Fra i ribelli di Bengasi «Ecco un aereo nemico L

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Fra i ribelli di Bengasi «Ecco un aereo nemico L
Mondo
32
14 gennaio
è festa
in Tunisia
VENERDÌ
18 MARZO
2011
Fra i ribelli di Bengasi
«Ecco un aereo nemico
I
L’abbiamo abbattuto»
Il reportage
GABRIELE DEL GRANDE
BENGASI
I miliziani mostrano i resti di un Mirage distrutto dalla loro contraerea
«Alcuni Paesi ci stanno fornendo armi, possiamo resistere al nemico»
Foto di Alfredo Bini
l cratere è largo tre metri e
tutto intorno la pista è cosparsa di pietre. Poco distante,
quel che resta della carlinga
di un aereo civile continua a
bruciare. In mezzo al fumo nero si
riesce ancora a leggere distintamente Air Libya.
È quel che resta dell'aereo colpito dalle bombe di Gheddafi, sganciate ieri mattina sull'aeroporto internazionale di Benina, a 20 chilometri dalla città di Bengasi. Proprio così, mentre a New York il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite discuteva la risoluzione
sulla no fly zone, il Colonnello ha
ordinato di bombardare Bengasi.
È il secondo bombardamento
in due giorni. Mercoledì mattina
un aereo aveva attaccato l'aeroporto mancando di poco il bersaglio. Ieri invece l'hanno preso in
pieno. Anche perché stavolta di
aerei ne hanno mandati tre. Tre
vecchi Mirage che oltre a Benina
hanno sganciato altre bombe sopra la caserma Muaskar 36, a sud
di Bengasi, dove si trova un impor-
Resistenza/1
Il velivolo colpito
aveva appena
bombardato l’aeroporto
Si sa che le rivoluzioni amano alterare il calendario e così in Tunisia è stata abolita la
festa del 7 novembre, istituita dall'ex presidente Zine el Abidine Be Ali per celebrare la sua
seconda salita nel 1987. Ora si celebrerà invece la sua caduta, il 14 gennaio: festa nazionale,
che celebrerà la «rivoluzione dei gelsomini» e la gioventù tunisina che l’ha messa in atto.
gno della vittoria.
Ha i suoi buoni motivi per festeggiare Marai, perché due dei
tre Mirage di Gheddafi che hanno
bombardato la città, sono stati abbattuti. Ed è un bel colpo per il morale delle truppe. Per la prima volta infatti la contraerea degli insorti è riuscita a colpire il bersaglio. E
per la prima volta ci sono le prove.
Sono sparse in un campo coltivato nella campagna a sud di Bengasi, e sono i resti del Mirage abbattuto. Marai ci accompagna a vederli.
Lui è uno dei volontari in armi
dell'esercito popolare della rivoluzione libica. Ha 36 anni, indossa
mimetica, bandana rossa e kalashnikov. Ma non fa parte dell'esercito. É un vecchio rigattiere improvvisato soldato per il bene della moglie e dei due bimbi di due anni e
otto mesi, che lo aspettano a casa
a Benina, a cinque minuti di macchina dall'aeroporto bombardato
da Gheddafi.
Intorno all'aeroporto, si è creato uno strano ingorgo di macchine, che procedono a rilento lungo
le stradine di campagna. Sono
centinaia di ragazzi, venuti a vedere quel che resta del primo aereo
abbattuto dell'aviazione di Gheddafi. Marai mi spiega che è un Mirage. Per metà è esploso e bruciato. Del pilota non c'è nessuna traccia, anche perché la testa dell'aereo è completamente distrutta.
Sulla coda qualcuno ha scritto
con il fango “Gibu al tayara gibu
hatta al dabbaba”, ovvero:
Resistenza/2
I ragazzi fotografano
la carcassa come
se fosse un trofeo
Combattenti anti-rais
tante deposito di munizioni dell'
armata popolare degli insorti. Fortunatamente non ci sono stati feriti né morti e la pista di decollo non
sembra compromessa da quello
che abbiamo potuto constatare di
persona.
La nostra visita all'aeroporto dura pochi minuti. Il colonnello Salah El Fituri infatti ci invita senza
tante formalità a infilarci di nuovo in macchina e sgommare via
prima che possa tornare l'aviazione del colonnello. Potrebbero attaccare di nuovo in qualsiasi momento.
Prima di lasciare la zona del
bombardamento però Marai mi
chiede di fargli una foto. Noncurante del pericolo, mentre intorno la contraerea continua a sparare, si mette in posa dietro al cratere tenendo il kalashnikov in una
mano mentre con l'altra fa il se-
TEHERAN
L'Iran ha testato un razzo capace di lanciare satelliti e trasportare uomini nello spazio. È il Kavoshgar-4. È l'ultimo passo di
un programma missilistico che
crea apprensione in Occidente.
“Portate gli aerei e portate pure i
carri armati”. Della serie: non abbiamo paura. Poco sopra invece
hanno scritto con lo spray la data
dell'abbattimento. 17.3.2011.
Ieri era l'anniversario del primo
mese della rivoluzione. I ragazzi
fotografano con il cellulare l'aereo. E fanno a gara a smontare i
pezzi di quello che resta, per portare con sé una qualche reliquia.
Un pezzo del radiatore, la ruota,
un tubo del telaio.
Probabilmente i tre aerei erano
partiti da Sirte. Un altro sarebbe
stato abbattuto, secondo l'armata
Ospedali/1
In quello di Abidiya
dopo la battaglia
decine di cadaveri
Ospedali/2
In quello di Jala
il dottor Adil Eljamal
cura i feriti
degli insorti, nella zona di Ganfuda, a una cinquantina di chilometri da Bengasi. E il terzo sarebbe
riuscito a fuggire indenne. Il bombardamento, secondo il colonnello El Fituri sarebbe la risposta all'
attacco aereo sferrato in mattinata dagli insorti contro una colonna di carri armati che da Zilla stava raggiungendo il fronte di Ijdabiya, dove da tre giorni rivoluzionari e lealisti combattono per il
controllo della città. Aerei che
hanno misteriosamente iniziato a
operare quattro giorni fa. All'inizio nessuno ci credeva. Ma ieri abbiamo personalmente visto in
azione un elicottero, ci sono conferme dell'avvenuto bombardamento da parte degli insorti dell'
aeroporto di Sirte e la conferma –
fuori microfono – dataci da parte
di un membro influente del Consiglio nazionale temporaneo di Ben-
gasi secondo cui alcuni Stati starebbero aiutando militarmente
gli insorti, fornendo loro armamenti pesanti, munizioni e aiuto
logistico. Un supporto senza il
quale difficilmente avrebbero
potuto fare arrivare le armi a Misratah, dove si è aperto un altro
fronte, e bombardare le retrovie
di Gheddafi a Ijdabiya, dove la
situazione tre giorni fa sembrava irrimediabilmente compromessa.
Intanto da Ijdabiya arrivavano anche ieri notizie drammatiche. Secondo testimoni oculari
nell'ospedale della città si troverebbero in questo momento i corpi senza vita di almeno 22 ragazzi uccisi negli scontri con le truppe di Gheddafi, che nella notte
di mercoledì avrebbero accerchiato la città su tre lati, appoggiati dagli incessanti e continui
bombardamenti dell'aviazione
del regime.
A confermarcelo è il dottor
Adil Eljamal, primario del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Jala, a Bengasi, dove negli ultimi tre giorni sono stati trasferiti decine di feriti dal fronte
di Ijdabiya. Tutti feriti sotto i
bombardamenti. Dieci di loro
non ce l'hanno fatta. Il più piccolo è un bambino di quattro anni,
ferito mortalmente alla testa dalla scheggia di una bomba esplosa vicino casa.
Numeri che si aggiungono al
macabro conteggio dei morti
che in questo ospedale non è mai
stato così alto. Soltanto nei primi
cinque giorni della rivoluzione,
tra il 17 e il 20 febbraio, qui si
sono contati 250 morti durante
gli scontri tra i ragazzi del movimento e le milizie di Gheddafi.
Sono quei morti a ispirare ancora oggi i ragazzi che hanno preso
le armi contro Gheddafi e che
non vedono nessuna altra forma
di resistenza pacifica al massacro ordinato dal Colonnello.❖
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VENERDÌ
18 MARZO
2011
In breve
Foto Ansa
Abdelaziz Bouteflika
Algeria, disoccupati
in piazza nel Sud
15 feriti e 2 arresti
Unaquindicina didisoccupati sono rimasti feriti nella città petrolifera
di Hassi Messaoud,circa 800 chilometri a sud-est da Algeri, nel corso di una
manifestazione contro un ufficio di
collocamento accusato di corruzione.
Lamanifestazione è stata repressa dai
gendarmi del presidente Abdelaziz
Bouteflika, riferisce il quotidiano El
Watan. Tahar Belabes del Comitato difesa dei diritti dei disoccupati parla di
15 feriti gravi e 2 arresti.
Drone Usa lancia
missili in Pakistan
Almeno 40 morti
Un drone americano ha colpito
un edificio nel Nord Waziristan pachistano uccidendo almeno 40 persone.
Una fonte governativa locale sostiene che le vittime sono in gran parte
civili. Si tratta di uno degli attacchi più
sanguinosi finora compiuti dagli aerei spia Usa nelle regioni tribali di confinedove si nascondono talebaniemilitanti di Al Qaeda. L'aereo guidato a
distanza ha lanciato sei missili. Il raid è
avvenuto quaranta chilometri a
ovest di Miranshah, vicino al confine
con l'Afghanistan.
8
SABATO
19 MARZO
2011
Primo Piano
Violenze
in Siria
Il nemico ritrovato
È di quattro morti il bilancio provvisorio degli scontri avvenuti ieri a Daraa, città nel
sud della Siria, tra manifestanti e forze dell'ordine. Lo riferisce la rete televisiva panaraba al
Arabiya, citandoun attivista siriano dei diritti umani e testimoni oculari. Secondo il governo
di Damasco gli incidenti sarebbero stati provocati da «infiltrati».
Foto di Alfredo Bini
Il reportage
GABRIELE DEL GRANDE
BENGASI
allano, corrono, cantano e sparano in aria.
Sono i ragazzi della rivoluzione di Bengasi.
Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo,
e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato
la risoluzione sulla no fly zone. In
strada si sono riversate migliaia di
automobili. I clacson suonano all'
impazzata, ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell'
artiglieria.
B
zione di beneficenza. Il signor
Omar di bandiere riesce a cucirne
una ventina al giorno, poi ci sono
giorni in cui ne vende di meno e altri in cui ne vende di più. Per esempio oggi che soltanto Hussein Madani ne ha comprate cinque.
ga e la battuta pronta. Lui in piazza
c'è dal primo giorno delle proteste.
Anzi c'è dagli anni Novanta. Da
quel giugno del 1995 quando lo
vennero a prendere a casa le forze
di sicurezza di Gheddafi, insieme al
fratello Hasan. Li portarono al carcere speciale di Abu Salim, a Tripoli. Una prigione di massima sicurezza, dedicata in quegli anni ai prigionieri accusati di terrorismo islamico. Anche se col senno di poi, è chiaro che i terroristi erano altrove. E
indossavano la divisa. Husein quel-
sa. I ragazzi cantano “Irfaa
raskum anta libi”, alza la testa sei
un libico. La gioventù ha ritrovato
Messaggi
Sui muri la scritta
«Viva i martiri»
Nasce un mito popolare
Ali
Su una sedia a rotelle
Torturato dopo le
proteste di un mese fa
Bandiere
Omar fa le ore piccole
per cucire i tricolori
dell’indipendenza
Hussein
Arrestato nel ‘95
Suo fratello ucciso
con altri 1200
La folla si apre soltanto per lasciare passare la sedia a rotelle di
Ali. Ha il volto di un ragazzo adolescente, ma lo sguardo triste nonostante il clima di festa. Davanti
a lui i ragazzi della piazza fanno
la fila per baciarlo sulla fronte e
stringergli la mano. “Coraggio!”
gli dicono. Da quando la tv Al Arabiya ha diffuso la sua intervista,
Ali è diventato il simbolo vivente
delle vittime dell'oppressione di
Gheddafi. In questi giorni gli ho
chiesto tre volte di raccontarmi la
sua storia. Ma ha sempre rifiutato. Dice che gli fa male parlarne,
che è un incubo di cui non riesce a
liberarsi. Si sveglia ogni mattina
che gli manca l'aria, come in quella cella sotto i cadaveri sporchi di
sangue. La sua storia corre sulla
Yemen, polizia
spara sulla folla
Oltre 40 morti
Stato d’emergenza
Hussein ha 38 anni, la barba lun-
Davanti al tribunale è una res-
l'orgoglio e ha scoperto con il sangue di essere una comunità, con i
suoi sogni di libertà e con il suo
gusto per la sfida. Anche estrema.
Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati
a colpire i civili. In piazza ci sono
migliaia di persone pigiate una
contro l'altra.
9
SABATO
19 MARZO
2011
Notte di festa a Bengasi dopo l’annuncio della no fly zone
Il canto dei ragazzi
a Bengasi in festa:
alza la testa, sei un libico
La città spera e non dimentica. Appesi sotto al tribunale i ritratti dei martiri
della rivoluzione del 17 febbraio: uccisi dal regime, sono i nuovi eroi
bocca di tutti. È l'unico superstite
del massacro della caserma centrale di Bengasi. Venticinque ragazzi
torturati a morte dalle milizie di
Gheddafi, il 17 febbraio, dopo la
manifestazione contro il regime. Alla fine del massacro, quella notte li
scaricarono in mare lungo la costa,
pensando che anche lui fosse morto come gli altri. Invece era vivo, è
sopravvissuto e ha trovato il coraggio di raccontare. E di dire che quel
giorno l'hanno picchiato, frustato e
torturato, con continue scariche
elettriche alla schiena e sui genitali, così – dicevano – non avrebbe
messo al mondo altri bastardi. Scariche che l'hanno completamente
paralizzato dalla schiena in giù.
La manifestazione va avanti fino
all'alba sotto una leggera pioggia
che sembra allentare le tensioni di
questi ultimi giorni, con il fronte
della guerra sempre più vicino alla
città e con i due bombardamenti all'
aeroporto. Il giorno dopo, delle sparatorie della notte non rimane traccia, salvo un po' di bossoli sparsi
per terra. I volontari hanno ripulito
la piazza, le macchine armate sono
ferme all'esterno e migliaia di per-
Preghiere
Dopo la notte di euforia
in piazza a piedi scalzi
e con la fronte a terra
Simboli
Tra la folla nessuna
insegna di partito:
da 42 anni sono vietati
sone formano un quadrato disposte su file ordinate. Guardano la
Mecca e alle spalle hanno il mare. È
un rito antico quindici secoli. I tappetini a terra, i piedi scalzi e la fronte appoggiata a terra. Pregano dio
in un silenzio che dà una carica mistica a quello che sta accadendo. In
tutta la piazza non si vedono simboli di partiti o associazioni. Per il semplice fatto che in Libia da 42 anni
partiti e associazioni sono vietati.
Ci sono soltanto le vecchie bandiere tricolori dell'indipendenza. Sventolano in aria a centinaia, di tutte le
dimensioni, cucite a mano nelle sartorie della città.
Posti come quello di Omar
Bruim, un signore di 74 anni, di Misratah, che nelle ultime settimane
ha fatto le ore piccole davanti alla
vecchia e fedele macchina da cucire. Disegna a mano la mezza luna e
la stella bianca, poi ritaglia la stoffa, la cuce e vende il tutto a cinque
dinari nella sua bottega. A me però
la bandiera la regala. Perché non lo
fa per i soldi. Come buona parte dei
libici, anche lui con Gheddafi ha
qualche conto in sospeso. Nello specifico sono i dieci anni in cui non ha
potuto vedere il figlio, fuggito in
Svizzera nel 1998 per scampare al
mandato d'arresto che aveva portato in carcere altri dodici studenti
universitari accusati di terrorismo
per aver messo in piedi una associa-
la notte era nella sezione a fianco e
certe cose non le ha mai dimenticate. Le grida ad esempio. “Allahu akbar!” Dio è grande. Strillavano come dei pazzi quella notte. Suo fratello e gli altri. Mentre gli scaricavano addosso raffiche di mitra per sedare la rivolta. Le scariche andarono avanti per due ore. Ininterrottamente. Finché non si sentì più volare una mosca. Dicono che la mattina dopo uscirono dal carcere i camion frigorifero gocciolanti di sangue. Milleduecento morti, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.
Molti erano di Bengasi. E oggi le
loro foto sono appese sotto il tribunale della città insieme ai ritratti
dei martiri della rivoluzione del 17
febbraio. Sui muri hanno scritto:
“viva i martiri”. È la nuova iconografia della Libia che verrà. La Libia
che ha distrutto le immagini del
grande capo, e ha già iniziato a celebrare il mito popolare dei propri ragazzi morti per la libertà. Quanti
siano nessuno lo sa. In tutto il paese potrebbero già essere un migliaio. Il resto dipende dagli scenari che verranno. Certo c'è la no fly
zone e c'è l'annunciato coprifuoco
del regime, ma dalle notizie che arrivano coi telefoni satellitari da Misurata e da Hjdabiya, sul fronte si
continua a combattere. ❖
Il presidente Ali Abdallah Saleh ha proclamato lo stato di emergenza in Yemen in seguito ai sanguinosi scontri nei quali sono morte ieri oltre quaranta persone. La
polizia e alcuni miliziani del regime hanno fatto strage di manifestanti nella capitale Sana’a. I dimostranti dell’opposizione si erano
riuniti nella centralissima Piazza
del cambiamento. Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco ad altezza d'uomo. Fonti mediche riferiscono che negli ospedali sono
state ricoverate centinaia di feriti.
Dopo il massacro si sono levati in
volo alcuni elicotteri che hanno a
lungo sorvolato la zona, mentre
mezzi blindati prendevano posizione nel centro della città, dalla
quale si innalzavano colonne di fumo.
Nell'università di Sana’a, dal
più di un mese migliaia di studenti, avvocati e esponenti della società civile sono in sit-in permanente
per chiedere la fine del regime di
Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre 32 anni. Le prime grandi manifestazioni nella capitale e nella città meridionale di Aden risalgono
al 16 febbraio, mentre le prime vittime nella capitale si sono avute il
23 febbraio: due studenti morti
per mano di attivisti pro regime.
Da molte settimane le marce di
protesta in varie località del Paese
si susseguono con frequenza quasi quotidiana.
Nell’ostilità a Saleh si trovano
d'accordo anche il movimento se-
Strage
Il presidente Saleh
si dice
«rammaricato»
cessionista del sud, e le due più potenti confederazioni tribali yemenite, la Hashed e la Baqil. L'opposizione in un estremo tentativo per
evitare un bagno di sangue aveva,
con il beneplacito dei vertici religiosi islamici, proposto a Saleh un
piano di transizione che prevedeva una sua uscita graduale dal potere entro la fine del 2011, ricevendo un netto rifiuto.
Ieri sera il presidente si è detto
«rammaricato» per il bagno di sangue e ha definito le vittime «martiri della democrazia».❖
20
VENERDÌ
1 APRILE
2011
Primo Piano
Kuwait
Si dimette
il governo
La guerra in Libia
Il governo kuwaitiano ha rassegnato le dimissioni nelle mani dell'emiro, lo sceicco
Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah. Le dimissioni eviteranno a tre esponenti del governo,
tutti appartenenti alla famiglia reale al-Sabah, di rispondere in Parlamento delle accuse di
corruzione e inadeguatezza, rivolte loro dall'opposizione.
Foto di Alfredo Bini
Il reportage
GABRIELE DEL GRANDE
MISURATA
ohamed dice che
gli fa male e piange. È un bambino
di undici anni e sta
su un letto di ospedale, coperto di bende su tutto il
corpo. Il missile è caduto nel cortile di casa mentre erano fuori a giocare lui e suo fratello Ali. Quando
è arrivato al pronto soccorso, i medici non hanno potuto fare altro
che asportare l'occhio e amputare
la mano. L'infanzia di Mohamed è
finita in un attimo. Il tempo dell'
esplosione di un missile lanciato a
caso su un quartiere della città con
l'unico obiettivo di colpire i civili.
Benvenuti a Misurata. La città ribelle della Tripolitania che da 40
giorni resiste eroicamente all'assedio delle milizie di Gheddafi e che
da ormai tre settimane è completamente isolata dal resto del paese.
M
Le linee telefoniche sono fuori
uso, metà delle case è senza elettricità e l'unica acqua rimasta a disposizione è quella dei pozzi, perché
le condutture dell'acquedotto sono state chiuse dagli uomini di
Gheddafi, che ormai circondano
la città. L'unica via libera rimasta è
quella del mare, ed è quella che abbiamo scelto per rompere l'altro
isolamento: quello con la stampa
internazionale. Perché finora nessun inviato dei grandi giornali è
riuscito a spingersi fin qua.
Siamo sbarcati a Misurata mercoledì a mezzogiorno su un peschereccio libico salpato da Malta
il giorno prima, con a bordo un carico di aiuti umanitari per la popolazione raccolti dalla comunità libica all'estero. Centocinquanta tonnellate di latte, pannolini, fagioli,
riso, pasta, tonno e acqua minerale. Durante la notte, al largo, abbiamo incrociato le portaerei della Nato. Le stesse da dove il giorno prima erano partiti gli attacchi contro le tre navi della marina libica
che bloccavano l'accesso al porto
di Misurata alla nave turca ancora
ferma al largo della città con un carico di medicinali per l'ospedale
della città, che ormai è rimasto a
secco di farmaci e con centinaia di
feriti gravi e gravissimi ancora da
curare.
Ce lo confermano i dottori della
clinica Hikma. È l'unico presidio
medico rimasto in città. In principio era una clinica privata, ma il
proprietario sta con la rivoluzione
e dopo che le milizie di Gheddafi
hanno bombardato l'ospedale, ha
tov pronte per l'uso, e decine di coperte sbruciacchiate stese sull'asfalto, che al momento opportuno vengono imbevute di benzina e incendiate, per bloccare il passaggio ai
blindati di Gheddafi e sparargli con
i vecchi kalashnikov e i razzi rpg arrivati di contrabbando nelle ultime
settimane da Bengasi. Tutto intorno
le pareti sono crivellate di colpi
quando non abbattute dai missili e
dai carri armati. Quando iniziamo a
fare le prima foto ci sparano contro.
Prima proiettili e poi un razzo che
fortunatamente cade inesploso nella strada a fianco. Andiamo a visitare le scuole trasformate in rifugi di
solidarietà per le famiglie evacuate.
La battaglia
È stata cruenta, le stime
parlano di oltre
duecento vittime
La solidarietà
Il cibo che si trova
viene condiviso,
distribuito dai ragazzi
Una strada deserta di Misurata da settimane sotto il tiro delle forze lealiste
A Misurata sotto assedio
dove i civili sono bersaglio
dei cecchini di Gheddafi
Da 40 giorni la città della Tripolitania resiste alle forze lealiste. Qui la Nato
ha le mani legate: i tank e i mortai del raìs sono in mezzo alla gente
ceduto gratuitamente i cinquanta
posti letto e le sale operatorie ai medici del policlinico. I pazienti sono
stati evacuati di notte e portati da
un ospedale all'altro a bordo delle
ambulanze. Le stesse ambulanze
sulle quali una settimana prima erano saliti invece i mercenari sparando all'impazzata sulla gente in via
Tarabulus, la strada che dalla circonvallazione attraversa il centro di
Misurata e che ormai è completamente controllata dai militari del colonnello. Lungo la strada, i cecchini
sono appostati sui quattro palazzi
più alti, da dove con fucili di precisione abbattono chiunque si sposti
nel raggio di un paio di chilometri.
Che si tratti di civili o di ragazzi armati non importa. Soltanto nella
giornata di ieri ne hanno uccisi cinque. E non è niente rispetto ai 17
che hanno catturato e sgozzato il
giorno prima. E rispetto ai 40 ammazzati in un solo giorno domenica
20 marzo, quando hanno sparato
colpi di mortaio su una manifestazione pacifica di 4.000 cittadini, scesi in piazza dopo le parole di Gheddafi che annunciava al mondo il ces-
sate il fuoco dopo i primi bombardamenti Nato alle porte di Bengasi.
Daalloraè una escalation di violenze contro i civili. Le giornate sono scandite dalle esplosioni dell'artiglieria pesante che rimbombano nei
quartieri. Non ci sono obiettivi militari. Almeno a giudicare dalle case
distrutte dai missili che abbiamo visto a Qasr Ahmed, un quartiere periferico vicino al porto. E a differenza
di Ajdabya e Bengasi, qui la Nato ha
le mani legate. Perché i carri armati,
i mortai e i lanciamissili non sono
fuori dalla città, in zone isolate facili
bersaglio degli aerei degli alleati.
Qui nessuna bomba può essere abbastanza intelligente da scovare i
carri armati. Per il semplice fatto
che sono in mezzo alla città e in mezzo alle case. In pieno centro su via
Tarabulus e via Bengasi, nei quartieri residenziali del lungomare Jazira
e Zerrag e addirittura dentro l'ospedale Karzas. E non appena sentono
ronzare i motori degli aerei da guerra, in pochi secondi riescono a scomparire dalla vista, nascondendosi
dietro le abitazioni o nel vecchio
mercato delle erbe. Con i cecchini il
problema è lo stesso. I ribelli sanno
esattamente da quali palazzi sparano. Ma non sanno se in quei palazzi
tengano ancora ostaggi civili con sé.
Anche contro di loro quindi un bombardamento aereo non può fare
niente. E intanto la battaglia continua. Ed è una battaglia senza regole
SOLDATI DALLA BULGARIA
La Bulgaria partecipa con una
fregataall'operazione Natoin Libia. La decisione è stata annunciatadal governo. La Bulgariainvierà una fregata con a bordo
160 esperti e 12 militari.
che in quaranta giorni si stima abbia
già fatto almeno 200 vittime secondo le stime più prudenti dei medici
della clinica Hikma.
Dieci giorni fa i miliziani del governo hanno ucciso quattro uomini,
tutti civili, per impossessarsi del loro appartamento e usarlo come ba-
L’offensiva
Metà delle case sono
senza luce, l’unica
acqua è quella dei pozzi
se per i cecchini. E due giorni fa hanno tagliato la gola a 17 ragazzi della
rivoluzione, dopo averli fatti prigionieri, forse una vendetta per i cecchini sgozzati da un gruppo dei ragazzi
armati della rivoluzione. Ciononostante il morale dei ragazzi di Misurata è ancora alto. Dopotutto la storia della guerra al colonialismo italiano dovrebbe avere insegnato a
Gheddafi che questa è una città battagliera. Nelle sue strade più centrali, tra i palazzi della vecchia città coloniale, si combatte ora per ora una
vera guerriglia urbana. Andare a via
Tarabulus è troppo pericoloso, ci
sparerebbero i cecchini. Proviamo
allora a raggiungere via Bengasi. La
strade tutto intorno sono tagliate da
trincee di sabbia, file di bombe molo-
Sono centinaia di persone. Nelle
aule al posto dei banchini ci sono i
tappeti sul pavimento. Le scuole sono chiuse da 40 giorni. Masoud Masoudi è il padre di sei bambini. È qui
con la moglie marocchina, Boushra.
Gli hanno distrutto la casa e si sono
salvati grazie a una macchina degli
insorti che li ha portati qui in salvo.
Mentre ci racconta, non ce la fa a
trattenere le lacrime. La bambina lo
guarda con uno sguardo grave come se fosse la prima volta che scopre la debolezza del padre. Fanno i
grandi, ma hanno paura anche loro,
i più piccoli. Nella scuola accanto ce
ne sono 130. Sono tutti dell'orfanotrofio di via Tarabulus. Tre giorni fa
sono finiti anche loro sotto le bombe. Per fortuna non c'è scappato il
morto. Ma soltanto una grande paura, a cui fa da contraltare la grande
solidarietà popolare messa in moto
dalla città.
Nonostante l'assedio, in qualche
modo il cibo si trova e si condivide.
Lo vengono a distribuire i ragazzi
della rivoluzione, nelle scuole degli
sfollati e al porto, dove sono accampati più di seimila stranieri. Soprattutto egiziani, ma anche bangladeshi, nigerini e sudanesi. Hanno paura di tornare in città tra le bombe.
Hanno paura di essere scambiati
per mercenari.
Questa non è la loro guerra. Vogliono solo tornare in pace nel proprio Paese in pace. Ma né i loro governi né i nostri sembrano molto interessati alla loro sorte. ❖
21
VENERDÌ
1 APRILE
2011
Assad ordina
un’inchiesta
sulle violenze
in Siria
Il presidente siriano, Bashar
Assad, ha incaricato la magistratura di istituire una commissione
che indaghi sulla morte di «civili e
soldati» a Daraa e Latakia, durante
le proteste popolari dei giorni scorsi. Lo riferisce l’agenzia di stampa
ufficiale di Damasco, Sana, specificando che la commissione dovrà
iniziare immediatamente i suoi lavori.
Incidenti sono scoppiati a Latakia anche dopo il discorso televisivo del presidente, mercoledì. Il
bilancio delle violenze non è ancora chiaro. Secondo il Comitato siriano per i diritti dell'uomo
(Csdh), che ha sede a Londra ed è
vicino all'organizzazione islamica
dei Fratelli musulmani, le forze di
sicurezza avrebbero ucciso 25 manifestanti. In una nota il Csdh parla di «genocidio» e lancia un «appello alla comunità internazionale
ad agire per mettere fine al bagno
di sangue e ai massacri commessi
dalle forze di sicurezza e dai miliziani del regime». Sul numero delle vittime a Latakia, il porto principale della Siria, mancano confer-
Latakia
Scontri dopo discorso
del presidente
in televisione: 25 morti
me da fonti indipendenti. Un militante che si trova in città, contattato telefonicamente da un’agenzia
di stampa ha confermato che ci sono stati «morti e feriti», ma esiste
«molta confusione sul numero
esatto». Mercoledì alcuni testimoni avevano riferito di colpi di arma
da fuoco a Sleiba, un quartiere nella parte meridionale della città.
Gli agenti avrebbero aperto il fuoco sui dimostranti.
La Reuters ha annunciato intanto che due dei suoi giornalisti risultano dispersi in Siria. Il corrispondente Suleiman al-Khalidi, un giordano che lavora ad Amman, è stato arrestato martedì a Damasco. Il
fotografo Khaled al-Hariri, siriano
con base a Damasco, ha perso i contatti con i colleghi da lunedì. Pochi
giorni fa altri due dipendenti della
stessa agenzia erano stati fermati
e trattenuti in isolamento dalla polizia siriana prima di essere rilasciati, lunedì.❖
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LUNEDÌ
4 APRILE
2011
Primo Piano
Rivolta
in Yemen:
2 morti
La guerra in Libia
Ieri almeno due i morti e 250 i feriti a Taiz, nel sud dello Yemen, dove la polizia ha
sparato,caricato e lanciato gas lacrimogeni per disperdere una protesta contro il presidente Ali Abdullah Saleh. I manifestanti avevano tentato di raggiungere l'ufficio del governatore. Decine di feriti anche nella capitale Sanaa.
Foto di Alfredo Bini
Il reportage
MISSIONE ONU
PER LA LIBIA
GABRIELE DEL GRANDE
MISURATA
ashat non ha fatto in
tempo a fare le valigie
quando è scappato. E
dietro si è portato soltanto la foto dei figli.
Mi chiede di mostrarla al mondo
perché la famiglia a Banisuif in Egitto sappia che è ancora vivo. Accanto a lui si crea una calca di gente.
Sono tutti egiziani e sono migliaia.
La distesa delle tende grige allestite dalla Croce Rossa libica per accoglierli si perde all'orizzonte lungo
tutto il viale che dall'acciaieria conduce fino al porto industriale di Misurata. Sono il primo giornalista
che incontrano da quando 20 giorni fa hanno abbandonato le loro case in città per rifugiarsi qui nell'attesa di una nave che li tiri via dalla
guerra e li riporti a casa. Da quando
le truppe di Gheddafi hanno tagliato le linee telefoniche della città,
hanno perso i contatti con i parenti
in Egitto, che seguono con ansia su
Al Jazeera le notizie dei bombardamenti sui civili a Misurata.
N
Le bombe sono arrivate anche
qui. Mercoledì, giovedì e venerdì
scorso, l'artiglieria pesante delle milizie governative ha colpito il porto
della città. Forse per bloccare l'attracco della nave ospedale turca
che da tre giorni aspettava in rada
con un carico di medicinali per la
città e che alla fine ha invertito rotta perché troppo pericoloso. O forse invece per colpire noi nove giornalisti arrivati proprio via mare, a
bordo di un peschereccio carico di
aiuti umanitari ripetutamente bersagliato dai razzi. Gli ultimi sono caduti poche decine di metri oltre il
muro di cinta che separa il campo
degli sfollati dal porto. Qualche metro prima e avrebbero fatto una
strage. Sì perché stipati sotto le tende ci sono più di 4.000 egiziani,
400 bangladeshi e un migliaio tra
nigerini, sudanesi, ghanesi, chadiani, nigeriani e eritrei.
Da questo porto era partito il traghetto con 1.800 marocchini a bordo, respinto dall'Italia lo scorso
marzo. Altri 2.300 egiziani sono
stati evacuati il sette marzo su una
nave giunta a Alessandria d'Egitto.
Per evacuare tutti gli altri ed evitare una strage, basterebbero altre
tre navi di quella grandezza. Una
sciocchezza per i governi e per le
agenzie umanitarie. Eppure nessuno per il momento si muove. Sotto
le tende non si parla d'altro. Tornare a casa, scappare dalla guerra. Sono tutti lavoratori che vivevano sta-
EDITORIALE
p SEGUE DALLA PRIMA
La ragione di ciò è la situazione di
stallo che si è creata. Una situazione
dove i ribelli non hanno la forza di
marciare su Tripoli e sbarazzarsi di
Gheddafi, e quest’ ultimo non è in
grado di riconquistare l’Est del Paese, grazie anche agli attacchi aerei occidentali. I quali hanno distrutto le
difese antiaeree libiche, ma non hanno portato il sistema avversario «al
punto di rottura», come appena dichiarato dal capo delle forze armate
USA.
Una impasse è meglio del bagno
Bloccati nelle tendopoli della Croce Rossa a Misurata i lavoratori immigrati aspettano di poter partire
Nashat e gli altri migranti
con il sogno di fuggire
dalla guerra di Misurata
Nel porto della città assediata ci sono migliaia di egiziani, sudanesi, eritrei
e nigeriani: sono lavoratori che vivevano in Libia e ora vogliono tornare a casa
no via dalla città.
La spirale della violenza in città
ormai è tale, che nessuno si scandalizza nemmeno di questo. E per un
nero oggi a Misurata può bastare trovarsi nel posto sbagliato al momento
sbagliato per essere scambiato per
un mercenario in borghese e finire alla gogna. Ad ogni modo, egiziani o
sudanesi, questa non è la loro guerra. E dalla Libia vogliono solo andare
via. Come hanno già fatto centinaia
di migliaia di lavoratori tunisini, egiziani, cinesi e bangladesi. Eppure di
stranieri bloccati in Libia ce ne sono
ancora a migliaia. E non soltanto nel
Le paure
bilmente in Libia. Gente come Taha,
che mi accompagna a visitare le famiglie e mi fa da interprete con il suo
accento friulano. L'italiano l'ha studiato all'università del Cairo, e l'accento l'ha preso a Misurata dopo due
anni di lavoro con la Sider Impes di
Gorizia.
Molti ragazzi arabi a Misurata
hanno solidarizzato con la rivoluzione dei giovani. Ragazzi come Mustafa Yasir, siriano, nato a cresciuto a
Misurata e oggi ricoverato all'ospedale Hikma in attesa dell'operazione
che gli amputerà le due gambe, ma-
ciullate da una granata sparatagli
contro da un carro armato mentre
con un vecchio kalashnikov cercava
di difendere la sua città. Scappano
anche per questo gli egiziani, per
paura che se le forze di Gheddafi riprenderanno il controllo della città,
per loro potrebbe essere una strage.
I sudanesi e i chadiani invece,
scappano per il motivo opposto. A loro fanno paura i ribelli. Qua dentro
sono al sicuro. I ragazzi della rivoluzione gli provvedono acqua potabile, pane e tonno ogni giorno, nonostante la città sia sotto embargo e i
beni di prima necessità scarseggino
anche per i libici. Ma appena fuori
dal perimetro dell'acciaieria rischiano il linciaggio se scambiati per errore per gli uomini di Gheddafi. A Misurata il colonnello ha schierato un'intera armata di mercenari. I ragazzi
della rivoluzione li hanno catturati
con ancora la mimetica addosso e in
tasca i passaporti mauritani, nigerini, chadiani e maliani. E li hanno ammazzati sul posto. I video circolano
sui telefonini dei ragazzi che li hanno ripresi ormai morti sgozzati e ammucchiati sui pickup che li portava-
Gli egiziani temono che
se il raìs riprenderà
la città sarà una strage
porto di Misurata. Ce ne sono a Tripoli, da dove infatti stanno ricominciando le traversate per Lampedusa. E ce
ne sono a Sallum, al valico della frontiera egiziana, dove migliaia di chadiani e un centinaio di eritrei vivono
accampati intorno alla dogana egiziana, senza il permesso di andare al
Cairo ma anche senza l'assistenza
delle proprie ambasciate per tornarsene a casa. ❖
di sangue che è stato impedito a Bengasi. L’ intervento occidentale ha finora onorato il suo mandato, ma è
inutile nasconderci che si sta camminando su un filo. L’ intervento in Libia è di natura umanitaria, e serve a
proteggere i civili. Un uso protratto
della formula militare adottata finora può rapidamente rivoltarsi contro
i suoi promotori. È successo tante di
quelle volte che non si dovrebbe far
finta di non avere imparato la lezione. Bastano una serie di missili fuori
bersaglio e l’ opinione pubblica araba e mondiale inizierà a denunciare
il colonialismo petrolifero ed i prodromi di una guerra civile tipo Iraq e
Afghanistan. Il consenso degli europei e degli americani all’ intervento
in Libia è già oggi sotto il 50%.
La pianificazione militare degli interventi Nato e gli armamenti che
vengono usati, d’altra parte, sono
scatole chiuse, che non consentono
alternative. Sono strumenti obsoleti,
eccessivi, concepiti per scenari tipo
seconda guerra mondiale. I bombardamenti, in particolare, sono ritenuti ormai un mezzo incivile e non risolutivo anche da esperti militari.
Consideriamo i possibili sviluppi.
Cosa può accadere se lo stallo prosegue, e non avvengono fatti nuovi sul
piano extra-militare?
L’ invio in Libia di truppe di terra
autorizzate dall’ Onu e con il mandato di rovesciare la tirannia è da escludere. Gli Stati Uniti, inoltre, si sono
dichiarati fermamente contrari a
questa eventualità. Un eventuale
spedizione franco-britannico «illegale», senza avallo Onu, si configurerebbe come una avventura coloniale
ed incontrerebbe l’ avversione universale.
La coalizione anti-Gheddafi non
avrà così altra scelta che espandere i
raid aerei contro le forze di terra del-
la dittatura, ed intraprendere un programma «coperto» di sostegno finanziario e militare ai ribelli, sperando
che le risorse del tiranno si esauriscano prima possibile e lo scontro termini con la sua uscita di scena e l’ insediamento di un governo di transizione.
Ma nessuno può prevedere, in
realtà, nè la durata effettiva né l’ esito finale di questo conflitto. Le risorse di Gheddafi non sono infinite, ma
quanto costerà alla popolazione libica la resistenza di un tiranno spietato e messo in un angolo, che dispone
anche di un certo sostegno nel Paese? Qualcuno parla di un 10% della
popolazione schierata con lui, tra cui
numerosi complici degli assassinii
già effettuati, e pronti a commetter-
L’intervento
Ha evitato il bagno di
sangue ma ora bisogna
cambiare strada
Il modello Libano
Nel 2006 il successo
di una delle maggiori
storie di peacekeeping
ne molti altri allo scopo di restare impuniti.
Tutto ciò, inoltre, si chiama guerra civile, e il nostro non sarebbe più
un intervento umanitario. Ci ritroveremmo risucchiati in un conflitto
open ended, con migliaia di vittime,
non autorizzato e non autorizzabile
dall’ Onu.
L’ idea degli aiuti ai ribelli, poi, è
particolarmente infausta. A parte la
violazione dell’ embargo sulle armi
alla Libia che essa comporterebbe, è
dimostrato come questa misura non
serva ad altro che a creare i nuovi
contras, i nuovi mujaheddin e i nuovi talebani.
È il momento, quindi, di imboccare un’altra strada. Quella di un immediato cessate il fuoco, richiesto dall’
Onu e sostenuto dalla minaccia di
una ripresa dell’ uso autorizzato della forza in caso di non rispetto dei
suoi termini. Un cessate il fuoco appoggiato dalla Lega araba e dall’
Unione africana, accompagnato e seguito da una robusta missione di
mantenimento della pace, composta
anche da caschi blu della regione,
che consenta l’ apertura di un nego-
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2011
ziato ed una soluzione politica della
crisi.
La sola notizia di una entrata in
campo delle forze di pace del’ Onu
incentiverebbe la fine delle ostilità in
corso. Entrambe le parti sarebbero
più inclini a trattare se potessero contare sulla presenza dei caschi blu come forza di interposizione. Le stesse
parti, inoltre, si sono indebolite nelle
ultime settimane, e ciò le sta spingendo a cambiare le rispettive posizioni.
Venerdì scorso, dopo settimane di rifiuto di ogni negoziato con il regime,
il capo del Consiglio nazionale di
Bengasi ha dettato i suoi termini per
un cessate il fuoco, chiedendo il ritiro delle forze di Gheddafi da tutte le
città libiche e la possibilità di tenere
«pacifiche manifestazioni». Intendendo così creare le condizioni per
una successiva messa fuori gioco del
colonnello. Mentre gli ufficiali di
Gheddafi hanno respinto prontamente questa offerta definendola
«un trucco», sta diventando evidente che vari membri del regime stanno cercando di porre fine alla crisi
tramite una soluzione negoziata. Da
qui i contatti tra membri della famiglia Gheddafi e gli inglesi, e tra esponenti del governo libico e dirigenti
del Dipartimento di Stato. Ci sono anche altri giochi in corso, ma è abbastanza evidente che una missione di
pace Onu si profila a questo punto
come l’ unica via d’uscita praticabile
per tutte le parti in causa. I caschi blu
opererebbero come in vari altri contesti, senza aerei, né missili, né carri
armati. Lavorerebbero in primo luogo come promotori del negoziato
per il cessate il fuoco e ne sorveglierebbero l’ attuazione. Provvederebbero alla smobilitazione dei combattenti, e all’allontanamento dei mercenari dalle zone di conflitto. In secondo luogo, agirebbero come forza
di protezione sociale, tutelando le
operazioni di assistenza umanitaria
e garantendo lo svolgimento di elezioni democratiche. Sfatiamo il mito
della inefficacia delle forze di pace.
Le missioni internazionali funzionano nella maggior parte dei casi. E noi
italiani dovremmo essere orgogliosi
del nostro contributo. Con Massimo
D’ Alema esemplare ministro degli
Esteri, abbiamo animato in Libano
nel 2006 una delle maggiori storie di
successo del peacekeeping. Si trattava evvero di un conflitto interstatale,
ma si sono prevenuti comunque possibili massacri, in un contesto fratturato e instabile come e più della Libia. I cinici obietteranno che i caschi
blu made in Italy sono ancora lì, sia
pure in numero ridotto. Ma anche il
Libano è ancora lì, perché non è stato travolto dalla furia della guerra. E
qual è l’ alternativa, nel caso della Libia? PINO ARLACCHI