I trasferimenti mondiali di piante alimentari dal
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I trasferimenti mondiali di piante alimentari dal Cinquecento a oggi: storia, situazioni e prospettive per gli uomini e per gli ambienti Agnese Visconti La storia dei trasferimenti di organismi viventi, in particolare vegetali, da un luogo all’altro della terra, è antica di millenni. Di questa lunga, lunghissima vicenda prenderemo in considerazione in questa sede solo alcuni aspetti, quelli che ci paiono poter offrire spunti in grado di aiutarci a ricostruire i nessi tra: i trasferimenti degli organismi alimentari compiuti dalla nostra società, quella cosiddetta occidentale, nel periodo che va dal Cinquecento a oggi; gli obiettivi economici e politici che la nostra società si è posta in passato e si pone oggi; le conoscenze scientifiche che hanno agevolato questi trasferimenti e quelle che sono derivate da essi; le conseguenze sull’ambiente di tali trasferimenti. Tralasciamo pertanto di considerare tutte le trasmigrazioni che hanno avuto luogo in epoca remota, in età classica e nel Medioevo e ci concentriamo invece sulle trasmigrazioni a partire dal Cinquecento. È con la scoperta dell’America che possiamo far prendere le mosse alla nostra storia. Con la scoperta dell’America infatti si apre improvvisamente una nuova grande ricchezza e varietà vegetale che determina profondi mutamenti nell’economia europea e mondiale. Nel corso del Cinquecento e del Seicento parecchie piante furono portate dagli europei in America con lo scopo di trasformare il più possibile il Nuovo mondo in una copia del Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni, cipolle, insalata, viti, olivi e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la zona adatta, e tutte insieme si estesero dagli umidi bassipiani delle coste atlantiche fino agli altipiani asciutti andini. Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais che venne portato in Spagna da Cristoforo Colombo al ritorno, pare, già dal suo primo viaggio. Come vedremo tra poco, esso non si diffuse subito in Europa. Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna. Originario dell’India, esso fu trasferito nei Caraibi e sulla costa nord del Brasile. Allo zucchero e alla sua coltivazione oltreoceano si collega, come è noto, la tratta degli schiavi dalle coste occidentali dell’Africa alle Antille e al Brasile. Gli schiavi venivano caricati su navi apposite (navi negriere) e trascorrevano il viaggio chiusi nella stiva con qualche possibilità di uscire al fine di non rischiare la depressione, o addirittura la vita e anche di non organizzare rivolte. In un libro pubblicato dal British Museum intitolato La storia del mondo in 100 oggetti, tra gli oggetti scelti c’è un tamburello al ritmo del quale gli schiavi erano costretti a danzare sul ponte della nave per evitare depressione e rischio di suicidio. Dopo tutto ai negrieri importava che gli schiavi arrivassero in America in buone condizioni per poter essere venduti al miglior prezzo possibile. 1 Ponti e sezione della nave inglese Brookes adibita al trasporto degli schiavi, 1788 Anche la storia del mais si lega a quella della tratta degli schiavi. Esso fu infatti introdotto nel Seicento in Africa occidentale dai portoghesi con lo scopo di poter disporre a basso prezzo del cibo necessario al mantenimento degli schiavi durante la traversata oceanica. Il mais era il cereale più adatto a essere trasferito in Africa: aveva una resa alta ed era più facile da coltivare del frumento (che richiede l’aratro) e del riso (che richiede un complesso sistema di irrigazione). Così mentre gli schiavi venivano trasferiti dall’Africa all’America per coltivare lo zucchero originario dell’Asia, il mais originario dell’America veniva trasferito in Africa per consentire il commercio dello zucchero in Europa. Mais, zucchero e schiavi costituirono il perno del commercio mondiale fino al Settecento. Questo commercio ha portato come conseguenza a un profondo sovvertimento dei paesaggi agrari americani e africani con l’abbattimento delle foreste, la creazione di vaste piantagioni monoculturali con il radicale cambiamento dei modi di produzione locali che da allora si sono perduti per sempre. Questo il perno del commercio mondiale fino al Settecento, quando assistiamo a una grande novità. Nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. La pratica non basta più. Occorrono ricerche sperimentali razionalmente programmate per poter effettuare nuovi trasferimenti. I primi segnali in questo senso arrivano dalla Francia. Il nuovo spirito può essere sintetizzato dalle convinzioni dello scienziato René-Antoine Ferchault de Réaumur, a parere del quale l’obiettivo del naturalista doveva essere quello “di The Old Plantation, tardo XVIII secolo 2 individuare gli organismi utili, di ricercare quindi i loro analoghi e di vedere se tra questi ve ne sia alcuno da cui poter trarre gli stessi vantaggi”. Un nuovo ruolo per il botanico, dunque. Che si stacca dalla sua tradizionale posizione, strettamente legata alla medicina, e viene trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da assumere una funzione molto lontana da quella di partenza. Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si concretizzò in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace furono la Francia e la Gran Bretagna, dove già a partire dalla seconda metà del ‘600 i naturalisti, e più in generale gli scienziati, si erano costruiti, con la fondazione della Royal Society di Londra (1660) e dell’Académie des Sciences di Parigi (1666), gli strumenti in grado di consentire loro di indagare la natura e le sue leggi. In un primo tempo fu la Francia di Luigi XIV ad offrire agli scienziati il terreno più adatto per le loro ricerche. L’Orto Botanico di Parigi – il Jardin des Plantes – intorno ai primi decenni del Settecento incominciò a perdere il suo carattere strettamente medico per trasformarsi in un centro per lo studio delle piante con una visione più ampia e generale: all’interno di esso vennero infatti avviati studi sulle diverse specie, sui tipi di terreni e di climi più adatti allo loro coltura e sulle norme necessarie per tentare il loro trasferimento e la loro naturalizzazione, sia in patria, sia nei possedimenti d’oltremare. Già dagli anni Venti vi si compiono, per iniziativa congiunta del sapere scientifico e del potere politico, una serie di esperimenti sul caffè, originario dell’Etiopia. Tali esperimenti portarono come risultato all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie caraibiche della Martinica e della Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano riforniranno, nel corso di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, l’Europa illuminata della sua bevanda più rappresentativa. E proprio mentre nelle colonie del Nuovo Mondo le piantagioni di caffè erano causa dei più brutali sconvolgimenti per le società e le economie locali, alimentando sempre più prepotentemente il commercio degli schiavi, l’abbattimento delle foreste e il sovvertimento dei modi di produzione tradizionali, in Europa le botteghe di caffè diventarono rapidamente la sede privilegiata delle discussioni, dei dibattiti e delle riunioni degli uomini colti e democratici. A questo proposito ricordo che la pianta diede il nome anche al periodico riformatore, intitolato appunto “il Caffè”, fondato nella Milano illuminata dell’imperatrice Maria Teresa da Pietro Verri nel 1764 insieme con il fratello Alessandro, Giuseppe Parini e Cesare Beccaria. E La bottega del caffè, in un’acquaforte del XVIII diede anche il nome a una commedia secolo di Carlo Goldoni, La bottega del caffè. 3 Aggiungo ancora che l’altra bevanda di origine americana tipica del salotto settecentesco aristocratico fu il cacao. Anch’esso, come il caffè, fa parte delle piante che non si riuscì a naturalizzare in Europa. Si riuscì però a portarlo in Africa occidentale (che oggi è il maggior produttore). Sia in Africa che in America esso veniva coltivato nelle Pietro Longhi, La cioccolata del mattino, 1775-1780 grandi piantagioni dagli schiavi. Il cacao fu utilizzato dagli Europei mescolato ad acqua e latte come bevanda, chiamata il cioccolatte. Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento, con le nuove tecnologie per la preparazione degli alimenti, che divenne possibile consumarlo anche in forma di cibo solido. Ma torniamo al Settecento e alla Francia, ossia al nesso tra scienza e trasferimento delle piante. Un momento importante è costituito dagli esperimenti compiuti a partire dagli anni Quaranta direttamente nei possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. Gli scienziati attori sono: Pierre Poivre e Philibert Commerson. Lo scopo è quello di trasferire le spezie, in particolare chiodi di garofano e noce moscata, dall’estremo oriente alle isole mascarene (Madagascar e Ile de Bourbon, oggi La Réunion). Il progetto venne ufficialmente avviato nel 1748 nel giardino coloniale appositamente creato nell’Ile de France, oggi Mauritius, il Jardin des pamplemousses, che in pochi anni diventò il centro di raccolta, selezione e distribuzione delle spezie orientali. Dopo gli esperimenti compiuti in esso, le piante venivano introdotte nelle colonie francesi di Madagascar e Bourbon. Tali esperimenti, così incoraggianti dal punto di vista economico e scientifico, si interruppero però quasi subito e non trovarono alcun seguito. Il governo francese, che li aveva patrocinati, si rese infatti conto di non avere interesse a proseguirli. Gli investimenti in ricerche sulle piante, richiedevano, per essere remunerativi, il possesso di dominii coloniali sufficientemente estesi da poter garantire, attraverso le applicazioni delle conoscenze acquisite, un profitto sicuro. Non era il caso della Francia, che, anzi, sconfitta nella Guerra dei Sette Anni (1754-63), assistette al crollo del proprio impero coloniale. La scienza francese fu costretta a cambiare direzione e, come vedremo più avanti, a rivolgere altrove i suoi interessi. Toccò così alla Gran Bretagna, uscita vittoriosa dalla Guerra dei Sette Anni e che da quel momento era destinata a dominare incontrastata sugli oceani di tutti i continenti, di assumere il ruolo di guida nel campo della ricerca naturalistica. Indicativi della mutata situazione furono i risultati ottenuti a seguito del primo viaggio intorno al mondo compiuto da James Cook tra il 1768 e il 1771. A bordo con lui era il naturalista Joseph Banks, che al suo ritorno mise a disposizione del governo inglese le numerose 4 osservazioni compiute nel corso del viaggio, proponendo una serie di fortunate iniziative economiche, tra cui l’introduzione dell’albero del pane da Tahiti alle colonie inglesi d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per gli schiavi neri trasferiti dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di zucchero delle Antille britanniche. Un primo invio di piantine, trasportate sul vascello Bounty, non giunse però a destinazione; pare anzi che esse fossero state la causa dell’ammutinamento dell’equipaggio: per i marinai della nave infatti l’acqua scarseggiava e veniva severamente razionata allo scopo di consentire la sopravvivenza del prezioso carico vegetale conservato nella stiva. la I Kew Gardens a Londra vicenda, in parte romanzata, è stata narrata nel film L’ammutinamento del Bounty con Marlon Brando nella parte dell’ufficiale che difende i marinai assetati in rivolta. Il progetto di gran lunga più vantaggioso tra tutti quelli ideati da Banks fu però quello relativo alla trasformazione dei Giardini Reali di Kew, vicino a Londra da giardini di piacere a centro di ricerca scientifico-botanica. Lo scopo era quello di avere a disposizione una struttura adatta allo studio e alla coltivazione delle piante vive secondo le nuove metodologie scientifiche messe a punto, come si è visto, dai naturalisti francesi: un centro, in altri termini, in grado di coordinare, sulla base di schemi razionali e programmati, tutti gli esperimenti diretti ad accertare la possibilità di trasferire piante ritenute utili da un continente all’altro dell’impero. 5 Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi. Essi esulano perlopiù dal campo alimentare. Un caso tuttavia ci interessa direttamente: le conoscenze scientifiche raggiunte attraverso gli studi effettuati a Kew furono infatti all’origine del trasferimento del tè dalla Cina all’India. Tale trasferimento fu effettuato dietro iniziativa della Compagnia delle Indie Orientali che si rivolse al botanico Robert Fortune, il quale derivava le sue conoscenze dal patrimonio scientifico costruito a Kew. L’incarico affidatogli dalla Compagnia venne portato a termine con successo nel 1851 con l’arrivo in India, attraverso il porto di Hong Kong divenuto inglese da appena qualche anno, di 2.000 piantine e di 17.000 semi di tè. I risultati economici dell’operazione non si fecero attendere: nel giro di poco tempo il tè cinese fu sostituito sulle tavole europee da quello, assai più economico, proveniente dalle grandi piantagioni coloniali di Darjeeling, Assam e Ceylon. Senza la base scientifica fornita Coltivazione di tè a Darjeeling dagli esperimenti effettuati dai botanici dei Kew Gardens il trasferimento non sarebbe potuto avvenire. La Francia, che, come si è visto, era stata costretta a rinunciare alla ricerca finalizzata al trasferimento di piante da un continente all’altro, non rinunciò tuttavia ad applicare i risultati della ricerca scientifica per incrementare la produzione alimentare all’interno dei propri confini. Un esempio di tale applicazione ci è fornito dall’attività svolta da Antoine-Augustin Parmentier negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento con lo scopo di avviare e di diffondere sul suolo francese la coltivazione della patata. Ricordo che la patata era giunta in Spagna all’inizio del Cinquecento, ma si era diffusa in Europa soltanto come curiosità, e non come pianta alimentare. A differenza che per il mais, per la patata fu necessario l’intervento della scienza, senza il quale la pianta non avrebbe potuto crescere in Europa. La patata, originaria dell’America centro meridionale, venne trasferita nella parte centro settentrionale d’Europa: due climi diversi – non tanto per la temperatura perche in America la patata veniva coltivata lungo i pendii andini a una temperatura non molto diversa da quella del Nord Europa – , quanto piuttosto per la differenza nella distribuzione della luce: all’Equatore uniforme per tutto l’arco dell’anno; in Europa del Nord di diversa durata a seconda delle stagioni. La scienza intervenne selezionando individui di patata adatti alla nuova fotodistribuzione. La diffusione della patata fu resa difficoltosa inoltre perché osteggiata dalle popolazioni contadine che temevano la novità. Ma il potere politico francese, di fronte al grande incremento 6 demografico e alla conseguente necessità di aumentare le rese della produzione agricola, non potendo ormai più aumentare la superficie coltivabile, se non a scapito delle foreste, indispensabili però per la costruzione delle case, delle navi, nonché per il riscaldamento e la cottura dei cibi, riuscì, attraverso un robusto apparato statale a diffondere la nuova pianta tra la popolazione contadina e cittadina Dalla Francia la patata passò in Prussia e quindi in Irlanda, dove divenne la maggior fonte (in molti casi l’unica) fonte di sostentamento per le masse contadine, tanto da determinare per il periodo che va dai primi decenni agli anni Quaranta dell’Ottocento un forte aumento della popolazione, che passò da circa 5 a 8 milioni di anime. Ma nel 1845 comparve, giunta dall’America, la peronospera che attaccò i raccolti Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885 distruggendoli completamente. Il problema investì l’intera isola e l’anno successivo la situazione degenerò e assunse la dimensione di una vera e propria carestia. Si verificarono sommosse, disordini e tumulti da parte dei contadini poveri irlandesi, che però furono sconfitti dai ricchi proprietari inglesi che, protetti dall’Inghilterra attraverso leggi speciali e repressioni, continuarono ad esigere il pagamento dei fitti in grano. Il bilancio finale fu la morte per fame e per malattia di più di un milione di individui e un’emigrazione in massa verso l’America che è stata calcolata per gli anni tra il 1847 e il 1854 di oltre un milione e mezzo di persone, molte delle quali perirono per stenti durante la traversata. A seguito di questa catastrofe gli studiosi delle piante hanno dedicato grande attenzione alla malattia della patata e sono riusciti a mettere a punto varietà molto resistenti. Il problema tuttavia ancora oggi non è del tutto risolto. 7 L’altra pianta che si estese dall’America all’Europa tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento fu il mais che nel giro di pochi decenni, si affermò come coltura fondamentale nelle campagne dell’Europa centro-meridionale, determinando soprattutto negli Stati balcanici, il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura e contribuendo inoltre al forte aumento della popolazione in Polonia, Ungheria e Stati danubiani. Intorno alla metà dell’Ottocento esso era diventato per i contadini delle zone più povere la base esclusiva dell’alimentazione, mentre il frumento era destinato alla vendita. Queste comunità di contadini poveri iniziarono allora a venir colpite dalla pellagra, malattia scoperta dal medico statunitense Joseph Goldberger. La pellagra, nota anche come mal della rosa, è una malattia mortale dovuta a carenza di vitamina PP (Pellagra Preventing). La presenza nel mais di tale vitamina in forma legata richiede, come sappiamo oggi, la necessità di particolari accorgimenti nelle modalità di assunzione del cereale, accorgimenti che, pur noti alle società precolombiane, non erano stati adottati dalle popolazioni europee dell’epoca. Nell’Italia settentrionale, e più in particolare in Veneto e in Lombardia, dove il mais era stato introdotto a partire dalla fine del Seicento e dove era rapidamente diventato l’unica fonte di sussistenza per la massa dei braccianti e dei salariati, la pellagra si diffuse nel corso degli ultimi decenni del Settecento e raggiunse la massima diffusione a metà dell’Ottocento. Il nuovo Stato nazionale, appena costituito, non seppe intervenire in alcun modo. Fu così necessario aspettare che la dieta dei contadini si arricchisse, intorno agli anni Venti e Trenta del Novecento, perché la malattia regredisse e infine scomparisse dal nostro paese. L’Ottocento ci porta, oltre a queste disastrose catastrofi, una novità importante: la prevalenza dell’intreccio di scienza e denaro. Il centro della nostra storia si sposta dall’Europa agli Stati Uniti. La pianta più interessata è ancora una volta il mais. Negli Stati Uniti il mais cominciò a essere coltivato a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le innovazioni tecniche consentirono la costruzione di aratri sufficientemente robusti e nello stesso tempo maneggevoli da riuscire a estirpare la prateria e sostituirla con grandi piantagioni in parte di mais e in parte di grano. E’ a cominciare da allora che gli Stati Uniti si avviarono verso la strada che li ha portati a diventare i primi produttori di mais del mondo, con più di 150 milioni di tonnellate all’anno su un totale mondiale di più di 500 milioni. Ma la tecnica di coltivazione non fu che l’inizio di un nuovo cammino. Negli ultimi decenni dell’Ottocento vennero sperimentate le prime tecniche di incrocio, che consentirono di selezionare, attraverso l’accoppiamento di individui recanti determinati caratteri ritenuti utili, nuovi individui all’interno dei quali tali caratteri si assommavano secondo gli obiettivi ricercati. Senza le tecniche di incrocio la coltura del mais non si sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti. Vorrei inoltre sottolineare che oggi il mais è diffuso in tutte le zone della terra a clima caldo e temperato: dall’equatore fino al 50° parallelo, dal livello del mare fino a 3000 metri di altitudine, sotto le piogge o in condizioni semiaride, e con cicli di crescita che variano da 3 a 13 mesi. Oggi la resa per ettaro del mais varia da circa 80 quintali per ettaro (dove vengono applicate le tecnologie più avanzate) ai 20 quintali per ettaro. Più della metà del mais prodotto è utilizzato direttamente come cibo per gli uomini (in particolare in Africa e in America del Sud). Il resto viene destinato agli animali e, in 8 misura molto inferiore, all’industria, sia alimentare che non, per la produzione di zucchero, sciroppi, bevande, chewing-gum, colle, etc. Ma torniamo agli incroci, che hanno reso possibili i dati appena elencati. La storia scientifica delle incroci comincia a metà Ottocento con le ricerche di Charles Darwin, ricerche che egli descrisse in maniera molto particolareggiata all’amico Asa Gray, un naturalista americano. Fu un allievo di Gray, William Beal, professore all’Università del Michigan, a proseguire il lavoro (siamo alla fine degli anni Settanta), che venne continuato da altri, senza che però venissero ottenuti validi risultati, finché Donald Jones, ricercatore nella stazione sperimentale agricola del Connecticut, negli anni Venti del Novecento riuscì finalmente a mettere a punto un metodo utilizzabile e vantaggioso per gli agricoltori. Gli esperimenti sugli incroci di Jones sfociarono nella effettiva realizzazione di varietà di mais coltivabile con notevole vantaggio dal punto di vista della resa. Attraverso una selezione sempre più accurata, consentita da investimenti in denaro sempre più cospicui, fu possibile produrre varietà di mais ad altissima resa e adatte inoltre alle zone climatiche più disparate. Si incorporarono poi speciali caratteristiche, come la resistenza alle malattie e la tolleranza alla siccità; e si svilupparono piante in grado non solo di produrre due o tre pannocchie invece di una, ma nelle quali le pannocchie si trovavano sistemate sul fusto in modo uniforme allo scopo di agevolare la raccolta meccanizzata. Il prodotto naturale fu così trasformato in un vero e proprio artefatto. L’affermazione sul campo di varietà di mais ad alta resa è iniziata nel 1935. Oggi tutto il mais prodotto negli Stati Uniti e nei paesi industrializzati è frutto di incroci. Anche in America latina le varietà di mais ad alta resa stanno gradualmente prevalendo su quelle originarie. E però con il rischio di aprire il problema del l’impoverimento dal punto di vista della biodiversità. Aggiungo ancora che una accelerazione e una estensione nella selezione dei caratteri vantaggiosi sono state rese possibili negli ultimi decenni con lo sviluppo, sempre soprattutto negli Stati Uniti, del settore della biologia molecolare, meglio nota con il termine di biotecnologie o ingegneria genetica. Infatti, mentre gli incroci possono Mais ad alta resa 9 essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo lunghi e ripetuti tentativi che si protraggono per anni e anni, con le tecniche molecolari è diventato possibile trasferire in tempi brevi materiale genetico addirittura da una specie all’altra. Anche fra specie lontane, perfino tra animali e piante. La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di piante in ogni zona della Terra: è sufficiente, infatti, corredare una data specie vegetale, dei geni prelevati da un’altra specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima specie resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo piuttosto che a un altro, etc. La biologia molecolare apre grandi prospettive e però nello stesso tempo costituisce uno strumento che richiede grande attenzione e prudenza. La discussione è oggi aperta. Infine, prima di chiudere, un cenno alla questione ambientale. Qual è l’effetto sull’ambiente dei trasferimenti di piante? Un primo problema è la deforestazione che ha sempre accompagnato il trasferimento delle piante, come abbiamo visto per le grandi piantagioni americane, per quelle africane e per quelle indiane. Anche oggi, come allora, la deforestazione è praticata per far spazio a colture redditizie da vendere sul mercato: è il caso della canna da zucchero, delle arachidi, del caffè, del tè, de cacao, ecc. In secondo luogo va considerato il rischio di un eccesso di sfruttamento della terra a scopo di incrementare le rese, che può provocare un impoverimento e, in alcune zone del pianeta, un vero proprio processo di desertificazione. Ma il problema più complesso è quello della bio globalizzazione, ossia del fatto che sempre più numerose sono le piante che attraversano, grazie soprattutto all’azione volontaria o involontaria dell’uomo, i loro confini naturali per stabilirsi in nuove aree. Il mondo si sta globalizzando e la natura non fa eccezione. La somma totale di tutti i trasferimenti di organismi viventi è la bioglobalizzazione. Abbiamo visto fin qui che i trasferimenti non sono un fenomeno nuovo, anzi. Essi sono oggi però un fenomeno in rapida accelerazione/intensificazione a seguito della globalizzazione dei trasporti, dei viaggi, degli spostamenti degli uomini. Questa accelerazione/intensificazione è costantemente in ascesa e pensare a un’inversione di marcia è francamente illusorio. Nell’ineluttabilità della contingenza, la soluzione migliore del problema non potrà essere che quello che i botanici chiamano un adeguamento cum grano salis, vale a dire un’articolazione ponderata di studi specifici e di orientamenti gestionali. In altri termini, dovrà essere da un lato garantito il monitoraggio per la salvaguardia delle valenze naturali, e per la tutela degli habitat e dell’annesso patrimonio di selvaticità (wilderness), oltre alla protezione dei genomi, ossia la totalità del materiale genetico di un organismo, alle attività indirizzate al mantenimento della biodiversità naturale: questo da un lato. Dall’altro lato occorrerà imparare che le specie invasive non sono distruggibili, ma contenibili, e in alcuni casi anche utili. Porto l’esempio di due piante, anche se non alimentari, oggi considerate invasive: la Robinia pseudoacacia che è stata utile in passato sia per il contenimento della massicciata delle ferrovie sia per la legna da ardere, soprattutto durante la Grande Guerra; la Broussonetia papyrifera utilizzata oggi in Oriente per la fabbricazione della carta. Ma qui si uscirebbe dai confini del tema alimentare e si entrerebbe in un’altra storia. Mentre la nostra oggi finisce qui. 10 Bibliografia Baker H. G., Plants and Civilisation, Wadsworth, Belmont 1978 Redcliffe Salaman R. N., Storia sociale della patata, Garzanti, Milano 1989 Brockway L., Science and Colonial Expansion, Academic Press, New York London 1979 Dagognet F., Le catalogue de la vie, PUF, Paris 1970 Fox R. & Weisz G., The Organisation of Science and Technology in France, Cambridge University Press, Cambridge 1980 Guyot A. L., Origine des plantes cultivées, PUF, Paris 1949 Sentieri M. e Zazzu G., I semi dell’Eldorado, Dedalo, Bari 1992 Visconti A., Il contributo dei prodotti naturali extraeuropei allo sviluppo della scienza e della società moderna, in Exploratorium Cose dell’altro mondo (a cura di I. Pezzini), Electa, Milano 1991, pp. 61-72 Visconti A., I grandi trasferimenti di piante alimentari da un continente all’altro (XVII-XX secolo), in Alimentazione e cultura (a cura di I. Picchiarelli e E. Barone), FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 35-47. Tutte le illustrazioni inserite nel presente saggio sono tratte dai Commons di Wikimedia. Grafica, impaginazione e ricerca iconografica a cura di Vincenza Petrilli (Archivio di Stato di Milano) 11