1 Appunti Procedimento avanti il Giudice di Pace penale (definizioni

Transcript

1 Appunti Procedimento avanti il Giudice di Pace penale (definizioni
Appunti
Procedimento avanti il
impugnazioni, esecuzione)
Giudice
di
Pace
penale (definizioni
alternative,
Una celere lettura, inevitabilmente un po’ didattica, della seconda parte delle norme
(decreto legislativo 274/2000) che disciplinano il rito penale del giudice di pace impone
qualche chiarimento preliminare che riguarda in modo specifico le previsioni da trattare:
il sistema processuale (“sottosistema”, in realtà) è privo dei riti alternativi del
codice di procedura penale, ma conosce “definizioni alternative” (artt. 34, tenuità del
fatto, e art. 35, estinzione del reato per effetto di condotta riparatoria) di sicuro interesse
applicativo; da notarsi che non c’è udienza preliminare;
le sanzioni comminabili dal giudice di pace (artt. 52 ss. decr. 274) sono altrettanto
peculiari;
anche il sistema delle impugnazioni ha caratteristiche di autonomia e forti
limitazioni all’appellabilità oggettiva;
non è prevista la concessione della sospensione condizionale della pena (art. 60
decr. 274);
sono inapplicabili le sanzioni sostitutive previste dalla legge 689/1981; inoltre
l’esecuzione differisce da quella del rito ordinario (e non c’è il giudizio di sorveglianza).
Taluni dei temi in trattazione meritano specifiche riflessioni o citazioni dello stato della
giurisprudenza, che risulta di grande aiuto per la comprensione del microsistema. Altri
istituti, quand’anche peculiari, non presentano problemi interpretativi sicché ne sarà
semplicemente riportata la norma di riferimento.
Definizioni alternative del procedimento: particolare tenuità del fatto.
La tenuità del fatto è causa di improcedibilità.
Sul piano teorico può essere ricollegata a una selezione di temi tradizionali della materia
penalistica (tra questi, da un lato, l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale e
,dall’altro, il principio di offensività del fatto di rilevanza penale) molto interessanti dal
punto di vista processuale e anche sostanziale.
Il testo della norma:
Art. 34. Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto.
1. Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del
pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non
giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore
corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della
persona sottoposta ad indagini o dell'imputato.
2. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice dichiara con decreto d'archiviazione non
1
doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della
persona offesa alla prosecuzione del procedimento.
3. Se è stata esercitata l'azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con
sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono.
Secondo l’intento del legislatore del decreto 274, l'istituto della "particolare tenuità del
fatto" mirerebbe a fornire una risposta –in primo luogo- a istanze di deflazione senza
incidere sull’obbligo di esercizio dell’azione penale e la sua applicazione è stata
volutamente circoscritta al GdP “allo scopo di saggiare la praticabilità di eventuali,
successive estensioni applicative”.
Com’è noto, l’art. 34 contiene il riferimento alla disposizione dell'art. 27 del
procedimento penale minorile, dove si consente l'adozione di una sentenza di
proscioglimento per irrilevanza penale del fatto, legata alla tenuità dell'illecito e
all'occasionalità della condotta, "quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le
esigenze educative del minorenne". In tali contesti applicativi “il fatto, seppure offensivo,
risulterebbe graduabile ‘verso il basso’ in termini di complessivo disvalore, così da non
giustificare l'esercizio dell'azione penale”.
L’istituto presuppone l'esistenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, tuttavia
segnato da una generale esiguità lesiva e affiancato dall'inesistenza di un interesse della
persona offesa alla prosecuzione del procedimento (in astratto, dunque, non c’è mai
rinuncia aprioristica all’esercizio dell’azione): da notarsi che non è la fattispecie astratta
di reato a risultare "bagatellare", ma la sottofattispecie concreta.
Secondo un esempio utilizzato anche nella relazione delle legge 274, la fattispecie
incriminatrice prevista dall’art. 582 c.p. non è "bagatellare", perché sanziona
comportamenti meritevoli di sanzione penale; e, tuttavia, possono darsi, in concreto, fatti
di lesione contrassegnati da una particolare tenuità di disvalore (derivante dalla esiguità
dell'offesa e della colpevolezza) che non giustificano, in questo caso, l'esercizio
dell'azione penale.
La (peraltro evidente) discrezionalità ha comunque un peso specifico ed è svincolata da
particolari necessità di motivazione, persino nelle massime giurisprudenziali:
La previsione contenuta nell'art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 (Procedimento penale davanti
al giudice di pace), in forza della quale viene attribuito al giudice il potere-dovere di chiudere il
procedimento, sia prima che dopo l'esercizio dell'azione penale, quando il fatto incriminato
risulti di "particolare tenuità", rispetto all'interesse tutelato, e tale per l'effetto da non
giustificare l'esercizio o la prosecuzione dell'azione penale, configura un potere discrezionale
del giudice, il cui mancato esercizio non impone al giudicante una esplicita motivazione, laddove
l'applicabilità dell'istituto non sia stata invocata dall'interessato (Cass., sez. IV, 25 settembre
2007 , n. 44766).
Quali, dunque, gli elementi costitutivi della clausola (si parla, al proposito, di
“presupposti” della) improcedibilità?
-
il danno o il pericolo derivati sono esigui;
-
il fatto è occasionale;
-
il grado di colpevolezza è basso;
il procedimento pregiudicherebbe le esigenze di lavoro, studio, famiglia o salute
dell’autore
2
Secondo l’interpretazione dominante, la possibilità della declaratoria di improcedibilità è
subordinata alla ricorrenza congiunta di tutte le componenti del modello sinora descritte.
E' ovvio peraltro che il criterio dell'esiguità del danno o del pericolo assumerà la
funzione di primo indice rivelatore. Sul punto la giurisprudenza pare essersi conformata,
ma si sono registrate opinioni contrarie a siffatta lettura:
Nel procedimento penale davanti al giudice di pace, l'applicabilità della causa di improcedibilità
di cui all'art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 (particolare tenuità del fatto), va apprezzata avuto
riguardo non solo alla esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, ma anche alla
sussistenza degli ulteriori indici normativi della occasionalità della condotta, del basso grado di
colpevolezza e dell'eventuale pregiudizio sociale dell'imputato, i quali ultimi non sono alternativi
ma concorrenti con il primo. Ne consegue che nell'ipotesi in cui il danno o il pericolo non sia
esiguo, al fine di escludere la dichiarazione di improcedibilità, devono essere valutati anche gli
altri parametri di riferimento sopra enunciati. (in tale fattispecie la Corte ha annullato la
sentenza del GdP che aveva escluso la improcedibilità; cfr. Cass. pen. , sez. IV, 7 luglio 2005 , n.
34179.
Prevale, tuttavia, il criterio della valutazione congiunta dei presupposti:
In tema di procedimento davanti al giudice di pace, l'esistenza della causa di improcedibilità
costituita dalla particolare tenuità del fatto deve essere valutata attraverso l'accertamento
positivo della presenza concorrente - e non soltanto alternativa - nella fattispecie di tutti gli
indici normativamente indicati (esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato,
occasionalità della condotta, basso grado di colpevolezza e pregiudizio sociale per l'imputato
cfr. Cass. pen., sez. IV, 9 luglio 2004 , n. 40203, in Cass. pen. 2006, 2 610, conforme Cass.
pen., sez. IV, 15 febbraio 2005 , n. 15374, in Cass. pen. 2006, 9 2914).
Sul piano della sequenza procedimentale, occorre distinguere tra la fase antecedente
all'esercizio dell'azione penale e quella successiva.
Durante la fase delle indagini preliminari, la richiesta di improcedibilità per particolare
tenuità del fatto può essere avanzata dal pubblico ministero a condizione che non risulti
l'interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento (si pensi, ad esempio,
all'offeso dal reato che ha richiesto di essere avvertito in caso di domanda di
archiviazione e che manifesta la sua contrarietà al mancato esercizio dell'azione penale
per la particolare tenuità del fatto; sul piano pratico, se dovessero mancare elementi dai
quali ricavare quale sia la volontà del denunciante, il pubblico ministero o la polizia
giudiziaria potranno sempre escuterla).
Il GdP potrà disporre l’archiviazione con decreto oppure ordinare l’imputazione coatta
oppure nuove indagini (e, in tal caso, chiedere che sia verificata la volontà della p.o.).
Dopo l'esercizio dell'azione penale, la declaratoria di improcedibilità è subordinata
all'esistenza della "non opposizione" della persona offesa e dell'imputato (si riconosce
all'imputato la possibilità di ottenere una sentenza di proscioglimento nel merito, atteso
che il non luogo a procedere per la particolare tenuità del fatto può comunque incidere,
in futuro, sulla valutazione della "occasionalità" del fatto che, come è noto, costituisce
uno degli elementi costitutivi della condizione di procedibilità.
Da notarsi, sul piano sistematico, che l’opposizione della p.o. è superabile utilizzando la
previsione dell’art. 35 del decreto.
La giurisprudenza più interessante in tema di applicazioni dell’art. 34 della legge
274/2000 è intervenuta soprattutto sui reati “senza persona offesa” ovvero di pericolo.
Prevale un orientamento “aperto”:
3
Nel procedimento davanti al giudice di pace la particolare tenuità del fatto quale causa di
improcedibilità è applicabile ad ogni tipologia di reato purché sussistano le condizioni previste
dalla norma. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto applicabile la disposizione ex art. 34 D.Lgs.
n. 274 del 2000 anche al reato di violazione dell'obbligo di fermarsi in caso di incidente stradale,
nonostante si tratti di reato di pericolo per il quale non è prevista una persona offesa che possa
essere sentita ai sensi dell'art. 35 del citato d.lgs.). Si veda Cass. pen., sez. IV, 28 settembre 2007
, n. 43383.
Fino al 2006 era diffuso l’orientamento che riteneva che anche la guida in stato di
ebbrezza (allorché era di competenza del GdP) potesse essere considerata un fatto di
lieve entità (si veda infatti Cass. pen., sez. IV, 31 gennaio 2008 , n. 12350, che si
pronunciava su fatto commesso anteriormente al trasferimento della competenza al
tribunale, nonché Sez. IV, 28 aprile 2006 , n. 24249; contra: Sez. III, 19 aprile 2007 , n.
23114.
Anche la non opposizione della persona offesa è stato considerato un parametro di
valutazione della non esiguità (sulla base della tesi che se vi è interesse al procedimento
il fatto non sarebbe di lieve entità e, soprattutto, rinviando alla composizione prevista
dall’art. 35 (si veda ad esempio Cass. pen., 26 giugno 2003, in www.penale.it.).
Sul piano pratico occorre prestare attenzione al “comportamento concludente” della
persona offesa.
Ci si chiede, infatti, in che termini rileva la mancata comparizione del querelante al
dibattimento nel procedimento per reati di competenza del giudice di pace?
Sul piano formale la mancata comparizione non presenta conseguenze ma, in concreto,
può essere “interpretata” come segnale di disinteresse al proseguimento del giudizio
contro il querelato (orientamento tutt’altro che univoco).
Al proposito vi è qualche sentenza pubblicata:
Tra i presupposti indefettibili della pronuncia di improcedibilità per"particolare tenuità del
fatto", ex art. 34 d.lg. n. 274 del 2000, è la "esiguità del danno o del pericolo" derivato dal fatto
di reato. Nel relativo giudizio valutativo può assumere sicura rilevanza la circostanza
rappresentata dalla mancata, ingiustificata comparizione della persona offesa al dibattimento,
comportamento da assumere come sintomatico del disinteresse della stessa all'esito del giudizio
e, in sostanza, del fatto che la condotta non ha lasciato conseguenze sensibili sulla vittima (Trib.
Fermo, 23 aprile 2004, in Riv. pen. 2004, 730).
Definizioni alternative del procedimento: estinzione del reato per condotta
riparatoria.
Questa la norma di riferimento:
Art. 35. Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.
1. Il giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il
reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto,
prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le
restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
2. Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1, solo se
ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del
reato e quelle di prevenzione.
3. Il giudice di pace può disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore a
tre mesi, se l'imputato chiede nell'udienza di comparizione di poter provvedere agli adempimenti
4
di cui al comma 1 e dimostri di non averlo potuto fare in precedenza; in tal caso, il giudice può
imporre specifiche prescrizioni.
4. Con l'ordinanza di sospensione, il giudice incarica un ufficiale di polizia giudiziaria o un
operatore di servizio sociale dell'ente locale di verificare l'effettivo svolgimento delle attività
risarcitorie e riparatorie, fissando nuova udienza ad una data successiva al termine del periodo
di sospensione.
5. Qualora accerti che le attività risarcitorie o riparatorie abbiano avuto esecuzione, il giudice,
sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato enunciandone
la causa nel dispositivo.
6. Quando non provvede ai sensi dei commi 1 e 5, il giudice dispone la prosecuzione del
procedimento.
La causa di estinzione prevista dall’art. 35 del decreto 274 abbraccia tutti i reati di
competenza del giudice di pace (il microsistema è sempre fondato su scopi conciliativi).
Si ritiene che il giudice di pace abbia il potere di sindacare la congruità delle attività
risarcitorie: si è infatti previsto che, qualora l'imputato chieda di poter riparare e risarcire
nel corso dell'udienza di comparizione, il giudice, oltre che assegnare un termine per
l'adempimento, possa altresì impartire prescrizioni che, nella maggior parte dei casi e
ove possibile, saranno finalizzate all'eliminazione delle cause del reato.
Il meccanismo estintivo ex art. 35 d.lvo 274 aveva, nell’intento del legislatore, anche
scopi di prevenzione speciale e generale (“Il giudice di pace pronuncia la sentenza … se
ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del
reato e quelle di prevenzione”).
Una realistica osservazione. La prassi della monetizzazione del danno finirà per superare
il carattere retributivo dell’istituto, che ancora resiste nelle massime della Cassazione:
E’ illegittima la decisione con cui il giudice di pace subordini l'operatività della speciale causa
di estinzione del reato prevista dall'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 al risarcimento del danno da
parte dell'imputato, considerato che detta causa estintiva non può essere ravvisata al di fuori
degli stretti parametri normativi indicati dal suddetto art. 35, in virtù dei quali l'attività
risarcitoria non è da sola sufficiente a consentirne l'operatività, richiedendosi unitamente alla
dimostrazione, da parte dell'imputato, dell'avvenuta riparazione del danno cagionato alla
vittima, mediante le restituzioni ed il risarcimento, anche l'eliminazione effettiva delle
conseguenze dannose o pericolose del reato. Ne deriva che il giudice deve riscontrare e valutare
le attività riparatorie, apprezzandone in concreto l'idoneità a soddisfare le esigenze di
riprovazione del reato e quelle di prevenzione, in modo da assicurare comunque una valenza
retributiva e di prevenzione speciale all'intervento giurisdizionale dinanzi a condotte improntate
ad un dato grado di gravità e pericolosità. (Nella specie, afferma in motivazione la S.C.,
l'apprezzamento in concreto - trattandosi del reato di ingiuria concernente un avvocato - doveva
riguardare la pubblicità dell'ingiuria, le ripercussioni ambientali nel foro locale di un piccolo
centro geografico, con conseguente enfasi dell'offesa al decoro del legale ingiuriato ecc.). Così
Cass. pen. , sez. V, 18 gennaio 2007, n. 5581.
Oppure:
La speciale causa di estinzione del reato prevista dall'art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, non
opera in presenza della sola dimostrazione, da parte dell'imputato, dell'avvenuta riparazione del
danno cagionato alla vittima, mediante le restituzioni o il risarcimento nonché l'eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ma è necessario che il giudice ritenga che tali
attività riparatorie risultino in concreto idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato
e quelle di prevenzione, in modo da assicurare comunque una valenza retributiva e di
prevenzione speciale all'intervento giurisdizionale dinanzi a condotte di un certo grado di
gravità e di pericolosità (Cass. pen., sez. IV, 9 dicembre 2003 , n. 11522).
Due dati meritano un cenno particolare.
5
- Il dato normativo più rilevante (almeno dal punto di vista pratico): per pronunciare la
sentenza ex art. 35 non occorre il consenso della p.o. che deve solo essere sentita
(giurisprudenza, sul punto, pacifica, cfr. Cass. pen. , sez. V, 21 aprile 2006 , n. 22323).
- Il dato giurisprudenziale più importante: a differenza che per l’improcedibilità per
tenuità (di cui all’art. 34) il meccanismo estintivo ex art. 35 non opera per i reati di
pericolo.
Infatti:
Non è applicabile la causa di estinzione del reato prevista dall'art. 35 d.l.vo 28 agosto 2000 n.
274 ai reati di pericolo astratto, quali ad es. la guida sotto l'influenza dell'alcool e la guida in
stato di alterazione per l'uso di sostanze stupefacenti, poiché rispetto ad essi non è ipotizzabile
alcuna forma di riparazione del danno. Così Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2004, in penale.it .
Conforme, malgrado l'avvenuto versamento di una somma di denaro al fondo vittime della
strada, Cass. pen., sez. IV, 7 febbraio 2007, n. 39563.
Si noti che i reati previsti dall’art. 186 C.d.S. sono ora, entrambi, di competenza del
tribunale e che quindi le esemplificazioni riportate riguardano soltanto il problema
astratto dell’applicabilità dell’istituto ai reati di pericolo.
L’istituto, la cui importanza non va sottovalutata (consente l’estinzione del reato a
prescindere dalla volontà dell’offeso), è stato oggetto di varie questioni.
Ci si chiede se l’imputato abbia diritto all’avviso circa la possibilità di estinzione
mediante risarcimento e se la sua omissione sia causa di nullità così come avviene per le
vicende processuali elencate nell’art. 552 c.p.p.: al proposito la Consulta ha replicato che
il sistema non necessita di avviso specifico, il quale andrebbe oltre le funzioni del
processo avanti il GdP, dal momento che, in ogni caso, il procedimento inizia con il
tentativo di conciliazione (si veda al proposito Corte costituzionale, 28 marzo 2008 , n.
82 e, prima, Corte costituzionale, 13 giugno 2006 , n. 225).
Da non trascurare, tuttavia, altri aspetti procedimentali.
In primo luogo, si noti che la causa estintiva del reato di cui all'art. 35 d.lg. n. 274 del
2000 non può operare oltre l'udienza di comparizione; tale limite è superabile solo dal
provvedimento con cui il giudice dispone la sospensione del processo per consentire
all'imputato, che ne abbia fatto richiesta, di porre in essere le condotte riparatore (ove
occorra, si veda Cass. pen., sez. V, 22 settembre 2005, n. 40818). In altri termini, la
efficacia estintiva della riparazione acquisisce un suo significato sistematico solo se evita
la celebrazione del processo.
Ovviamente il risarcimento o le restituzioni vanno provate (salvo il caso della diretta
audizione della p.o.). Valga, quindi, questa sorta di promemoria operativo:
aa) (Preferibilmente) occorrerà produrre, prima o, al più tardi, per l'udienza di
comparizione, la quietanza contenente clausole totalmente liberatorie a pieno saldo del
danno riportato, con dichiarazione di non avere più nulla a pretendere e con rinuncia ad
ogni azione legale;
bb) In difetto, occorrerà provare l’offerta risarcitoria (meglio con offerta reale, ma nella
6
prassi si ammette la “via breve”, purché documentata).
L’imputato-querelato può, in verità, ottenere il proscioglimento con formula di “non
doversi procedere” anche dopo l’udienza di comparizione ma, in tal caso, solo tramite
remissione della querela; dunque:
cc) Qualora si proceda tramite querela, vi è solo la remissione della stessa, che richiede –
questa sì- consenso dell’offeso e quindi implica una sua maggiore forza di
“negoziazione”.
La corretta applicazione dell’art. 35 d. lvo 274 è alla base di quelle decisioni con cui i
GdP escludono che le spese di parte siano conteggiabili nell’attività riparatoria e,
entrando nel merito della congruità dell’offerta risarcitoria, pronunciano la sentenza con
effetto estintivo malgrado l’opposizione della persona offesa.
Qualche massima illustra il problema:
Nel caso in cui l'imputato abbia proceduto alla riparazione del danno cagionato dal reato,
mediante il risarcimento, la determinazione del danno risarcibile (e risarcito) deve essere
opportunamente rimessa ad una valutazione oggettiva dell'organo giudicante e non invece alla
richiesta discrezionale della p.o., ivi incluse quelle relative alle spese legali e alle spese di
costituzione di parte civile, le quali ultime possono anzi del tutto essere escluse dalla
determinazione del danno in quanto non ne sono conseguenza diretta, né sono necessitate
sempre e comunque dal reato, risultando invece eventuali e di importo variabile (nel caso di
specie le stesse avrebbero potuto essere facilmente evitate qualora la p.o. avesse prestato
acquiescenza al risarcimento offerto che doveva essere considerato ampiamente equo ed
esaustivo in relazione al danno biologico, morale e spese mediche documentate). Così il
Tribunale di Urbino, 8 luglio 2004.
Le spese di costituzione di parte civile non rientrano nelle "conseguenze dannose o pericolose
del reato" o nella voce "danno cagionato dal reato", poiché non ne sono conseguenza diretta nè
sono necessitate sempre o ovunque dal reato, per cui, nel procedimento davanti al giudice di
pace, accertato l'integrale risarcimento dei danni, può essere dichiarata l'estinzione del reato
per avvenuta riparazione, anche se tali spese non sono state rimborsate. Così il Giudice di Pace
di Lanciano, sentenza 15 marzo 2004.
Da rammentare che la sentenza con la quale il giudice di pace, nella udienza di
comparizione, dichiara estinto il reato per avere l'imputato, previamente, proceduto alla
riparazione del danno cagionato, è impugnabile soltanto mediante ricorso per cassazione.
Le impugnazioni.
Il sistema delle impugnazioni del procedimento avanti il GdP è speciale rispetto a quello
ordinario.
Una prima distinzione vale per le impugnazione del pubblico ministero e del
ricorrente (ossia il privato che ha chiesto la citazione a giudizio dell’imputato). Queste
le due norme fondamentali:
Art. 36. Impugnazione del pubblico ministero.
7
1. Il pubblico ministero può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace
che applicano una pena diversa da quella pecuniaria (1) .
2. Il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di
pace.
(1) Comma così modificato dall'articolo 9 della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
Art. 38. Impugnazione del ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell'imputato.
1. Il ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell'imputato a norma dell'art. 21 può
proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del
giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l'impugnazione da parte del pubblico
ministero.
2. Con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l'impugnazione, il ricorrente è
condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato e dal responsabile
civile. Se vi è colpa grave, il ricorrente può essere condannato al risarcimento dei danni causati
all'imputato e al responsabile civile.
Pertanto l'ambito dell'appello da parte del pubblico ministero (art. 36 del decreto)
concerne solo le sentenze di condanna emesse dal giudice di pace che hanno applicato
una pena diversa da quella pecuniaria (si noti che da taluno si ipotizza la recuperabilità
dell’appello -contro altra tipologia di sentenza emanabile dal GdP- ex artt. 2 d. 274/2000
e 593 c.p.p., come riformato dalla Consulta il 6.2.2007 -sentenza n. 26 del 2007 che ha
ripristinato l’appellabilità dei proscioglimenti da parte del p.m.- ma tale via non sembra
formalmente praticabile senza un intervento, sul punto, del legislatore o della Corte
costituzionale).
Qualche rilievo merita il problema della legittimazione dell’ufficio “impugnante” sul
quale si sono addirittura pronunciate le Sezioni Unite:
La legittimazione a proporre ricorso per Cassazione contro le sentenze dei giudice di Pace non
spetta solo al procuratore della Repubblica presso il tribunale, nella qualità di rappresentante
dell’ufficio del p.m. presso il giudice a quo, ma anche al p.g. presso la Corte d'appello, dal
momento che il termine p.m. adoperato dall’art. 36 d.lg. 28 agosto 2000 n. 274, deve essere
inteso come riferito ad entrambi gli uffici cui, in generale, è riconosciuto potere di impugnare
(Cass. pen., sez. un., 15 giugno 2005 , n. 22531).
Nel silenzio della legge, si ritiene che la parte civile possa appellare ai soli fini
dell’affermazione della responsabilità civile, ex art. 576 c.p.p. (questione del pari risolta
dalle Sezioni Unite nel 2007):
In applicazione della regola generale dettata dall'art. 576 cod. proc. pen., valida anche nel
processo davanti al giudice di pace in forza del richiamo di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 274 del 2000,
la persona offesa costituitasi parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti civili, avverso
la sentenza pronunciata dal giudice di pace, pur quando il procedimento non sia stato instaurato
con il ricorso immediato previsto dall'art. 21 del citato D.Lgs. n. 274 del 2000, atteso il carattere
estensivo e non limitativo che deve riconoscersi al successivo art. 38 del medesimo testo
normativo, in base al quale, ove vi sia stato invece il suddetto ricorso immediato, il ricorrente
può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, avverso la sentenza di proscioglimento.
Così Cass. pen., sez. IV, 14 febbraio 2007 , n. 15223.
Sempre inappellabili (ma ricorribili), ex art. 593 comma 3 c.p.p., le condanne alla pena
dell’ammenda.
Di grande importanza pratica la problematica dell’impugnazione proponibile
8
dall’imputato.
La norma di riferimento è l’art. 37 del decreto 274:
Art. 37. Impugnazione dell'imputato.
1. L'imputato può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che
applicano una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze
che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al
risarcimento del danno.
2. L'imputato può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di
pace che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento.
L'imputato può proporre appello contro le sentenze di condanna che applicano una pena
diversa da quella pecuniaria (quindi solo le pene paradetentive, su cui vedi infra).
E’ tuttavia prevista l'appellabilità da parte dell'imputato delle sentenze che applicano la
sola pena pecuniaria qualora questi impugni il capo relativo alla condanna, anche
generica, al risarcimento del danno.
Si ritiene che la non appellabilità delle sentenze che applicano la sola pena pecuniaria sia
giustificata dalla modesta afflittività della sanzione, mentre, se esercitata l'azione civile
nella sede penale e la sentenza comporti condanna, anche generica, al risarcimento del
danno (si noti: condanna civilistica possibile per somme anche notevolmente superiori
all'ordinario limite di competenza per valore del giudice di pace civile), sia preferibile
consentire un secondo giudizio.
Del resto, la Corte costituzionale ha recentemente ritenuto legittima la possibilità di
esperire l’azione civile risarcitoria anche oltre i limiti di valore previsti per l’omologo
giudizio civile (si veda C. cost., ordinanza 5 maggio 2008, n. 138).
È comunque chiaro che ove s’intenda proporre appello in caso di condanna “penalistica”
alla sola pena pecuniaria sarà opportuno impugnare anche il capo relativo alla condanna
di contenuto civilistico, malgrado una certa benevola interpretazione giurisprudenziale,
che utilizza l’effetto estensivo previsto dall’art. 574 c.p.p.
Così, sul punto, la Cassazione:
In tema di procedimento davanti al giudice di pace, l'impugnazione proposta dall'imputato
avverso la sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria, ancorché l'art. 37 d.lg. 28 agosto
2000 n. 274 ne preveda l'appellabilità solo nel caso in cui sia impugnato il capo relativo alla
condanna al risarcimento del danno, deve qualificarsi come appello e non come ricorso per
cassazione, in virtù dell'effetto estensivo dell'impugnazione contro la condanna penale previsto
dall'art. 574 c.p.p., il quale prevede che l'impugnazione dell'imputato contro la pronuncia di
condanna penale o di assoluzione estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna alle
restituzioni, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese processuali, se questa
pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato (nella specie, la Corte ha disposto la
trasmissione degli atti al tribunale per il giudizio di appello, rilevando come detto giudice,
qualificando l'appello come ricorso per cassazione, avesse erroneamente inviato gli atti in
cassazione sull'erroneo presupposto che l'appello sarebbe stato consentito soltanto se l'imputato
avesse impugnato anche il capo della sentenza relativo alle statuizioni civili). Si veda Cass. pen.,
sez. V, 9 luglio 2007 , n. 36076.
In linea di principio, dunque, l’impugnazione proposta dall’imputato contro la sentenza
del giudice di pace, che lo abbia condannato ad una pena pecuniaria e al risarcimento del
danno in favore della parte civile, purché con essa venga dedotto anche il difetto di
motivazione in riferimento all’apprezzamento della prova, è qualificabile come appello
sebbene non risulti espressamente impugnato il capo relativo alla condanna al
9
risarcimento del danno.
Da non sottovalutare, in questa prospettiva, l’opinione più formalista per cui
occorrerebbe impugnare in modo specifico anche il capo relativo alla condanna al
risarcimento:
In tema di procedimento davanti al giudice di pace, l'impugnazione proposta dall'imputato
avverso la sentenza del giudice di pace di condanna alla sola pena pecuniaria, deve essere qualora non sia stato specificamente impugnato il capo relativo alla condanna, anche generica,
al risarcimento del danno - qualificata come ricorso per cassazione, in virtù dell'art. 568 comma
5 c.p.p., indipendentemente dalla qualificazione di appello ad essa conferita dalla parte (Cass.
pen., sez. V, 16 dicembre 2005 , n. 4886).
Vi sono (poche) regole specifiche anche per la disciplina dell’appello, che –si badiappartiene alla cognizione del tribunale monocratico.
Così recita la legge:
Art. 39. Giudizio di appello.
1. Competente per il giudizio di appello è il tribunale del circondario in cui ha sede il giudice di
pace che ha pronunciato la sentenza impugnata. Il tribunale giudica in composizione
monocratica.
2. Oltre che nei casi previsti dall'art. 604 del codice di procedura penale, il giudice d'appello
dispone l'annullamento della sentenza impugnata, disponendo la trasmissione degli atti al
giudice di pace, anche quando l'imputato, contumace in primo grado, prova di non essere potuto
comparire per caso fortuito o per forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del
provvedimento di citazione a giudizio, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa,
ovvero, quando l'atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante
consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161, comma 4, e 169 del codice di
procedura penale, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del
procedimento.
L'articolo 39, dunque, disciplina il giudizio di appello per il cui rito valgono le regole
ordinarie (artt. 593-605 c.p.p.).
Tuttavia, il secondo comma dell'articolo 39 delinea una disciplina diversa da quella
ordinaria per le ipotesi in cui l'imputato sia rimasto contumace in primo grado.
Se questi infatti prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o per forza
maggiore o per non aver avuto conoscenza del provvedimento di citazione a giudizio,
sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l'atto è stato
consegnato al difensore, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del
procedimento, il giudice di appello dispone l'annullamento della sentenza impugnata, con
restituzione degli atti al giudice di pace per un nuovo giudizio.
La diversa disciplina rispetto al regime ordinario, delineato nell'articolo 603 c.p.p., che in
tale ipotesi prevede invece la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in sede di
appello (comma 4), si giustifica tenendo conto delle peculiarità del procedimento innanzi
al giudice di pace e dei meccanismi conciliativi e di definizione alternativa del
procedimento. Nell'ipotesi in cui l'imputato non sia, senza colpa, potuto comparire nel
giudizio di primo grado, la regressione del processo dinanzi al giudice di pace è dunque
necessaria.
Disciplina dell'esecuzione.
Solo un cenno all’esecuzione, per la quale sono state previste solo le norme che derogano
10
l'ordinaria disciplina, altrimenti applicabile in virtù del generale rinvio contenuto nell'art.
2, co. 1 d. lvo 274.
Art. 40.Giudice dell'esecuzione.
1. Salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un
provvedimento è il giudice di pace che l'ha emesso.
2. Se l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi da diversi giudici di pace, è competente il
giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo.
3. Se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da altro giudice ordinario, è
competente in ogni caso quest'ultimo.
4. Se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da un giudice speciale, è competente
per l'esecuzione il tribunale in composizione collegiale nel cui circondario ha sede il giudice di
pace.
5. Il giudice indicato nei commi da 1 a 4 è competente anche se il provvedimento da eseguire è
stato comunque riformato.
Art. 41. Procedimento di esecuzione.
1. Salvo quanto previsto nel comma 2, nel procedimento di esecuzione davanti al giudice di pace
si osservano le disposizioni di cui all'art. 666 del codice di procedura penale.
2. Contro il decreto del giudice di pace che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel
procedimento di esecuzione e contro l'ordinanza che decide sulla richiesta, l'interessato può
proporre, entro quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ricorso per motivi di legittimità
al tribunale in composizione monocratica nel cui circondario ha sede il giudice di pace.
3. Il tribunale decide con ordinanza non impugnabile. Si osservano disposizioni di cui all'art.
127 del codice di procedura penale.
Le sanzioni applicabili dal giudice di pace.
Le norme di riferimento sono gli artt. 52 ss. d. lvo 274, senza perdere di vista la
previsione che disciplina la sentenza di condanna alla permanenza domiciliare (art. 33 d.
lvo. 274).
Le “pene” specifiche del microsistema sono l’obbligo di permanenza domiciliare e il
lavoro di pubblica utilità, mentre le altre sanzioni irrogabili dal GdP sono le pene
pecuniarie già note al sistema penale.
Come già accennato, le sanzioni comminate dal giudice di pace non sono convertibili in
misure alternative, né esiste la sospensione condizionale della pena (artt. 60 e 62 d. lvo
274).
Il principio generale è contenuto nell’art. 52 D.lvo 274/2000 ove si descrive la
“corrispondenza” tra pene originariamente previste dal codice penale e quelle
comminabili dal giudice di pace:
Art. 52. Sanzioni.
1. Ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace per i quali è prevista la sola pena della
multa o dell'ammenda continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti.
2. Per gli altri reati di competenza del giudice di pace le pene sono così modificate:
a ) quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della
multa o dell'ammenda, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da lire
cinquecentomila a cinque milioni; se la pena detentiva è superiore nel massimo a sei mesi, si
applica la predetta pena pecuniaria o la pena della permanenza domiciliare da sei giorni a
trenta giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità per un periodo da dieci giorni a tre
mesi;
b ) quando il reato è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena
pecuniaria della specie corrispondente da lire un milione a cinque milioni o la pena della
11
permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di
pubblica utilità da venti giorni a sei mesi;
c ) quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto congiunta con quella della
multa o dell'ammenda, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da lire un
milione e cinquecentomila a cinque milioni o la pena della permanenza domiciliare da venti
giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da un mese a sei
mesi.
3. Nei casi di recidiva reiterata infraquinquennale, il giudice applica la pena della permanenza
domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, salvo che sussistano circostanze attenuanti
ritenute prevalenti o equivalenti.
4. La disposizione del comma 3 non si applica quando il reato è punito con la sola pena
pecuniaria nonchè nell'ipotesi indicata nel primo periodo della lettera a ) del comma 2.
Una certa anomalia sistematica è stata ravvisata nella differente natura di sanzione
applicabile per le lesioni colpose quando, anziché nella cognizione del tribunale (ad
esempio in caso di infortunio sul lavoro o nei casi di colpa professionale) rientrano nella
competenza del giudice di pace (colpa stradale).
Ne è derivata una complessa questione di legittimità costituzionale, rigettata dalla
Consulta che, nella specie, rilevò l’impossibilità di una pronuncia sostanzialmente
additiva, non consentita alla Corte costituzionale in forza del principio della riserva di
legge in materia penale (cfr. C. cost. 4 maggio 2005 , n. 187, Giur. cost. 2005, 3).
Queste le previsioni concernenti la nuova tipologia di sanzioni:
Art. 53. Obbligo di permanenza domiciliare.
1. La pena della permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria
abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o
accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice, avuto riguardo alle esigenze familiari, di
lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la pena venga eseguita in giorni
diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato, continuativamente.
2. La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni nè superiore a
quarantacinque; il condannato non è considerato in stato di detenzione.
3. Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all'art. 133, comma
secondo, del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è
obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di lavoro, di studio
o di salute del condannato.
4. Il divieto non può avere durata superiore al doppio della durata massima della pena della
permanenza domiciliare e cessa in ogni caso quando è stata interamente scontata la pena della
permanenza domiciliare.
Art. 54. Lavoro di pubblica utilità.
1. Il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta
dell'imputato.
2. Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni nè superiore a sei mesi e
consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso
lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di
volontariato.
3. L'attività viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la
prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non
pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se
il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per
un tempo superiore alle sei ore settimanali.
4. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore.
5. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella
prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.
12
6. Fermo quanto previsto dal presente articolo, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica
utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d'intesa con la Conferenza
unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (1) (2) .
Quali, dunque, i contenuti afflittivi delle sanzioni e quale loro specifica disciplina
applicativa ?
La permanenza domiciliare comporta l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione
o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei
giorni di sabato e domenica.
L’eventuale violazione dell’obbligo di permanenza domiciliare è reato punito con la
reclusione fino a un anno (art. 56, co. 1, decreto 274/2000) ed è di competenza del
tribunale monocratico (art. 57).
L'obbligo di permanenza domiciliare non vuole replicare la detenzione domiciliare, che
invece impone una continuativa permanenza presso il proprio domicilio; la legge tuttavia
prevede che sia lo stesso condannato a fare richiesta di uno svolgimento continuativo
della sanzione ed il giudice ritenga di potervi aderire: il giudice, quindi, avuto riguardo
alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato, può disporre che la
pena venga eseguita in giorni diversi della settimana ovvero, a richiesta del condannato,
continuativamente.
La durata della permanenza domiciliare non può essere inferiore a sei giorni né superiore
a quarantacinque ed il condannato non è considerato in stato di detenzione con riguardo
agli oneri e delle spese ricollegabili alla permanenza stessa.
Il giudice può altresì imporre al condannato, valutati i criteri di cui all'articolo 133
comma secondo del codice penale, il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in
cui non è obbligato alla permanenza domiciliare, tenuto conto delle esigenze familiari, di
lavoro, di studio o di salute del condannato; il divieto non può avere durata superiore al
doppio della durata massima della pena della permanenza domiciliare e cessa in ogni
caso quando è stata interamente scontata la pena stessa.
Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore
della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso
enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, per un periodo non inferiore
a dieci giorni né superiore a sei mesi.
Essendo sanzione fondata su un facere, implica il consenso del condannato per
conseguire apprezzabili risultati sul terreno dell'effettività.
Per colui che non si reca sul luogo di lavoro di pubblica utilità ovvero lo abbandona è
prevista la pena della reclusione fino ad un anno (si veda ancora l’art. 56, co. 1, decreto
274/2000)
L’art. 33 del decreto 274 , per l’appunto, richiede l’espressa formulazione di istanza da
parte del prevenuto (qualora condannato a pena paradetentiva) sia per l’esecuzione
continuativa, sia per la prestazione del lavoro di pubblica utilità.
Anche il difensore dell’imputato, se munito di procura speciale (necessaria anche in caso
di contumacia, cfr. Cass. pen., sez. IV, 29 novembre 2004 , n. 1293), può formulare le
due richieste.
L'unico soggetto titolare della facoltà di richiedere l'applicazione della pena del lavoro di
pubblica utilità è l'imputato, che per tale atto personalissimo non può essere
rappresentato dal difensore, a meno che questi non sia munito di procura speciale, in
quanto deve comunque risultare la consapevole accettazione della particolare modalità di
emenda e delle conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi collegati alla
13
esecuzione di tale sanzione.
Questo il testo della norma:
Art. 33. Sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare.
1. Subito dopo la pronuncia della sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare,
l'imputato o il difensore munito di procura speciale possono chiedere l'esecuzione continuativa
della pena.
2. Il giudice, se ritiene di poter applicare in luogo della permanenza domiciliare la pena del
lavoro di pubblica utilità, indica nella sentenza il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità
che può essere richiesto dall'imputato o dal difensore munito di procura speciale.
3. Nel caso in cui l'imputato o il difensore formulino le richieste di cui ai commi 1 e 2, il giudice
può fissare una nuova udienza a distanza di non più di dieci giorni, sempre che sussistano
giustificati motivi.
4. Acquisite le richieste, il giudice integra il dispositivo della sentenza e ne dà lettura.
Segue. Questioni sorte nella prassi applicativa
Alcune questioni, dovute al difetto di coordinamento tra il decreto 274/2000 e i codici
penale e di procedura penale, hanno imposto all’interprete la ricerca di soluzioni
adeguate.
aa) E’ da rammentare, in primo luogo, che i reati di competenza del giudice di pace
possono essere giudicati da altro organo, come avveniva per i reati di competenza del
tribunale qualora commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto 274 oppure
come avviene, oggi, per effetto di connessione (limitata, peraltro, ai soli casi di concorso
formale, ex art. 6 d. lvo 274/2000).
In siffatte ipotesi, qualora l’imputato sia condannato, il tribunale applicherà le sanzioni
del microsistema e, in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43
e 44 del decreto istitutivo del GdP (si veda l’art. 63 d. lvo 274/2000).
Ne deriva la legittimità del diniego della sospensione condizionale della pena da parte del
tribunale investito di una causa per lesioni personali di durata non superiore a 20 giorni
(si veda, con riferimento alla disciplina transitoria e, quindi, all’ipotesi di successione di
leggi, Cass. pen., sez. V, 8 febbraio 2006, n. 7225).
bb) In talune vicende processuali si è posto il problema della pluralità di reati in
concorso formale e attribuiti alla competenza (determinata dalla connessione) del
tribunale, ma che, in base all’art. 4 d. lvo 274/2000, sarebbero di competenza del giudice
di pace.
Ci si chiede se la pena debba essere unitariamente determinata, come pena di un unico
genere (a causa dell’aumento di cui all’art. 81 c.p.) e debba, quindi, qualora il beneficio
sia concedibile, essere sospesa ex art. 163 c.p. (soluzione accolta, almeno
implicitamente, da Sez. IV, 28 marzo 2003, n. 25201) oppure se, in virtù di una più
radicale, ma certo più lineare, applicazione del principio di legalità, non sia preferibile
mantenere distinte anche le possibili soluzioni sanzionatorie derivanti da sentenze per
fatti che vengono giudicati unitariamente solo perché si trovano nella medesima fase
processuale (unica situazione in cui, in presenza di connessione, i procedimenti possono
essere riuniti).
14
Questa la soluzione giurisprudenziale:
Quando a norma dell'art. 64 d.lg. 28 agosto
2000 n. 274, il reato di competenza del giudice di pace sia giudicato - in virtù della prorogatio
iurisditionis - dal giudice superiore, il beneficio della sospensione condizionale della pena non
può essere concesso, applicandosi in tal caso, per effetto del richiamo contenuto nell'art. 63 al
Titolo II del suddetto decreto, la previsione ostativa di cui all'art. 60 d.lg. cit. (Nell'affermare
tale principio la Corte ha osservato che a differenti conclusioni deve invece giungersi laddove il
reato di competenza del giudice di pace sia giudicato dal giudice superiore per motivi di
connessione, sul rilievo che il beneficio deve riguardare l'intera pronuncia, cfr. Cass. pen., sez.
IV, 28 marzo 2003 , n. 25201, Cass. pen. 2004, 2021).
cc) Analoghi problemi possono sorgere nel caso di erronea applicazione della reclusione
in luogo delle differenti sanzioni applicabili per i reati di competenza del giudice di pace
quando, come nella situazione valutata dalla Sez. V nella sentenza n. 24926 del 3
dicembre 2003 (ma nella specie l’inammissibilità dell’impugnazione impedisce alla
Corte di rilevare l’illegittimità della pena, altrimenti rilevabile d’ufficio).
La soluzione è ineccepibile dal punto di vista processuale, ma non è chiaro se e con quali
modalità il possibile problema di una pena illegittima potrà essere risolto nella fase
dell’esecuzione:
L'illegittimità della pena è rilevabile d'ufficio ed è, quindi, sindacabile indipendentemente dalla
deduzione di specifiche doglianze in sede di impugnazione; tuttavia, essa non determina il
superamento della preclusione processuale derivante dall'inammissibilità del gravame, che
impedisce il passaggio del procedimento all'ulteriore grado di giudizio ed inibisce la cognizione
della questione e la rivisitazione del decisum per la formazione del giudicato interno. (In
applicazione di questo principio la S.C., pur rilevando l'illegittimità della pena applicata dal
giudice di appello per il reato di lesioni lievissime - che rientra nella competenza del giudice di
pace ed è punito, ex artt. 4, 63, 64, d.lg. n. 274 del 2000, con la multa e non con la reclusione,
sanzione che deve essere irrogata anche nel caso in cui, per qualsiasi ragione, il processo sia
celebrato dal giudice ordinario - e pur ritenendo, in assenza di specifiche doglianze al riguardo
da parte del ricorrente, che si tratti di questione rilevabile d'ufficio, ha affermato - sussistendo
una causa di inammissibilità del ricorso - la prevalenza di quest'ultima, in quanto preclusiva
della formazione di un valido rapporto di impugnazione e, quindi, in grado di impedire
l'esercizio del potere di cognizione del giudice ad quem anche per le questioni rilevabili ex
officio, cfr. Cass. pen., sez. V, 3 dicembre 2003 , n. 24926, Cass. pen. 2006, 2 615).
dd) V’è da chiedersi se anche il Tribunale per i Minorenni, quando giudica le lesioni
dolose lievi commesse da un minorenne, possa applicare le sanzioni previste dalla legge
istitutiva del giudice di pace.
Soccorre, al proposito, il testo dell’art. 63 d. l.vo n. 274/2000 laddove stabilisce che "nei
casi in cui i reati indicati nell'articolo 4 commi 1 e 2, sono giudicati da un giudice
diverso dal giudice di pace, si osservano le disposizioni del titolo II dello stesso decreto
legislativo (vale a dire "le sanzioni applicabili dal giudice di pace") nonché, in quanto
applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44".
Se è così, quando il tribunale per i minorenni si trovi a dover giudicare un reato di
competenza del giudice di pace, commesso da un minore, dovrà irrogare le più miti
sanzioni previste dal Decreto Legislativo n. 274/2000 e parimenti procedere, se del caso,
alla definizione alternativa del procedimento ai sensi degli articoli 34 e 35 del decreto
stesso (così, espressamente, Cass. pen., sez. V, 26 aprile 2005, n. 22680).
A fronte di un “fatto di particolare tenuità, invero, parrebbe prevalere la sentenza di
irrilevanza del fatto ex art. 27 d.P.R. n. 448/1988 (che, peraltro, non prevede alcun tipo
di conseguenza sanzionatoria), perché più favorevole per il minorenne, sulla
improcedibilità ai sensi dell’art. 34 d. l.vo n. 274/2000.
ee) Uno dei problemi più importanti, per via della possibile portata applicativa, deriva
15
dall’ipotizzata prescrizione “triennale” dei reati (o di parte dei reati) di competenza del
GdP, ossia dal testo “nuovo” (introdotto dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251) art. 157,
co. 5, c.p., che dispone che quando per il reato la legge prevede pene “diverse da quella
detentiva e da quella pecuniaria si applica il termine di tre anni”, con ciò derogando
vistosamente dal termine “minimo”, ex art. 157, co., 1 c.p., di 6 anni per i delitti e di 4
anni per le contravvenzioni.
Uniche pene che potrebbero essere considerate “di natura diversa” da quelle detentive e
pecuniarie sono le sanzioni paradetentive della legge istitutiva del giudice di pace, ma si
tratta di soluzione sistematicamente inaccoglibile, dati i notevoli spazi di discrezionalità
concessi al giudicante nella determinazione della pena: basti pensare che lo stesso fatto,
se punito con pena pecuniaria si prescriverebbe in 6 anni e, se punito con una delle
sanzioni paradetentive, si prescriverebbe in un periodo di tempo dimezzato.
La Cassazione, d’altronde, ha sempre “salvato” il termine di prescrizione ordinario:
Il termine di prescrizione per i reati di competenza del g.d.p. (nella specie ingiuria aggravata) è
quello ordinario e non quello triennale previsto dall'art. 157, comma 5, c.p. - nel testo novellato
dalla l. n. 251 del 2005 - considerato che esso ne prevede l'applicabilità per il reato per il quale
la legge stabilisce pene diverse da quelle detentive e che le pene della permanenza domiciliare e
del lavoro di pubblica utilità applicabili, nella specie, in alternativa alla multa, si considerano,
ex art. 58 d.lg. n. 274 del 2000, per ogni effetto giuridico, e quindi anche per il computo dei
termini di prescrizione, come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena
originaria (nella specie reclusione). Così Cass. pen., sez. V, 21 giugno 2007 , n. 40229, a cui si
conformano sez. V, 13 giugno 2007 , n. 35252, sez. IV, 3 ottobre 2007 , n. 44341 e sez. IV, 24
ottobre 2007 , n. 43412.
L’irragionevolezza della previsione è stata oggetto di una serie di questioni di legittimità
costituzionale che la Consulta ha dichiarato manifestamente infondate (con sentenza 18
gennaio 2008, n. 2), rilevando che il sistema non ospita, allo stato, alcun tipo di
previsione di reato rientrante nel comma 5 dell’art. 157 c.p., essendo l’ipotizzata
incostituzionalità il frutto di erronea interpretazione e fondando il proprio assunto sul
rilievo che nel diritto vigente le pene cosiddette «para-detentive» non sono previste dalla
legge come sanzioni applicabili in via esclusiva per determinati reati, ma costituiscono
l’oggetto di un’opzione che il giudice può compiere in alternativa ad altre.
La Corte costituzionale ha quindi concluso rilevando quindi che
- “il quinto comma dell’art. 157 cod. pen., con la relativa previsione di un termine
triennale per la prescrizione, si riferisce a reati che non siano puniti con una pena
detentiva o pecuniaria, e quindi, in definitiva, a reati per i quali le pene «paradetentive» siano previste dalla legge in via diretta ed esclusiva”;
- “il novellato quinto comma dell’art. 157 cod. pen. avrebbe inteso porre le premesse
per un futuro sistema sanzionatorio caratterizzato da pene diverse da quelle detentiva e
pecuniaria, non più ragguagliato, con riferimento agli effetti giuridici, a quello
generale, ma munito, quanto meno ai fini della prescrizione, di una norma generale del
tutto peculiare. Senza forzature interpretative, non si può ritenere che tale nuovo
sistema sia stato ancora costruito, con la duplice conseguenza che la sanzione
pecuniaria rimane elemento comune a tutti i reati di competenza del giudice di pace
(con facoltà per lo stesso di avvalersi, in via alternativa, delle sanzioni «paradetentive»), e che i criteri di ragguaglio dettati dall’art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274
del 2000 sono ancora operativi, poiché tale disposizione non è stata abrogata né
esplicitamente né implicitamente”.
16