla donna ucraina, hanno deciso di
scappare. Sono giunti a Napoli e hanno chiesto aiuto prima alla Caritas,
dunque a una associazione di Ucraini e infine alla Cooperativa Dedalus, che
ha attivato a loro favore un progetto di protezione sociale per vittime di grave
sfruttamento ai sensi dell’art. 18 del D.lgs 286/98.
La storia di Sergey.
Sergey ha 31 anni ed è nato in Russia; il ragazzo ha vissuto una storia
molto simile seppur autonoma rispetto a quella sopra descritta. Più
precisamente, anche lui ha risposto a un annuncio di un'agenzia di viaggi e
servizi, che prometteva di organizzare in Italia un viaggio a scopo lavorativo,
con un contratto di lavoro che gli avrebbe assicurato uno stipendio di
750/1000 euro mensili. Ha dunque pagato 1200 euro e in cambio l’agenzia
gli ha fornito il visto di ingresso, il biglietto per raggiungere Napoli e il
contatto di Franca (la stessa donna ucraina protagonista dei casi poc'anzi
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riportati), che lo avrebbe accolto, ospitato e accompagnato alla sede del
lavoro. E’ arrivato a Napoli in autobus, ha effettuato il viaggio con una
donna russa che aveva al suo pari riposto all’annuncio, sono stati accolti da
Franca, in compagnia di un uomo italiano. Successivamente, i due sono stati
condotti nell’abitazione di un anziano signore italiano e hanno dovuto pagare
20 euro per dormire e 25 euro come rimborso benzina. Il giorno dopo, sono
stati condotti ad Agerola (NA), dove hanno iniziato a lavorare presso un
maneggio, dietro la promessa di ricevere una retribuzione pari a 25 euro
giornalieri. Il lavoro consisteva in mansioni di pulizia del maneggio con ritmi
serratissimi e pochissimo riposo giornaliero. Dormivano in una sorte di
container, senza acqua né bagno. Il padrone del maneggio ha iniziato quasi
subito a maltrattarli, a causa di una loro presunta inefficienza sul lavoro.
Sergey allora ha deciso di telefonare a Franca per dirle delle condizioni
disumane del lavoro, ma quest’ultima è venuta a prendere solo la donna,
intimandogli di continuare a lavorare nel maneggio e di resistere ancora. Nel
successivo mese e mezzo, la sig.ra Franca non ha più risposto alle sue
telefonate. Durante questo periodo, gli sono stati rubati tutti i documenti che
aveva lasciato nel container (il diploma, i biglietti del viaggio, etc.) salvo il
passaporto (che portava sempre con sé). Il suo "datore di lavoro", allo scopo
di trattenerlo il più possibile, lo ha costantemente minacciato di chiamare la
polizia e di farlo arrestare in quanto straniero con un visto scaduto. Il
ragazzo veniva costretto a lavorare anche con la febbre alta.
Dopo un mezzo e mezzo, il lavoro era diventato sempre più pesante e così
anche le minacce del padrone del maneggio. Un giorno, a fronte della sua
dichiarazione di volere immediatamente andare via, ha ricevuto pesanti
minacce; impaurito è riuscito a scappare e, dopo aver dormito all’aperto, è
passato nel container a prendere i suoi effetti personali ed è fuggito via.
Giunto a Napoli, grazie ad una associazione di Ucraini è entrato in contatto
con la Cooperativa Sociale Dedalus, con cui ha intrapreso un percorso di
protezione sociale per vittime di grave sfruttamento di cui all’art. 18 del D.lgs
286/98.
57
3.6
Lavoratori truffati.
I raggiri ai danni dei e delle migranti.
L’attuale legislazione, insieme ad alcuni interventi straordinari (come le
sanatorie) che in fin dei conti si rivelano essere strutturali, sembrano avere
non poche responsabilità nel creare situazioni in cui si inseriscono singoli ed
organizzazioni che, ben conoscendo le falle del sistema, lucrano alle spalle dei
lavoratori migranti. Emergono legami truffaldini tra imprenditori, studi di
commercialisti e procacciatori di contratti falsi, che a loro volta sono migranti
con regolare permesso e soggiornanti da lunghi periodi sui territori in
questione. In alcuni casi, proprio il riconoscimento di questo legame, ha
portato alcuni lavoratori alla denuncia e alla possibilità di ottenere un
permesso di soggiorno per motivi di giustizia.
Le truffe si legano ai meccanismi di regolarizzazione/emersione e alla
disinformazione esistente tra i lavoratori a tal riguardo. Se da un lato ci sono
responsabilità istituzionali (poco è stato fatto per rimuovere alcune
circostanze che sono all’origine di queste truffe ai danni degli immigrati),
dall’altro lato si osserva la forza della disperazione di molti lavoratori
migranti, che letteralmente le provano tutte pur di ottenere un permesso di
soggiorno. Addirittura, ci sono casi di persone già vittime di truffa nel 2009,
cha hanno subito truffe analoghe nel 2012, lavoratori che, in assenza di
alternative, si rivolgono alle stesse persone che li avevano truffati negli anni
precedenti pur di perseguire una illusoria emersione.
Quindi, lo sfruttamento dei lavoratori parte da lontano e si manifesta non
solo come sfruttamento lavorativo vero e proprio, ma anche attraverso la
messa in opera di strategie e azioni volte ad estorcere loro danaro. Si va dal
semplice pagamento di interposte persone al fine di ottenere informazioni e
contatti con i datori di lavoro, fino all'esistenza di reti di soggetti che, ad
esempio nel caso dei lavoratori marocchini, all’uscita del decreto flussi
contattano le persone direttamente nel paese di origine, promettendo un lavoro
e un regolare permesso in cambio di una certa cifra. Ottenuto il nulla osta (con
la complicità di aziende spesso inesistenti), il lavoratore deve sborsare
ulteriori soldi, per un ammontare che va dai 4.000 agli 8.000 euro. Una volta
in Italia, poi, al lavoratore viene chiesto altro danaro per perfezionare l’iter
della regolarizzazione e, se il migrante non ha più una disponibilità
economica, viene a strutturarsi un debito che verrà estinto attraverso l’attività
lavorativa gratuita, presso una determinata impresa.
Ma la casistica delle truffe ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici
migranti può essere molto eterogenea. Ad esempio, una dinamica forse più
tollerata dai lavoratori migranti e riscontrabile soprattutto nel lavoro agricolo
riguarda la possibilità di entrare in possesso di un contratto di lavoro
(mediamente della durata di una cinquantina di giornate di lavoro) appena
utile ad ottenere un permesso della durata di 6 mesi; ovviamente, nella
maggior parte dei casi, soprattutto quando non si trova un datore disponibile a
regolarizzare anche solo in parte i propri lavoratori, diventa necessario servirsi
dell'operato di un intermediario (spesso gli stessi caporali etnici) che, grazie
alla conoscenza del sistema e ai numerosi contatti con datori di lavoro (spesso
anche con pseudo-aziende truffaldine disposte ad assumere senza far lavorare
nessuno), fa ottenere un contratto dietro laute ricompense. Quella appena
descritta è una dinamica che per alcuni lavoratori agricoli può ripetersi una
volta ogni sei mesi; non solo comporta l'esborso di denaro ma aumenta in
maniera esponenziale la dipendenza e la subalternità dei lavoratori rispetto
alle figure degli intermediari e dei caporali; l'alternativa è rimanere in una
58
situazione di irregolarità, a rischio di essere espulsi. La circostanza per cui i
lavoratori "comprano" un contratto di lavoro fittizio con l'unico scopo di
ottenere una regolarizzazione della propria presenza sul territorio, nonostante
si lavori già ma a nero, sono diffuse anche in altri ambiti oltre l'agricoltura e
non sempre prevedono l'intermediazione di un connazionale o di un caporale.
Infine, sono molto diffuse le compravendite di tutta una serie di "prestazioni"
che vanno oltre l'ottenimento di un contratto di lavoro, quali gli
accompagnamenti agli sportelli e ai servizi pubblici, le dichiarazioni di
ospitalità, l'inoltro del kit di soggiorno per attesa occupazione, il nulla osta per
ricongiungimento familiare e così via.
A seguire riportiamo alcuni casi relativi alle truffe a danno di lavoratori e
lavoratrici migranti provenienti dal Marocco. Si tratta di storie molti simili tra
di loro; la partenza dal Marocco avviene sempre dopo la promessa di un
ingresso irregolare, un lavoro e un alloggio. L'arrivo in Italia corrisponde
sempre con la scoperta della truffa subita, con l'irreperibilità dei datori di
lavoro e con la disperazione di aver sborsato importanti somme di denaro per
ritrovarsi clandestini e senza lavoro.
Occorre inoltre rilevare che le truffe subite da questi/e migranti possono
rappresentare uno spiacevole trampolino di lancio verso una spirale di
sfruttamento; ritrovarsi, infatti, in terra straniera, con pochi contatti, senza
conoscere la lingua e il territorio, con la necessità di lavorare per fare reddito
(in alcuni casi per saldare il debito contratto con gli intermediari), espone ad
elevati rischi di sfruttamento. Allo stesso tempo, come emerge dalle storie che
presentiamo di seguito, spesso sono proprio le reti di connazionali che si
attivano sul territorio di destinazione a rappresentare dei paracadute, offrire
accoglienza, contatti con i datori di lavoro e consigli su come muoversi
rispetto all'apparato burocratico e legale.
La storia di Mohammed
Mohammed è nato a Khourigba in Marocco ed oggi 35 anni; non è
sposato e non ha figli. Nel 2007 con l’aiuto di un connazionale che fa da
intermediario, trova un datore di lavoro italiano disposto ad assumerlo
attraverso il meccanismo del decreto flussi. Nel gennaio del 2008 parte dal
Marocco, pagando una somma di € 7.000 all'intermediario suo connazionale
che gli ha promesso un contratto di lavoro e un permesso di soggiorno una
volta arrivato in Italia.
Il viaggio vede come prima tappa la Spagna e prosegue fino a Benevento. Qui
trova appoggio dal cugino (sposato con regolare permesso di soggiorno), che
abita nel comune di Terzigno (Na).
Dopo alcuni giorni viene contattato dal datore di lavoro che gli chiede
ulteriori 1.000 € per continuare la pratica di assunzione, minacciandolo di
rispedirlo a casa se non paga e di sequestrargli il passaporto. Mohammed
non ha i soldi e non cede al ricatto del datore.
Quando viene convocato dalla Questura di Benevento per il fotosegnalamento, Mohammed racconta ai poliziotti la sua vicenda ed il ricatto
subito; successivamente, sporgerà denuncia e tre mesi più tardi ottiene un
nulla osta al rilascio di un permesso di soggiorno ex art. 18, per aver fornito
collaborazione utile allo sviluppo delle indagini e all’identificazione dei
soggetti coinvolti. L'indagine condurrà ala scoperta di una truffa ai danni di
molti altri migranti, sempre marocchini, con una situazione analoga a quella
di Mohammed.
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La storia di Karima
Karima è nata in Marocco dove attualmente vivono i suoi genitori; la
madre fa la casalinga, il padre il guardiano e il fratello di 13 anni va a
scuola. Oggi Karima ha 34 anni. Dopo aver studiato per 11 anni, Karima nel
2007 si iscrive ad un corso per modelliste che frequenta per tre mesi. Al corso
conosce una ragazza con la quale parla della sua volontà di emigrare per
cercare nuove opportunità; questa ragazza la mette in contatto con una sorta
di intermediario che, dietro pagamento, si occupa delle pratiche di
ottenimento del visto per l’Italia. Karima lo incontra e l'intermediario le
spiega che deve versargli 1000 € in anticipo e 7000 € alla consegna del visto
d’ingresso per l’Italia. L'uomo le dice che in Italia avrebbe potuto trovare
qualsiasi lavoro, lasciando intendere che se ne sarebbe occupato lui.
Karima accetta le condizioni dettate dall'intermediario, pensando che
questa sia la prassi ma non ha soldi propri, deve chiederli ai genitori. Loro
non sono d’accordo, non condividono la sua scelta, litigano ma alla fine
cedono e le danno l’intera cifra necessaria per andare in Italia.
L’intermediario nel frattempo aiuta la giovane donna nella procedura per
l’ottenimento del visto d’ingresso per lavoro stagionale e lei salda il debito,
dopo di che Il loro rapporto si interrompe definitivamente.
Dopo circa 20 giorni dall’ottenimento del visto, Karima parte con un volo
di linea da Marrakech pagato di tasca sua, e autonomamente si reca a
Milano, dove vive una sua amica connazionale che la ospita. Siamo nel
novembre 2007 e subito cerca di mettersi in contatto con l’intermediario suo
connazionale ma non ci riesce, il numero risulta disattivato. Karima non sa
che fare, come muoversi; L’amica l’informa che dai documenti risulta che il
suo datore di lavoro, una donna, risiede a Benevento.
Allora, Karima raggiunge in treno Benevento dove viene ospitata da
alcuni conoscenti dell’amica di Milano. La donna è spaesata e amareggiata
per quello che le è accaduto, non sa cosa fare, non conosce la lingua, tanto
meno il territorio. A Benevento conosce il futuro padre del suo bambino a cui
racconta l’accaduto. Resosi conto della situazione, dopo circa 1 mese
dall’arrivo a Benevento, l’uomo l’accompagna in Questura, per denunciare
l’accaduto. Nel frattempo Karima scopre di essere incinta e le viene
rilasciato un permesso di soggiorno; attualmente la donna vive con il figlio
ed il compagno in provincia di Benevento. La denuncia alla Questura le ha
fruttato il nulla osta al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 18 T.U.
Immigrazione da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di
Benevento.
La storia di Fatima
Fatima oggi ha 32 anni, viene dal Marocco dove attualmente vivono i due
genitori anziani, tre sorelle sposate e un fratello affetto da problemi
psicologici. La donna non è mai andata a scuola, ha cominciato a lavorare
che aveva appena 9 anni, facendo diversi lavori.
I genitori non lavorano e si occupano dei figli di Fatima, nati dal suo
matrimonio con un uomo da cui poi ha divorziato. Causa del divorzio sono
stati i gravi problemi di alcolismo dell’ex marito e all’atto del divorzio,
Fatima ha rinunciato anche al mantenimento dei figli che oggi hanno otto e
sei anni e vanno a scuola.
Proprio per provvedere al mantenimento dei figli, Fatima sente la
necessità di emigrare e ne parla con la madre; quest'ultima le presenta un
uomo che vive nel loro stesso quartiere e che le hanno detto la può aiutare.
Costui le dice di poterle procurare il visto per l’Italia dove può andare a
60
cercare il lavoro. Per tale intermediazione, le chiede le fotocopie del
passaporto e 6.000 Euro, di cui 1.000 da versare subito e i restanti 5.000 una
volta arrivata in Italia e solo se si fosse trovata bene e avesse trovato un buon
lavoro.
Fatima parte con il suo visto d’ingresso ma non sa quali sono le
procedure, cosa deve fare una volta arrivata in Italia e soprattutto non sa di
avere già un datore di lavoro. Prende l’autobus che la porta direttamente a
Napoli. L’intermediario non le ha detto cosa fare una volta giunta in città;
spontaneamente chiama degli amici connazionali che vivono in provincia di
Benevento che la vanno a prendere e la portano presso la loro abitazione,
dove vi rimane tre giorni.
Qui Fatima riceve il consiglio di recarsi allo Sportello Unico per
regolarizzare la sua posizione, ma lei ha paura, aspetta che l’intermediario la
chiami e le dica cosa fare, così sono rimasti d’accordo prima che lei partisse.
Tuttavia la donna non ha il suo recapito e lui si fa sentire solo tramite la
madre di lei a cui comincia fin da subito a chiedere la restante parte del
debito.
Fortunatamente, Fatima riesce a trovare quasi subito; si tratta di un
lavoro come badante giorno e notte per 500 euro al mese, presso una signora
anziana sempre in provincia di Benevento. La sua paga viene inviata tutta in
Marocco; serve a mantenere la sua famiglia e a pagare il debito contratto
con l’intermediario. Dopo circa un anno e mezzo, le abbassano la paga e
quando Fatima decide di protestare, viene cacciata in malo modo e subisce
addirittura minacce viene licenziata. Dopo pochi giorni trova un altro lavoro,
sempre come badante ma resiste appena un mese perché viene trattata
malissimo, quasi da schiava; non può né cucinare né lavarsi, né guardare la
tv, non gli viene permesso. Non appena riceve il suo stipendio, 550 Euro, va
subito via e trova lavoro in un bar ristorante, dove trova anche ospitalità
dallo stesso datore di lavoro. All’inizio deve impegnarsi solo mezza giornata,
di mattina, c’è un’altra ragazza che copre il turno pomeridiano e serale. Ma
poi le cose cambiano, l’altra ragazza va via e Fatima deve lavorare tutto il
giorno. Comincia alle dieci del mattino fino al pomeriggio tardi, poche ore di
riposo e poi vi ritorna alle 5 di sera per rimanervi fino alle 4 del mattino
successivo. È costretta a fare di tutto, serve ai tavoli, aiuta in cucina, rassetta,
si occupa del bar e guadagna solo 500 Euro mensili. Fatima è stanchissima,
non riesce a reggere questi ritmi, la paga poi non le permette di mantenere i
figli e contemporaneamente saldare il debito contratto con l’intermediario;
l'uomo, infatti, continua a tormentare sua madre chiedendole di continuo i
soldi. Così Fatima decide di recarsi in Questura per chiedere aiuto. Qui
racconta la sua storia, del debito contratto, dei maltrattamenti subiti; sporge
denuncia e riesce ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Intanto riesce a trovare un nuovo lavoro, ne ha bisogno, ma anche stavolta si
tratta di sfruttamento. Fa la badante per una donna anziana, ha poco tempo
libero, deve lavorare tutto il giorno e viene maltrattata. All’inizio pattuiscono
una paga di 500 Euro ma il figlio della datrice di lavoro le dice che le
avrebbe dato solo 400 Euro, prendere o lasciare. La donna protesta ma lui la
caccia in malo modo senza darle lo stipendio. Senza lavoro, depressa e
provata psicologicamente, l’eccessivo stress le procura una forte gastralgia
ed altri problemi di salute. Fortunatamente la denuncia alla Questura le ha
fruttato il nulla osta al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 18 T.U.
Immigrazione.
61
La storia di Nabil
Nabil ha 35 anni ed è nato in Marocco dove attualmente vivono i genitori
e 4 sorelle. Ha altri due fratelli che vivono all’estero, uno in Francia e l’altro
in Italia.
Dopo aver frequentato le scuole per sei anni, Nabil ha fatto l’apprendista
orafo presso un cugino e per un certo periodo ha anche lavorato come sarto
presso un altro cugino. Nessuno dei due mestieri appresi, però, riesce a
garantirgli negli anni una sicurezza lavorativa, per cui, verso la fine del 2007
decide di seguire le sorti dei fratelli precedentemente emigrati all’estero.
Un amico di un suo familiare gli presenta una persona che, dietro
pagamento, si impegna a svolgere tutte le pratiche per l’ottenimento di un
visto per l’Italia dove, assicura a Nabil, avrebbe potuto scegliere liberamente
la città in cui stare e il lavoro che desiderava fare. Nabil gli versa un acconto
di 1000 €, gli consegna le fotocopie del passaporto e, a visto ottenuto, gli
versa gli altri 8000 € pattuiti. Nabil non è solo in questa avventura, altre due
persone sue connazionali hanno pagato e ottenuto dalla stessa persona un
visto per lavoro stagionale per l’Italia e a tutti e tre è stato promesso che, una
volta giunti in Italia, sarebbero stati aiutati a trovare lavoro.
Una settimana dopo aver ricevuto il visto, Nabil parte; viaggia sempre in
autobus e arriva direttamente a Napoli, da lì si reca in provincia di
Benevento, dove risiede il fratello.
Da qui, Nabil comincia a telefonare l’intermediario, ma ai numeri in suo
possesso rispondono altre persone. Il ragazzo non riuscirà più a parlare con
il suo intermediario che si farà sempre negare. Nabil allora decide di
chiamare una persona che ha conosciuto durante il viaggio in autobus e che
gli aveva dato il suo numero invitandolo a contattarlo per ogni necessità;
dando un’occhiata ai suoi documenti, scopre che avrebbe dovuto svolgere
lavoro stagionale in edilizia per una ditta che si trova in provincia di
Siracusa, per cui lo accompagna allo sportello Unico competente dove
segnalano la situazione. Qui avviene un episodio inconsueto: l’addetto allo
sportello fa una telefonata e in breve tempo compare proprio l’intermediario
che Nabil non era più riuscito a contattare. Riceve il kit per la richiesta del
permesso di soggiorno, torna in Campania e da lì lo spedisce. La Questura di
Siracusa gli dà appuntamento per i rilievi fotodattiloscopici; recatosi
all’appuntamento presso Questura di Siracusa nella data stabilita, Nabil si
sente rispondere che la pratica per l’ottenimento del suo permesso di
soggiorno è bloccata: c’è un’inchiesta in corso sulla ditta che ha effettuato la
chiamata nominativa. Fatto ritorno in Campania, decide allora di recarsi alla
Questura di Benevento per far presente la situazione. La denuncia a tale
Questura gli ha fruttato il nulla osta da parte della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Benevento e, quindi, il rilascio del permesso di
soggiorno ex art. 18 T.U. immigrazione.
La storia di Amina
Amina è nata in Marocco, ha 36 anni e la sua famiglia è composta dalla
madre e da sei fratelli maschi di cui uno vive e lavora come operaio a
Vicenza, il padre è morto. E’ divorziata e ha una figlia di 10 anni che vive in
Marocco con la nonna.
Amina ha frequentato la scuola fino alla prima superiore poi non ha mai
avuto un vero lavoro. Tramite una vicina di casa, ha conosciuto un uomo che
le ha proposto di trasferirsi in Italia, promettendole che avrebbe avuto i
documenti e un buon lavoro con il quale avrebbe guadagnato 1.200 € al
62
mese. Amina, sperando di migliorare la sua condizione e crescere sua figlia
con tranquillità, ha accettato la proposta.
Con l’aiuto dei fratelli, ha pagato all’uomo prima 1000 € poi, una volta
ottenuto il nulla osta (che in realtà era per lavoro stagionale in agricoltura),
altri 3.500 €. In tutto l’uomo le aveva chiesto 6.000 € ma Amina non aveva
tutti quei soldi e sono rimasti d’accordo che, i restanti 1.500 €, li avrebbe dati
una volta iniziato il lavoro in Italia.
Sull'autobus per giungere fino a Napoli, Amina conosce una famiglia
marocchina che vive a Foggia e che offre ospitalità. Parlando con loro la
donna ha capito che il lavoro per il quale aveva ottenuto il nulla osta era a
Potenza. Si reca, dunque, all’appuntamento che l’intermediario le aveva
fissato con il datore di lavoro; quando all’appuntamento non si presenta
nessuno allora Amina prova diverse volte a chiamare l’intermediario, senza
però ottenere risposte. A quel punto Amina si è recata da sola allo Sportello
Unico per l’Immigrazione, dove ha presentato la domanda fornendo il nulla
osta e la copia del passaporto. Sbrigata la pratica è rientrata a Foggia ed il
giorno seguente ha fatto ritorno a Potenza sperando che il datore di lavoro si
presentasse, ma non è stato così.
Non sapendo cosa fare e non potendo rimanere ulteriormente a Foggia, ha
chiamato un altro ragazzo marocchino che aveva conosciuto sull’autobus che
le ha proposto un lavoro come domestica presso una famiglia di Benevento
dove lui abitava. Amina accetta la proposta e si trasferisce a Benevento,
lavorando per un anno a nero presso una coppia di anziani. Dopo un anno ha
cambiato lavoro poiché le era stata promessa una regolarizzazione che non
c’è mai stata.
Ad un certo punto ha saputo che l’intermediario che le aveva promesso il
lavoro che non ha mai ottenuto, era andato più volte a casa della madre in
Marocco minacciandola e chiedendo il resto dei soldi che Amina gli avrebbe
dovuto pagare. L’uomo ha desistito solo dopo che la famiglia di Amina ha
minacciato di denunciarlo. A questo punto, Amina si recherà in Questura per
denunciare la truffa subita. Dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno per
motivi umanitari (salute) otterrà il nulla osta da parte della Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Benevento per il rilascio del permesso di
soggiorno ex art. 18 T.U. immigrazione.
3.7
Ai margini del lavoro.
Lo sfruttamento nell'accattonaggio e nelle attività illegali.
Un discorso a parte andrebbe fatto in merito ad un’altra particolare forma
di sfruttamento, quella che, generalmente mediante il meccanismo del debito
ma anche mediante inganno o coercizione, costringe giovani migranti ad
entrare nei circuiti dell'economia illegale (soprattutto trasporto, detenzione e
spaccio di stupefacenti) o dell’accattonaggio. Questo fenomeno, che riguarda
sul nostro territorio, almeno per quanto riguarda i casi accertati,
prevalentemente giovani maschi nigeriani si lega, per molte caratteristiche
comuni, al fenomeno del raggiro che porta le giovani donne nigeriane alla
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prostituzione nei paesi ricchi. Anche per le vittime di questo tipo di
sfruttamento è prevista l’attivazione di programmi di assistenza e protezione.
Una situazione più sfumata, per certi versi difficilmente riconducibile al
fenomeno della tratta e del grave sfruttamento, riguarda i giovani rom rumeni
e bulgari coinvolti nei circuiti dell'accattonaggio. In questi casi, se esiste un
debito da restituire per il viaggio si tratta quasi sempre di piccole somme;
tuttavia, si ha notizia di giovani spinti all'accattonaggio (o in altre attività fuori
dalla legalità) per aiutare economicamente le proprie famiglie, pesantemente
indebitate con terzi per far fronte alla sopravvivenza quotidiana.
Come si è visto nel secondo paragrafo, l'accattonaggio e l'inserimento in
attività illegali risulta uno dei più recenti ambiti in cui trova finalizzazione la
tratta di esseri umani, affiancandosi a quelli maggiormente conosciuti, ovvero
la tratta a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo. Dall'analisi dei dati
relativi alle vittime accertate in questi differenti ambiti di sfruttamento,
possiamo trarre alcune deduzioni significative. Infatti, se le vittime di
sfruttamento sessuale risultano essere prevalentemente donne e con età che
raramente superano i 30 anni, nell'ambito dello sfruttamento lavorativo si
evidenzia, invece, un maggiore equilibrio tra i sessi (con una prevalenza del
sesso maschile) e tendenzialmente le vittime risultano meno giovani. Nello
sfruttamento nell'accattonaggio e nelle economie illegali, infine, si registra
soprattutto la presenza di migranti molto giovani, talvolta minori non
accompagnati e tendenzialmente di sesso maschile.
A tale riguardo, in questa sede si riporta la storia di un ragazzo che han
denunciato questo tipo di sfruttamento ed è stato inserito in un programma di
protezione. Come emerge da questa storia che ci accingiamo a presentare,
spesso lo sfruttamento parte da lontano; non solo è una condizione vissuta nei
paesi di origine ma interessa i migranti anche nelle fasi del viaggio per
l'Europa; viaggio che può durare anche a lungo. Poi, occorre rilevare che nel
caso dei nigeriani, spesso, il reclutamento nei circuiti dello sfruttamento (in
ambito lavorativo, sessuale o nelle economie informali ed illegali) si serve
non solo dello stato di necessità della vittima e del meccanismo
dell'indebitamento che procura i soldi per il viaggio; ad essi, infatti, si
affiancano pratiche magico-religiose radicate nelle culture locali di
provenienza che servono a vincolare ulteriormente la vittima ai suoi sfruttatori
(questo meccanismo appare particolarmente evidente nelle storie delle donne
nigeriane finite nei circuiti dello sfruttamento sessuale).
La storia di Peter.
Peter nasce in Nigeria, nel Delta State, nel 1983. È il primogenito di una
famiglia composta da quattro figli, di cui lui è l’unico maschio. Quando perde
il padre in giovanissima età, Peter rimane a vivere con le tre sorelle e la
madre e deve abbandonare la scuola superiore dopo il secondo anno per
lavorare (come piastrellista) ed aiutare economicamente la famiglia. Di li a
poco farà conoscenza del fratello maggiore di un suo caro amico; l’uomo
residente in Italia ed in Nigeria per una breve vacanza, rendendosi conto
della condizione di estrema precarietà economica di P. e della sua famiglia
gli propone di andare in Italia dove con facilità, anche grazie alle sue
conoscenze, potrà trovare un buon lavoro di piastrellista.
Come compenso per l’aiuto e per tutte le spese necessarie ad organizzare
il viaggio, il fratello dell’amico chiede una cifra di 54.000 Naira (meno di
1.000 euro). P. accetta solo dopo essersi confrontato con la famiglia; si fida
dell’uomo che gli fa da intermediario per raggiungere il lavoro in Italia, sia
perché fratello dell’amico, a cui è molto legato, ma anche perché
64
informandosi viene a sapere che l’uomo effettivamente si è fatto una buona
posizione in Italia. In seguito, per assicurare il pagamento, P. e la sua
famiglia vengono convocati presso il tempio di uno stregone che sottopone il
ragazzo ad un rito voodoo. A questo punto P. tentenna e chiede al suo amico
il motivo di questo rito; il giovane lo rassicura spiegandogli che è solo un
modo per dimostrare la propria buona fede. Al ragazzo vengono prelevati
peli da varie parti del corpo,pezzi di unghie e gli viene fatto giurare sulla sua
vita e su quella dei membri della sua famiglia di pagare il debito.
Successivamente, P. viene presentato ad un’altra persona che dopo
qualche giorno, insieme ad altri tre ragazzi, lo accompagna nel viaggio verso
la Libia. Iniziano il viaggio in auto e per raggiungere il paese Nord africano,
passano per il Niger, attraversando il deserto. In totale il viaggio per arrivare
in Libia dura 2 mesi. Due settimane per arrivare in Niger, dove rimangono
altre quattro settimane in un ghetto (connection house), ovvero una grande
abitazione gestita da un uomo nigeriano di etnia ibo, dove nei fatti si fermano
tutti quelli che provano il viaggio verso la Libia per poi imbarcarsi per
l’Italia e l’Europa. Durante il mese in Niger P. trova piccoli lavoretti e fa il
lavapiatti alla connection house ed in cambio gli viene offerto da mangiare.
Una volta arrivati in Libia, si fermano in un altro ghetto, simile a quello
utilizzato per fermarsi in Niger. Qui, quasi subito, lui e i suoi tre compagni di
viaggio vengono arrestati e tenuti in una sorta di centro di identificazione
(deportation camp) per circa tre mesi. Questi mesi di prigionia sono stati un
inferno, dal momento che i “detenuti” venivano maltrattati fisicamente ed
insultati. In questo luogo P. ha visto morire molte persone.
Un giorno viene chiamato da un colonnello che lavorava in questo centro
per farsi lavare l’auto. L'uomo gli dice di volere aiutarlo ad uscire da quel
luogo. Il ragazzo sa che i soldi sono, generalmente, l’unico modo per uscire
da quel posto e dichiara subito di non avere nulla con sé. L’uomo gli chiede
se sa svolgere qualche lavoro e P. gli risponde di saper fare il muratore;
allora il colonnello propone in cambio a P. di completare la sua abitazione in
costruzione. P. gli chiede di poter portare con sé i suoi compagni di viaggio:
richiesta che viene accettata. I lavori di ristrutturazione durano cinque mesi,
durante i quali vengono trattati bene.
Terminata la ristrutturazione, dopo qualche mese i tre vengono messi in
contatto con chi organizza il viaggio in mare verso l’Italia. Quasi due anni
dopo la partenza, P. sbarca a Lampedusa e dopo due giorni viene trasferito al
CIE di Foggia dove rimane per due mesi.
Qui chiede asilo politico che non viene accolto e viene fatto uscire con il
foglio di via. Appena uscito chiama l’uomo che aveva organizzato il viaggio,
con cui era rimasto sempre in contatto telefonico, il quale gli dice di prendere
il treno per Napoli dove si incontrano alla stazione. Subito P. viene
accompagnato a Castelvolturno (Ce), dove l’uomo vive con la sua ragazza ed
altri ragazzi. Il giorno stesso del suo arrivo l’uomo gli comunica che il suo
debito da poco meno di 1.000 euro, causa la lunghezza del viaggio e del
fermo cui era stato sottoposto, era aumentato a 30.000 euro. Così come, altra
sorpresa, per la restituzione del debito gli propone tipi di attività
completamente diversi da quelli prospettati. Le proposte sono: “sell market”
(vendita al mercato), prostituirsi (l’uomo gli avrebbe procurato i contatti) o
chiedere l’ elemosina.
P. all’inizio rifiuta, prova a ribellarsi ma dopo poco capisce che non vi è
alternativa. Inizialmente decide di “vendere”, questa è l’espressione gergale
che usa il suo sfruttatore, convinto che si tratti di vendere degli oggetti per
strada. L’uomo lo accompagna all’appuntamento con la persona che avrebbe
65
dovuto introdurlo al mestiere, ma questa non si presenta in quanto poche ore
prima è stata arrestata. Chiedendo spiegazioni P. si rende conto che in realtà
il “mercato” in cui dovrebbe operare è quello della vendita e del trasporto
della droga. A quel punto, dopo averci pensato P. rifiuta e non volendo
prostituirsi decide di accettare di elemosinare per strada, come d’altra parte
fanno gli altri ragazzi ospitati nella casa. Un tipo di attività che diventa
subito insopportabile per P. che si vergogna moltissimo. Così come sempre
più pesanti le continue angherie e i maltrattamenti fisici e psicologici che è
costretto a subire dal suo sfruttatore. Guadagna 30/35 euro al giorno. Non
tiene niente per sé, dà tutto all’organizzazione per potersi liberare il più
presto possibile. Un giorno però P. viene a sapere che la madre ha avuto un
grave incidente in Nigeria e che per poter garantire cure adeguate c’è
bisogno di pagare. P. chiede un prestito allo sfruttatore ma questo rifiuta.
Allora inizia a non dare più niente per restituire il debito ma manda tutti i
soldi a casa. Dopo due settimane, l’uomo che lo sfrutta, infastidito per tale
atteggiamento, lo picchia.
Dopo poco la madre muore e P. si convince che la madre sia morta per
colpa del rito voodoo; contemporaneamente, avendo perso la persona a lui
più cara decide di non pagare più e di scappare dal suo sfruttatore. Nei due
anni che ha lavorato in Italia è riuscito a restituire 20.000 dei 35.000 euro;
ora, nonostante la paura di eventuali ritorsioni, vuole tornare a casa per
raccontare a tutti quello che gli è successo.
66
4. Conclusioni
Gli interventi sulla tratta e lo sfruttamento lavorativo, tra complessità e
sommerso. Problemi aperti e indicazioni di policy.
L’universo che abbiamo delineato nel presente rapporto è un contesto
articolato ed estremamente complesso che richiede continui sforzi di
definizione. Quindi, un primo problema che si pone è quello di definire degli
strumenti di lettura e, più nello specifico, gli indicatori che supportino chi
deve operare nella corretta definizione delle situazioni, pena il concreto
rischio di porre in essere interventi scorretti, confusi, scarsamente efficaci. In
altre parole, senza indicatori efficaci si corre il rischio di avere un approccio
superficiale, errato e controproducente, che tende a leggere tutta l’irregolarità
e tutto il sommerso come tratta o come lavoro gravemente sfruttato e/o paraschiavistico (e viceversa).
Le difficoltà nell’individuazione dei casi di grave sfruttamento lavorativo
risiedono anche nel fatto che, in tema di lavoro ed in maniera trasversale ai
principali sbocchi lavorativi della manodopera migrante, come si è visto,
risulta facilmente constatabile la presenza diffusa di indicatori che attestano
forme di sfruttamento, anche grave. Se coesistono alcuni indicatori (orario di
lavoro sopra le 8 ore, paga sotto la soglia di povertà, scarsa o nulla
accessibilità ai servizi, bassissima o nulla capacità contrattuale), si può
ritenere potenzialmente alto il rischio di grave sfruttamento ai danni del
lavoratore tuttavia, queste condizioni di lavoro caratterizzano quasi in maniera
strutturale il lavoro dei e delle migranti. Inoltre, se si prendono in
considerazione le ultime tendenze in atto, ad esempio le conseguenze della
crisi economica che sta attraversando il Paese, occorre constatare
l'esasperazione delle già dure condizioni di lavoro riservate ai migranti:
aumentano per tutti i rischi di sfruttamento, si complicano i percorsi, fino ad
arrivare ad alcuni contesti in cui il lavoro viene considerato addirittura come
un "dono", per cui si accettano qualsiasi condizioni e paghe incredibilmente
basse pur di lavorare. In questi casi lo sfruttamento sui luoghi di lavoro
potrebbe sembrare “scelto” dai migranti, ma altro non è che una volontarietà
indotta (o imposta) dal funzionamento del mercato del lavoro. La qualità e
l’esigibilità dei diritti sui luoghi di lavoro sono sempre più appiattite verso il
basso, creando i presupposti per la tratta e il grave sfruttamento della
manodopera.
Se ci sono difficoltà oggettive a considerare questo panorama così vasto
tutto all’interno di un meccanismo di tratta a fini di grave sfruttamento
lavorativo, tuttavia le situazioni in cui compaiono violenza, coercizione fisica
e psicologica ai danni del lavoratore, andrebbero affrontate con un altro
registro rispetto al quadro generale dello sfruttamento che riguarda il lavoro
migrante. Si fa riferimento a situazioni in cui i lavoratori vivono restrizioni
della propria libertà e forme di coercizione; situazioni che rimangono perlopiù
sommerse, lontane da una dimensione pubblica e visibile, anche perché gli
strumenti previsti dagli articoli 13 e 18 non sono applicabili (o non vengono
applicati per difetti di interpretazione) a tutte le gradazioni dello sfruttamento
sui luoghi di lavoro.
Gli interventi oggi in atto sembrano ancora caratterizzarsi come
sperimentazioni in chiaro-scuro, dove, in molti casi, forte è il paradigma
dell’ambiguità, dove è difficile definire con certezza cornici, dinamiche,
fattori di spinta e peso specifico dei diversi elementi che di volta in volta
determinano le situazioni di lavoro para-schiavistico e grave sfruttamento.
67
Individuare, distinguere e affrontare nei casi individuali le fattispecie di tratta,
grave sfruttamento o truffa, risulta complicato anche dal fatto che spesso tali
condizioni si presentano intrecciate e connesse tra loro.
Vanno quindi individuati indicatori e chiavi interpretative che permettano
una corretta definizione dei contesti e delle specifiche situazioni, ma rimane
fondamentale che tale lavoro avvenga in modo coordinato e condiviso tra tutti
gli attori che intervengono a diverso titolo sul fenomeno (forze di pubblica
sicurezza, sindacati, istituzioni, centri per l’impiego, associazioni e soggetti
del privato sociale, enti locali, ecc.). Quindi, risulta necessaria una formazione
reciproca e interdisciplinare ispirata a strategie multi-agenzia, con attenzione
alle diverse e complesse competenze richieste dall'approccio al fenomeno
(conoscenze linguistiche, psicologiche, sociologiche, oltre che giuridiche).
Altrimenti, il rischio è di muoversi in modo confuso, utilizzando metodi
troppo diversi e a volte in contraddizione uno con l’altro, generando, tra
l’altro, diffidenza e scarsa fiducia proprio nelle vittime che si vorrebbero
tutelare e supportare nei percorsi di emersione e/o di uscita dai circuiti dello
sfruttamento. D'altronde, secondo gli operatori del settore la generale
difficoltà a costruire relazioni inter-istituzionali, in altre parole a fare rete, sui
temi dello sfruttamento lavorativo, rallenta e rende poco coerenti ed efficaci
gli interventi.
Si può sostenere che, rispetto alle prassi consolidate in tema di
sfruttamento sessuale, per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo sono
presenti numerosi ostacoli nella realizzazione dei programmi di assistenza e di
protezione sociale in assenza di denuncia da parte della vittima. Come si è
anticipato in premessa, occorre constatare la diversa e minore esperienza che
nel nostro Paese (e nel contesto europeo) si è maturata nei confronti
dell’analisi e dell’intervento sulla tratta a fini di grave sfruttamento lavorativo
rispetto a quella, più forte e condivisa, strutturata sul tema del traffico
finalizzato all’inserimento coatto nei circuiti della prostituzione. Inoltre, come
rileva nei suoi rapporti l'Oil 13, nonostante la crescente importanza riservata al
contrasto della tratta di esseri umani, risulta diffusa la sottovalutazione del
ruolo chiave svolto dagli ispettori del lavoro nello sradicamento e la
prevenzione del lavoro forzato, compresa la tratta di esseri umani. Del resto,
poiché si tratta di crimini gravi, gli Stati e altri gli attori coinvolti sono stati
inclini a ritenere che il lavoro forzato o paraschiavistico e la tratta, vadano
combattuti con l’applicazione di leggi e procedure contro la criminalità,
piuttosto che attraverso le leggi sul lavoro, l’amministrazione ordinaria e la
giustizia.
Come se non bastasse, occorre porre in rilievo i problemi aperti cui si è
fatto riferimento nella premessa del presente rapporto, circa l'illegittima
restrizione del campo di applicazione della direttiva europea in materia di
sfruttamento e lavoro sommerso dei migranti privi di titolo di soggiorno,
avvenuta con il Decreto legislativo 109/2012. Le conseguenze di queste scelte
del legislatore nazionale sul piano dell'emersione del lavoro sfruttato sono
notevoli; inoltre, occorre evidenziare la minimizzazione del fenomeno
contenuta nell'ambito della relazione tecnica che ha accompagnato il d.lgs in
questione, dove si afferma che la casistica dello sfruttamento lavorativo è
assai trascurabile rispetto al più diffuso fenomeno dello sfruttamento sessuale.
Come
evidenziato
dall'Associazione
per
gli
Studi
Giuridici
13
Si veda Il lavoro forzato e la tratta degli esseri umani, Oil, 2010
68
sull’Immigrazione 14, le valutazioni effettuate in premessa del d.lgs 109/2012
non tengono conto dell'inefficacia degli strumenti sinora utilizzati nel corso
degli interventi ispettivi per l'emersione della casistica relativa allo
sfruttamento lavorativo dei così detti clandestini; infatti, non sono presenti
adeguati meccanismi di agevolazione delle denuncie e delle collaborazioni,
tantomeno strumenti informativi rivolti all'emersione delle vittime sui luoghi
di lavoro, a fronte del noto deterrente rappresentato dalla sanzione penale
della presenza irregolare di cui all'art. 10 bis del T.U. Imm. (cd. reato di
clandestinità). Come conseguenza di questo stato di cose, attualmente
sussistono elevate probabilità che le vittime di grave sfruttamento, possano
essere rimpatriate e/o espulse, senza ricevere le dovute informazioni sui diritti
esercitabili e senza garantire loro nemmeno il c.d. “periodo di riflessione”. La
tutela delle vittime, quindi, quando e se viene esercitata, rischia quasi sempre
di esserlo in extremis in sede di impugnazione dell’espulsione o nelle more
del trattenimento presso i CIE.
Allo stesso tempo, non si è ritenuto opportuno spiegare che, la più alta
incidenza della casistica relativa allo sfruttamento sessuale, va ricondotta
anche all'ampio e diffuso utilizzo in tale ambito del permesso di soggiorno per
motivi di protezione; possibilità, invece, assai rarefatta quando prendiamo in
considerazione lo sfruttamento lavorativo 15.
Come si è visto, ai fini della concessione del permesso di soggiorno alle
vittime di grave sfruttamento lavorativo, non vengono presi in considerazione
gli indici di sfruttamento contenuti nel comma 2 dell'art. 603 bis del codice
penale, bensì l’art 22 comma 12 bis T.U. Imm. vincola tale rilascio a
specifiche e discutibili circostanze alternative tra di loro (l'impiego da parte
dello stesso datore di lavoro di più di tre lavoratori privi di permesso di
soggiorno; l'impiego di minori in età non lavorativa; l'esposizione dei
lavoratori a situazioni di pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità). A
tal riguardo, risulta possibile apportare alcuni rilievi critici; innanzitutto,
l'impiego di minori in età non lavorativa, può essere tutelato sotto il profilo
del permesso di soggiorno anche a prescindere dalla denuncia del datore di
lavoro; poi, per quanto riguarda l'esposizione dei lavoratori a situazioni di
pericolo, non è sufficiente la semplice constatazione delle violazioni delle
norme in materia di sicurezza sul lavoro, ma sono necessarie prove
difficilmente acquisibili (anche perché richiedono un accertamento che
solitamente avviene dopo la denuncia del lavoratore) e soprattutto esposte a
forte discrezionalità. Quindi, la verifica degli indici di sfruttamento utili ai fini
del rilascio del permesso di soggiorno si riduce sostanzialmente alla prova
dell'impiego presso lo stesso datore di lavoro di almeno quattro lavoratori
privi di permesso di soggiorno (Paggi, 2012), ma è evidente che il numero di
lavoratori stranieri irregolari impiegati presso lo stesso datore di lavoro, non
appare di per sé un elemento idoneo a qualificare la gravità dello
sfruttamento. Anzi, come si è detto in precedenza, le peggiori forme di
sfruttamento possono riguardare lavoratori in una condizione di quasi totale
isolamento. In questo modo, lo sfruttamento che ha luogo nel lavoro
domestico o nelle piccole imprese sub-appaltatrici è completamente escluso
dal campo di applicazione del sistema di tutela delle vittime. Infine, il dlgs
14
Si veda il documento elaborato dall'Associazione Italiana Studi Giuridici, in data
14.5.2012 e pubblicato sul sito www.asgi.it
15
Infatti, dal 1998 su un totale di 700 casi registrati come sfruttamento lavorativo,
sono stati rilasciati 117 permessi di soggiorno ex art.18 TU, come evidenziato in
M.Paggi, 2012
69
109/2012 non tiene conto dell'ampia nozione di datore di lavoro adottata in
sede comunitaria; una definizione che include figure attive nella gestione del
rapporto di lavoro quali il "reclutatore", anche quando operante all'estero e il
"caporale", da considerarsi come autori delle violazioni al pari del datore di
lavoro.
Come si è visto, in agricoltura e in edilizia lo sfruttamento operato da parte
degli intermediari di manodopera, i cosiddetti caporali, è un tema centrale. Se
in alcuni casi la figura del caporale (spesso della stessa nazionalità dei
lavoratori) può essere ritenuta il veicolo dello sfruttamento, in talune
circostanze, i servizi resi dal caporale diventano necessari (e talvolta graditi)
per trovare lavoro, raggiungere fisicamente i campi o i cantieri, e così via; in
altre parole, come è stato largamente argomentato nella stesura di questo
rapporto, fenomeni come il caporalato si inseriscono e si radicano nei vuoti
istituzionali, in assenza di un operato che garantisca ai lavoratori
l'intermediazione (ed i servizi annessi) con i datori di lavoro.
In ogni caso, l’intermediazione di manodopera operata dai caporali, fa si che
non si instauri un rapporto diretto tra lavoratori e datore; spesso i lavoratori
scontano la mancata conoscenza dell’identità e delle generalità del proprio
datore di lavoro, quindi l’impossibilità di intraprendere una eventuale vertenza
di lavoro.
Il decreto legislativo 109/2012 non dimentica di affrontare il fenomeno del
caporalato, venuto alla ribalta soprattutto per quanto riguarda le condizioni del
lavoro bracciantile nelle campagne meridionali. Ma, stando ai primi dati resi
noti, il bilancio del decreto che avrebbe dovuto segnare una svolta nella lotta
contro il caporalato è negativo; le denunce sono state poche decine e vi sono
una serie di lacune. Infatti, il decreto non prevede un meccanismo che
permetta al lavoratore di restare in Italia senza essere espulso fino a quando
venga concesso il permesso di soggiorno; inoltre, è prevista la concessione del
permesso solo quando lo sfruttamento avviene nei confronti di quattro o più
stranieri non regolari o quando lo sfruttamento arriva ad un punto tale da
mettere in pericolo la vita del lavoratore. Rispetto alla denuncia, non
sussistendo una certezza di ottenimento di benefici per il lavoratore, si
riscontra una scarsa volontà di intraprendere questo percorso. I lavoratori che
richiedono il sostegno per una vertenza, si ritrovano poi nella quasi
impossibilità di reperire i testimoni necessari per la denuncia, dal momento
che si temono ritorsioni e che il testimone corre il rischio di perdere il suo
lavoro. Date le circostanze, quando un lavoratore si lascia convincere a
denunciare una truffa o una situazione di sfruttamento, appare evidente che
allo stesso lavoratore vanno garantite alternative lavorative e di accoglienza a
seguito della denuncia.
Una situazione analoga riguarda coloro che usufruiscono dei programmi di
protezione sociale previsti dall’articolo 18 T.U. Imm., che possono ottenere
un permesso di soggiorno per motivi umanitari; infatti, quando occorre
convertire questo permesso in un permesso per motivi di lavoro, il rischio rivittimizzazione è alto dal momento che, molto spesso, si finisce per subire le
stesse o altre forme di sfruttamento, pur di mantenere un titolo di soggiorno
valido.
Se si è visto che il lavoro nero e lo sfruttamento ormai non riguardano più
solo i lavoratori senza permesso di soggiorno; uno dei problemi di cui da anni
si discute, è quello relativo ad una legislazione che vincola in maniera
stringente il lavoratore al datore di lavoro, dando vita ad un rapporto da cui si
dipende per rinnovare il permesso di soggiorno o per avviare le pratiche per il
ricongiungimento familiare, per accedere alle cure e così via. L’attuale
70
legislazione risulta troppo sbilanciata a favore del datore di lavoro,
assegnandogli un potere eccessivo nei confronti del lavoratore che, ricattabile,
si ritrova esposto a potenziali situazioni di grave sfruttamento. Poi, la
burocrazia e le procedure necessarie per la regolarizzazione rendono, come si
è visto, i lavoratori facilmente soggetti a truffe reiterate di vario genere, per
cui si conviene che occorre snellire la burocrazia e rendere più facile e veloci
le emersioni, vincolando nel complesso meno il lavoratore al datore di lavoro,
rendendolo meno ricattabile. A tal proposito, s’impone l'urgenza, da tempo
dibattuta, di un sistema razionale e realista per la regolazione dei nuovi
ingressi di cittadini extracomunitari nel territorio dello Stato per motivi di
lavoro, che consenta anche l’incontro diretto sul territorio dello Stato tra la
domanda e l’offerta di lavoro e che prevenga situazioni di lavoro in condizioni
di sfruttamento e di soggiorno irregolare.
Gli accessi ispettivi condotti dalla Direzione Provinciale del Lavoro di
Napoli confermano quanto esposto sopra, evidenziando la “normalità” del
lavoro nero nelle attività produttive che vedono un massiccio ricorso a
manodopera immigrata, anche tra chi ha un regolare permesso di soggiorno.
Nel corso delle ispezioni, i lavoratori nutrono diffidenza nei confronti degli
ispettori, ragion per cui non dichiarano nulla, tanto meno denunciano
situazioni di sfruttamento o violazioni dei diritti, anche perché temono
ritorsioni da parte del datore di lavoro. A tal proposito, per aumentare le
capacità di azione delle DPL, si ritiene utile implementare e accompagnare gli
accessi ispettivi con adeguate pratiche di mediazione linguistico-culturale;
spesso, infatti, in queste circostanze l’interpretariato viene realizzato con il
sostegno di altri lavoratori, se non del datore di lavoro. Condizione diffusa è
quella dei contratti part-time per lavoratori impiegati a tempo pieno e
numerosi sono gli episodi di gravi infortuni sul lavoro che sembrano colpire i
lavoratori al primo giorno di lavoro (è evidente che in questi casi ci troviamo
in presenza di episodi di regolarizzazione del rapporto di lavoro realizzati a
posteriori, solo in caso di necessità, come in occasione di infortuni o controlli
ispettivi). Inoltre, l'operato delle DPL risulta piuttosto sterile perché è molto
difficile perseguire e colpire questi datori di lavoro, dal momento che non
sempre si trovano lavoratori clandestini nel corso delle ispezioni, ragion per
cui non sono previsti procedimenti penali. A tal riguardo, uno strumento utile
per porre in essere controlli più efficaci rivolti all'emersione del lavoro nero e
gravemente sfruttato riguarda l'applicazione dei così detti controlli indiretti, in
particolare con l'uso degli indici di congruità che mettono in relazione
(laddove possibile) la produzione di un'azienda e la manodopera registrata
(eventuali incongruità segnalerebbero la presenza di sacche di lavoro
irregolare con una elevata probabilità di sfruttamento).
Un problema specifico, come si è visto, riguarda l'agricoltura e la
concessione di permessi di soggiorno per lavoro stagionale. La realtà del
lavoro stagionale rappresenta un elemento che acuisce lo stato d’insicurezza e
instabilità dei lavoratori migranti. Nel merito, la legge sembra fatta apposta
per essere raggirata, ma anche per lasciare in condizione d’irregolarità
importanti masse di lavoratori migranti impegnati nei cicli produttivi in
agricoltura. Ogni anno il governo stabilisce per decreto le quote di lavoratori
stagionali non comunitari di cui l’Italia ha bisogno e le aziende interessate
chiedono il nulla osta alle Prefetture e si impegnano ad assumerli. Tuttavia, un
primo problema che si pone riguarda la generale indisponibilità dei datori di
lavoro in buona fede ad assumere un lavoratore che non si conosce e che
viene dall'estero; chi lo fa, generalmente si serve dell'intermediazione dei
caporali etnici e spesso la richiesta non corrisponde a reali esigenze di
71
manodopera. Arrivati in Italia, i migranti hanno otto giorni di tempo per
presentarsi in Prefettura con i datori di lavoro; se le aziende si rendono
irreperibili, ipotesi assai frequente come abbiamo visto nel paragrafo relativo
ai lavoratori truffati, dal nono giorno diventano irregolari e rischiano di essere
espulsi in qualsiasi momento. Inoltre, non possono ottenere un permesso di
soggiorno neanche con un altro contratto. Le aziende sono obbligate ad
assumerli, ma non sono previste sanzioni per quelle che non lo fanno.
Un altro problema rilevato in tema di quote di ingresso per lavoro
stagionale, riguarda la ristrettezza delle quote, limitate rispetto alle reali
esigenze di manodopera; inoltre, generalmente le quote stabilite annualmente
per decreto scontano notevoli ritardi rispetto alla concreta organizzazione
delle attività produttive e dei lavoratori necessari per le aziende operanti nei
settori di riferimento.
Sempre in riferimento ai lavoratori stagionali in agricoltura, risulta
rilevante lo stato di disagio, isolamento e precarietà delle condizioni di vita,
soprattutto per ciò che attiene i problemi relativi all’alloggio e al grado di
integrazione nelle comunità locali; occorre, dunque, promuovere nei territori
del Mezzogiorno strutture ricettive leggere nei periodi di maggiore intensità di
lavoro. Così come sarebbe opportuno potenziare i presidi socio-sanitari di
prossimità, soprattutto in riferimento a quei luoghi di lavoro che scontano
maggiore isolamento, per facilitare l'accesso alle cure e, al tempo stesso, per
accrescere nei lavoratori interessati la consapevolezza circa i propri diritti e le
opportunità offerte dal sistema di protezione e tutela delle vittime di grave
sfruttamento. A tal proposito, rappresentano buone pratiche riscontrabili sul
territorio, i servizi di prossimità, affiancamento e accompagnamento delle
potenziali vittime di sfruttamento lavorativo, condotti per mezzo di unità
mobili nei luoghi del lavoro agricolo, sia nella Piana del Sele dall'eqipe Ali
d'Aquila, che sul versante casertano dal Camper dei Diritti, dalla Flai Caserta
e dall'associazione Nero e non solo. Si tratta di esperienze che, nonostante
risultino prevalentemente focalizzate sull'ambito del lavoro agricolo, traggono
spunto dalle metodologie del lavoro sociale consolidato e condotto a favore
delle vittime di tratta e sfruttamento nell'ambito della prostituzione di strada.
In entrambi i casi, l'obiettivo di tali attività risiede nella costruzione di uno
spazio di relazione e prossimità improntato alla fiducia ed orientato
all'emersione delle situazioni di sfruttamento. Solo grazie a queste pratiche
che provano a radicarsi nei luoghi stessi in cui avviene lo sfruttamento (ad es.,
i campi del lavoro agricolo o le strade della prostituzione), è possibile
raggiungere i destinatari degli interventi con una corretta e puntuale
informazione circa i diritti e le opportunità offerte dal sistema delle tutele,
propedeutica alla strutturazione di percorsi di accompagnamento ai servizi,
emancipazione e fuoriuscita dalla condizione di sfruttamento.
Per concludere si può dire che quando si parla di fenomeni sociali e degli
interventi di policy ad essi rivolti, torna con forza il tema della complessità,
legato al coesistere di una ampia gamma di difficoltà e disagio, ai continui e
rapidi cambiamenti che quasi sempre accompagnano e caratterizzano tali
fenomeni. Per questo, come abbiamo provato ad argomentare in queste
pagine, diventa fondamentale approfondire, discernere i casi di sfruttamento
da quelli di tratta, individuarne le specificità, prima di porre in essere azioni e
servizi. Occorre, ancora, approcciare tali contesti con modalità riflessive che
ci aiutino a trasformare l'esperienza e i saperi che arrivano dalle pratiche in
una nuova narrazione sociale, centrata sul dato di realtà e capace per questo di
ridare corpo e dignità a migliaia di uomini e donne; persone, certamente in
difficoltà, ma che non per questo meritano di essere trasformate in categorie
72
del disagio, per altro quasi sempre vissute con diffidenza e preoccupazione e a
volte con cattiveria.
73
ALLEGATO - Gli indicatori della tratta e dello sfruttamento sui
luoghi di lavoro.
Per concludere questa rassegna, presentiamo di seguito i principali indicatori 16
che dovrebbero guidare le associazioni e le organizzazioni di supporto alle
"vittime", i sindacati, gli ispettori del lavoro e le altre forze di polizia,
nell’individuare possibili situazioni di lavoro forzato. Risulta cruciale che tali
indicatori siano riferiti a un paese (o contesto territoriale) specifico, tenendo
presenti quelle situazioni di lavoro gravemente sfruttato che hanno più
probabilità di verificarsi in date regioni o settori particolari; inoltre, è
opportuno che essi si basino su leggi e normative nazionali ed aiutino a
distinguere fra cattive condizioni di lavoro e lavoro forzato o gravemente
sfruttato. Onde evitare sovrapposizioni e con l'obiettivo di servirci di
metodologie diffuse e condivise, riportiamo le indicazioni fornite
dall'Organizzazione internazionale del lavoro e dalla Commissione Europea in
materia di tratta e sfruttamento lavorativo. L’OIL propone sei indicatori
generici, ciascuno dei quali dovrebbe essere collegato a un sotto-insieme di
domande più specifiche:
Violenza fisica, compresa la violenza sessuale Il lavoratore presenta segni di
maltrattamento, tipo contusioni? Il lavoratore mostra segni di ansia? C’è
qualche altro indizio di confusione mentale o segni di violenza? I
supervisori/datori di lavoro mostrano un comportamento violento?
Limitazione della libertà di movimento Il lavoratore è rinchiuso nel posto di
lavoro? Il lavoratore è obbligato a dormire sul posto di lavoro? Ci sono indizi
evidenti che il lavoratore non è libero di allontanarsi dal posto di lavoro,come
ad esempio filo spinato, la presenza di guardie armate, o altre forme di
costrizioni? Al lavoratore è impedito di lasciare il posto di lavoro dietro
minaccia?
Minacce Il lavoratore è in stato confusionale o mostra di essere stato
indottrinato dal datore di lavoro? I lavoratori denunciano minacce contro di
loro, dei loro colleghi di lavoro o di familiari? Ci sono segni che il lavoratore
sia vittima di un racket o di ricatto (con o senza la connivenza del datore di
lavoro)? Il lavoratore appare ansioso? I lavoratori sono obbligati a ore lavoro
straordinario (non retribuito) o a svolgere mansioni contro la loro volontà e
sono minacciati se si rifiutano? Il lavoratore è irregolare e minacciato di
essere denunciato alle autorità?
Debito e altre forme di schiavitù Il lavoratore deve restituire somme ingenti
per l’ingaggio o il trasporto? Se sì, gli vengono dedotte dal salario? Il
lavoratore è obbligato a pagare una somma eccessiva per l’alloggio, il vitto o
gli strumenti di lavoro, che gli è decurtata direttamente dallo stipendio? Gli
sono stati prestati soldi, o ha ricevuto anticipi che non gli permettono di
licenziarsi? Ci sono state altre lamentele su quel datore di lavoro in
precedenza?
Salario trattenuto o non corrisposto Il lavoratore ha un regolare contratto di
lavoro? Se no, come viene retribuito? Ci sono detrazioni illecite del salario? Il
lavoratore è stato retribuito? A quanto ammonta il salario in rapporto a quanto
stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro? I lavoratori possono
accedere ai loro guadagni? I lavoratori sono stati ingannati sull’ammontare del
loro salario? I salari sono pagati con regolarità? Il lavoratore è pagato in
natura?
16
Le indicazioni presenti in questo allegato sono tratte da Oil, Il lavoro forzato e la
tratta di esseri umani.2010
74
Sequestro dei documenti d’identità I lavoratori sono in possesso dei loro
documenti d’identità? Se no, sono trattenuti dal datore di lavoro o dal
supervisore? Perché? Al lavoratore vengono mai consegnati i suoi documenti?
Successivamente a questo tentativo di sistematizzazione dei possibili
indicatori di lavoro forzato realizzato dall’OIL, è proseguito l’impegno a
livello europeo teso a sviluppare un’armonizzazione delle definizioni della
tratta – e dei fenomeni di sfruttamento ad essa correlati - e dei relativi
indicatori. Tra l’aprile 2008 ed il settembre 2009, nell’ambito di un progetto
congiunto dell’OIL e della Commissione Europea, sono stati quindi elaborati
una serie di indicatori, declinati in base ai diversi elementi che contribuiscono
a definire una situazione di tratta. Tali indicatori sono stati concordati da un
gruppo di esperti selezionati nei 27 Stati Membri dell’Unione Europea, e
fanno riferimento al reclutamento ingannevole, al reclutamento coercitivo, al
reclutamento tramite abuso di una condizione di vulnerabilità, poi, allo
sfruttamento, alla coercizione e all'abuso di una condizione di vulnerabilità
una volta giunti sul territorio di destinazione.
DETTAGLIO DEI PRINCIPALI INDICATORI RELATIVI ALLO
SFRUTTAMENTO LAVORATIVO
INDICATORI DI RECLUTAMENTO INGANNEVOLE
Inganno circa l’alloggio e le condizioni di vita Questo indicatore implica
che la persona sia stata ingannata circa la sua libertà di scegliere l’ubicazione
e il tipo di alloggio, oppure circa la qualità dell’alloggio, in particolare la
mancanza di privacy. Comporta anche un inganno circa la libertà di
movimento, o restrizioni alla libertà di movimento, o anche circa il diritto di
accesso all’assistenza sanitaria.
Inganno circa documenti legali o l’ottenimento dello status di immigrato
regolare Questo indicatore descrive la condizione di una persona che è stata
ingannata in quanto la sua posizione giuridica nella stato di destinazione non è
regolare, nonostante la persona abbia pagato per ottenere dei documenti legali
o le sia stata promessa la regolarizzazione della sua posizione. Questo tipo di
situazione può riguardare sia il permesso di soggiorno che il permesso di
lavoro.
Inganno circa le condizioni di viaggio e di reclutamento Questo indicatore
descrive la condizione di una persona che è stata ingannata circa il costo o la
legalità del viaggio, o sulle condizioni relative al reclutamento ed al trasporto.
Esso può anche includere che la persona fosse in condizione di
soggezione/dipendenza durante il viaggio e/o o che non avesse completa
autonomia e controllo del processo di viaggio (ottenimento dei documenti di
viaggio e/o di identità, visto, rotta, mezzi di trasporto)
Inganno circa il salario o i guadagni Questo indicatore rivela la natura
dell’inganno subito da una persona circa il diritto di tenere per sé il salario o
le somme ad essa pagate. Include anche eccessive deduzioni dal salario per il
cibo e/o l’alloggio, o sanzioni pecuniarie per motivi fraudolenti.
Inganno tramite promesse di matrimonio o di adozione Questo indicatore
descrive la condizione di una persona che è stata ingannata con false promesse
di matrimonio o di adozione ed è stata invece costretta a lavorare.
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INDICATORI RECLUTAMENTO COERCITIVO
Violenza sulle vittime La coercizione nella fase di reclutamento,
trasferimento o trasporto può anche implicare l’uso della violenza contro
l’individuo. Gli atti di violenza utilizzati possono includere violenza sessuale,
violenza fisica, violenza psicologica, privazione di cibo e/o acqua, privazione
del diritto di accesso
all’assistenza sanitaria, assunzione forzata di droghe e/o alcool, prestazione
forzata di servizi sessuali al reclutatore o esercizio forzato della prostituzione.
Rapimento, matrimonio forzato, adozione forzata o vendita della vittima
L’elemento importante che caratterizza questo indicatore è il concetto di
reclutamento forzato, ossia avvenuto contro la volontà dell’individuo.
Confisca dei documenti Questa forma di coercizione può avvenire nella fase
di reclutamento, trasferimento o trasporto, tramite la confisca dei documenti
di viaggio e/o di identità (visto, biglietti, etc).
Servitù da debito I debiti cui fa riferimento questo indicatore possono essere
di varia natura. Debiti maturati durante il reclutamento, il trasferimento o il
trasporto, sono correlati al concetto di reclutamento forzato quale forma di
riduzione del debito; debiti contratti per il reclutamento ed il trasporto
risultanti in servitù da debito una volta a destinazione; debiti che si afferma
siano stati contratti da parenti; debiti derivanti da precedenti esperienze di
tratta della vittima o di un suo parente. I debiti possono anche essere
incrementati quale risultato di una manipolazione del debito anche attraverso
l’applicazione di eccessivi tassi di interesse o attraverso un accordo illecito in
base al quale il debito viene ridotto o detratto in cambio di lavoro.
Isolamento, confino o sorveglianza Questa forma di coercizione può
avvenire nella fase di reclutamento, trasferimento o trasporto. Questo
indicatore descrive la condizione di una persona che viene totalmente
confinata e che ha una libertà di movimento limitata o assente. Ad esempio,
l’individuo può essere stato tenuto dal/la suo/a trafficante in locali chiusi a
chiave. L’individuo può anche essere stato deliberatamene isolato dal/la suo/a
trafficante, oppure messo sotto sorveglianza.
Minaccia di denuncia alle autorità Questo strumento di coercizione può
essere utilizzato durante il reclutamento, il trasferimento o il trasporto. La
persona può anche essere minacciata di espulsione.
Minaccia di violenza sulla vittima Questo tipo di coercizione esercitata sulla
persona può includere la minaccia di violenza sessuale, di violenza fisica e/o
la minaccia di non rivedere più i membri della propria famiglia.
Violenza sulla famiglia (minacciata o effettiva) Questo tipo di coercizione
consiste nel compiere atti di violenza contro i familiari della persona
trafficata. Tale violenza può essere sia effettivamente agita, sia solo
minacciata e può includere il rapimento dei figli, violenza fisica, violenza
psicologica o violenza sessuale ai danni dei membri della famiglia della
vittima.
Trattenimento di denaro Questi tipo di coercizione consiste nel provare la
persona, del tutto o in parte, del suo denaro. Privo di denaro, l’individuo
spesso non ha altra scelta che quella di accettare le condizioni imposte dal
reclutatore/trafficante
INDICATORI DI RECLUTAMENTO TRAMITE ABUSO DI UNA
CONDIZIONE DI VUNERABILITA’
Abuso della condizione di irregolarità Questo indicatore descrive la
vulnerabilità di una persona rispetto alla sua condizione di irregolarità.
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L’essere in una posizione di irregolarità/illegalità è infatti un fattore che rende
la persona immediatamente vulnerabile e facilmente assoggettabile.
Abuso della mancanza di istruzione (comprensione della lingua) La
condizione di un individuo che non parla/comprende la lingua del reclutatore
o che ha un’istruzione limitata, lo rende particolarmente vulnerabile.
Abuso della mancanza di informazione Il reclutamento tramite abuso della
mancanza di informazione, indica i casi in cui la persona non è
completamente a conoscenza della situazione in cui si trova a causa della
mancanza di adeguata informazione. Gli sfruttatori fanno presa su tali
vulnerabilità fornendo informazioni false, in particolare in relazione alle
condizioni di vita e di lavoro a destinazione, impedendo alle persone di
prendere decisioni informate.
Controllo da parte degli sfruttatori Anche il controllo esercitato
direttamente dagli sfruttatori è un mezzo di abuso, in quanto rende gli
individui vulnerabili al momento del reclutamento. Questo include
un’operazione di un gruppo criminale nel luogo di origine, una dipendenza
sociale o economica dal reclutatore, o casi in cui l’individuo vive già una
condizione di migrazione forzata.
Motivazioni economiche Le motivazioni economiche che possono rendere un
individuo vulnerabile al momento del reclutamento includono una condizione
di povertà (nel caso di migrazioni per ragioni economiche questa può
implicare la mancanza di risorse per l’acquisto del biglietto di ritorno), l’avere
dei debiti, essere responsabile di persone a carico (es. membri della famiglia),
o la mancanza di opportunità di occupazione nel luogo di origine.
False informazioni circa le leggi e l’atteggiamento delle autorità e false
informazioni circa migrazioni di successo Nel caso in cui vengano fornite
false informazioni su migrazioni di successo, una persona può essere forzata o
istigata ad emigrare, laddove in circostanze diverse non l’avrebbe fatto, o a
sottostare a condizioni che altrimenti non avrebbe accettato.
Situazione familiare La situazione familiare di un individuo può renderlo
vulnerabile al momento del reclutamento. Ciò include i casi in cui le persone
vivono in ambienti familiari fisicamente, emotivamente o psicologicamente
abusivi (ivi inclusi rapporti scadenti all’interno del nucleo familiare), o casi in
cui i membri della famiglia vengono minacciati o ricattati. Nel caso di minori,
ulteriori fattori di vulnerabilità sono rappresentati dalla morte/malattia/assenza
di uno o di entrambi i genitori o dall’essere figli di lavoratori migranti (rimasti
nel paese di origine).
Situazione personale Le caratteristiche personali che potrebbero rendere un
individuo vulnerabile al momento del reclutamento includono l’appartenenza
ad un gruppo oggetto di discriminazioni o che non gode della parità di diritti
nella società (discriminazioni di genere, discriminazioni etniche,
rifugiati/richiedenti asilo, disabili, orfani, senza fissa dimora, gruppi
appartenenti a minoranze
religiose, etc…).
Dipendenza psicologica ed emotiva Questo indicatore fa riferimento ai casi
in cui un individuo ha una dipendenza emotiva, psicologica o mentale che
viene sfruttata dal reclutatore. Questi includono, ad esempio, le donne
reclutate tramite la tecnica del “fidanzato” (lover boy), o i casi in cui il
reclutatore si comporta da amico con la persona prescelta. Possono anche
essere inclusi i casi in cui la persona riceve pressioni da parte dei membri
della famiglia, o viene forzata a mentire alle autorità.
Rapporto con le autorità/condizione giuridica Questo indicatore fa
riferimento ai casi in cui un individuo si trova in una condizione di irregolarità
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senza documenti validi, è coinvolto in attività illegali nel luogo di origine, o
non si reca presso le autorità per rivelare la sua condizione di vulnerabilità a
causa della mancanza di fiducia nelle autorità o per paura di queste.
Abuso di credenze culturali/religiose Questo indicatore evidenzia il fatto
che una persona può essere stata reclutata approfittando delle sue credenza
culturali e/o religiose. L’appartenenza ad un gruppo religioso minoritario o
l’adesione a pratiche culturali minoritarie può rendere spesso una persona
vulnerabile.
Contesto generale Il contesto generale che può rendere una persona
vulnerabile nella fase del reclutamento contempla le condizioni ambientali,
sociali, culturali o politiche nel luogo di origine. Include anche, ad esempio,
situazioni di emergenza o post-conflitto.
Difficoltà nel passato Questo indicatore fa riferimento a condizioni di
vulnerabilità che includono precedenti esperienze di tratta, precedenti
esperienze migratorie fallite, episodi di violenza fisica, psicologica o sessuale,
vita in situazioni di emergenza o di post-conflitto.
Difficoltà ad organizzare il viaggio I reclutatori possono anche approfittare
dell’incapacità o della difficoltà di una persona ad organizzare il proprio
viaggio. Ad esempio nei casi in cui l’individuo non è in grado di ottenere i
documenti di viaggio e ha bisogno dell’assistenza di una terza persona.
Oppure nei casi in cui l’individuo non ha accesso alle informazioni rilevanti,
ad esempio a causa delle barriere linguistiche, ed è pertanto ostacolato
nell’organizzazione del viaggio.
INDICATORI DI SFRUTTAMENTO
Orario di lavoro eccessivo (ore/giorni) Questo indicatore fa riferimento alla
condizione di sfruttamento per la quale una persona è costretta a lavorare un
numero eccessivo di ore e/o giorni. Questa include il concetto di straordinario
obbligatorio, il diniego di fare pause, il diniego del tempo libero, l’obbligo di
coprire i turni /le ore di lavoro dei colleghi, o l’essere a disposizione 24 ore su
24 o 7 giorni su sette. Tale condizione di sfruttamento include anche
pesanti/eccessivi carichi di lavoro o eccessive quote di produttività rispetto
alle ore lavorative.
Bassa qualità delle condizioni di vita Lo sfruttamento può anche includere
una bassa qualità delle condizioni di vita offerte. Ciò include la negazione
della libertà o della possibilità di scegliere il luogo e le condizioni in cui
vivere, o la costrizione a vivere in luoghi sovraffollati, in condizioni insalubri
o non igieniche, o la costrizione a vivere in condizioni nelle quali il diritto alla
privacy è limitato o del tutto escluso.
Lavoro pericoloso Anche l’essere obbligati a svolgere un lavoro pericoloso è
un indicatore di sfruttamento. Un lavoro può definirsi pericoloso sia in base
alla mansioni che devono essere svolte (un lavoro in condizioni rischiose
senza adeguata protezione, un lavoro troppo difficile in considerazione della
capacità della persona di svolgerlo, un lavoro troppo difficile in
considerazione della capacità di un minore di svolgerlo), sia se si svolge in un
ambiente pericoloso (eccessivo calore o freddo eccessivo), sia se il viaggio
per raggiungere il posto di lavoro è pericoloso. Può anche includere un lavoro
degradante che sia umiliante o sporco.
Salario basso o assenza di salario Ci sono casi in cui ad una persona viene
completamente negato il diritto a percepire il suo salario. Questo tipo di
sfruttamento include anche i casi in cui una persona riceve in pagamento beni
o pagamenti in natura, anziché denaro. Il salario basso fa riferimento ai casi in
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cui una persona riceve meno del salario che era stato pattuito (i.e. inganno
rispetto al salario) o viene pagata meno del salario minimo.
Mancato rispetto delle leggi sul lavoro o del contratto firmato Questo
indicatore fa riferimento a casi in cui un individuo viene forzato a lavorare
senza un contratto, casi in cui non viene rispettato il contratto firmato, casi in
cui il contratto fornito è illecito, o casi in cui il reclutamento della persona è
illegale. Esso fa anche riferimento alla natura ed alla condizioni di lavoro,
quali l’inganno circa la natura del lavoro, inganno circa il datore di lavoro,
inganno circa la possibilità di lavorare, inganno circa l’orario di lavoro (sia
eccessivo che restrittivo), inganno circa le condizioni di lavoro, o condizioni
lavorative precarie, illegali o che comportano sfruttamento. Il mancato
rispetto o il non adeguamento alle leggi del lavoro fa anche riferimento a
questioni retributive, ad esempio nei casi in cui una persona viene pagata
meno degli impiegati in regola, o casi in cui il pagamento viene fatto solo in
contanti, mentre gli altri lavoratori sono pagati con assegni o bonifici.
Assenza di protezione sociale (contratto, previdenza sociale, ecc) Questo
indicatore fa riferimento al diniego del diritto di accesso alla protezione
sociale, in termini di previdenza sociale, contratto, etc.. Esso include anche i
casi di diniego dell’assenza per malattia (ovvero l’obbligo di lavorare anche
se si è ammalati) e, per quanto riguarda le donne, l’obbligo di lavorare durante
la gravidanza o durante il mestruo.
Pessime condizioni di lavoro Questo indicatore fa riferimento alla
condizione di chi viene costretto a lavorare in condizioni inaccettabili, o viene
costretto a cambiare in continuazione il luogo di lavoro.
Manipolazione del salario Questa modalità di sfruttamento include il
pagamento del salario ad un intermediario, il pagamento del salario ad un
membro della famiglia, l’imposizione di multe o di deduzioni eccessive per il
vitto e l’alloggio. Essa include anche manipolazioni del salario nel senso che
l’individuo non è in grado di esercitare il controllo sul suo salario o di
disporne liberamente.
Nessun accesso all’istruzione Lo sfruttamento può anche includere la
negazione del diritto di accesso all’istruzione e/o ad opportunità di studio.
INDICATORI DI COERCIZIONE SUL TERRITORIO DI
DESTINAZIONE
Confisca dei documenti La confisca può riguardare alcuni o tutti i
documenti di identità di una persona (es. passaporto, visto, carta di identità,
ecc.) ed i documenti di viaggio. Le persone che vengono forzatamente private
dei loro documenti vengono rese altamente vulnerabili.
Servitù da debito Debiti contratti per il reclutamento ed il trasporto risultanti
in servitù da debito una volta a destinazione; debiti derivanti da precedenti
esperienze di tratta della vittima o qualsiasi debito addizionale contratta una
volta a destinazione. I debiti possono anche essere incrementati quale risultato
di una manipolazione del debito anche attraverso l’applicazione di eccessivi
tassi di interesse o attraverso un accordo illecito in base al quale il debito
viene ridotto o detratto in cambio di lavoro.
Isolamento, confino o sorveglianza Isolamento, confino o sorveglianza sono
indicatori di metodi di coercizione utilizzati per controllare l’individuo a
destinazione. L’isolamento include una libertà parziale o limitata di
comunicare con gli altri (ed esempio tramite limitato o negato accesso ai
telefoni), separazione dalla famiglia o dagli amici, o la costrizione a lavorare o
ad alloggiare in un luogo con limitato accesso pubblico. Il confino indica il
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trattenimento di una persona contro la sua volontà (es. essere tenuto in
ambienti chiusi a chiave al lavoro, durante il trasporto sul posto di lavoro, o
nel luogo in cui la persona vive), o una limitata libertà di movimento. Inoltre,
la persona può anche essere messa sotto costante o parziale sorveglianza.
Violenza sulle vittime La coercizione a destinazione spesso implica l’uso
della violenza contro l’individuo. Gli atti di violenza utilizzati possono
includere violenza sessuale, violenza fisica, violenza psicologica (obbligo ad
assistere a stupri di gruppo o alla punizione di altri), aborti forzati, privazione
di cibo e/o acqua, privazione del diritto di accesso all’assistenza sanitaria,
assunzione forzata di droghe e/o alcool, tortura, prestazione forzata di servizi
sessuali al reclutatore o esercizio forzato della prostituzione.
Costrizione a compiere attività illecite/criminali Questo indicatore fa
riferimento ad attività illecite o criminali che una persona viene costretta a
compier, o cui viene costretta a partecipare nel luogo di destinazione (es.
accattonaggio, furti, ecc.)
Imposizione di mansioni o clienti Questo indicatore fa riferimento ai casi in
cui una persona viene costretta a svolgere mansioni alle quali non aveva
preventivamente dato il suo consenso. Ciò include l’obbligo a prendersi cura
di persone a carico, l’obbligo di servire altri o l’obbligo di guadagnare una
somma di denaro minima ogni giorno. Inoltre, può anche essere implicato
l’obbligo d fornire prestazioni sessuali, o l’obbligo d fornire tali prestazioni in
luoghi che non erano stati concordati.
Costrizione ad agire contro i propri pari Questo indicatore fa riferimento a
casi in cui una persona viene costretta ad usare la violenza contro gli altri, è
costretta ad esercitare il controllo sugli altri, è costretta a minacciare gli altri,
o è costretta ad assistere alla punizione degli altri. Possono anche essere
inclusi casi in cui un individuo è costretto a reclutare altre persone nel circuito
della tratta, spesso affinché prendano il suo posto.
Costrizione a mentire alle autorità, alla famiglia, ecc Le persone possono
essere costrette a mentire una volta a destinazione. Questo tipo di coercizione
può includere la costrizione a cambiare la propria identità tramite il cambio
del nome o dell’aspetto. Può anche essere incluso l’obbligo ad aprire conti
bancari fraudolenti al posto di qualcun altro.
Minaccia di denuncia alle autorità I trafficanti spesso minacciano di
denunciare alle autorità la persona trafficata a causa della sua condizione di
irregolarità/clandestinità nel paese di destinazione, per via della mancanza dei
documenti di identità o di soggiorno. Tali minacce includono anche
l’espulsione ed il conseguente non pagamento del salario.
Minaccia di subire condizioni di lavoro ancora peggiori Questo mezzo di
coercizione include la minaccia di mettere la persona sotto costante
sorveglianza, o di costringerla a svolgere delle attività contro la sua volontà
(es. l’obbligo di fornire prestazioni sessuali).
Minaccia di violenza sulla vittima Questo indicatore può essere visto come
uno degli strumenti di coercizione utilizzati per esercitare il controllo sulla
persona. Può includere la minaccia di violenza sessuale, la minaccia di
violenza fisica, il sequestro, o la minaccia di essere sfrattati dal proprio
alloggio.
Soggezione a forte influenza La condizione di trovarsi sotto la forte
influenza di una terza persona spesso rende le vittime vulnerabili e dipendenti
una volta a destinazione. Tale indicatore di coercizione fa riferimento a casi in
cui l’individuo non è in regola con i propri documenti d’identità o di viaggio,
è costretto a rimanere con lo stesso datore di lavoro, è costretto a svolgere
attività supplementari per incrementare il salario (es. la prostituzione), è
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costretto a permanere nella stessa situazione a causa di pressioni da parte dei
parenti, è costretto a permanere nella stessa situazione a causa di pratiche
culturali e religiose, o è costretto ad accettare restrizioni alla propria libertà di
movimento.
Violenza sulla famiglia (minacciata o effettiva) Questo tipo di coercizione
consiste nel compiere atti di violenza contro i familiari della persona
trafficata. Tale violenza può essere sia effettivamente agita, sia solo
minacciata e può includere il rapimento o l’adozione forzata dei figli, violenza
fisica (inclusa la minaccia di morte), violenza psicologica o violenza sessuale
ai danni dei membri della famiglia della vittima.
Trattenimento del salario Questo indicatore fa riferimento al totale
trattenimento del salario di una persona , o alla riserva dei diritti sul salario
quale strumento per costringere l’individuo a continuare a lavorare alle
medesime condizioni finché lo sfruttatore non accetta di corrispondere il
salario dovuto. Laddove i pagamenti vengono fatti ad un parente, l’indicatore
fa riferimento al mancato pagamento di tutti i compensi al rispettivo parente.
Minaccia di informare la famiglia Questo indicatore consiste nel ricattare la
persona circa la diffusione di informazioni sulla sua esperienza di tratta e/o
sfruttamento e può essere uno strumento di coercizione utilizzato una volta a
destinazione.
INDICATORI
DI
ABUSO
DI
UNA
CONDIZIONE
DI
VULNERABILITA’ SUL TERRITORIO DI DESTINAZIONE
Dipendenza dagli sfruttatori Una persona può essere dipendente dagli
sfruttatori in relazione alla vita quotidiana, agli spostamenti, ai contatti con
l’esterno. Tale dipendenza può essere rafforzata quando lo sfruttatore è a
conoscenza delle origini della persona (luogo di residenza prima della tratta,
famiglia, amici, ecc)
Difficoltà a vivere in un luogo sconosciuto Questo indicatore fa riferimento
ai casi in cui l’individuo non parla la lingua del luogo/paese in cui si trova, o
ha una scarsa conoscenza o comprensione del contesto socio-culturale, fattori
che lo rendono vulnerabile una volta a destinazione.
Ragioni economiche Le motivazioni economiche che possono rendere una
persona vulnerabile a destinazione includono la povertà, l’aver contratto dei
debiti, la responsabilità di avere persone a carico (es. familiari, parenti)
Situazione familiare Una situazione familiare che può comportare la
vulnerabilità della persona può essere caratterizzata dall’avere con sé persone
a carico (es. figli, familiari, parenti), dal non avere contatti, o solo contatti
sporadici, con la propria famiglia, o dal provenire da una famiglia con una
storia problematica (es. casi di dipendenze da alcool/droghe, violenze, ecc).
Rapporto con le autorità/posizione Questo tipo di vulnerabilità fa
riferimento ai casi in cui la persona si trova in una situazione di irregolarità
senza documenti legali, è costretta ad giuridica intraprendere attività illegali,
oppure non intende rivelare la sua condizione di sfruttamento a causa di una
mancanza di fiducia nelle autorità o per paura di queste.
Difficoltà nel passato Tali difficoltà possono consistere in precedenti
esperienze di tratta o di abuso sessuale.
Caratteristiche personali Le caratteristiche personali che possono rendere
una persona vulnerabile includono l’appartenenza ad un gruppo che è oggetto
di discriminazioni nel luogo/paese di destinazione od al quale non viene
riconosciuta la parità dei diritti (es. genere, etnia, rifugiati/richiedenti asilo,
disabili, orfani, senza fissa dimora, minorane religiose, ecc.).
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