L`Opinione di… - Ambiente e cultura Mediterranea

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L`Opinione di… - Ambiente e cultura Mediterranea
L’Opinione di…
Lucianna Maruccio1, Professore aggregato Dipartimento di Medicina
Veterinaria e Produzioni animali, Università degli Studi di Napoli
"Federico II"
Ciro Rauch2, dottore in Scienze biologiche
Caretta caretta: perché la tartaruga
marina più comune del
Mediterraneo è in pericolo
La tartaruga è un animale che nell’immaginario
popolare ha sempre affascinato per la sua
natura forse un po’ contraddittoria. Se da un
lato, infatti, essa è caratterizzata per il suo
andamento lento e goffo, è anche vero che
dall’altro è considerata da sempre un simbolo
di longevità. Quella corazza così particolare,
elemento unico nel mondo animale, ci fa
erroneamente pensare che alle tartarughe
basti retrarre la testa al suo interno per
sfuggire a ogni pericolo. Per questo motivo, le
tartarughe sono considerate come portatrici di
fortuna, dando nei secoli spunto a numerose
leggende. Il nome dell’ordine cui esse
appartengono (Chelonia) deriva dalla ninfa
Chelone della mitologia greca. Si narra che
Zeus (Giove, per i romani) avesse dato disposizione a Hermes
(Mercurio) di invitare tutti gli dei, tutti gli uomini e tutti gli animali
per festeggiare il suo matrimonio con Giunone; la ninfa Chelone
invece non si presentò; per questo comportamento Hermes si
adirò a tal punto che strappò la casa di Chelone e la gettò in un
fiume, trasformando Chelone nell'animale che ora porta il suo
nome. Altre versioni del mito raccontano che fu lo stesso Zeus;
egli, non sopportando più la lentezza e la pigrizia di Chelone,
che arrivò tardissimo il giorno del suo matrimonio, la punì
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trasformandola in tartaruga e condannandola a portare sulla
schiena la propria casa.
Un’altra leggenda attribuisce sempre ad Hermes
l’invenzione della prima lira dal guscio di una tartaruga. Infine, è
noto che le prime monete metalliche comparvero nel
Mediterraneo in una regione cerniera tra il mondo greco e
l’impero persiano, il regno della Lidia (700-546 a.C.); e, tra le
prime coniazioni in elettro (lega oro e argento) sono presenti
monete dell’isola di Egina (golfo Saronico), risalenti al V secolo
a.C., sulle quali sono raffigurate tartarughe marine e terrestri
(Foto 1).
Foto 1. Monete dell’isola di Egina (golfo Saronico) raffiguranti una tartaruga
marina ed una terrestre, V secolo a.C.
Le leggende e le raffigurazioni su monete testimoniano,
comunque, la notevole diffusione che queste specie avevano nel
Mediterraneo, soprattutto nella parte orientale alcuni millenni fa.
Eppure, quest’affascinante animale, dopo essere sopravvissuto
persino ai catastrofici eventi che hanno portato all’estinzione dei
dinosauri (parenti relativamente stretti), rischia oggi seriamente
di non sopravvivere alla pressione crescente esercitata dagli
esseri umani.
Le tartarughe, appartenenti all’ordine Chelonia (o
Testudines), per la maggior parte sono specie viventi in
ambiente terrestre o d’acqua dolce, e, solo in misura minore, in
quello marino. Oggi, sono proprio le specie che vivono in
ambiente marino a presentare il maggior pericolo di estinzione,
tanto che ne sono rimaste solo sette (su un totale di circa
trecento all’interno dell’ordine). Tra di esse, la Caretta caretta
(nome che deriva dalla fusione del termine spagnolo “carey”, che
significa “tartaruga marina”, e del suffisso latino “-etta”, che
significa “piccola”), è la tartaruga marina più comune del mar
Mediterraneo e, per questo motivo, oggetto delle principali
attenzioni in Italia. In
realtà per anni C. caretta
è stata trascurata dagli
studiosi
del
settore
proprio
per
le
sue
caratteristiche ordinarie.
Rispetto alle altre specie
marine, infatti, C. caretta
non presenta un guscio
dall’aspetto accattivante,
non raggiunge dimensioni
Foto 2. Nido di C. caretta dopo la schiusa sulla spiaggia di Acciaroli (Salerno).
Fonte: Cesare Agostini, Veronica La Greca (Comune di Pollica).
notevoli, non nuota in maniera
molto veloce né s’immerge in
notevoli profondità. Attualmente,
invece, le è stata riconosciuta una
sua importanza ecologica, e, dato
che occupa praticamente tutti gli
ecosistemi marini del globo, essa
viene
spesso
identificata,
generalizzando, come “tartaruga
marina”.
La
sua
peculiarità
è
certamente il particolare ciclo
vitale, motivo per cui la sua
sopravvivenza
è
esposta
continuamente a rischi di varia
natura. Generalmente le femmine
Foto 3. Piccolo di C. caretta appena nato. Fonte: Michael Melford (National
Geographic Image Collection).
depongono le uova nella spiaggia in cui sono nate, o comunque
nelle vicinanze, all’interno di una fossa che esse stesse scavano
(Foto 2). In media sono deposte poco più di cento uova
all’interno di ogni fossa e la schiusa avviene dopo circa due
mesi, secondo le condizioni ambientali, tra cui soprattutto la
temperatura e l’umidità della sabbia (Foto 3 e 4). La temperatura
del nido, inoltre, come per altri rettili, è fondamentale per la
determinazione del sesso dei futuri nascituri, in quanto le
tartarughe non hanno cromosomi sessuali.
I neonati, dopo essere usciti
dalle
uova,
raggiungono
la
superficie e rimangono fermi finché
la temperatura della sabbia non sia
sufficientemente bassa, per evitare
la disidratazione. Infatti, essi
cominciano la loro migrazione
verso il mare nelle ore notturne
Foto 4. Neonato di C. caretta sulla spiaggia di Pizzo (Vibo Valentia).
Fonte: Giuseppe Paolillo (WWF Calabria).
Foto 5. Neonati di C. caretta migrano verso il mare sulla spiaggia di Pizzo
(Vibo Valentia).Fonte: Giuseppe Paolillo (WWF Calabria).
(guidati dalla luce dell’orizzonte marino), quando è anche
maggiore la probabilità di sfuggire ai predatori (Foto 5 e 6). La
loro innata capacità di percepire il campo magnetico terrestre e
di seguire le onde li porta a raggiungere le acque oceaniche,
dove cominciano a nutrirsi di piccoli animali, affacciandosi così
nella fase giovanile. In questa fase esse conducono vita
epipelagica, immergendosi occasionalmente anche a profondità
superiori a duecento metri. Nei successivi dieci anni, comincia
una fase di transizione del ciclo vitale, durante la quale gli
individui lasciano l’ambiente oceanico e si riavvicinano
gradualmente alle coste, nutrendosi soprattutto di organismi
Foto 6. Neonati di C. caretta migrano verso il mare sulla spiaggia di
Acciaroli (Salerno). Fonte: Cesare Agostini, Veronica La Greca (Comune di
Pollica).
viventi nei pressi marini. Raggiunta l’età adulta, ma soprattutto
la maturità sessuale (tra la seconda e la terza decade di vita), i
maschi e le femmine lasciano le aree costiere per raggiungere le
zone di riproduzione, che talvolta possono distare anche diverse
centinaia di miglia. Al termine del periodo riproduttivo, le
tartarughe ritornano nelle aree di nutrizione, dove recuperano le
riserve energetiche per la successiva stagione riproduttiva (che
nel fondale può verificarsi dopo due-tre anni).
Purtroppo, proprio per la natura così complessa del ciclo
vitale, la maggior parte dei piccoli di C. caretta non sopravvive ai
primi giorni di vita anche in condizioni naturali, essendo facile
preda di altri animali, sia sulla spiaggia sia in mare. Tuttavia, le
cause principali che stanno mettendo a forte rischio la
sopravvivenza della specie sono dovute all’azione antropica.
L’inquinamento del mare causa l’avvelenamento o il
soffocamento di molti esemplari che finiscono per ingerire
combustibili e rifiuti vari.
Anche l’uso sconsiderato di alcuni mezzi di pesca
massiva, come le reti a strascico o i palamiti, mina la
Foto 7.Esemplare di C. caretta rimasto intrappolato in una rete abbandonata
alla deriva nel mar Mediterraneo. Fonte: Jordi Chias
sopravvivenza di questa specie, per la cattura indiscriminata
anche delle tartarughe, che in molti casi non sopravvivono a
causa delle lesioni riportate, o perché troppo indebolite dal
periodo di apnea forzata (Foto 7). Tuttavia, i pericoli per questa
specie non provengono solo dall’ambiente acquatico ma anche
da quello terrestre, come la minaccia dei siti di nidificazione
sempre per azione antropica. Si stima, infatti, che il mar
Mediterraneo ospiti oltre settemila nidi di C. caretta ogni anno,
distribuiti soprattutto tra Grecia, Turchia e Cipro, mentre in Italia
se ne registrano circa trenta-quaranta. In questo caso, il nemico
principale è rappresentato dalla massiccia e invadente
urbanizzazione delle aree costiere. Ciò determina in primis una
riduzione drastica delle spiagge disponibili per la nidificazione,
che sono invece sempre più destinate ad un uso turistico. Inoltre,
anche laddove le tartarughe riescano a deporre le uova, i nidi
possono essere distrutti da mezzi meccanici operanti sulle
spiagge o dalla semplice attività turistica incontrollata. Infine, i
piccoli che fuoriescono dal nido spesso, non riuscendo ad
orientarsi con la luce dell’orizzonte marino, perché disorientati
dalle luci artificiali, finiscono per non raggiungere le acque,
andando così incontro a morte sicura.
Foto 8. Esemplare di C. caretta che fuoriesce da una rete a strascico grazie
al Turtle excluder device (TED).
Fonte: Norbert Wu (Norbert Wu Productions).
Ad oggi, le politiche di conservazione sono finalizzate a
cercare di ridurre l’incidenza delle cause antropiche. Infatti, per
limitare i danni provocati dalle reti a strascico, in molti paesi è
stato reso obbligatorio l’utilizzo del TED (Turtle Excluder Device),
un dispositivo al cui sviluppo contribuisce anche l’European
Fisheries Fund e che permette alle tartarughe marine catturate
accidentalmente di sfuggire tramite una piccola apertura nella
rete (Foto 8 e 9). Per quanto riguarda invece l’interferenza
antropica sui siti di nidificazione, la Grecia rappresenta un
esempio da seguire, poiché vige anche una regolamentazione
della presenza delle luci artificiali. Infatti, in tale paese, in certi
periodi, il decollo e l’atterraggio degli aerei viene limitato in
determinate zone, onde evitare di disorientare i piccoli appena
usciti dalle uova. Anche la difesa dei nidi risulta una pratica
importante, che in Italia soprattutto è operata da volontari
appartenenti ad associazioni naturalistiche, per scongiurare il
disturbo ma nei casi più gravi anche la distruzione dei nidi stessi
da parte di bagnanti, garantendo così ai piccoli di raggiungere il
mare (Foto 10, 11 e 12).
Foto 9. Esemplare di C. caretta che fuoriesce da una rete a strascico grazie
al Turtle excluder device (TED).
Foto 10. Nido di C. caretta segnalato e recintato dai volontari WWF sulla
spiaggia di Mazara (Trapani). Fonte: WWF Mazara.
Ciò nonostante, il futuro di quest’antico animale è ancora in forte
bilico, perché i pochi esemplari rimasti devono affrontare una
lunga serie di sfide se vorranno raggiungere la maturità
sessuale.
Foto 11. Nido di C. caretta recintato e sorvegliato dai volontari WWF sulla
spiaggia di Sciacca (Agrigento). Fonte: Girolamo Culmone (WWF).
Foto.12. Nido di C. Caretta recintato e sorvegliato dai volontari Legambiente
sulla spiaggia di Pollica (Salerno). Fonte: Legambiente Onlus.
Per questi motivi, C. caretta risulta
EN (Endangered) della Red List dello
Union for Conservation of Nature) e
C.I.T.E.S. (Convention on International
Species of Wild Fauna and Flora).
inserita nella categoria
I.U.C.N. (International
nell’Appendice I del
Trade in Endangered
Foto 13. Esemplare di C. caretta pronto per la liberazione dai volontari di
Legambiente nella caletta di Numana (Ancona). Fonte: Legambiente Onlus.
Quindi, per preservare dal rischio di estinzione C. caretta,
e le altre tartarughe marine, sarebbe necessario realizzare degli
accurati profili demografici, allo scopo di contribuire al
monitoraggio e alla definizione di politiche di conservazione della
specie. Tuttavia, studiare e monitorare animali che vivono in
habitat marino è molto complesso per varie ragioni, ma lo è
ancor di più per C. caretta, che occupa diverse nicchie
ecologiche durante il proprio ciclo vitale. A tal scopo, sarebbe
utile potersi avvalere di metodiche che permettano di
determinare l’età di un determinato esemplare, una volta morto,
in modo da realizzare un’eventuale mappatura dell’ambiente in
cui l’animale è stato recuperato, senza la necessità di catturarlo
e marcarlo in precedenza (Foto 13 ).
Tra queste, la metodica più accreditata potrebbe essere la
scheletrocronologia, che permetterebbe di determinare l’età di
un esemplare morto di tartaruga marina tramite delle analisi
effettuate su ossa lunghe, come gli omeri3. Questa metodica
sfrutta l’alternanza tra le fasi di crescita e le fasi di rallentamento
o di arresto che si manifestano nel tessuto osseo. Tale metodica
potrebbe dare utili informazioni soprattutto nelle specie quali C.
caretta in cui l’accrescimento osseo è indeterminato e procede in
3
In Snover M.L., Hohn A.A: Validation and interpretation of annual skeletal marks in
loggerhead (Caretta caretta) and Kemp’s ridley (Lepidochelys kempii) sea
turtles. Fishery Bulletin 102:682–692, 2004.
maniera discontinua per tutto l’arco della vita4. In questo modo,
all’interno dell’osso è possibile individuare delle linee di arresto
della crescita, meglio note come LAG (Line of Arrested Growth).
Tali linee corrispondono ad un temporaneo arresto
dell’osteogenesi, che avviene generalmente nei mesi più freddi,
in corrispondenza del periodo invernale, presupponendo così
Fig.14. Esemplare di C. caretta curato e messo in salvo dal Centro
Recupero Tartarughe Marine gestito da Legambiente a Manfredonia.
Fonte: Legambiente Onlus .
che ciascuna LAG corrisponda ad un ciclo di un anno5. Inoltre,
questa metodica potrebbe essere impiegata come base di
partenza per lo sviluppo di tecniche conservative che, sfruttando
strumenti quali TAC e radiografia, potrebbero fornire informazioni
circa l’età di esemplari in vita, con la speranza di rallentare il
processo di estinzione di questa specie.
L’utilizzo del verbo sperare non è casuale, perché,
sebbene negli ultimi decenni siano stati compiuti grossi passi in
avanti nella conservazione di C. caretta e delle altre tartarughe
marine, si è ancora lontani dall’invertire la rotta e poter affermare
4
In Rhodin A.G.J.: Comparative chondro-osseous development and growth of marine
turtles. Copeia, pp. 752-771, 1985.
5
In Castanet J.: Age estimation and longevity in reptiles. Gerontology, 40: 174-192,
1994.
che il rischio di estinzione sia scongiurato. Resta dunque solo la
speranza che sempre più paesi (sviluppati e non), organizzazioni
e singoli individui accettino di impegnarsi nella causa, affinché
non venga raggiunto il punto di non ritorno per questi fossili
viventi (Foto 14).
Comparse sulla Terra oltre duecento milioni di anni fa,
testimoni di numerose ere geologiche, che hanno attraversato
vivendo al proprio particolare ritmo, le tartarughe marine ci
indicano più di altri animali che, stavolta, il mondo sta andando
forse un po’ troppo veloce.
Ambiente e Cultura Mediterranea, febbraio 2015