Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella
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Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella
1 Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella repubblica del dolore. Di Claudia Senatore “Non sento che mio padre abbia avuto giustizia, né mi sento consolata dal fatto che ci sono persone che hanno scontato anni di prigione” [Voce, il Libro dell’Incontro] ABSTRACT: Per più di sette anni in Italia è stato portato avanti un esperimento di giustizia riparativa al di fuori di “qualsiasi mandato istituzionale”: gli incontri tra vittime ed “ex” della lotta armata*.* Strutturati sulla base dei principi della *Restorative justice* - libertà, gratuità, responsabilità e volontarietà - tali incontri si sono svolti all’insegna del dialogo e di un ascolto che metta da parte “l’impulso a volere avere tutto chiaro e la tentazione del giudizio”. Ma il peso di una storia ingombrante, dai contorni poco chiari, piena di reticenze e menzogne, rende arduo il cammino verso l’elaborazione di una memoria condivisa. Nella “Repubblica del dolore” italiana, la mancata elaborazione di un pensiero storico complesso sulla lotta armata degli anni ’70-’80 e la scelta dell’oblio di uno Stato privo identità collettiva e valori da condividere rende, ancora oggi, il dissidio irriducibile. Il modello di giustizia penale tradizionale, reocentrica, retributiva e repressiva è stato messo sotto accusa dai sostenitori della Restorative Justice (RJ), nuovo paradigma e vera e propria “rivoluzione copernicana” nel modo di approcciare il fenomeno criminoso, del quale si rinvengono tracce già nei testi biblici, nell’istituto del ryb di antico diritto ebraico. Diffusosi dapprima negli anni ’70 negli Stati Uniti e, attualmente, tra gli obiettivi dellaDirettiva 2012/29/UE − che istituisce norme minime in materia di diritti assistenza e protezione delle vittime di reato – il modello di giustizia riparativa è stato oggetto di un interessantissimo e importante esperimento in Sudafrica, nel dicembre 1995. L’istituzione della Truth and Reconciliation Commission, momento fondamentale nella transizione verso la democrazia dopo il regime dell’apartheid, ha infatti dimostrato, pubblicamente e storicamente, che una giustizia orizzontale e riparativa è possibile e sostenibile. Proprio ispirandosi a tale esempio, in Italia, è stato portato avanti, per più di sette anni un esperimento, un’esperienza, al di fuori di “qualsiasi mandato istituzionale” e su base pienamente volontaria, raccontata nel Libro dell’incontro di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, pubblicato dal Saggiatore nel 2015: gli incontri avvenuti tra vittime ed esponenti della lotta armata. Partendo dalla constatazione del fallimento della dominante concezione di “esperienza di giustizia”, in cui i responsabili devono solo “pagare” con anni di carcere e le vittime, nonostante i processi, le condanne, non riescono a sanare le proprie ferite, ha avuto inizio un percorso tra vittime e colpevoli, uniti dalla domanda di giustizia, per ridare senso al dolore e fare di una ferita profonda una nuova possibilità di convivenza. Gli incontri si sono strutturati sulla base dei principi della Restorative justice libertà, gratuità, responsabilità, riservatezza - e, soprattutto, si sono svolti all’insegna del dialogo e dell’ascolto. Superando “la logica del castigo” è stata ridata centralità alle vittime in una lettura relazionale del conflitto che, per consentire di rimarginare le lacerazioni sociali, “richiede, da parte del reo” - come sostenuto da Adolfo Ceretti in Giustizia riparativa e mediazione penale - N. 2 - Marzo-Aprile 2016 2 Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella repubblica del dolore. Di Claudia Senatore l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato”, focalizzandosi sulla sua responsabilizzazione nell’approccio reovittima-società. In tal modo, il reo è reso partecipe in modo attivo della costruzione del suo “progetto individualizzato di reinserimento sociale”attraverso azioni consapevoli, libere, volontarie e responsabili “verso” l’altro. Proprio nel Libro dell’incontro, una Voce rileva come il sistema penale si dimostri “insufficiente o monco”, concentrandosi solo sul fatto-reato, “disinteressandosi sia dell’autore che della vittima”(p. 129). Gli incontri tra vittime e persone coinvolte nella lotta armata si sono tenuti in situazioni di vita comune e hanno previsto anche periodi di convivenza prolungati, come quelli nell’abbazia di Vibaldone, alla presenza di mediatori, Primi Terzi e garanti. “Una giustizia di riparazione e ricostruzione che oltrepassi la dimensione opaca e sterile della pura retribuzione può aiutare la vittima a riannodare i fili della propria vita”(p. 54). L’impressione complessiva che si ha del libro è di un esperimento di una profonda umanità pienamente riuscito: “questo libro cambia la storia d’Italia”. “Uscire dalla prigionia del ricordo” tendendo una mano all’altro. Lo scopo era scrivere la verità con l’impegno di tutti, “trasformare il dolore sofferto in una risorsa di vita” creando uno spazio per l’elaborazione di una memoria condivisa, cercando di porre rimedio al fatto che “La società non vuole – o forse non può – mai chiudere i conti” (C. Mazzucato, p. 267). Eppure, in alcuni casi, sono state le vittime stesse a non reggere. Nessuna costrizione, si era liberi di “abbandonare” in qualsiasi momento. E molti lo hanno fatto. Ma le Voci di chi ha voluto proseguire gridano contro l’incapacità di “riuscire ad entrare nel male dell’altro, negando l’esistenza di una comune umanità [..] quasi fossimo gli unici proprietari della capacità e titolarità a soffrire” (p. 117). Trasformare l’odio e la rabbia in qualcosa di utile, senza mai dimenticare o cancellare il dolore ma semplicemente trasformandolo. Questa la sfida. “Il [loro] prodigio è che si siano incontrati gli esseri umani al di là di una storia che piomba come un avvoltoio sulle vite di tutti”, secondo le parole di un’altra Voce. Storia come avvoltoio. Storia avvertita come una realtà ingombrante, cupa, pensante. Perché quella “storia” è poco chiara, piena di contraddizioni, reticenze, priva di verità processuali definitive, piena di depistaggi (pensiamo alle stragi). Episodi che hanno lasciato aperte troppe ferite nella memoria degli italiani, tra i quali è diffusa la sensazione di una giustizia negata e l’esigenza è quella di “smascherare l’intrigo” messo in atto da una “triste furbizia politica” demagogica e falsa. Un’analisi storica di quei difficili anni è, dunque, imprescindibile per comprendere perché, a distanza di decenni, ha avuto inizio questo percorso di giustizia riparativa. Un’acuta e interessante lettura di tale periodo è stata compiuta da Giovanni De Luna, in La Repubblica del dolore, in cui lo storico rileva, in primis,come con la fine dei grandi partiti storici, la classe politica aveva il dovere morale di “rinnovare un intero apparato simbolico” sul quale fondare la sua legittimazione. N. 2 - Marzo-Aprile 2016 3 Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella repubblica del dolore. Di Claudia Senatore Al contrario, in quegli anni che hanno visto la rottura del patto costituzionale ereditato dall’antifascismo e dalla Resistenza, l’Italia della Seconda Repubblica ha costruito il proprio “patto memoriale” sul “paradigma vittimario”. Ѐ mancata, dunque, l’elaborazione di una “memoria collettiva” fondata sui valori della democrazia, libertà, antifascismo, tolleranza e pluralismo, ma si è assistito, piuttosto, alla costruzione dell’immagine di un’Italia come “mater dolorosa” al cui centro sono poste le vittime. Non ci sono valori da condividere in uno spazio pubblico ma offese da sanare, ingiustizie da riparare e la nuova classe politica “non riesce ad andare oltre l’obiettivo di emanare leggi relative a giornate sulla memoria”. A fronte della domanda di giustizia frustrata “le vittime faticano a sentire di appartenere ancora al mondo politico”. La ricerca di identità vede scontrarsi un gruppo contro l’altro, ciascuno portatore della propria storia in una logica manichea di opposizione carnefice-vittima che impedisce di lasciar “passare il passato”. L’assenza di valori condivisi e l’impossibilità di far riferimento a qualche ordine simbolico – in primis la giustizia, troppe volte cieca o assente - impedisce di umanizzare il rapporto con l’altro. Ѐ mancata, in Italia, la ricerca di una “verità storica” che potesse assicurare un terreno di confronto e di scambio grazie a strumenti d’indagine e documentazione condivisibili e alla tragedia del terrorismo si è sommata la “tragedia culturale” della “incapacità di comprenderlo e di pensarlo”. Nuovi protagonisti (associazioni, famiglie ecc..),preso atto della fragilità dello Stato che “non è più in grado di gestire nulla”, hanno colmato quel vuoto d’identità. La “privatizzazione” dei contenuti e dei contraenti del patto memoriale ha trasformato il dolore privato in uno strumento per raccontare la storia collettiva e agire per l’interesse pubblico. Così, a fronte dell’assenza dello Stato e contro la rimozione di quella “guerra civile latente”, rimozione quasi legittimata dal mutamento del sistema politico con la Seconda Repubblica, vittime ed “ex” hanno cercato uno spazio in cui ciascuno possa raccontare la sua storia per superare insieme il dolore, con il fine ultimo di consegnarlo alla sfera pubblica. Il Gruppo del Libro dell’Incontro ha cercato di toccare la dimensione umana più intima e profonda, affinché le identità di tutti non restino “cristallizzate nel momento del delitto”, consentendo, attraverso l’incontro, di “uscire da ruoli” e ricostruire quella identità di cui erano stati privati quando è stato loro negato di essere altro da quello che la storia e i media hanno rappresentato. Questa la tragedia di tutti gli ex detenuti, il vedersi negata qualsiasi possibilità di reintegrazione e reinserimento sociale, nonostante la finalità rieducativa della pena sia solennemente sancita dall’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione. L’isolamento e le condizioni disumane del carcere “infantilizzante”, nel quale il detenuto è concentrato sui bisogni primari (per di più frustrati), rendono sempre più cogente la necessità di passare ad una realtà di dialogo e integrazione, in cui il detenuto sia riconosciuto come una persona, dando una possibilità di recupero a chi vorrebbe riparare al male fatto. Eppure a distanza di decenni, dopo centinaia di processi e condanne, pentimenti e dissociazioni, si fatica a riconoscere il reinserimento sociale degli “ex”, privilegiando la loro identità di allora. Non può non venire in mente quanto avvenuto lo scorso febbraio nella Scuola di Magistratura in occasione di un corso di formazione per i giudici. N. 2 - Marzo-Aprile 2016 4 Percorsi di giustizia riparativa. Il dissidio irriducibile nella repubblica del dolore. Di Claudia Senatore Dopo tale episodio è evidente che non importa chi siano oggi Adriana Faranda o Franco Bonisoli, nella sfera pubblica essi non potranno mai rappresentare altro che “terroristi”. concezione orizzontale dell’esercizio del potere. Che fare allora quando l’identità storica di ciascuno è immersa in un passato immemorabile? Forse ha ragione Lyotard: ogni dissidio resta irriducibile. Occorrerebbe divenire altro da sé stessi, rinunciare alla propria parzialità, “uscire dall’eterogeneità di linguaggi, valori e memorie incommensurabili” e riconoscere al colpevole di essere capace di qualcos’altro che dei suoi delitti. Questa la difficile “saggezza pratica” di cui parla Ricoeur, “ricordare il crimine per superarlo” attraverso l’“oblio attivo”. Questa la sfida lanciata dalla giustizia riparativa al mondo contemporaneo, aprire nuove possibilità di reintegrazione sociale e responsabilizzazione del reo. Ma il percorso da compiere è ancora lungo e non privo di insidie e contraddizioni. Un cambiamento culturale profondo è precondizione imprescindibile per l’inserimento dei percorsi di giustizia riparativa e solo un reale mutamento nel modo di concepire la giustizia penale potrà rendere la RJ uno strumento di “produzione di socialità”, capace di rigenerare legami, attraverso una N. 2 - Marzo-Aprile 2016