Introduzione La ricerca di una nuova sinistra
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Introduzione La ricerca di una nuova sinistra
Introduzione La ricerca di una nuova sinistra La politica come progetto Gli undici saggi qui raccolti sono stati scritti dopo la morte di Bruno Trentin avvenuta il 23 agosto 2007. L’intento è quello di fornire, nell’insieme, non tanto il percorso o meglio la traccia della straordinaria biografia politica di Trentin, quanto di metterne in rilievo l’originalità del pensiero politico. Per Trentin la politica ha senso e valore se contiene in sé e persegue un progetto, un nuovo progetto di società. Non si può limitare alla gestione pubblica e amministrativa dello Stato e delle istituzioni, e neppure alla conquista del potere politico e alla predisposizione e attuazione delle tattiche e delle strategie a questo fine. Non sono molti, non solo nel nostro paese, a pensare in questo modo. Trentin è stato una delle personalità intellettuali di maggiore spicco della politica come progetto. La sua progettualità è particolare, originale: sebbene sia nutrita di tensione ideale e persino utopica, non si proietta in un futuro lontano, immaginario, ma nel presente. È valida se è capace di rendere migliore o più precisamente di trasformare, cambiare la vita quotidiana degli esseri umani, a partire da coloro che nella scala sociale stanno più in basso e più soffrono, e sopra tutti, degli operai, di cui, fin da giovane, ha scoperto «la grande voglia di libertà e di conoscenza» che fornisce loro una ineguagliabile «fierezza». Coerentemente il metro di misura del progetto è non solo il consenso, ma la partecipazione democratica alla sua realizzazione e prima ancora alla elaborazione. In una certa misura è una specie di esperienza scientifica di tipo sociale, paragonabile alla sperimentazione fisica, in cui la verifica, nella vittoria e 11 nella sconfitta, si riscontra attraverso sia il risultato effettivo e concreto, sia la partecipazione collettiva di massa. Spiega bene questo modo di procedere Vittorio Foa, che con Bruno ha lavorato a lungo, nel sindacato, ma già prima nella Resistenza. «Io ero d’avviso – scrive Foa nel suo libro di memorie Il cavallo e la torre – di non programmare il futuro, di proporci quello che ci sembrava essenziale e poi chaque jour a sa peine [...]. Bruno, invece, era più impegnato a prevedere gli ostacoli e a predisporre le misure per superarli, vedendo gli ostacoli non come puri impedimenti, ma come comportamenti delle persone alla cui partecipazione era necessario pensare in anticipo». Sia Foa che Trentin hanno partecipato alla realizzazione del Piano del lavoro di Di Vittorio, dal 1949 agli anni successivi. Facevano parte dell’ufficio studi della CGIL. In Bruno questa esperienza ha lasciato una traccia profonda e soprattutto la volontà progettuale che ha caratterizzato tanta parte del suo modo di essere. Il progetto trentiniano ha alla radice una visione del capitalismo non ideologica. Probabilmente gli studi a Harvard sulla realtà americana, sul New Deal e sul fordismo gli avevano aperto gli occhi. Se si leggono gli appunti degli anni Cinquanta, ritrovati dopo la sua morte, a dire il vero scarsi, si riscontra che la sua preoccupazione principale è controbattere la tesi prevalente nella cultura marxista di allora sul crollismo del capitalismo e sulla pauperizzazione della classe operaia. Per Bruno invece è in atto il neocapitalismo che sviluppa processi di modernizzazione nelle nuove tecnologie, nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni sindacali. Non ho mai sentito Bruno parlare di abbattimento del capitalismo e nemmeno di fuoriuscita. Ne La libertà viene prima. La posta in gioco del conflitto sociale ha scritto che è necessario lottare per «superare le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell’economia di mercato» e per introdurre «elementi di socialismo». È una strategia progressiva, che cercherò di illustrare fra poco trattando del controllo operaio. L’altro punto base del progetto è la severa critica del socialismo di Stato, critica che si fa più aspra dopo la repressione sovietica della rivolta popolare e operaia ungherese del 1956. Il socialismo di Stato non è riuscito a cambiare la condizione operaia. La rivoluzione dall’alto – così la definiva Stalin – è un fallimento storico. Essa va sostituita con una rivoluzione dal basso in cui la classe operaia sia direttamente protagonista del cambiamento. C’è parecchio Gramsci 12 in questo modo di pensare, il Gramsci che distingue il processo rivoluzionario dell’Occidente, più graduale e specialmente più egemonico, rispetto a quanto è avvenuto in Russia e in Oriente con l’assalto al Palazzo d’inverno della rivoluzione di ottobre. C’è soprattutto quel nesso tra riforme e rivoluzione che è uno dei nodi teorici e pratici più discussi allora; nodo che Antonio Giolitti, dopo l’Ungheria, pone al centro della sua riflessione e come titolo del suo pamphlet, prima di uscire dal PCI. Bruno, amico e vicino politicamente a Giolitti, vi si ritrova. Ma a differenza di Giolitti non lascia il PCI, perché ritiene che il rinnovamento della sinistra non passi attraverso i «tatticismi» del PSI ma all’interno del partito comunista. Alfredo Reichlin alla morte di Bruno ha scritto che Trentin è parte, parte importante, del riformismo atipico, reale del PCI. Senza dubbio la strategia riformista, dopo il 1956, è, in pratica, considerata l’unica possibile dal gruppo dirigente, specialmente dalla generazione più giovane che aveva aderito al partito sull’onda della Resistenza e del partito nuovo, di massa, togliattiano. Si parlava di processo riformatore, anziché di processo riformista ma la sostanza era quella. Anche Bruno faceva parte di questa generazione, ma non so se sarebbe stato d’accordo. Sicuramente era critico verso il riformismo teorico e verso il moderatismo della politica riformista. In uno degli ultimi appunti del quaderno di diario del 2006, di fronte alla babele riformista del costituendo Partito democratico (tutti riformisti), scrive con sarcasmo: «Meglio la socialdemocrazia!». Sebbene abbia dissentito dalla politica socialdemocratica, considerata verticistica, paternalistica nei confronti del mondo del lavoro, compromissoria. Riconosceva però alla socialdemocrazia tedesca e nordica di essere più avanti nell’umanizzazione del lavoro e nei servizi per l’occupazione. La libertà al centro del lavoro È un luogo comune ripetere che l’identità della sinistra sia imperniata sul concetto di lavoro, che per l’uomo di sinistra il lavoro sia il punto di partenza per capire il mondo e l’atto costitutivo della condizione umana. Per Trentin c’è qualcosa di più: al centro del lavoro esiste la libertà. Con il lavoro la persona umana realizza e valorizza se stessa, il proprio progetto di vita, la libertà. La degenerazione del lavoro in 13 merce, in cosa, come mera appendice della macchina, della tecnica, robotizza l’uomo ed è la negazione di tutto questo. Nella letteratura ci sono due narrazioni straordinarie che hanno rappresentato i due poli contrapposti di questa condizione. Il polo negativo è, nel racconto di Herman Melville, lo scrivano Bartleby il quale, ad un certo punto della sua vita, si rifiuta di copiare l’ennesimo atto giudiziario o la lettera smarrita. Lo fa con garbo – preferirei di no – ma non ne può più di quella fatica ripetuta, priva di senso e di vita, che non gli dà niente, lavoro morto; e preferisce lasciarsi morire. Il polo positivo si legge ne La chiave a stella. Primo Levi, con la sua scrittura precisa, misurata, scientifica, scrive: «Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra, ma questa è una verità che non molti conoscono». Trentin non ha mai avuto una concezione «lavorista e sviluppista» come si diceva una volta, cioè una concezione ideologica del lavoro operaio tipica di un certo marxismo dogmatico e deterministico, Affronto questo tema in La città del lavoro e l’altra strada della sinistra e dunque non ci ritorno. Neppure aveva una concezione totalizzante, dove il lavoro è tutto. Sapeva, sulla base della propria esperienza e angoscia esistenziale, la complessità e il valore dell’individuo. La persona umana è il frutto di tanti aspetti, interessi, relazioni con gli altri e con la natura, sentimenti ed emozioni, compresi il tempo libero e l’ozio. Ma il lavoro è di un grado superiore, anche agli affetti e alla famiglia, che pure sono così importanti, per attribuire un senso alla propria esistenza. Spesso non è così, la piena e buona occupazione è «una verità che non molti conoscono» per usare le parole di Levi. Spesso il lavoro non c’è oppure è soltanto una necessità, mera fatica, senza libertà e senza alcuna autonomia. Ma questo Bruno lo sapeva bene. E si batteva perché il diritto al lavoro fosse un diritto di cittadinanza costituzionale e i diritti sociali – oltre al lavoro, l’istruzione, la salute, la casa e così via – fossero alla pari con i diritti civili e politici. Il controllo operaio e la democrazia nei luoghi di lavoro Il tema più significativo del progetto trentiniano, su cui più continua è stata la sua iniziativa sindacale e politica, è stato il controllo 14 operaio. Il suo punto di partenza non è l’esperienza consiliare del primo dopoguerra, gli anni 1919-1920, in concomitanza con la rivoluzione di ottobre; esperienza che si estese in molti paesi europei e che egli considerava storicamente fallita sia nella versione sovietista che in quella gramsciana-ordinovista (i consigli di fabbrica come organi pubblici del nuovo Stato proletario o soltanto come contropoteri del processo rivoluzionario). E tiene conto solo in parte sia della esperienza dei consigli di gestione del dopo Liberazione, sia del dibattito che sorse nel 1957, in particolare sulle tesi, un po’ estreme, sul controllo operaio di Raniero Panzieri e Lucio Libertini. La sua ricerca è originale, strettamente connessa al sindacato e al sindacato italiano. I consigli dei delegati di squadra e di reparto sono le strutture sindacali di base, unitarie e aperte a tutti i lavoratori, anche a quelli non iscritti. L’obiettivo è il controllo dal basso, dal luogo di lavoro, del processo produttivo e dello sviluppo capitalistico, di un capitalismo moderno a regime democratico. Questa è la gradualità: prima il controllo dell’organizzazione del lavoro, contrattando tutta la gamma delle relazioni sindacali, non solo gli aspetti salariali, ma soprattutto i ritmi, la salute, l’ambiente, il progresso tecnologico e così via, poi il controllo degli investimenti e delle strategie aziendali, realizzando così una democrazia industriale di tipo nuovo attraverso la cooperazione che egli definisce anche codeterminazione senza rinunciare però al ruolo autonomo del sindacato e alla conflittualità. «L’impresa – scriverà ne La libertà viene prima – non deve più essere un mondo a sé, che smentisce l’ordinamento democratico», ma deve essere «l’organizzazione che crea conoscenza» in quanto riunisce e concentra l’intelligenza collettiva di tutti i lavoratori, a qualsiasi livello operino. Questa concezione consiliare, che può essere definita trentiniana, anche se, come ha sempre riconosciuto, ha avuto apporti di altre culture, in particolare quella del sindacato cristiano, incontrò parecchi ostacoli sul suo cammino. Nel Partito comunista e nella stessa CGIL una parte autorevole, come Giorgio Amendola e Agostino Novella, segretario fino al 1970 della Confederazione, la contrastò in modo anche aspro. L’argomento principale è che fosse sbagliato oscurare o soltanto stemperare i diversi orientamenti politici e sindacali e che i lavoratori dovessero avere la possibilità di esprimere la propria rappresentanza e le proprie preferenze sulla 15 base di liste distinte, cosa che l’elezione dei delegati su scheda bianca e sulla base del gruppo omogeneo di lavoro non consentiva, Non era un’argomentazione priva di fondamento, come ebbi modo di riscontrare direttamente anni dopo in un lungo confronto con Amendola, ma è evidente che così si mandava a monte il rapporto tra delegati, consigli e controllo dell’organizzazione del lavoro che era il cuore del progetto. Alla tesi trentiniana si contrapponeva anche un’altra ipotesi, quella di considerare i consigli «motori» del movimento politico di massa rivoluzionario e quindi embrioni del contropotere anticapitalistico. Venne sostenuta specialmente da Il Manifesto, parti del PSIUP e altre forze più radicali. Vittorio Foa e Sergio Garavini proponevano una via intermedia: i consigli dovevano essere autonomi rispetto al sindacato, avere una vita e compiti propri. Come si vede anche da questa frettolosa cronaca l’orientamento comunista, e ancora di più quello di sinistra, era incerto e diviso. Soltanto nell’autunno del 1970, alla fine di una riunione seminariale, molto dibattuta, aperta da un’equilibrata relazione di Fernando Di Giulio, Enrico Berlinguer, che era il vicesegretario del Partito e segretario di fatto, affidò a Luciano Lama, fresco di nomina, come segretario generale, la soluzione della questione. Così il sindacato dei consigli si affermò e con esso la linea di Trentin, che aveva come obiettivo principale la democrazia nei luoghi di lavoro. La visione «eretica» della democrazia e del socialismo Le nuove forme di democrazia operaia sono parte della sua concezione eretica della democrazia. Norberto Bobbio ha scritto che la democrazia è sovversiva perché procede dal basso verso l’alto, attraverso il voto, la sovranità popolare, l’alternanza con il principio maggioritario e così via. Trentin, a mia conoscenza, non ha mai messo in discussione questi principi, ma ha teso a sottolineare che la democrazia per essere per davvero sovversiva doveva potersi esercitare anche e forse innanzitutto dal basso, nella società civile, con un radicato sistema di autonomie e di diritti, e di nuove forme di democrazia, anche operaia, che favorissero la realizzazione della libertà eguale e delle pari opportunità. L’autotutela individuale e quella collettiva nella società civile sono, secondo lui, la vera ga16 ranzia di un regime democratico. I sindacati, che sono l’organizzazione sociale più robusta, devono adoperarsi per una riforma della società civile che vada in questo senso. Ciò è tanto più necessario poiché il potere politico è soggetto per la propria natura, con il passare del tempo, a conservare se stesso e quindi a degenerare frenando i processi di liberazione, non a crearli, promuoverli o almeno favorirli come sarebbe proprio della politica. La politica secondo lui ha come compito primario quello di ridurre e via via eliminare le distanze, i divari, le ineguaglianze tra chi governa e chi è governato. Da tenere presente che Bruno non aveva assolutamente il mito della democrazia diretta. Anche verso la democrazia referendaria nutriva riserve e perplessità; in fabbrica e nei luoghi di lavoro tendeva a ricorrere al referendum soltanto in casi eccezionali e se vi era obbligato. Non c’è giacobinismo politico nel suo pensiero e nel suo modo di agire. Nessuna traccia di quello spirito azionista, critico e talora sprezzante nei confronti del partito di massa, di cui si era nutrito da giovane, lontano dal modo di pensare del Partito comunista, La politica non è mai stata per lui soltanto testimonianza personale. Se mai c’è di derivazione azionista l’aristocraticismo della libertà di pensiero e della libertà in generale. Anche il suo socialismo è eretico. Su questo tema come su quello della democrazia rimando ai saggi qui presentati. Il socialismo di Trentin non è più «un derivato» della necessità storica, che comporta anche la rinuncia della libertà. È scomparsa ogni traccia di determinismo o di finalismo storico così presente nella generazione che ha fondato il Partito comunista. Non è affatto un sistema codificato con le sue regole e norme prestabilite sullo sviluppo delle forze produttive e sui rapporti di proprietà, sul primato dello Stato e di conseguenza del partito della classe operaia e così via. Nemmeno si riduce alla via democratica al socialismo, che pure è un evidente progresso nel rapporto tra mezzo e fine. Per Trentin è una scelta, certamente valoriale, ma soprattutto pratica e processuale, che può anche subire battute di arresto, essere capovolta e sottoposta ad alternanza da parte delle forze conservatrici di destra, Ma ecco il nuovo della democrazia dal basso: questo socialismo si può realizzare subito, immediatamente, dando vita a elementi di socialismo nella società di oggi, cambiandone la struttura, la cultura e le coscienze. 17