I trasferimenti mondiali di piante alimentari dal

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I trasferimenti mondiali di piante alimentari dal
I trasferimenti mondiali di piante alimentari dal Cinquecento a oggi:
storia, situazioni e prospettive per gli uomini e per gli ambienti
Agnese Visconti
La storia dei trasferimenti di organismi viventi, in particolare vegetali, da un luogo
all’altro della terra, è antica di millenni.
Di questa lunga, lunghissima vicenda prenderemo in considerazione in questa sede solo
alcuni aspetti, quelli che ci paiono poter offrire spunti in grado di aiutarci a ricostruire i
nessi tra:
 i trasferimenti degli organismi alimentari compiuti dalla nostra società, quella
cosiddetta occidentale, nel periodo che va dal Cinquecento a oggi;
 gli obiettivi economici e politici che la nostra società si è posta in passato e si pone
oggi;
 le conoscenze scientifiche che hanno agevolato questi trasferimenti e quelle che
sono derivate da essi;
 le conseguenze sull’ambiente di tali trasferimenti.
Tralasciamo pertanto di considerare tutte le trasmigrazioni che hanno avuto luogo in
epoca remota, in età classica e nel Medioevo e ci concentriamo invece sulle
trasmigrazioni a partire dal Cinquecento. È con la scoperta dell’America che possiamo
far prendere le mosse alla nostra storia. Con la scoperta dell’America infatti si apre
improvvisamente una nuova grande ricchezza e varietà vegetale che determina profondi
mutamenti nell’economia europea e mondiale.
Nel corso del Cinquecento e del Seicento parecchie piante furono portate dagli europei
in America con lo scopo di trasformare il più possibile il Nuovo mondo in una copia del
Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni, cipolle, insalata, viti, olivi
e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la zona adatta, e tutte insieme si estesero
dagli umidi bassipiani delle coste atlantiche fino agli altipiani asciutti andini.
Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais che venne portato in Spagna da
Cristoforo Colombo al ritorno, pare, già dal suo primo viaggio. Come vedremo tra poco,
esso non si diffuse subito in Europa.
Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna. Originario dell’India, esso fu
trasferito nei Caraibi e sulla costa nord del Brasile. Allo zucchero e alla sua coltivazione
oltreoceano si collega, come è noto, la tratta degli schiavi dalle coste occidentali
dell’Africa alle Antille e al Brasile. Gli schiavi venivano caricati su navi apposite (navi
negriere) e trascorrevano il viaggio chiusi nella stiva con qualche possibilità di uscire al
fine di non rischiare la depressione, o addirittura la vita e anche di non organizzare
rivolte. In un libro pubblicato dal British Museum intitolato La storia del mondo in 100
oggetti, tra gli oggetti scelti c’è un tamburello al ritmo del quale gli schiavi erano costretti a
danzare sul ponte della nave per evitare depressione e rischio di suicidio. Dopo tutto ai
negrieri importava che gli schiavi arrivassero in America in buone condizioni per poter
essere venduti al miglior prezzo possibile.
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Ponti e sezione della nave inglese Brookes adibita al
trasporto degli schiavi, 1788
Anche la storia del mais si lega a
quella della tratta degli schiavi.
Esso fu infatti introdotto nel
Seicento in Africa occidentale dai
portoghesi con lo scopo di poter
disporre a basso prezzo del cibo
necessario al mantenimento degli
schiavi durante la traversata
oceanica. Il mais era il cereale più
adatto a essere trasferito in
Africa: aveva una resa alta ed era
più facile da coltivare del
frumento (che richiede l’aratro) e
del riso (che richiede un
complesso sistema di irrigazione).
Così mentre gli schiavi venivano
trasferiti dall’Africa all’America
per coltivare lo zucchero
originario dell’Asia, il mais
originario dell’America veniva
trasferito in Africa per consentire
il commercio dello zucchero in
Europa. Mais, zucchero e schiavi
costituirono il perno del
commercio mondiale fino al Settecento.
Questo commercio ha portato come conseguenza a un profondo sovvertimento dei
paesaggi agrari americani e africani con l’abbattimento delle foreste, la creazione di vaste
piantagioni monoculturali con il radicale cambiamento dei modi di produzione locali che
da allora si sono perduti per sempre. Questo il perno del commercio mondiale fino al
Settecento, quando assistiamo a una grande novità.
Nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. La pratica non basta più.
Occorrono ricerche
sperimentali razionalmente
programmate per poter
effettuare nuovi
trasferimenti.
I primi segnali in questo
senso arrivano dalla Francia.
Il nuovo spirito può essere
sintetizzato dalle
convinzioni dello scienziato
René-Antoine Ferchault de
Réaumur, a parere del quale
l’obiettivo del naturalista
doveva essere quello “di
The Old Plantation, tardo XVIII secolo
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individuare gli organismi utili, di ricercare quindi i loro analoghi e di vedere se tra questi
ve ne sia alcuno da cui poter trarre gli stessi vantaggi”. Un nuovo ruolo per il botanico,
dunque. Che si stacca dalla sua tradizionale posizione, strettamente legata alla medicina, e
viene trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da
assumere una funzione molto lontana da quella di partenza.
Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si concretizzò
in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace furono la Francia e la Gran
Bretagna, dove già a partire dalla seconda metà del ‘600 i naturalisti, e più in generale gli
scienziati, si erano costruiti, con la fondazione della Royal Society di Londra (1660) e
dell’Académie des Sciences di Parigi (1666), gli strumenti in grado di consentire loro di
indagare la natura e le sue leggi.
In un primo tempo fu la Francia di Luigi XIV ad offrire agli scienziati il terreno più
adatto per le loro ricerche. L’Orto Botanico di Parigi – il Jardin des Plantes – intorno ai
primi decenni del Settecento incominciò a perdere il suo carattere strettamente medico
per trasformarsi in un centro per lo studio delle piante con una visione più ampia e
generale: all’interno di esso vennero infatti avviati studi sulle diverse specie, sui tipi di
terreni e di climi più adatti allo loro coltura e sulle norme necessarie per tentare il loro
trasferimento e la loro naturalizzazione, sia in patria, sia nei possedimenti d’oltremare.
Già dagli anni Venti vi si compiono, per iniziativa congiunta del sapere scientifico e del
potere politico, una serie di esperimenti sul caffè, originario dell’Etiopia. Tali esperimenti
portarono come risultato all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie caraibiche della
Martinica e della Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona
parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano riforniranno, nel corso
di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, l’Europa
illuminata della sua bevanda più rappresentativa. E proprio mentre nelle colonie del
Nuovo Mondo le piantagioni di caffè erano causa dei più brutali sconvolgimenti per le
società e le economie locali, alimentando sempre più prepotentemente il commercio
degli schiavi, l’abbattimento delle
foreste e il sovvertimento dei modi di
produzione tradizionali, in Europa le
botteghe di caffè diventarono
rapidamente la sede privilegiata delle
discussioni, dei dibattiti e delle
riunioni degli uomini colti e
democratici.
A questo proposito ricordo che la
pianta diede il nome anche al
periodico riformatore, intitolato
appunto “il Caffè”, fondato nella
Milano illuminata dell’imperatrice
Maria Teresa da Pietro Verri nel 1764
insieme con il fratello Alessandro,
Giuseppe Parini e Cesare Beccaria. E
La bottega del caffè, in un’acquaforte del XVIII
diede anche il nome a una commedia
secolo
di Carlo Goldoni, La bottega del caffè.
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Aggiungo ancora che
l’altra bevanda di origine
americana tipica del
salotto settecentesco
aristocratico fu il cacao.
Anch’esso, come il caffè,
fa parte delle piante che
non si riuscì a
naturalizzare in Europa. Si
riuscì però a portarlo in
Africa occidentale (che
oggi è il maggior
produttore). Sia in Africa
che in America esso
veniva coltivato nelle
Pietro Longhi, La cioccolata del mattino, 1775-1780
grandi piantagioni dagli
schiavi. Il cacao fu utilizzato dagli Europei mescolato ad acqua e latte come bevanda,
chiamata il cioccolatte. Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento, con le nuove tecnologie
per la preparazione degli alimenti, che divenne possibile consumarlo anche in forma di
cibo solido.
Ma torniamo al Settecento e alla Francia, ossia al nesso tra scienza e trasferimento delle
piante. Un momento importante è costituito dagli esperimenti compiuti a partire dagli
anni Quaranta direttamente nei possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. Gli scienziati
attori sono: Pierre Poivre e Philibert Commerson. Lo scopo è quello di trasferire le
spezie, in particolare chiodi di garofano e noce moscata, dall’estremo oriente alle isole
mascarene (Madagascar e Ile de Bourbon, oggi La Réunion). Il progetto venne
ufficialmente avviato nel 1748 nel giardino coloniale appositamente creato nell’Ile de
France, oggi Mauritius, il Jardin des pamplemousses, che in pochi anni diventò il centro
di raccolta, selezione e distribuzione delle spezie orientali. Dopo gli esperimenti compiuti
in esso, le piante venivano introdotte nelle colonie francesi di Madagascar e Bourbon.
Tali esperimenti, così incoraggianti dal punto di vista economico e scientifico, si
interruppero però quasi subito e non trovarono alcun seguito. Il governo francese, che li
aveva patrocinati, si rese infatti conto di non avere interesse a proseguirli. Gli
investimenti in ricerche sulle piante, richiedevano, per essere remunerativi, il possesso di
dominii coloniali sufficientemente estesi da poter garantire, attraverso le applicazioni
delle conoscenze acquisite, un profitto sicuro. Non era il caso della Francia, che, anzi,
sconfitta nella Guerra dei Sette Anni (1754-63), assistette al crollo del proprio impero
coloniale. La scienza francese fu costretta a cambiare direzione e, come vedremo più
avanti, a rivolgere altrove i suoi interessi.
Toccò così alla Gran Bretagna, uscita vittoriosa dalla Guerra dei Sette Anni e che da quel
momento era destinata a dominare incontrastata sugli oceani di tutti i continenti, di
assumere il ruolo di guida nel campo della ricerca naturalistica. Indicativi della mutata
situazione furono i risultati ottenuti a seguito del primo viaggio intorno al mondo
compiuto da James Cook tra il 1768 e il 1771. A bordo con lui era il naturalista Joseph
Banks, che al suo ritorno mise a disposizione del governo inglese le numerose
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osservazioni compiute nel corso del viaggio, proponendo una serie di fortunate iniziative
economiche, tra cui l’introduzione dell’albero del pane da Tahiti alle colonie inglesi
d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per gli schiavi neri trasferiti
dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di zucchero delle Antille britanniche. Un primo
invio di piantine, trasportate sul vascello Bounty, non giunse però a destinazione; pare
anzi che esse fossero state la causa dell’ammutinamento dell’equipaggio: per i marinai
della nave infatti l’acqua scarseggiava e veniva severamente razionata allo scopo di
consentire la sopravvivenza del prezioso carico vegetale conservato nella stiva. la
I Kew Gardens a Londra
vicenda, in parte romanzata, è stata narrata nel film L’ammutinamento del Bounty con
Marlon Brando nella parte dell’ufficiale che difende i marinai assetati in rivolta.
Il progetto di gran lunga più vantaggioso tra tutti quelli ideati da Banks fu però quello
relativo alla trasformazione dei Giardini Reali di Kew, vicino a Londra da giardini di
piacere a centro di ricerca scientifico-botanica.
Lo scopo era quello di avere a disposizione una struttura adatta allo studio e alla
coltivazione delle piante vive secondo le nuove metodologie scientifiche messe a punto,
come si è visto, dai naturalisti francesi: un centro, in altri termini, in grado di coordinare,
sulla base di schemi razionali e programmati, tutti gli esperimenti diretti ad accertare la
possibilità di trasferire piante ritenute utili da un continente all’altro dell’impero.
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Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi. Essi esulano perlopiù dal campo
alimentare. Un caso tuttavia ci interessa direttamente: le conoscenze scientifiche
raggiunte attraverso gli studi effettuati a Kew furono infatti all’origine del trasferimento
del tè dalla Cina all’India. Tale trasferimento fu effettuato dietro iniziativa della
Compagnia delle Indie Orientali che si rivolse al botanico Robert Fortune, il quale
derivava le sue conoscenze dal patrimonio scientifico costruito a Kew. L’incarico
affidatogli dalla Compagnia venne portato a termine con successo nel 1851 con l’arrivo
in India, attraverso il porto di Hong Kong divenuto inglese da appena qualche anno, di
2.000 piantine e di
17.000 semi di tè.
I risultati economici
dell’operazione non
si fecero attendere:
nel giro di poco
tempo il tè cinese fu
sostituito sulle tavole
europee da quello,
assai più economico,
proveniente dalle
grandi piantagioni
coloniali di
Darjeeling, Assam e
Ceylon.
Senza la base
scientifica fornita
Coltivazione di tè a Darjeeling
dagli esperimenti
effettuati dai botanici dei Kew Gardens il trasferimento non sarebbe potuto avvenire.
La Francia, che, come si è visto, era stata costretta a rinunciare alla ricerca finalizzata al
trasferimento di piante da un continente all’altro, non rinunciò tuttavia ad applicare i
risultati della ricerca scientifica per incrementare la produzione alimentare all’interno dei
propri confini. Un esempio di tale applicazione ci è fornito dall’attività svolta da
Antoine-Augustin Parmentier negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento con lo
scopo di avviare e di diffondere sul suolo francese la coltivazione della patata. Ricordo
che la patata era giunta in Spagna all’inizio del Cinquecento, ma si era diffusa in Europa
soltanto come curiosità, e non come pianta alimentare. A differenza che per il mais, per
la patata fu necessario l’intervento della scienza, senza il quale la pianta non avrebbe
potuto crescere in Europa. La patata, originaria dell’America centro meridionale, venne
trasferita nella parte centro settentrionale d’Europa: due climi diversi – non tanto per la
temperatura perche in America la patata veniva coltivata lungo i pendii andini a una
temperatura non molto diversa da quella del Nord Europa – , quanto piuttosto per la
differenza nella distribuzione della luce: all’Equatore uniforme per tutto l’arco dell’anno;
in Europa del Nord di diversa durata a seconda delle stagioni. La scienza intervenne
selezionando individui di patata adatti alla nuova fotodistribuzione. La diffusione della
patata fu resa difficoltosa inoltre perché osteggiata dalle popolazioni contadine che
temevano la novità. Ma il potere politico francese, di fronte al grande incremento
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demografico e alla conseguente necessità di aumentare le rese della produzione agricola,
non potendo ormai più aumentare la superficie coltivabile, se non a scapito delle foreste,
indispensabili però per la costruzione delle case, delle navi, nonché per il riscaldamento e
la cottura dei cibi, riuscì, attraverso un robusto apparato statale a diffondere la nuova
pianta tra la popolazione contadina e cittadina
Dalla Francia la patata passò in Prussia e quindi in Irlanda, dove divenne la maggior
fonte (in molti casi l’unica) fonte di sostentamento per le masse contadine, tanto da
determinare per il periodo che va dai primi decenni agli anni Quaranta dell’Ottocento un
forte aumento della popolazione, che passò da circa 5 a 8 milioni di anime.
Ma nel 1845 comparve, giunta dall’America, la peronospera che attaccò i raccolti
Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885
distruggendoli completamente. Il problema investì l’intera isola e l’anno successivo la
situazione degenerò e assunse la dimensione di una vera e propria carestia. Si
verificarono sommosse, disordini e tumulti da parte dei contadini poveri irlandesi, che
però furono sconfitti dai ricchi proprietari inglesi che, protetti dall’Inghilterra attraverso
leggi speciali e repressioni, continuarono ad esigere il pagamento dei fitti in grano. Il
bilancio finale fu la morte per fame e per malattia di più di un milione di individui e
un’emigrazione in massa verso l’America che è stata calcolata per gli anni tra il 1847 e il
1854 di oltre un milione e mezzo di persone, molte delle quali perirono per stenti
durante la traversata. A seguito di questa catastrofe gli studiosi delle piante hanno
dedicato grande attenzione alla malattia della patata e sono riusciti a mettere a punto
varietà molto resistenti. Il problema tuttavia ancora oggi non è del tutto risolto.
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L’altra pianta che si estese dall’America all’Europa tra la fine del Seicento e l’inizio del
Settecento fu il mais che nel giro di pochi decenni, si affermò come coltura
fondamentale nelle campagne dell’Europa centro-meridionale, determinando soprattutto
negli Stati balcanici, il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura e contribuendo inoltre al
forte aumento della popolazione in Polonia, Ungheria e Stati danubiani. Intorno alla
metà dell’Ottocento esso era diventato per i contadini delle zone più povere la base
esclusiva dell’alimentazione, mentre il frumento era destinato alla vendita. Queste
comunità di contadini poveri iniziarono allora a venir colpite dalla pellagra, malattia
scoperta dal medico statunitense Joseph Goldberger. La pellagra, nota anche come mal
della rosa, è una malattia mortale dovuta a carenza di vitamina PP (Pellagra Preventing).
La presenza nel mais di tale vitamina in forma legata richiede, come sappiamo oggi, la
necessità di particolari accorgimenti nelle modalità di assunzione del cereale,
accorgimenti che, pur noti alle società precolombiane, non erano stati adottati dalle
popolazioni europee dell’epoca. Nell’Italia settentrionale, e più in particolare in Veneto e
in Lombardia, dove il mais era stato introdotto a partire dalla fine del Seicento e dove era
rapidamente diventato l’unica fonte di sussistenza per la massa dei braccianti e dei
salariati, la pellagra si diffuse nel corso degli ultimi decenni del Settecento e raggiunse la
massima diffusione a metà dell’Ottocento. Il nuovo Stato nazionale, appena costituito,
non seppe intervenire in alcun modo. Fu così necessario aspettare che la dieta dei
contadini si arricchisse, intorno agli anni Venti e Trenta del Novecento, perché la
malattia regredisse e infine scomparisse dal nostro paese.
L’Ottocento ci porta, oltre a queste disastrose catastrofi, una novità importante: la
prevalenza dell’intreccio di scienza e denaro. Il centro della nostra storia si sposta
dall’Europa agli Stati Uniti. La pianta più interessata è ancora una volta il mais. Negli
Stati Uniti il mais cominciò a essere coltivato a partire dagli ultimi decenni
dell’Ottocento, quando le innovazioni tecniche consentirono la costruzione di aratri
sufficientemente robusti e nello stesso tempo maneggevoli da riuscire a estirpare la
prateria e sostituirla con grandi piantagioni in parte di mais e in parte di grano. E’ a
cominciare da allora che gli Stati Uniti si avviarono verso la strada che li ha portati a
diventare i primi produttori di mais del mondo, con più di 150 milioni di tonnellate
all’anno su un totale mondiale di più di 500 milioni. Ma la tecnica di coltivazione non fu
che l’inizio di un nuovo cammino.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento vennero sperimentate le prime tecniche di incrocio,
che consentirono di selezionare, attraverso l’accoppiamento di individui recanti
determinati caratteri ritenuti utili, nuovi individui all’interno dei quali tali caratteri si
assommavano secondo gli obiettivi ricercati. Senza le tecniche di incrocio la coltura del
mais non si sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti.
Vorrei inoltre sottolineare che oggi il mais è diffuso in tutte le zone della terra a clima
caldo e temperato: dall’equatore fino al 50° parallelo, dal livello del mare fino a 3000
metri di altitudine, sotto le piogge o in condizioni semiaride, e con cicli di crescita che
variano da 3 a 13 mesi. Oggi la resa per ettaro del mais varia da circa 80 quintali per
ettaro (dove vengono applicate le tecnologie più avanzate) ai 20 quintali per ettaro. Più
della metà del mais prodotto è utilizzato direttamente come cibo per gli uomini (in
particolare in Africa e in America del Sud). Il resto viene destinato agli animali e, in
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misura molto inferiore, all’industria, sia alimentare che non, per la produzione di
zucchero, sciroppi, bevande, chewing-gum, colle, etc.
Ma torniamo agli incroci, che hanno reso possibili i dati appena elencati. La storia
scientifica delle incroci comincia a metà Ottocento con le ricerche di Charles Darwin,
ricerche che egli descrisse in maniera molto particolareggiata all’amico Asa Gray, un
naturalista americano. Fu un allievo di Gray, William Beal, professore all’Università del
Michigan, a proseguire il lavoro (siamo alla fine degli anni Settanta), che venne
continuato da altri, senza che però venissero ottenuti validi risultati, finché Donald
Jones, ricercatore nella stazione sperimentale agricola del Connecticut, negli anni Venti
del Novecento riuscì finalmente a mettere a punto un metodo utilizzabile e vantaggioso
per gli agricoltori. Gli esperimenti sugli incroci di Jones sfociarono nella effettiva
realizzazione di varietà di mais coltivabile con notevole vantaggio dal punto di vista della
resa. Attraverso una selezione sempre più accurata, consentita da investimenti in denaro
sempre più cospicui, fu possibile produrre varietà di mais ad altissima resa e adatte
inoltre alle zone climatiche più disparate. Si incorporarono poi speciali caratteristiche,
come la resistenza alle malattie e la tolleranza alla siccità; e si svilupparono piante in
grado non solo di produrre due o tre pannocchie invece di una, ma nelle quali le
pannocchie si trovavano sistemate
sul fusto in modo uniforme allo
scopo di agevolare la raccolta
meccanizzata. Il prodotto naturale
fu così trasformato in un vero e
proprio artefatto.
L’affermazione sul campo di varietà
di mais ad alta resa è iniziata nel
1935. Oggi tutto il mais prodotto
negli Stati Uniti e nei paesi
industrializzati è frutto di incroci.
Anche in America latina le varietà di
mais ad alta resa stanno
gradualmente prevalendo su quelle
originarie. E però con il rischio di
aprire il problema del
l’impoverimento dal punto di vista
della biodiversità.
Aggiungo ancora che una
accelerazione e una estensione nella
selezione dei caratteri vantaggiosi
sono state rese possibili negli ultimi
decenni con lo sviluppo, sempre
soprattutto negli Stati Uniti, del
settore della biologia molecolare,
meglio nota con il termine di biotecnologie o ingegneria genetica.
Infatti, mentre gli incroci possono
Mais ad alta resa
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essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo lunghi e ripetuti tentativi
che si protraggono per anni e anni, con le tecniche molecolari è diventato possibile
trasferire in tempi brevi materiale genetico addirittura da una specie all’altra. Anche fra
specie lontane, perfino tra animali e piante.
La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di piante in ogni
zona della Terra: è sufficiente, infatti, corredare una data specie vegetale, dei geni
prelevati da un’altra specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima
specie resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo
piuttosto che a un altro, etc.
La biologia molecolare apre grandi prospettive e però nello stesso tempo costituisce uno
strumento che richiede grande attenzione e prudenza. La discussione è oggi aperta.
Infine, prima di chiudere, un cenno alla questione ambientale. Qual è l’effetto
sull’ambiente dei trasferimenti di piante? Un primo problema è la deforestazione che ha
sempre accompagnato il trasferimento delle piante, come abbiamo visto per le grandi
piantagioni americane, per quelle africane e per quelle indiane. Anche oggi, come allora,
la deforestazione è praticata per far spazio a colture redditizie da vendere sul mercato: è
il caso della canna da zucchero, delle arachidi, del caffè, del tè, de cacao, ecc. In secondo
luogo va considerato il rischio di un eccesso di sfruttamento della terra a scopo di
incrementare le rese, che può provocare un impoverimento e, in alcune zone del pianeta,
un vero proprio processo di desertificazione. Ma il problema più complesso è quello
della bio globalizzazione, ossia del fatto che sempre più numerose sono le piante che
attraversano, grazie soprattutto all’azione volontaria o involontaria dell’uomo, i loro
confini naturali per stabilirsi in nuove aree. Il mondo si sta globalizzando e la natura non
fa eccezione. La somma totale di tutti i trasferimenti di organismi viventi è la
bioglobalizzazione. Abbiamo visto fin qui che i trasferimenti non sono un fenomeno
nuovo, anzi. Essi sono oggi però un fenomeno in rapida accelerazione/intensificazione a
seguito della globalizzazione dei trasporti, dei viaggi, degli spostamenti degli uomini.
Questa accelerazione/intensificazione è costantemente in ascesa e pensare a
un’inversione di marcia è francamente illusorio. Nell’ineluttabilità della contingenza, la
soluzione migliore del problema non potrà essere che quello che i botanici chiamano un
adeguamento cum grano salis, vale a dire un’articolazione ponderata di studi specifici e di
orientamenti gestionali. In altri termini, dovrà essere da un lato garantito il monitoraggio
per la salvaguardia delle valenze naturali, e per la tutela degli habitat e dell’annesso
patrimonio di selvaticità (wilderness), oltre alla protezione dei genomi, ossia la totalità del
materiale genetico di un organismo, alle attività indirizzate al mantenimento della
biodiversità naturale: questo da un lato. Dall’altro lato occorrerà imparare che le specie
invasive non sono distruggibili, ma contenibili, e in alcuni casi anche utili. Porto
l’esempio di due piante, anche se non alimentari, oggi considerate invasive: la Robinia
pseudoacacia che è stata utile in passato sia per il contenimento della massicciata delle
ferrovie sia per la legna da ardere, soprattutto durante la Grande Guerra; la Broussonetia
papyrifera utilizzata oggi in Oriente per la fabbricazione della carta. Ma qui si uscirebbe
dai confini del tema alimentare e si entrerebbe in un’altra storia. Mentre la nostra oggi
finisce qui.
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Bibliografia
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Redcliffe Salaman R. N., Storia sociale della patata, Garzanti, Milano 1989
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Guyot A. L., Origine des plantes cultivées, PUF, Paris 1949
Sentieri M. e Zazzu G., I semi dell’Eldorado, Dedalo, Bari 1992
Visconti A., Il contributo dei prodotti naturali extraeuropei allo sviluppo della scienza e della società
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pp. 61-72
Visconti A., I grandi trasferimenti di piante alimentari da un continente all’altro (XVII-XX secolo),
in Alimentazione e cultura (a cura di I. Picchiarelli e E. Barone), FrancoAngeli, Milano
2007, pp. 35-47.
Tutte le illustrazioni inserite nel presente saggio sono tratte dai Commons di Wikimedia.
Grafica, impaginazione e ricerca iconografica a cura di Vincenza Petrilli (Archivio di Stato di Milano)
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